Nessuno cambia da solo: una prof dialoga con i rapinatori che la presero in ostaggio Il Mattino di Padova, 29 maggio 2017 "Nessuno cambia da solo": al centro della Giornata di Studi, che di recente ha portato nel carcere Due Palazzi più di seicento persone a confrontarsi con detenuti, famigliari, esperti come i giornalisti Gad Lerner e Fabio Venditti, il regista Fabio Cavalli, il sociologo Aldo Bonomi, lo scrittore Edoardo Albinati, c’era un’idea del cambiamento che nasce dal confronto, da un incontro importante con un "adulto credibile", dalla scoperta di passioni diverse da quelle che spesso fanno finire in carcere. Ma il cambiamento non può riguardare solo "loro", i detenuti, il cambiamento e la rieducazione hanno un senso se a rimettersi in gioco sono tutti, come nel progetto di Ristretti Orizzonti con le scuole, in cui cominciano le persone detenute a offrire la loro testimonianza, e poi gli studenti e gli insegnanti si confrontano con loro, e nessuno esce dalla stanza dove avviene il confronto uguale a quando è entrato. Su questo, durante il Convegno, un’insegnante che è stata anche vittima di una rapina in una banca ha raccontato la sua esperienza, il dialogo con detenuti che erano stati dei rapinatori, la voglia di aiutare quelle persone ad assumersi la loro responsabilità e a cambiare. Dal terrore all’incontro. Il coraggio di riscattarsi Io sono Elena, un’insegnante di scuola superiore. Ho iniziato il progetto "Il carcere entra a scuola le scuole entrano in carcere" circa 10 anni fa. Facevo la supplente in una scuola di Padova: Un giorno, in sala insegnanti trovai la rivista "Ristretti" e fui catturata dal progetto che alcune colleghe seguivano. In seguito, lo proposi in un’altra scuola in cui ho insegnato. Oggi i membri della redazione di Ristretti che ho conosciuto in quel periodo non sono più in carcere: Nicola, Marino, Elton, Maurizio, Sandro, Dritan, Andrea e altri ancora…sono tutte persone che ricordo con emozione e affetto, come le loro storie che ho avuto modo di conoscere. La mia storia è molto semplice. Il secondo anno in cui, insieme al collega di religione, abbiamo proposto il progetto a scuola, mentre ascoltavo con attenzione il racconto di Nicola e le domande degli studenti, incuriositi dal suo racconto di rapinatore, qualcosa è scattato in me, così forte da togliermi il respiro, lì in classe. Nella mia mente era riaffiorato un episodio precedente di qualche anno in cui io ero stata usata come ostaggio in una rapina in banca. Avevo rimosso l’episodio come qualcosa di bruttissimo che mi era capitato per sfortuna e di cui non volevo più parlare. Credevo fosse superato. Invece no. L’angoscia provata in quegli attimi, la pistola puntata alla testa, le grida, gli spintoni, la paura di morire per mano di un uomo che non sapeva nulla di me e per il quale io non contavo nulla: tutto riemerse con prepotenza, facendomi quasi esplodere il cuore dall’agitazione. Ricordo come fissai Nicola con rancore e cominciai a chiedergli che cosa aveva provato lui a tenere un ostaggio. Gli chiesi se si era mai chiesto come stessero le persone usate durante le rapine. Ero furiosa. Lui rimase pietrificato e quasi senza parole. Ricordo solo che alla fine dell’incontro, faccia a faccia, quasi si scusò lui per quell’altro rapinatore che mi aveva usato. Ricordo che mi mise un braccio intorno alle spalle, quasi a proteggermi. Fu un’emozione forte, per entrambi. Da qui nacque un confronto molto bello con lui e con altri detenuti che avevano commesso delle rapine, uno scambio in cui io e loro abbiamo messo in tavola i nostri sentimenti e la nostra umanità. Ricordo quanto fui "piccola" in quell’occasione. Io che amo vivere nella legalità persi la ragione e non fui fiera di me stessa. Lì, dentro alla banca, dove tutti erano terrorizzati, io quasi mi nascosi e, nel mio cuore, mi augurai che prendessero qualcun altro per scappare. Ecco, non importava chi fosse. C’era anche una signora incinta. Io mi augurai che prendessero lei, non me. Ma presero me ancora. Per fortuna mi lasciarono subito fuori dalla porta. E ancora, alle domande dei carabinieri io risposi ma nel mio cuore mi augurai che non li prendessero mai quei rapinatori. Temevo, nella mia ignoranza di allora, che avrei dovuto testimoniare contro di loro e avevo paura. Ora ritorno sempre con grande emozione in carcere, partecipo al progetto e cerco di coinvolgere soprattutto quegli studenti più esuberanti o pieni di pregiudizi per fare conoscere le storie e le umane vicissitudini che hanno portato i detenuti nella situazione di dover scontare una pena. L’ultimo incontro, qui a inizio maggio è stato molto toccante. Ricordo, in particolare, due parole: "sentimenti" e "sogni". Due bellissime parole. E poi, le storie che abbiamo sentito hanno anche parlato della scuola, dell’importanza di trovare l’insegnante giusto, che sapesse capire quei bambini o quegli adulti in momenti difficili. Proprio perché, appunto, "nessuno cambia da solo". Mi sono spesso chiesta cosa provino quei delinquenti che uccidono senza pensare che la persona ammazzata magari ha una famiglia, dei figli, una moglie, una madre, un padre. Ecco, penso spesso al dolore di chi resta ad affrontare l’abisso pauroso della perdita di una persona cara. In quest’ultimo incontro ho avuto una risposta: spesso "non provano sentimenti", ci hanno detto i detenuti, perché la legge della strada o di certi quartieri difficilissimi insegna a focalizzarsi su altro. Ma come fanno questi bambini, ragazzi, uomini a non provare sentimenti? Forse, mi sono detta io, è solo che sulla loro strada non hanno trovato qualcuno che li sostenesse, li capisse, a scuola, nella quotidianità. O forse, erano talmente circondati dal "brutto" che era impossibile sognare. Ma come si fa a vivere senza sogni? Alcuni detenuti hanno detto che ora, dopo avere rielaborato la loro storia, si sono assunti le proprie colpe e non si sentono più vittime. Ma io, durante l’incontro, facevo fatica a non pensare che quei bambini che erano stati un tempo, non fossero altro che delle vittime dell’ambiente orrendo in cui erano cresciuti, vittime di quella scuola che non li aveva saputi capire, vittime anche a volte della brutalità di chi ha arrestato una madre portandola via a un bambino di 8 anni durante la notte. Cosa potrà nascere da tanta violenza e squallore? Ricordo che in quel momento, dentro di me ho fissato a lungo quel detenuto che raccontava questi fatti e abbracciato forte il bambino che lui non era più, che non ha potuto essere. Ho pensato alla sua infanzia violata. Ho pensato ai miei figli: cosa avrebbero provato? I bambini sono sempre bambini sia che nascano a Padova sia che nascano nelle squallide periferie di Napoli. Vittime? Io mi sono detta che quel detenuto era stato, da bambino, solo una vittima di un sistema del male che era molto più grande di lui e che lui da bambino non aveva saputo riconoscere e neanche aveva trovato i mezzi per difendersi. Di quest’ultimo incontro ricordo ancora che quasi tutti i detenuti che sono intervenuti hanno raccontato di una svolta nella loro vita avvenuta grazie a una persona che li ha aiutati a capire cosa stessero facendo della loro vita e a capire se stessi. Qualcuno che ha voluto investire un po’ di buona volontà nei confronti di uomini considerati "perduti". Da insegnante ho anche apprezzato la grande importanza che tutti hanno dato alla scuola, allo studio come strumento per elevarsi al di sopra della bruttezza in cui erano cresciuti o in cui si erano imbattuti. Ricordo gli occhi vivaci e sorridenti di un detenuto e l’enorme gratitudine che si avvertiva lui provava nei confronti di una maestra che, in carcere, lo aveva avvicinato alla scuola da lui in precedenza tanto detestata e la dolcezza con cui questa gli avesse fatto capire che anche lui era un essere speciale e che poteva fare altro, molto di più e di meglio. Mi è tornata in mente una frase che sta attaccata alla lavagnetta magnetica della mia cucina, giusto perché nessuno di casa possa passare di lì e non leggerla. È una frase di Nelson Mandela che dice: "L’educazione è l’arma più potente che si possa usare per cambiare il mondo". Io ci credo. Come sempre è accaduto in questi anni di frequentazione della redazione di Ristretti, anche quest’ultima volta facevo fatica a guardare quegli uomini, che mettevano a nudo il peggio delle loro vite davanti a noi, e a immaginarli solo come dei delinquenti. Lo stesso hanno pensato i miei studenti. E ne sono lieta. Anche loro hanno riconosciuto che quei detenuti forse non sarebbero mai cambiati senza l’incontro con qualcuno che ha saputo e voluto aiutarli. Dentro di me si è radicata l’idea che la redazione di "Ristretti" sia una scuola di vita, di umana fragilità e di coraggio: il coraggio del riscatto. E a ogni incontro con gli studenti propone sempre grandi insegnamenti, fa aprire gli occhi ai ragazzi nei confronti di quello che hanno e che spesso sottovalutano, come la scuola. Elena B., Insegnante Gara d’appalto ministero dell’Interno: 12.000 braccialetti elettronici per detenuti domiciliari Corriere della Sera, 29 maggio 2017 12mila "braccialetti" in arrivo con la nuova gara d’appalto: saranno usati per i detenuti ai domiciliari. Di fronte alla richiesta crescente di braccialetti il ministero dell’Interno ha indetto un bando per una nuova gara d’appalto (europea) che prevede stavolta il noleggio, la manutenzione e la gestione operativa tecnologica h 24 di 12 mila braccialetti elettronici. Importo della spesa: quasi 45 milioni di euro. Il servizio è previsto per 31 mesi, la presentazione delle offerte è scaduta (si sarebbero presentate tre aziende fra le quali c’è di nuovo la Telecom) ma la procedura non è ancora chiusa e l’aggiudicazione dovrebbe avvenire entro fine giugno. Da duemila a dodicimila il salto è notevole. Ma siamo sempre a metà della cifra rispetto alla Gran Bretagna che mette in campo 25 mila braccialetti elettronici (ovviamente non solo per reati legati alla violenza di genere). "Qui da noi c’è ancora un problema di conoscenza dell’argomento" lamenta il giudice delle indagini preliminari di Roma Stefano Aprile, autore di un dossier sull’utilizzo dei dispositivi elettronici per il controllo remoto e convinto sostenitore della loro utilità: "Strumento duttile ed efficiente", scrive. Che può diventare "estremo baluardo" a difesa della vittima. Mafie. Stragi annunciate, lo Stato e i poteri illegali di Vincenzo Scotti La Repubblica, 29 maggio 2017 Sono trascorsi ormai venticinque anni dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio; stragi percepite come il momento più duro dello scontro cruento tra lo Stato e le organizzazione mafiose, non solo in Sicilia, nato dalla consapevolezza che la mafia costituisce il maggior attacco alla legalità degli Stati sovrani e che con essa non può esistere alcuna possibilità di convivenza, cioè di "pax mafiosa". Comincia a consolidarsi, dagli inizi degli anni 70, una svolta culturale, prima in aree minoritarie della società italiana, che porta a considerare la mafia non come una semplice organizzazione criminale, anche se particolarmente efferata, ma come una "organizzazione" volta a instaurare una connivenza con lo Stato, le Istituzioni pubbliche, la politica e la società tutta necessaria per poter svolgere le proprie attività economiche illegali sotto l’insegna della violenza e del terrore. Nel 1972, il Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia scrisse una relazione individuando con chiarezza la natura e le attività dell’antistato, non solo in tutta la Sicilia e in Italia, ma in vaste aree del globo. "Dalle biografie di illustri mafiosi emerge che la mafia esercita nella Sicilia occidentale, una costante azione coercitiva, tale da impedire la libera e legale manifestazione della dinamica sociale e politica e senza che lo Stato riesca a impedire che la popolazione si confermi nell’opinione che ad avere comunemente la meglio sono i mafiosi. La mafia esce dai confini dell’isola al seguito della droga. Nelle nuove sedi la maggiore facilità di mimetizzazione e l’assenza di collaudati strumenti di difesa sociali favoriscono la riproduzione di un fenomeno che si riteneva in altri tempi tipico dell’ambiente siciliano". Cattanei concludeva che l’analisi mostrava un complesso di elementi rappresentativi "dell’esistenza di una effettiva connivenza, oltre che di convivenza, con la mafia, non solo di ampie aree della società ma delle stesse istituzioni pubbliche, comprensive della magistratura, dei partiti e degli enti locali". Agli storici incombe la responsabilità di raccontare alle giovani generazioni, con grande rigore e senza cadere in una enfatica retorica, come attraverso il lavoro investigativo e giudiziario e gli alti costi pagati da grandi servitori dello Stato si sia arrivati in Italia ad una fase di aspra guerra. Lo stato d’allerta deciso con Parisi - Nella relazione che presentai al Parlamento nel 1992, pochi giorni prima di lasciare l’incarico di ministro dell’Interno, sottolineavo che "la strage del 23 maggio 1992, nella quale persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo ed i tre agenti della scorta Vito Schifani, Antonio Montanaro e Rocco Di Cillo, ha segnato la chiusura di un ciclo decennale dell’attività mafiosa e dell’azione di contrasto da parte dello Stato. Lungo l’intero ciclo 1982 - 1992 si è sviluppato uno sforzo investigativo e conoscitivo, che ha consentito alle forze dell’ordine e alla magistratura di definire, con un grado di approfondimento mai riscontrato nel passato, i contorni e le forme del fenomeno della criminalità organizzata nel nostro Paese. … Tale sforzo conoscitivo non è stato indolore, in quanto è costato la vita di molti rappresentanti delle Istituzioni che avevano scoperto alcuni tratti, caratteri e snodi, ancora inediti, della presenza mafiosa nell’economia, nella società e nelle stesse Istituzioni pubbliche". Non privo di ostacoli, di radicali contrasti e di un alto prezzo pagato dai promotori, è stato il cammino di costruire negli anni, e più intensamente nei primi anni 90, l’ossatura di una legislazione che viene oggi considerata la più efficace nella guerra alla mafia. Prima delle stragi del 1992, e pochi mesi prima del mese di marzo, a seguito di un insieme di informazioni raccolte da organi istituzionali dello Stato, che prevedevano iniziative stragiste e azioni di destabilizzazione dell’ordine pubblico e della vita democratica (non dimentichiamo che eravamo nel pieno svolgimento della campagna elettorale per le elezioni del Parlamento nazionale), insieme al capo della polizia, il prefetto Parisi, ritenemmo necessario dichiarare lo stato d’allerta. La comunicazione, per ragioni di sicurezza, doveva rimanere segreta e per questo il testo era stato criptato. Ma il testo del provvedimento finì nelle mani del Corriere della Sera e fu pubblicato con grande evidenza aprendo un aspro dibattito non solo in Parlamento, convocato d’urgenza sulla base di una accusa di eccessivo allarmismo del ministro dell’Interno, responsabile di aver dato credito a una "patacca". Ben pochi, in quei mesi, avevano preso atto che c’era stata una svolta, che occorreva prendere atto dello "stato di guerra" e che non si poteva attenuare la pressione anche se bisognava essere consapevoli delle conseguenze. Proprio pochi giorni prima della ricordata dichiarazione dello stato di allerta ed a circa due mesi di distanza dalla strage di Capaci, il 17 marzo, alla Commissione Antimafia mi ero espresso in questi termini: "Da quando ho assunto, nell’ottobre del 1990, la responsabilità politica del Ministero dell’Interno ho sempre avvertito che siamo che siamo di fronte ad una guerra lunga e difficile. Non credo che siano possibili scelte alternative, almeno che non ci si voglia accontentare di un clima di tranquillità e di normalità, quello cioè che la pax mafiosa rende possibile, se lo vogliamo, con l’acquiescenza degli organi dello Stato. Il che porta ad effetti perversi sulla vita civile che abbiamo già sperimentato e che sperimentiamo. Se la democrazia italiana vuole sottrarsi da un condizionamento crescente della criminalità organizzata, allora dobbiamo essere pronti ad affrontare un calvario doloroso, segnato da fatti estremamente preoccupanti." E concludevo: "oggi siamo in presenza di un fenomeno che non mira a distruggere le Istituzioni, bensì a piegare gli apparati ai propri fini". Falcone e la legislazione antimafia - È già dagli inizi degli anni ‘80 che, progressivamente, la legislazione, la giurisdizione e la organizzazione dello Stato presero consapevolezza che la mafia era ormai un reale pericolo per le Istituzioni e per la politica di uno Stato moderno e democratico e che occorressero una azione e una legislazione che fossero in grado di dotarsi di strumenti adeguati alla sfida da vincere. Falcone, nel 1991, aveva con chiarezza indicato le criticità e le contraddizioni di una lotta alla mafia condotta dallo Stato: "La classe dirigente, consapevole dei problemi e delle difficoltà di ogni genere, connessi a un attacco frontale alla mafia, senza peraltro nessuna garanzia di successo immediato, ha compreso che, a breve, aveva tutto da perdere e poco da guadagnare nell’impegnarsi sul terreno dello scontro. Ed ha preteso di fronteggiare un fenomeno di tale gravità con i pannicelli caldi, senza una mobilitazione generale, consapevole, duratura e costante di tutto l’apparato repressivo e senza il sostegno della società civile. I politici si sono preoccupati di votare leggi di emergenza e di creare istituzioni speciali che, sulla carta, avrebbero dovuto imprimere slancio alla lotta antimafia, ma che, in pratica, si sono risolte in una delega di responsabilità proprie del governo a una struttura di mezzi inadeguati e di poter coordinare l’azione anticrimine". Queste osservazioni di Falcone aiutano a capire il salto fatto dalla legislazione antimafia che si consolida in quegli anni insieme ai metodi di organizzazione e di coordinamento della investigazione e della prevenzione. Per questo, bisogna aiutare i giovani alla lettura critica della lotta alla mafia e soprattutto a renderli consapevoli che quella svolta ha comportando coraggio, sofferenze e incomprensione anche a iniziativa di molti di coloro avrebbero dovuto sostenerli. Sulle asperità incontrate nella costruzione della normativa antimafia vorrò tornare a conclusione di queste brevi considerazioni. Lasciando da parte l’emozione del ricordo e facendo ricorso a una sincera autocritica, mi sembra necessario, oggi più che mai e a venticinque anni dalle stragi, invitare gli storici a una rigorosa ricostruzione dei fatti e delle idee per cogliere la portata dei cambiamenti operati e della eredità lasciata per un cammino non ancora compiuto ma che, nella globalizzazione "selvaggia" che caratterizza la vita del pianeta, richiede un arricchimento di strumenti per combattere la guerra contro la mafia. Nei mesi scorsi, la Camera dei Deputati ha giustamente ricordato la figura di Pio La Torre a cui si deve, insieme a Virginio Rognoni, la formulazione del 416-bis del Codice Penale; l’aver introdotto, nell’ordinamento penale, il reato di appartenenza alla mafia e la norma sulla confisca dei beni ai mafiosi. Sono norme che aprirono la via di un superamento dell’approccio emergenziale della guerra. Nella prima relazione sulla Dia che presentai, nel 1992, al Parlamento, pochi giorni prima di lasciare l’incarico di Ministro, ricordavo che la legislazione di quei due anni era in coerenza con quanto si era sviluppato lungo tutto l’intero ciclo dal 1982 al1992: "uno sforzo investigativo e conoscitivo non comune, che ha consentito alle forze dell’ordine e alla magistratura di definire, con un grado di approfondimento mai riconosciuto in passato, i contorni e le forme del fenomeno della criminalità organizzata nel nostro Paese. Tale sforzo conoscitivo non è stato indolore, in quanto è costato la vita di molti rappresentanti delle Istituzioni che avevano scoperto alcuni tratti, caratteri e snodi, ancora inediti, della presenza mafiosa nella economia, nella società e nelle stesse Istituzioni pubbliche". A metà di quel decennio si colloca la svolta del giudice istruttore, Giovanni Falcone, nell’impostare il lavoro istruttorio, con una sentenza-ordinanza contro "Abbate Giovanni + 706" che inizia così: "Questo è il processo all’organizzazione mafiosa, denominata Cosa Nostra, una pericolosissima organizzazione criminosa che, con la violenza e l’intimidazione, ha seminato e semina morte e terrore. (….) La pericolosità nasce dalla tendenza di Cosa Nostra al confronto da pari a pari con lo Stato ed i suoi rappresentanti, nonché all’infiltrazione in esso, tramite relazioni occulte con esponenti dei suoi apparati e degli organismi elettivi, fino alla neutralizzazione, tramite corruzione o violenza di chiunque si opponga al suo strapotere (….)". Poco tempo prima del maxi processo fino al 1978, quando Falcone aveva iniziato le sue indagini, "ci sono sentenze" - scrive Falcone - "della Suprema Corte di Cassazione che negavano la qualità di associazione per delinquere alla mafia. Costretti di fronte ad una realtà evidente si è arrivati al punto di distinguere fra una vecchia mafia e una nuova mafia che, chi sa per quali motivi, è diventata un’associazione per delinquere". E c’era un insegnamento autorevole (vedi il Trattato di diritto penale italiano di un grande giurista) ricordato ancora una volta da Falcone, che "se la mafia è una associazione per delinquere, in ogni caso bisogna sempre dimostrare per quali delitti concreti gli associati si sono organizzati". Per Falcone era "il rifiuto inconscio di accettare la realtà di un ordinamento giuridico all’interno dell’ordinamento giuridico statale". Falcone, con il maxi processo, aveva aperto la strada che mi consentì di proporre, con il ministro di Giustizia Martelli e con il sostegno determinante del Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Gerardo Chiaromonte, non delle singole leggi ma un insieme di norme che rispondevano ad una strategia di guerra coerente; sottoponemmo all’approvazione del Parlamento, dall’ottobre del 1990 al giugno del 1992, una legislazione complessiva e coerente che operava un radicale cambiamento di paradigma nella lotta alla mafia. I sei capitoli della strategia - Quando, nell’autunno del 1990, improvvisamente, mi fu chiesto di fare il ministro dell’Interno ero Presidente del Gruppo Parlamentare della Democrazia Cristiana e mi chiesi cosa potevo e dovevo fare di più o di diverso. Mi ero occupato da giovanissimo, a partire dalla metà degli anni 50, dei problemi dello sviluppo del Mezzogiorno, prima nel sindacato della Cisl e poi, per dieci anni, collaborando con Giulio Pastore, dal 1958 al 1968, al Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno. La mafia era parte dei miei studi e degli interrogativi sullo sviluppo del Mezzogiorno. Avevo consapevolezza che il nodo gordiano da sciogliere era la connivenza tra mafia, istituzioni e politica. Il nodo non poteva essere sciolto se non attraverso una "guerra" che ponesse termine ad una "pax mafiosa". Sapevo cosa mi aspettava, non per incoscienza. Parlai subito con l’opposizione comunista, e in particolare con Chiaromonte, ma non trovai alcuna apertura se non quella di valutare senza pregiudiziali, in Parlamento e nel Mezzogiorno, le mie proposte e misurarmi alla prova dei fatti. Furono sei i capitoli sui quali concentrai l’intera strategia; li riassumo rapidamente. Il primo gruppo di iniziative riguardava la cosiddetta "questione carceraria", cioè il collegamento tra i boss detenuti in carcere e quelli in libertà, che consentiva alla mafia di conservare intatta la sua unità di comando e di non perdere l’efficienza complessiva della vita delle cosche. Era analogo il problema dei latitanti, perché i boss, o dal carcere o dalla latitanza, potevano continuare a gestire gli affari e comandare le truppe. Già nel primo decreto del novembre del 1990 cercai di impostare una normativa che facesse saltare il collegamento tra carcere, latitanza e organizzazione sul territorio. L’ultimo mio atto di governo fu la proposta, che avanzai a Martelli dopo l’uccisione di Falcone, di presentare un decreto legge che contenesse il famoso 41-bis, anche se eravamo un governo in ordinaria amministrazione; la proposta non voleva rendere più afflittiva la vita in carcere ma intendeva spezzare una catena di comando che costituiva la forza della organizzazione criminale. Il secondo, in sequenza logica e certamente il più complesso da legiferare e da gestire, fu quello di introdurre nel nostro ordinamento penale alcune misure premiali per i cosiddetti collaboratori di giustizia. Non si trattava di "pentiti", temine che ha alterato, e non poco, nell’opinione pubblica ed anche in quella degli esperti la natura dello strumento e degli obiettivi perseguibili. Ogni informazione doveva essere sempre accuratamente vagliata per non incorrere nel rischio che venisse utilizzata come strumento di vendette trasversali, di regolamenti di conti tra le cosche o di vendette nei confronti di uomini delle Istituzioni. Fondamentale nella lotta alla mafia è l’organizzazione della attività di "intelligence analysis", di investigazione e infine di giurisdizione. Sono note le ragioni che portarono a creare una struttura unitaria di "intelligence criminale", la DIA, in grado di fornire all’Autorità di Polizia e alla Magistratura una costante e approfondita informazione sulla organizzazione e sulla operatività della mafia, i suoi collegamenti di rete internazionale, il suo controllo del territorio e, infine, la sua concreta infiltrazione nelle istituzioni, pubbliche e private. È altresì nota la proposta di Falcone di dar vita ad un organismo - la Direzione Nazionale Antimafia - del Procuratore Nazionale e di quello Distrettuale con una funzione di coordinamento della investigazione e in alcuni casi anche di avocazione di alcune indagini. L’opposizione a queste nuove istituzioni fu durissima, soprattutto all’interno della Associazione dei Magistrati, e richiese una capacità di mediazione che portò anche ad alcuni significativi cambiamenti. Falcone pagò duramente il contributo determinante che diede alla creazione dei due organismi: fu denunciato al Csm con l’accusa di avere tenuti fermi nel cassetto fascicoli investigativi contro mafiosi e dovette difendersi davanti alla commissione disciplinare; gli fu detto chiaramente, da alcuni membri del Consiglio (che Falcone riteneva a lui favorevoli), che non lo avrebbero votato perché aveva accettato di collaborare con Martelli al Ministero a Roma. Le collusioni locali e istituzionali - La crescita del fatturato del crimine ha spinto progressivamente la mafia a darsi una struttura professionale sia per il riciclaggio del denaro e il suo impiego sui mercati finanziari che per la gestione imprenditoriale di imprese legali. Questa evoluzione dell’organizzazione criminale nel 1990 si stava realizzando parallelamente ai grandi cambiamenti tecnologici ed economici, che hanno portato alla globalizzazione dei mercati con sempre minori regole e controlli. Un cospicuo sostegno veniva dall’esistenza dei cosiddetti paradisi fiscali, con un rigido segreto bancario e con una grande libertà di movimenti. Superando non poche difficoltà oggettive sulla possibilità di intervenire con una legislazione nazionale, decidemmo nel 1991 per una legge sul riciclaggio, chiedendo la collaborazione del sistema bancario, di tutti gli intermediari finanziari e del notariato. In questi anni abbiamo anche sperimentato l’impegno delle grandi istituzioni finanziarie e bancarie internazionali nel rendere il più possibile trasparenti i mercati e nel contrastare i paradisi fiscali. Certamente siamo ancora lontano dall’aver raggiunto gli obiettivi immaginati come necessari; tuttavia, c’è una maggiore consapevolezza sulla urgenza di una lotta congiunta alla corruzione e al riciclaggio intervenendo in quella "area grigia" dei professionisti della mafia che gestiscono, per questi ultimi, gli ingenti patrimoni e sulla parallela azione di confisca dei beni dei mafiosi e dei corrotti. In quegli anni avevamo la consapevolezza, come ho già ricordato, che la questione cruciale in tutto il modo era data dal perverso intreccio di collusioni e affari tra uomini delle istituzioni, politici, mafiosi e colletti bianchi, professionisti di questi ultimi. L’azione doveva partire dal basso con lo stroncare il controllo da parte della mafia sia sulle attività economiche e sociali locali (il pizzo) e sia sulle attività istituzionali e politiche (infiltrazione e condizionamento degli enti locali e dei partiti e movimenti politici). Non ci si poteva fermare al livello locale ma occorreva una azione di difesa legalitaria della vita degli Stati nazionali e delle Comunità sovrannazionali. La nostra strategia di guerra alla mafia non poteva guardare alla dimensione locale o nazionale ma doveva ricercare un ampio coordinamento tra gli Stati e le Istituzioni transnazionali senza del quale mostravamo debolezze. La strategia, che adottammo nei primi anni 90, poggiava sulla mobilitazione della società e delle persone; per questo mi rivolsi ai responsabili della scuola, alle autorità religiose non solo cattoliche, ai movimenti della società civile, ai leader politici per una rivolta morale contro la mafia. Questo lavoro nei primi anni novanta del secolo scorso richiese molto coraggio, pazienza e determinazione. Ho già fatto cenno alle grandi resistenze e opposizioni che si dovettero affrontare. Chi subì il massimo di pressione fu proprio chi si era battuto con maggiore tenacia, Giovanni Falcone; lo ricordò Borsellino, parlando a Palermo qualche giorno prima della strage di via d’Amelio. Disse che Falcone l’avevano fatto morire anche prima della strage di Capaci. Oggi, venticinque anni dopo - "Una vita drammatica, quella di Giovanni Falcone", scrisse Gerardo Chiaromonte, "Dopo la strage di Capaci tutti si proclamarono suoi ammiratori. Quante menzogne ascoltai in quei giorni! Fece bene Ilda Bocassini, giudice a Milano, in una assemblea che si tenne il giorno dopo a Palazzo di Giustizia di quella città a prendere la parola per denunciare e indicare con nomi e cognomi, quei giudici milanesi che ora si mostravano compunti e addolorati per la morte di Falcone e fino al giorno prima avevano detto cose pesanti e offensive". Quegli anni di guerra, di stragi, di notte della Prima Repubblica non hanno trovato ancora uno storico capace di raccontarli alle giovani generazioni con credibilità e rigore, senza cadere né nella retorica né nella sottovalutazione. Furono anni animati anche da una forte tensione civile di una minoranza che ha lasciato una grande eredità: quella di una strategia e di alcuni strumenti fondamentali non per liberare il Paese dalla criminalità, cosa impossibile data la natura dell’uomo, ma per liberare il Paese da quella specifica forma di organizzazione criminale che vuole ridisegnare le nostre Istituzioni e la nostra vita attraverso la illegalità, la corruzione, il terrore. Quali conclusioni possiamo trarre dalla riflessione su quegli anni? Io penso che sia venuto il momento, anzitutto, per una lettura più veritiera di quelli che sono stati gli anni di Falcone e Borsellino. Non possiamo pensare, dopo venticinque anni, ad un rituale di commemorazione del loro impegno straordinario di servitori dello Stato. Non possiamo ripetere lo stesso discorso e non chiederci cosa sia avvenuto dopo e di come sia stata raccolta la loro eredità. L’impressione che si ricava dalla mole di inchieste e di saggi pubblicati in questi anni è che la realtà delle mafie sia andata cambiando alcuni suoi connotati, rispetto a quelli di cui discutevamo con Falcone. Tante attività investigative e giudiziarie hanno fatto fare alla lotta alla mafia passi in avanti rispetto alla realtà degli anni ottanta quando il pool di Palermo avviò l’istruttoria del maxi processo. Ma l’organizzazione criminale, l’antistato, ha ampliato il controllo di vasti territori e, forse, ha anche accresciuto la penetrazione nelle Istituzioni locali del Mezzogiorno e la espansione nelle aree del nord del Paese e in Europa e i suoi collegamenti con le reti del Centro America e dell’Estremo Oriente. Le novità le possiamo così individuare. La prima sta nell’ampliamento a livello planetario della cosiddetta "area grigia", quella che nasce dall’intreccio tra attività legali e attività criminali. Il denaro sporco si ripulisce in tempi rapidissimi, entra in canali legali e, utilizzando le coperture opportune dei mercati finanziari deregolati, viene investito in attività lecite che, per la provenienza del denaro, alterano il funzionamento dei mercati dei beni e dei servizi. La possibilità di far luce in questa "area grigia", all’interno della quale ci sono ampi spazi di attività apparentemente lecite, è molto difficile sia per l’intreccio sempre più stretto tra corruzione e forme mafiose di criminalità, sia per la carenza di una intesa tra gli Stati e sia per la rapidità con cui i proventi criminali divengono ricchezza legale e riverita. L’evoluzione della mafia su scala planetaria, a cui ho fatto cenno, rischia di ricreare quel gap tra il dinamismo delle mafie e la staticità delle Istituzioni statuali e sopranazionali chiamate a reprimerle. Ecco perché, nonostante i successi ottenuti, le mafie, a livello internazionale e nazionale, hanno continuato ad estendere i loro tentacoli e, soprattutto, a far crescere quella grande "area grigia" fatta di legalità e di illegalità, con crescenti zone bianche di attività legali collegate a quelle illegali ma difficilmente identificabili. Se le mafie hanno consolidato i loro collegamenti con il terrorismo nelle diverse espressioni, se hanno esteso le loro reti transnazionali, se hanno espanso le loro attività legali e se hanno esteso il loro controllo sugli Stati e sulle Istituzioni, questo deve porci degli interrogativi, a cui dare delle risposte rapide. È la "zona grigia" che si è allargata ed ha sempre più a che fare con la corruzione e i crimini economici, anche essi crescenti. La responsabilità oggettiva degli attori economici va chiamata in causa. La presenza di una organizzazione criminale antistato resta, dunque, la spada di Damocle di un mondo che vorrebbe far crescere la libertà e la democrazia. Le Nazioni Unite, con un occhio particolarmente attento alle forme di crimine transazionale, hanno lanciato questo allarme, al quale hanno fatto seguito iniziative di riflessione e tentativi di cambiamento. Ma questi tentativi devono andare oltre le forme tradizionali di cooperazione tra Paesi in materia di crimine, e devono superare le ricette tradizionali di cooperazione tra Stati. Tutto questo anche considerando che molte delle attività illegali si svolgono ormai nel mondo cosiddetto "virtuale", cyber, e, dunque, risultano ancora meno controllabili e punibili. Altresì, sempre di più aumentano l’imprevedibilità e l’asimmetria delle minacce e questo rischia di mettere in maggiore difficoltà le nostre certezze consolidate e i nostri paradigmi, riferiti a un mondo che non c’è più. Sono ormai palesi le fragilità delle istituzioni statuali con competenze frammentate e la precarietà di funzionamento della democrazia rappresentativa in molti paesi dei diversi continenti. C’è qualcosa che non siamo riusciti a percepire nella lotta alle mafie. C’è una difficile scelta che non riusciamo a fare fino in fondo perché il prezzo ci sembra molto alto. Dobbiamo fare definitivamente una scelta tra fermezza e acquiescenza, cosa che riuscimmo in parte a fare circa venticinque anni fa. Nuovo rito e niente "ferie" sulle richieste di asilo di Marco Noci Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2017 Dal prossimo 18 agosto cambiano le regole per presentare i ricorsi in materia di protezione internazionale. A dettare le nuove disposizioni è il decreto legge 13/2017, che modifica il decreto legislativo 25/2008 (che ha recepito la direttiva 2005/85/Ce): il testo è in vigore dal 18 febbraio, ma le novità si applicano alle cause e ai procedimenti giudiziari sorti dopo il 180esimo giorno da quella data. È previsto espressamente (articolo 35-bis, comma 14, decreto legislativo 25/2008) che la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale non opera per i procedimenti in materia di riconoscimento della protezione internazionale. Pertanto, la decadenza del termine di 30 giorni per presentare il ricorso potrà essere eccepita dalla Commissione territoriale che ha rifiutato la domanda di protezione internazionale o anche rilevata d’ufficio. Il ricorso - Il decreto legislativo 25/2008 prevede all’articolo 35 l’impugnabilità di tutte le decisioni adottate dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. Nell’ambito delle procedure di impugnazione delle decisioni sulla domanda di protezione internazionale il richiedente asilo è ammesso al patrocinio a spese dello Stato "ove ricorrano le condizioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115" (articolo 16 decreto legislativo 25/2008). In base al nuovo articolo 35-bis, il ricorso contro i provvedimenti in materia di riconoscimento è proposto, a pena di inammissibilità, entro 30 giorni dalla notificazione del provvedimento (o 60 giorni se il ricorrente risiede all’estero) e può essere depositato anche a mezzo posta o tramite rappresentanza diplomatica o consolare italiana; in questo caso l’autenticazione della sottoscrizione e l’inoltro all’autorità giudiziaria italiana sono effettuati dai funzionari della rappresentanza e le comunicazioni relative al procedimento sono effettuate presso la medesima rappresentanza; la procura speciale al difensore è rilasciata dinanzi all’autorità consolare. Prima dell’iscrizione a ruolo del ricorso dovrà essere presentata al locale Ordine degli avvocati la domanda di ammissione al patrocinio a spese dello Stato. A decorrere dal 30esimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del provvedimento con cui il responsabile dei sistemi informativi automatizzati del ministero della Giustizia attesta la piena funzionalità dei sistemi con riguardo ai procedimenti di cui all’articolo 35, il deposito dei provvedimenti, degli atti di parte e dei documenti relativi ai medesimi procedimenti avrà luogo solo con modalità telematiche. Resta salva la facoltà del ricorrente residente all’estero di effettuare il deposito con modalità cartacee. In ogni caso, il giudice potrà autorizzare il deposito cartaceo della documentazione quando i sistemi informatici del dominio giustizia non sono funzionanti e sussiste una indifferibile urgenza. Il deposito degli atti - Introdotto il ricorso è previsto un termine per il deposito di note difensive e della documentazione, compreso il file della videoregistrazione del colloquio del richiedente asilo, da parte della Commissione territoriale (entro 20 giorni dalla comunicazione del ricorso da parte della cancelleria) e il termine entro cui l’interessato può depositare una propria nota di replica (entro 20 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione dell’amministrazione). L’udienza orale - L’udienza orale è prevista quando si è in presenza di elementi nuovi o è indispensabile per l’integrazione dei fatti e delle prove allegate nel ricorso e in ogni caso in cui il giudice, visionata la videoregistrazione, ritenga necessario sentire personalmente il richiedente o chiedere chiarimenti alle parti. L’udienza orale è anche possibile quando l’interessato ne abbia fatto motivata richiesta e il giudice ritenga la trattazione del procedimento in udienza essenziale per la decisione. Il procedimento è trattato in camera di consiglio ed è definito, con decreto, entro quattro mesi dalla presentazione del ricorso. Il decreto è ricorribile solo per Cassazione. Il tribunale dei minorenni decide sui non accompagnati di Marco Noci Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2017 Sono in vigore dal 6 maggio scorso le nuove disposizioni che rafforzano la protezione dei minori stranieri non accompagnati, previste dalla legge 47/2017. Si tratta degli extracomunitari minorenni che arrivano in Italia senza genitori o senza altri adulti che li assistano. La legge modifica in più punti il Testo unico sull’immigrazione (decreto legislativo 286/1998). In primo luogo interviene sull’articolo 19 prevedendo che "in nessun caso può disporsi il respingimento alla frontiera di minori stranieri non accompagnati". L’espulsione potrà essere disposta, se ricorrono le condizioni previste dal testo unico, solo se non comporta il rischio di danni gravi per il minorenne. L’identificazione - La legge 47 disciplina per la prima volta le modalità e le procedure di accertamento dell’età e dell’identificazione del minore straniero, garantendone l’uniformità a livello nazionale. È assicurata, inoltre, maggiore assistenza, prevedendo la presenza dei mediatori culturali durante tutta la procedura. È prevista la necessità di svolgere indagini familiari da parte delle autorità competenti e sono disciplinate le modalità di comunicazione degli esiti delle indagini sia al minore sia al tutore. La competenza sul rimpatrio assistito passa dall’organo amministrativo della direzione generale dell’immigrazione del ministero del lavoro al tribunale per i minorenni, organo giurisdizionale competente alla protezione della persona del minore. Spariscono i permessi di soggiorno per affidamento e integrazione del minore e si fa invece riferimento ai soli permessi di soggiorno per minore età e per motivi familiari, qualora il minore non accompagnato sia sottoposto a tutela o sia in affidamento. Il minore potrà richiedere direttamente il permesso di soggiorno alla questura competente, anche in assenza della nomina del tutore. I tutori volontari - Entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge, ogni tribunale per i minorenni dovrà istituire un elenco di "tutori volontari". Si tratta di privati cittadini, selezionati e formati dai garanti per l’infanzia, disponibili ad assumere la tutela anche dei minori stranieri non accompagnati per assicurare a ogni minore una figura adulta di riferimento. Gli enti locali possono promuovere, in via prioritaria, lo sviluppo dell’affido familiare invece dell’accoglienza in strutture. Sono previste maggiori tutele per il diritto alla salute e all’istruzione come la possibilità di procedere all’iscrizione al servizio sanitario nazionale anche prima della nomina del tutore e l’attivazione di specifiche convenzioni per l’apprendistato, nonché la possibilità di acquisire i titoli conclusivi dei corsi di studio, anche quando, al compimento della maggiore età, non si possieda un permesso di soggiorno. È prevista infine la possibilità di assistere i cittadini stranieri fino (e non oltre) il compimento dei 21 anni di età qualora necessitino di un percorso più lungo di integrazione in Italia. I diritti - Per la prima volta sono sanciti anche per i minori stranieri non accompagnati il diritto all’ascolto nei procedimenti amministrativi e giudiziari e il diritto all’assistenza legale, avvalendosi del gratuito patrocinio a spese dello Stato. È prevista inoltre la possibilità per le associazioni di ricorrere per l’annullamento di atti della pubblica amministrazione ritenuti lesivi dei diritti dei minori non accompagnati e di intervenire nei giudizi che li riguardano. Infine, la legge elimina il carattere vincolante del parere della direzione generale sull’immigrazione, stabilito dall’articolo 32 del testo unico sull’immigrazione, per la conversione del permesso di soggiorno al compimento della maggiore età. Il silenzio dell’amministrazione equivale, in base all’articolo 20 della legge 241/1990, a provvedimento di accoglimento della domanda. Telecamere nei luoghi di lavoro, senza accordo o autorizzazione sanzione penale di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 8 maggio 2017 n. 22149. In tema di divieto di uso di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, sussiste continuità di tipo di illecito tra la previgente fattispecie, prevista dagli articoli 4 e 38, comma 1, della legge 20 maggio 1970 n. 300 (cosiddetto Statuto dei lavoratori) e 114 e 171 del decreto legislativo n. 196 del 2003, e quella attuale rimodulata dall’articolo 23 del decreto legislativo 14 settembre 2015 n. 151 (attuativo di una delle deleghe contenute nel c.d. Jobs Act), avendo la normativa sopravvenuta mantenuto integra la disciplina sanzionatoria per la quale la violazione dell’articolo 4 citato è penalmente sanzionata ai sensi dell’articolo 38 citato. Lo hanno stabilito i giudici della Cassazione con la sentenza n. 22148 dell’8 maggio 2017. Anche la nuova disposizione ribadisce, quindi, la necessità che l’installazione di apparecchiature (da impiegare esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, ma dalle quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori) sia preceduta da una forma di codeterminazione (accordo) tra parte datoriale e rappresentanze sindacali dei lavoratori, con la conseguenza che se l’accordo (collettivo) non è raggiunto, il datore di lavoro deve far precedere l’installazione dalla richiesta di un provvedimento autorizzativo da parte dell’autorità amministrativa (Direzione territoriale del lavoro) che faccia luogo del mancato accordo con le rappresentanze sindacali dei lavoratori, cosicché, in mancanza di accordo o del provvedimento alternativo di autorizzazione, l’installazione dell’apparecchiatura è illegittima e penalmente sanzionata. Né, in difetto della procedura suddetta, la condotta del datore di lavoro potrebbe considerarsi scriminata dal consenso in qualsiasi forma (scritta od orale) prestato dai lavoratori, giacché la norma incriminatrice tutela interessi di carattere collettivo e superindividuale, con la conseguenza che la condotta datoriale, che pretermetta l’interlocuzione con le rappresentanze sindacali, produrrebbe comunque l’oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici, in quanto deputate a riscontrare, essendo titolari ex lege del relativo diritto, se gli impianti audiovisivi, dei quali il datore di lavoro intende avvalersi, abbiano o meno l’idoneità a ledere la dignità dei lavoratori per la loro potenzialità di controllo a distanza, verificando, peraltro, anche l’effettiva rispondenza di detti impianti alle esigenze tecnico-produttive o di sicurezza, in modo da disciplinarne, attraverso l’accordo collettivo, le modalità e le condizioni d’uso e così liberare l’imprenditore dall’impedimento alla loro installazione. La normativa operante in materia - In termini, sulla continuità normativa operante in materia, per cui l’indebito utilizzo di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, anche a seguito dell’articolo del decreto legislativo 14 settembre 2015 n. 151 è tuttora penalmente sanzionata dal combinato disposto degli articoli 4 e 38 dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970 n. 300), cfr. Sezione III, 8 settembre 2016, Bommino. La sentenza in esame, invece, nel ritenere irrilevante, per escludere l’illecito, il fatto che sia intervenuto il consenso dei lavoratori, prende consapevolmente le distanze da Sezione III, 17 aprile 2012, Banti, secondo cui non integrerebbe il reato di cui all’articolo 4 citato l’installazione di un sistema di videosorveglianza potenzialmente in grado di controllare a distanza l’attività dei lavoratori, la cui attivazione, anche in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, sia stata preventivamente autorizzata per iscritto da tutti i dipendenti. Infortuni, sindacato parte civile nei giudizi per reati di omicidio o lesioni colpose di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 20 aprile 2017 n. 19026. È ammissibile, indipendentemente dall’iscrizione del lavoratore al sindacato, la costituzione di parte civile delle associazioni sindacali nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose, commessi con violazione della normativa antinfortunistica, quando l’inosservanza di tale normativa possa cagionare un danno autonomo e diretto, patrimoniale o non patrimoniale, alle associazioni sindacali, per la perdita di credibilità dell’azione di tutela delle condizioni di lavoro dalle stesse svolta con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e alla prevenzione delle malattie professionali. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza n. 19026 del 20 aprile scorso. La Cassazione ribadisce una conclusione ormai non controversa in ordine all’ammissibilità della costituzione di parte civile del sindacato nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose, commessi con violazione della normativa antinfortunistica (di recente, tra le altre, Sezione IV, 27 aprile 2015, Perassi e altro). Si tratta di assunto coerente con il principio secondo cui la tutela delle condizioni di lavoro con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e alla prevenzione delle malattie professionali costituisce sicuramente uno dei compiti delle organizzazioni sindacali, le quali annoverano tra le proprie finalità la tutela delle condizioni di lavoro intese non soltanto nei profili collegati alla stabilità del rapporto e agli aspetti economici dello stesso, oggetto principale e specifico della contrattazione collettiva, ma anche per quanto attiene la tutela delle libertà individuali e dei diritti primari del lavoratore tra i quali quello, costituzionalmente riconosciuto, della salute. A conforto dell’esattezza di tale interpretazione estensiva si pongono una serie di inequivoche indicazioni normative. In primo luogo, un importante spunto è rinvenibile nell’articolo 9 dello Statuto dei lavoratori, che ha costituito il primo riconoscimento normativo della presenza organizzata dei lavoratori ai fini dell’attuazione del diritto alla sicurezza sui luoghi di lavoro. In secondo luogo, ulteriore conforto può trarsi dalla previsione dell’elezione o della designazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con funzioni di accesso, consultazione e proposizione (cfr. dapprima il decreto legislativo n. 626 del 1994 e, poi, il decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81); nonché, dal ruolo attribuito, dal richiamato decreto legislativo n. 81 del 2008, alle organizzazioni sindacali, vuoi all’interno della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza del lavoro (articolo 6), vuoi con la previsione del potere di interpello al ministero del Lavoro da parte delle stesse organizzazioni sindacali legittimate a formalizzare quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza del lavoro (articolo 12) (cfr., per utili spunti, Sezione IV, 18 gennaio 2010, Ferraro e altri). False comunicazioni sociali, la ratio della riforma è salva di Carlo Alberto Giusti Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2017 L’attesa riforma della disciplina del reato di false comunicazioni sociali, ex articolo 2621 e seguenti del Codice civile, attuata con la legge 69 del 27 maggio 2015, ha determinato un profondo e radicale cambiamento nel panorama dei reati societari in quanto, avendo apportato interessanti e innovative modifiche, si pone in forte discontinuità rispetto alla disciplina previgente, che tante critiche aveva attirato. Le novità - Il legislatore ha, innanzitutto, eliminato le soglie di punibilità che, sin dall’inizio, avevano manifestato un chiaro effetto limitativo nell’applicazione del reato di false comunicazioni sociali o, secondo il linguaggio comune, di falso in bilancio. In secondo luogo, è intervenuto sull’elemento psicologico con l’eliminazione del dolo intenzionale, che rendeva l’accertamento del reato sul piano probatorio alquanto complesso, e con la conferma del meno severo dolo specifico. Inoltre, è intervenuto anche con un inasprimento del trattamento sanzionatorio, riconoscendo la centralità del cosiddetto falso in bilancio nella costruzione di una struttura efficace nella lotta alla corruzione, di cui lo stesso costituisce, spesso, un’azione prodromica volta alla costituzione dei cosiddetti fondi neri da impiegare nelle pratiche corruttive. La giurisprudenza - Nonostante i favori con cui è stata accolta la modifica normativa, è sorto in giurisprudenza un importante contrasto interpretativo - idoneo a incidere in maniera negativa sull’applicazione della nuova fattispecie - sulla configurabilità o meno del cosiddetto falso valutativo, a fronte dell’intervenuta abrogazione letterale dell’espressione "ancorché oggetto di valutazioni" dall’elemento oggettivo delle fattispecie incriminatrici di riferimento. In un primo momento, infatti, la quinta sezione penale della Corte di cassazione aveva ravvisato, con la pronuncia 33774/2015, da un lato, che l’eliminazione dell’espressione "ancorché oggetto di valutazioni", alla luce di una necessaria interpretazione letterale della norma, fosse idonea a escludere dal novero dei reati di cui agli articoli 2621 e seguenti del Codice civile il falso valutativo e, dall’altro, che la stessa espressione fosse presente in altre fattispecie delittuose - ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza ex articolo 2638 del Codice civile- con la conseguenza che la sua eliminazione sarebbe stata sintomatica di una precisa volontà legislativa in funzione abrogativa del falso valutativo. Le Sezioni unite - A ogni modo, in seguito a una pronuncia di segno opposto, la stessa quinta sezione penale della Corte, con una ordinanza depositata il 4 marzo 2016, aveva rimesso alle Sezioni unite la decisione relativa al contrasto interpretativo sopra menzionato. Le stesse Sezioni unite, con la pronuncia 22474/2016, hanno confermato la punibilità del cosiddetto falso valutativo specificando che l’ipotesi di reato in oggetto è ravvisabile laddove uno dei soggetti individuati dalla fattispecie delittuosa, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo a indurre in errore gli stake holders della società. I giudici della Suprema corte, in questo modo, hanno confermato la ratio ispiratrice della riforma, ossia quella di tutelare il bene giuridico della trasparenza societaria. Infatti, laddove fosse stata confermata la non punibilità del falso valutativo, sarebbe venuto meno uno degli aspetti più importanti della fattispecie normativa, poiché il bilancio è un documento dal contenuto essenzialmente valutativo e, di conseguenza, la mancata possibilità di valutazione in merito al suo contenuto avrebbe influito negativamente sull’intera struttura normativa di riferimento e sull’applicabilità, in concreto, del reato stesso. Alla luce dell’ultima pronuncia delle Sezioni unite appare chiaro, quindi, che il pericolo, concreto, di depotenziamento della riforma sia stato evitato e che l’unica reale minaccia derivi dall’applicazione dell’istituto della prescrizione. Sardegna: Colonie penali agricole, per uno sviluppo sostenibile di Antonio Tore sardegnamagazine.net, 29 maggio 2017 Inizia dalle tre colonie penali agricole esistenti in Sardegna, Is Arenas, Mamone e Isili, il progetto del ministero della Giustizia che punta ad un maggiore scambio di esperienze tra le carceri e la società con progetti che puntano alla formazione professionale dei detenuti con specifico riferimento alla valorizzazione dell’ambiente custodito nelle aree delimitate. È stato presentato a Is Arenas il progetto "Liberamente", curato dall’ente di formazione Ifold e finanziato dalla Regione con fondi europei, destinato a giovani disoccupati fino a 35 anni per la formazione di figure professionali del settore turistico con particolare specializzazione per le aree delle colonie penali ormai dismesse (Asinara, Castiadas, San Bartolomeo, Tramariglio) o ancora attive come appunto Mamone, Isili e Is Arenas. "L’obiettivo - spiega Marta Cadinu, referente del progetto - è quello di creare nuovo sviluppo sostenibile che combini la professionalità delle persone che formiamo con la valorizzazione di questi luoghi, che comprendono, ad esempio, 2700 ettari di bosco e macchia mediterranea sulla costa di Arbus ". Partner del programma sono, come detto, l’Amministrazione penitenziaria e le colonie penali. Il progetto coinvolge infatti anche i detenuti a fine pena che vogliono imparare come si crea un’impresa. Un patrimonio storico e ambientale unico che si apre all’esterno. Bologna: Tribunale per i Minori: "andare oltre il carcere, con progetti educativi" di Giuseppe Baldassarro La Repubblica, 29 maggio 2017 Il Tribunale per i Minori ha emesso 108 sentenze su casi violenza negli ultimi dodici mesi. A volte lo fanno per raccattare alcune decine di euro. Altre per portar via alle loro vittime uno zainetto, le cuffiette del cellulare o la felpa firmata. Quasi sempre per affermare una sorta di supremazia sui propri coetanei. Per sentirsi padroni di una strada, di un parchetto, del quartiere in cui vivono o della scuola. Sono violenti, ci mettono un attimo a menar le mani. E non agiscono quasi mai da soli. Sono bulletti tra i 14 e 17 anni e in alcuni casi, in gruppo, agiscono come piccole gang. Sono tanti, molti più di quelli che si possa immaginare. Spulciando negli archivi del Tribunale dei Minori di Bologna, competente per l’intera regione Emilia Romagna, si scopre che negli ultimi 12 mesi i giudici hanno emesso 108 sentenze di condanna. Fatti accertati dunque. Accertati e sanzionati. Storie che riguardano grandi città come Bologna, ma anche centri minori di provincia. Dinamiche identiche, come simili sono le storie di disagio che le generano. E se la violenza giovanile ha spesso il volto della seconda generazione di immigrati, non mancano gli episodi che coinvolgono ragazzini che in Italia ci sono nati e ci vivono, esattamente come i loro genitori e come i loro nonni. Minori che arrivano dalle periferie più problematiche, ma anche quindicenni di buona famiglia e persino facoltosa. Segno che non esistono contesti "vaccinati". Non si tratta mai di singoli episodi di bullismo, ma di vere e proprie violenze sistematiche a discapito del "debole" o del "diverso" di turno. Angherie, minacce e botte che si protraggono per mesi. È nei cortili di scuola che la violenza ha quasi sempre inizio, per poi trasferirsi in strada o in piazza. Nell’ultimo anno le denunce sono in aumento di circa il 20%. Ma queste sono soltanto la spia di un fenomeno che secondo gli esperti è molto più diffuso. Negli ultimi anni il Tribunale di via del Pratello ha sempre adottato una linea di intransigenza, ma il problema non può essere risolto con le sanzioni. Il presidente del Tribunale, Giuseppe Spadaro, ne ha visti e giudicati tanti di questi ragazzi. Li conosce e non nasconde una certa preoccupazione: "Si, effettivamente sono sempre più numerosi i casi di rapine, lesioni e bullismo in generale". Per il giudice "la risposta sanzionatoria deve essere adeguata", tuttavia il Tribunale "crede molto nella mediazione penale che consente alla vittima del reato di salvaguardare la propria dignità calpestata, offrendogli anche ristoro morale, e al bullo di incontrare la sofferenza provocata". Per Spadaro insomma "i ragazzi violenti dovrebbero svolgere attività di volontariato aiutando chi è stato meno fortunato di loro e devono essere messi di fronte alle conseguenze delle proprie azioni. Solo così il processo penale svolge anche funzione rieducativa e restituisce alla società ragazzi migliori". Trento: carcerati, dagli errori alla rinascita. La spinta della Costituzione di Matilde Bellingeri* e Carlo Casonato** Corriere del Trentino, 29 maggio 2017 Trovarsi a chiacchierare tra persone libere e non libere permette di cogliere e portare alla luce uno dei "rapporti dolenti" che da sempre caratterizzano la società. Consente di non dimenticare che esistono strutture - le carceri - occupate da persone che pensano, riflettono, parlano. Persone il cui carattere, personalità e coscienza si evolvono in misura talvolta sorprendente, pur restando fisicamente sempre lì, all’interno di quelle mura. Si tratta di uomini e donne che sono privati della libertà perché a loro volta hanno privato qualcun’altro di un proprio diritto. L’essere umano può sbagliare, così come può cambiare. In questo senso la Costituzione può essere un buon punto di partenza per un simile mutamento. Anche per questo motivo, convinti che essere l’idea sia il primo passo da compiere per realizzare un’idea, l’associazione Apas (Associazione provinciale di aiuto sociale per i detenuti, gli ex-detenuti e le loro famiglie) si è fatta promotrice del progetto dal titolo: "Da cosa partire per integrare: riflessioni sulla Costituzione", stipulando una convenzione con la facoltà di Giurisprudenza di Trento; tale facoltà ha permesso di instaurare un dialogo a più voci tra alcuni docenti dell’ateneo e una classe di detenuti della casa circondariale di Spini di Gardolo. Il ciclo di lezioni è iniziato il 6 marzo scorso terminando il 22 maggio, con incontri settimanali fissati ogni lunedì mattina. Sono stati trattati i temi del diritto alla salute, del principio di eguaglianza, della libertà personale e religiosa, del lavoro. Si è poi sviluppata una discussione molto vivace e critica, animata da vissuti certamente diversi da quelli con cui ci si confronta quotidianamente in università. Durante le ore di lezione abbiamo ripassato insieme la storia e l’essenza della Costituzione e della Corte costituzionale. Gli appuntamenti sono sempre stati aperti al dibattito, con i docenti che prendevano spunto dagli stimoli offerti dagli studenti. Le immagini con cui i detenuti hanno descritto la Costituzione, così, sono state quelle di una promessa tradita, di un cantiere mai finito ("la Costituzione è come la Salerno - Reggio Calabria" ha detto qualcuno), quella di una palude che dovrebbe fornire ben altra certezza e solidità. Per un altro, invece, la Costituzione è stata "la rete del trapezista, che ti salva quando compi un errore". Partendo da tali immagini, abbiamo ragionato a proposito di come la conoscenza della Costituzione possa contribuire a realizzare quello che alle volte è scritto solo in una legge; di quanto sia importante essere consapevoli dei diritti di ogni individuo, ma anche dei doveri, delle libertà e dei rispettivi limiti; e di come sia opportuno riconoscere l’esistenza del quadro complessivo dell’ordinamento e rispettare i diritti degli altri in modo che gli altri rispettino i nostri. Ci siamo detti che l’altra persona tante volte è davvero diversa, ma ciò non deve spaventarci. La diversità è motore di confronto e conoscenza, se basata su un rispetto reciproco. Le storie di ognuno sono differenti e il diritto di essere sé stessi è il primo a dover essere riconosciuto. Ogni seduta è stata una sorpresa. Prendendo spunto dalla Costituzione, così, abbiamo parlato di dj Fabo, la cui scelta di liberarsi da un diverso tipo di prigione nessuno ha potuto condannare; del lavoro come fondamento utopistico della Repubblica, della libertà personale e del diritto alla salute anche in un luogo difficile come la prigione; e di libertà religiosa, di eguaglianza, di immigrazione, di democrazia, di sistema elettorale, di Unione europea. I temi cui i detenuti hanno dedicato maggiore attenzione, infatti, non sono stati quelli contingenti, relativi alla loro condizione, ma quelli ben più generali e comprensivi legati allo stato di diritto, alla necessità di rinforzare il senso civico all’interno della società, di studiare nuove e più efficaci forme di partecipazione politica e di selezione dei nostri rappresentanti. Il carcere, che è certamente un luogo di necessaria sospensione di alcuni diritti - ma non della dignità - è diventato un terreno di incontro tra persone anche fragili, certamente differenti, dove differente dovrebbe però diventare un modo per favorire la responsabilizzazione dell’individuo. Abbiamo iniziato le lezioni con la speranza che il risultato più importante sarebbe stato quello di dare un po’ di informazioni e magari di instaurare un dialogo a più voci a proposito della Costituzione. L’altro giorno abbiamo concluso il percorso con la sensazione, o forse solo l’auspicio, di aver contribuito a costruire, attraverso la conoscenza del diritto e della sua applicazione, una più piena e autentica consapevolezza. Di aver reso un po’ più concreto lo scopo di responsabilizzazione e rieducazione che la pena dovrebbe avere in forza dell’articolo 27 della Costituzione. Con le ultime strette di mano all’interno del carcere ci siamo anche convinti della necessità di portare al di fuori di esso le riflessioni emerse durante gli incontri, segno tangibile del potere delle relazioni umane e della possibilità di combattere i luoghi comuni. Spinti dalla volontà di ragionare insieme sull’importanza e necessità di instaurare un dialogo tra persone libere e non, abbiamo organizzato, a conclusione del progetto, una conferenza attraverso la quale raccontare un’esperienza altamente significativa. Nel carcere di Trento dal 6 marzo al 22 maggio si sono svolte delle lezioni relative alla Costituzione. Si è cercato di dare un contribuito per rendere più concreti gli obiettivi di emancipazione, integrazione e rieducazione della pena previsti in Costituzione. Sono stati trattati i temi del diritto alla salute, dell’eguaglianza, della libertà personale, del lavoro e della libertà religiosa. I risultati di tale esperienza saranno illustrati domani sera in un incontro pubblico presso la Fondazione Caritro (via Calepina, 1) con inizio alle 20.30. Sarà inoltre l’occasione per parlare del rapporto fra società, pena e vita dei detenuti. I lavori, che saranno moderati da Aaron Giazzon (assistente sociale Apas), vedranno la partecipazione di Matilde Bellingeri (volontaria Apas e laureanda presso la facoltà di Giurisprudenza), Carlo Casonato (responsabile del progetto per la facoltà di Giurisprudenza), Franco Corleone (coordinatore dei Garanti regionali per i diritti dei detenuti) e Andrea de Bertolini (presidente dell’Ordine degli avvocati di Trento). *Volontaria Apas, laureanda presso la facoltà di Giurisprudenza **Responsabile del progetto per la facoltà di Giurisprudenza Avezzano (Aq): "Liberi per liberare" apre una Casa di accoglienza per aiutare i detenuti Il Centro, 29 maggio 2017 La struttura ha 12 posti letto, cucina, refettorio, sala riunioni, studio e lavanderia È costata 500mila euro e sarà gestita da associazione "Liberi per liberare" e diocesi. Come Abramo accolse i misteriosi viandanti a Mamrè, così l’associazione Liberi per Liberare e la diocesi dei Marsi accoglieranno i detenuti per traghettarli verso una nuova vita. Si chiamerà proprio "La tenda di Mamrè", in riferimento all’episodio della Genesi, la casa a custodia attenuata dove i detenuti di San Nicola potranno intraprendere un percorso rieducativo. La struttura di via Garibaldi venne sequestrata nel 2006 a una famiglia rom e poi assegnata nel 2009 all’Agenzia per la gestione dei beni sequestrati e confiscati che la diede al Comune di Avezzano imponendo la clausola dell’utilizzo per scopi sociali. Nel 2014, furono avviati i lavori per la realizzazione della casa da destinare all’accoglienza e ai servizi per ex detenuti grazie all’impegno dell’associazione Liberi per liberare e della diocesi dei Marsi. In tanti ieri hanno partecipato all’inaugurazione con spirito di gioia e fratellanza. "Abbiamo fatto tante esperienze affittando delle abitazioni e facendo convenzioni con strutture ricettive", ha commentato don Francesco Tudini, presidente di Liberi per liberare che insieme a suon Benigna ha seguito il progetto, "poi abbiamo pensato a questa opportunità con l’intento di realizzare qualcosa aperto anche alle altre necessità". La casa ha 12 posti letto, cucina, refettorio, sala riunioni, studio e lavanderia. La demolizione e ricostruzione della casa è costata circa 500mila euro messi insieme grazie a finanziamenti e donazioni. "Questa struttura è nata dal cuore dei credenti della pastorale marsicana", ha concluso il vescovo, monsignor Pietro Santoro, "papa Francesco ci ha detto che dobbiamo metterci accanto alle periferie esistenziali. E noi lo facciamo con questa struttura. La diocesi ha finanziato il progetto con 230mila tramite l’8 per mille. La solidarietà ha sempre i piedi scalzi. Diffido da chi è solidale e ha sempre le mani in tasca". "Ci sono persone che spesso quando escono non hanno un posto dove andare", ha precisato la direttrice della casa circondariale di Avezzano, Anna Angeletti, "questo è un posto di reinserimento, un ponte, una possibilità concreta di rieducazione. Un grande segno di civiltà". Commovente la lettera scritta in segno di gratitudine dai detenuti e letta da uno di loro perché "molto spesso le difficoltà per noi iniziano quando finisce la detenzione e restiamo orfani di affetti". L’arredamento della struttura è stato donato dalla Croce Rossa, dal Comune di Avezzano e dall’Istituto Sacro Cuore. Per il sindaco Gianni Di Pangrazio "questa casa è stata portata a termine grazie alla partecipazione di tante forze. Facendo sinergia si è riusciti ad avere questo importante risultato". Presente Luigi Lusi: "In qualità di vice presidente della commissione Bilancio del Senato mi adoperai per far finanziare con 150mila euro la struttura". Ivrea (To): addio a Giuliana Bertola, volontaria del carcere La Sentinella del Canavese, 29 maggio 2017 Aveva 78 anni, abitava a Palazzo Canavese. Questa mattina saranno celebrati i funerali nella chiesa parrocchiale. Se n’è andata Giuliana Bertola. Da oltre vent’anni era un volto noto nell’associazionismo a sfondo sociale. Presidente dell’associazione volontari della Casa circondariale di Ivrea raccogliendo l’eredità del fondatore Santino Beiletti, animava anche la redazione de L’Alba, trimestrale del carcere eporediese. Aveva 78 anni. I funerali saranno celebrati questa mattina, lunedì 29 maggio, alle 10,30, nella chiesa parrocchiale di Palazzo. Dopo la funzione, Giuliana Bertola sarà cremata a Biella. Con Giuliana Bertola, scomparsa giovedì per una grave malattia, se ne va una figura dell’impegno concreto e silenzioso in difesa e rappresentanza degli ultimi. L’ultima uscita pubblica di Giuliana Bertola è stata nel dicembre scorso, a San Giorgio Canavese, per la presentazione del libro "Il vuoto può essere immenso", di Manuel Baudino, un giovane che aveva vissuto l’esperienza del carcere e della droga e morto nel gennaio 2016. Fino a poche settimane fa ha continuato a occuparsi dei detenuti. Giuliana Airoldi, docente della scuola secondaria di primo grado Fermi di Burolo, aveva curato il progetto del libro di Baudino e illustrato le poesie con le sue foto: "Giuliana Bertola era una donna riservata, sensibile, comprensiva. Si può annoverare fra le persone che non si arrendono di fronte al "male" che porta alla disperazione al delitto, all’ombra della condanna perpetua. Lei ha voluto guardare oltre lo sguardo di chi è imprigionato perché colpevole di fronte alla legge. Ha aperto la sua mente per far entrare il pensiero che chi sbaglia, certo, deve pagare, ma va pure seguito lungo un percorso che deve condurre alla riabilitazione". E proprio perché credeva nell’importanza del riabilitare e del percorrere una strada nuova, Giuliana Bertola era convinta nel suo sostegno a progetti di coinvolgimento. Con la secondaria di Burolo e con Airoldi, ad esempio, era stata portata avanti un’iniziativa che ha visto coinvolti allievi e detenuti scrivere poesie insieme ispirandosi a fotografie. Il tutto divenne un libro, Sensibili ai riflessi, pubblicato nel 2015. La stessa Bertola, una dozzina di anni fa, aveva scritto "Eco di voci murate" un libro sulla sua esperienza umana di volontaria in carcere. Sosteneva l’importanza del lavoro di gruppo, tra i progetti sostenuti negli ultimi anni quello della compagnia teatrale con dei detenuti in veste di attori, il laboratorio di falegnameria in carcere, le iniziative con le scuole, gli incontri sulle condizioni e la situazione della casa circondariale. Accanto al suo impegno diretto nei confronti dei detenuti, Giuliana Bertola non aveva mai smesso di frequentare la parrocchia, dove si occupava di catechesi. Vedova di Franco Maero, ingegnere Olivetti ed ex consigliere comunale e assessore a Palazzo Canavese, morto in un incidente stradale nel 2005, Giuliana Bertola lascia quattro figli, Paolo, Marco, Stefano e Alberto con le rispettive famiglie. Giuliana Bertola amava la poesia e la potenza delle parole e dei silenzi. Questi i versi che le dedica Airoldi. "Quando ti lasci andare alla poesia,/il mondo entra nella testa e nel cuore./Si può guardare oltre./Puoi allontanarti da tutta la disperazione/ che ricopre le giornate, /per arrivare là, dove soffia il vento, /il vento della libertà, che allontana i pensieri". Lecce: una convenzione tra il Comune e il carcere per reinserire i detenuti Quotidiano di Puglia, 29 maggio 2017 È una situazione complessa quella in cui versa il carcere di Borgo San Nicola a Lecce. Le criticità sono state registrate anche dai rappresentanti di Lecce Bene Comune che sabato mattina insieme ad esponenti della Sinistra Italiana e dell’associazione Antigone Puglia, hanno fatto visita all’interno della struttura detentiva. Tra le criticità, la presenza di più detenuti del previsto: sono 933 anziché 660, a fronte di un personale sottodimensionato di circa 100 unità e i suoi dirigenti ancora privi di un contratto. "In qualità di candidato sindaco - ha dichiarato Luca Ruberti - il mio impegno va nella direzione di una amministrazione comunale finalmente attenta alle esigenze del mondo del carcere, mediante la redazione e sottoscrizione di una apposita Convenzione. Le esigenze di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti saranno messe al centro del nuovo rapporto tra la Città ed il carcere di Borgo San Nicola. I detenuti, i loro familiari e il personale in servizio meritano più attenzione e rispetto - conclude Ruberti. La città e il suo primo cittadino devono offrire il massimo sostegno e le migliori condizioni perché si sentano parte integrante della nostra comunità". "Il soprannumero caratterizza tutte le carceri italiane. Le celle, che dovrebbero ospitarne uno solo, ne ospitano due e in alcune celle anche tre - ha commentato Serena Pellegrino, deputata di Sinistra Italiana - La ristrutturazione è stata affidata agli ospiti del carcere, hanno fatto un lavoro eccezionale. Una direzione illuminata permette di ottenere risultati incredibili nonostante le ristrettezze e la difficoltà di non avere sufficiente personale. Presenterò al più presto una interrogazione che chieda conto al Governo Gentiloni delle difficoltà rappresentate dai lavoratori, a vario livello impegnati nella struttura carceraria". Salerno: "Trapetum", oggi presentazione del progetto di recupero dei detenuti salernoinweb.it, 29 maggio 2017 Oggi alle ore 11.00, al Liceo artistico Sabatini-Menna, si terrà la conferenza stampa di presentazione del progetto Trapetum, volto al recupero socio-professionale dei detenuti., alla presenza di Sua Eccellenza Luigi Moretti, Arcivescovo della Diocesi di Salerno-Campagna-Acerno. Il progetto è frutto di una sinergia tra l’Arcidiocesi di Salerno-Campagna-Acerno, attraverso l’Ufficio per i Problemi sociali e del lavoro, l’Icatt, Istituto di Custodia Attenuata per il trattamento delle tossicodipendenze di Eboli e Confagricoltura Salerno. Una sinergia che sarà formalizzata con la firma di un protocollo d’intesa tra le parti, finalizzato a: - sviluppare programmi tesi al recupero e al reinserimento sociale dei cittadini in esecuzione di pena, attraverso un’opportunità lavorativa, finanziata con risorse pubbliche e private; - riconoscere la dignità professionale e/o lavorativa quale principio costituzionalmente garantito, fondamentale per la promozione e la maturazione di cittadini liberi, responsabili e partecipi alla vita della comunità locale; - operare per la formazione professionale e/o lavorativa come opportunità di cambiamento per i detenuti, individuando soluzioni e percorsi efficaci per promuovere e incrementare l’inclusione sociale. I detenuti selezionati all’interno dell’Icatt di Eboli, preventivamente formati, saranno avviati ad attività agricole in aziende individuate da Confagricoltura, alle quali sarà prestata un’opportuna assistenza legale, fiscale e tecnico-economica, secondo quanto previsto dal progetto. Trapetum prevede anche il coinvolgimento del Maestro ceramista vietrese Benvenuto Apicella. La linea grafica del programma Trapetum è stata interamente realizzata dalla classe VL del Liceo artistico Sabatini-Menna, di qui la scelta della scuola come location della conferenza. Alla conferenza stampa interverranno Ester Andreola, Dirigente scolastico Liceo artistico Sabatini-Menna; Antonio Memoli, direttore dell’Upsl dell’Arcidiocesi di Salerno-Campagna-Acerno; Rita Romano, Direttore Icatt di Eboli e Carmine Libretto, Direttore di Confagricoltura Salerno. Per la presentazione della linea grafica interverranno la docente referente, Lucia Raiola e gli alunni: Carmen De Luca, Claudio Crescenzo, Claudia Patrone e Alessandra Rossi. Torino: la vita di Vallanzasca, Ken Follet e Neruda, i libri più amati in carcere di Cristina Insalaco La Stampa, 29 maggio 2017 I detenuti del Lorusso e Cutugno di Torino: "Leggendo viviamo esistenze che non abbiamo". "Notte sull’acqua" di Ken Follett, "Maigret viaggia" di Georges Simenon, "Vallanzasca" di Vito Bruschini, la saga di Tex Willer e le poesie d’amore di Pablo Neruda. Sono i cinque libri più letti al carcere Lorusso e Cutugno di Torino, seguiti dal codice penale e dai testi sacri. I detenuti li leggono quasi sempre per "legittima difesa", come direbbe Woody Allen, e cioè per proteggersi dai pensieri più cupi. Luca ama perdersi in Ken Follet prima di dormire, quando dopo il "clic clac" delle chiavi alle otto di sera rimane da solo a fare i conti con il vuoto. "La lettura non è solo un’evasione - scherza usando un gioco di parole - mi serve a mettere in pratica gli insegnamenti del buddismo". Stefano ha invece scoperto l’amore per la poesia: "Ho letto i "Fiori del male" di Baudelaire, mi ha aiutato a mettere a fuoco me stesso". La biblioteca centrale maschile, che contiene 13 mila volumi - oltre ai 15 mila distribuiti nei cinque padiglioni -, è appena stata ristrutturata e ampliata. Qui vengono organizzati incontri letterari dalle biblioteche civiche della città e da Marco Monfredini, e da alcune settimane è nata l’audioteca sentimentale. Si tratta di una playlist da ascoltare sull’iPad, divisa in base agli stati d’animo. I detenuti ne scelgono uno, e hanno a disposizione un repertorio che spazia da "Forrest Gump" di Alan Silvestri a "Legami" di Ennio Morricone. Il progetto nasce dal fatto che qui le emozioni vengono spesso represse e allora musica e libri aiutano. "Io leggo un po’ di tutto, anche "Alice nel Paese delle meraviglie" - dice Monica. In cella ho sempre la sensazione di vivere a metà, e la lettura riesce a farmi sentire meno dimezzata". Le donne, a differenza degli uomini, possono leggere in biblioteca due pomeriggi alla settimana. È una questione organizzativa, ma loro la vivono con un piccolo privilegio. L’ultima novità è il progetto del "libro sospeso" (compri un romanzo, ne doni un altro al carcere), che dovrebbe partire a breve. Al Salone del Libro hanno fatto un esperimento simile: due detenuti dopo dieci anni di reclusione sono andati al Lingotto per raccogliere 800 testi dal pubblico. Cosa significa leggere? Un detenuto lo spiega con le parole di Calvino, scritte all’ingresso della biblioteca: "Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio". Civitavecchia (Rm): laboratorio artistico "Sapienza Antica - Arte Contemporanea" di Manila Di Gennaro Ristretti Orizzonti, 29 maggio 2017 Laboratorio in carcere diretto dal maestro Marcello Silvestri. Il 27 maggio 2017, presso il teatro del Nuovo Complesso Penitenziario di Civitavecchia, è stata realizzata la prima mostra espositiva dei lavori e delle poesie realizzate dai detenuti che hanno partecipato al laboratorio artistico "Sapienza Antica - Arte Contemporanea", diretto dal maestro Marcello Silvestri. P.D., uno dei detenuti che ha preso parte all’iniziativa, commenta così la bella esperienza: "Il dipinto fa parte della vasta ispirazione artistica dell’ uomo. L’espressione intensa dei colori e delle forme, sono il riflesso del nostro animo interno, parlano del nostro mondo esistenziale, delle emozioni e sensazioni che si plasmano con armonia sulle opere. Grazie all’opportunità avuta, nel poter frequentare questo validissimo corso, ci siamo scoperti in qualche modo "artisti", che nell’ambito di un istituto di pena, valorizza ancora di più, l’inizio del riscatto dalla nostra condizione. Grati al maestro Silvestri, all’area educativa e alla direzione". La mostra espositiva è stata preceduta dal concerto Gospel della corale dei volontari della Chiesa Evangelica Battista di Civitavecchia e dai canti delle detenute della sezione femminile, sotto la guida dei volontari del gruppo di suor Alice di Santa Marinella. Gli organizzatori e Patrizia Bravetti direttrice degli Istituti Penitenziari "G. Passerini" di Civitavecchia, stanno lavorando insieme per valutare la possibilità di allestire la mostra all’esterno del penitenziario, per dare l’opportunità agli interessati di visionare le opere dei detenuti. Siracusa: al carcere di Augusta anche gli ergastolani recitano Shakespeare La Civetta di Minerva, 29 maggio 2017 Riparte la tradizionale settimana di cultura e spettacoli all’interno della Casa di reclusione, giunta al sesto anno. Teatro e tanta musica. Studenti, detenuti e condannati al fine pena mai in scena con "La commedia degli errori". Al via il nuovo ciclo di spettacoli aperti al pubblico al carcere di Augusta. Otto giorni di teatro e musica fra fine maggio e metà giugno che vedranno, secondo le previsioni, oltre milleduecento persone varcare i cancelli della casa di reclusione per assistere alle performance dei detenuti e, per ciò che concerne il teatro, degli studenti che reciteranno insieme a loro. Il fatto che le manifestazioni si ripetano ormai da diversi anni non ci esime dal chiederci ogni volta quali siano gli obiettivi e i valori da portare avanti attraverso questi eventi. In primo luogo vi è il fatto stesso di fare varcare a tante persone i cancelli d’ingresso del penitenziario e di fare in modo che persone comuni vivano l’esperienza della visita in un carcere. Per lo più chi entra in carcere per la prima volta si aspetta un luogo un po’ lugubre e volti lombrosiani. E un po’ tutti rimangono stupiti, anche se la sensazione che si prova nel sentire i cancelli che si chiudono alle spalle è forte, a volte traumatica, nel vedere un luogo discretamente colorato e, in un certo senso ed entro certi limiti, non angusto. E sì, perché sulla struttura, pur senza avere grossi mezzi, abbiamo lavorato molto. Non è infatti ineluttabile che la privazione della libertà debba avvenire in luoghi cupi, grigi, umidi. E questa degli ambienti è una battaglia che il mio staff ed io conduciamo per 365 giorni l’anno e, batti e ribatti, qualche risultato si ottiene per attenuare l’insostenibile pesantezza del carcere. Poi, ma sarebbe meglio dire prima di tutto, c’è l’incontro con le persone, i detenuti, alcuni giovani, altri meno giovani, comunque volti comuni e tutti alle prese con ansie da palcoscenico e da voglia di ben figurare. Si comincia a fine maggio con il teatro, che rappresenta l’attività più diffusa nelle carceri. Tanti ne hanno scritto, difficile aggiungere un qualcosa e spiegare perché; fatto sta che, subito dopo il canto, il teatro è l’attività espressiva più naturale. Lo è in carcere e, forse per noi meridionali, lo è anche fuori. Essere altro, altri, vestire panni diversi, spogliarsi della propria identità. Deve esserci un effetto curativo in questo. I detenuti del gruppo teatrale sono fra quelli che hanno le pene più lunghe, c’è qualche caso di ergastolo ostativo (il più ergastolo di tutti, di cui ho parlato recentemente). Gli studenti sono quelli del liceo Arangio Ruiz, istituto col quale intratteniamo molteplici rapporti e collaboriamo in diverse attività: l’alternanza scuola - lavoro, iniziata quest’anno con quattro studenti che di pomeriggio frequentano l’Istituto; il lavoro gratuito fatto da due detenuti che escono ogni giorno per effettuare lavori di giardinaggio e di piccola manutenzione presso l’Istituto scolastico. E poi, appunto, c’è il laboratorio teatrale del progetto "Il carcere va a scuola", l’attività che da più anni viene svolta - questo è il sesto anno - e per la quale gli studenti vengono selezionati dopo vari provini, perché le domande di partecipazione sono tante e superano di gran lunga i posti disponibili. Il laboratorio inizia a dicembre per concludersi ogni anno a fine maggio. Ogni tanto durante questi mesi vado a vedere le prove, intanto perché il backstage regala sempre i momenti più gustosi, e poi per cercare di cogliere l’atmosfera. Che dire, penso non sia retorico affermare che in quelle due ore non sembra di stare in carcere. Negli anni scorsi sono state messe in scena commedie di Plauto, Achille Campanile, Dario Fo, Eduardo De Filippo. Quest’anno ci si cimenta con Shakespeare, "La commedia degli errori". Si inizia venerdì 26 maggio e poi sabato 27, sempre di pomeriggio alle 17.30 per il pubblico esterno, lunedì 29 di mattina per i detenuti e le autorità e poi giorno 30 per gli studenti del Ruiz. L’invito, per i giorni 26 e 27, è esteso ai lettori de La Civetta, basta mandare - entro le ore 14 di lunedì 22 maggio - una mail all’indirizzo cr.augusta@giustizia.it indicando il giorno di preferenza e le generalità complete: nome, cognome e data di nascita. A prescindere dall’esito artistico, che ci si augura ottimo, l’esperimento sociale è molto valido e non finisco mai di ringraziare la preside dell’Arangio Ruiz, professoressa Castorina, e le famiglie degli studenti per la fiducia accordata, gli studenti stessi, e la professoresse Lisi e Baffo, tutors del progetto insieme al professor Cannarella e il regista Sbrogiò per l’impegno e la pazienza mostrati. Libri. "La razza superiore", di Vittorio Schiraldi di Silvana Mazzocchi La Repubblica, 29 maggio 2017 La storia epica di una famiglia per capire il razzismo di oggi. "La razza superiore", il nuovo romanzo di Vittorio Schiraldi, affronta il tema delle origini del razzismo: che oggi torna a dividere l’Europa come se non ci fosse memoria del passato. Il razzismo torna a dividere l’Europa come se non ci fosse memoria di quanto l’abuso, la discriminazione e l’esclusione abbiano afflitto in passato la civiltà umana. Ancora oggi la globalizzazione non ha del tutto cancellato la certezza che una parte degli esseri umani abbia diritto a vantaggi e privilegi a discapito del resto del mondo e il razzismo risorge e continua a fare danni, sebbene spesso in modo nascosto, subdolo e, soprattutto, negato. Ieri era la prevaricazione dei bianchi sugli schiavi neri, con il colore della pelle a marcare il sopruso, oggi la convinzione, raramente dichiarata ma chiaramente percepita, che migranti ed "estranei" minaccino il nostro benessere. Il tema delle origini del razzismo è quello centrale del nuovo romanzo di Vittorio Schiraldi, La razza superiore, in libreria per Bookme che, attraverso il racconto epico di una famiglia "allargata", che nel tempo si divide, si ricompone per infine smembrarsi in più rivoli, anche geografici, mostra gli abusi e gli errori alle origini di immani tragedie. Una storia infinita che, fin dagli anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, mette in scena un pezzo del lungo cammino che sta dietro al razzismo che ancora divide l’Europa. E, se recentemente gli Stati Uniti, perfino a livello accademico, hanno voluto ricordare che, per emanare nel 1934 le odiose leggi di Norimberga, i giuristi del Reich e lo stesso Hitler si ispirarono alle norme anti immigrazione e a quelle razziali in vigore all’epoca in America, è altrettanto vero che ancor prima, all’inizio del secolo scorso, consistenti tracce di odio razziale erano già ben presenti in Inghilterra, in un Paese da tempo schierato contro la schiavitù che non deteneva certo l’esclusiva europea di tale oscurantismo, visto che in quegli anni abusi particolarmente crudeli venivano consumati dalle truppe olandesi e belghe contro le popolazioni congolesi adibite in casa loro alla raccolta del caucciù. Spazia tra Londra, New York, la Sicilia e l’Africa il romanzo di Vittorio Schiraldi, un racconto che mischia fiction e realtà e che innesta i personaggi nella narrazione in uno scorcio di secolo ricostruito sulla base di una rigorosa documentazione. Le conferenze dei potenti tenute nella civilissima Londra, mirate a teorizzare l’esistenza oggettiva di "una razza superiore", il potere e il denaro come privilegi acquisiti e indiscutibili, presunti "diritti" utili per legittimare qualsiasi sopraffazione, ma anche il difficile cammino di chi si oppose a quello stato di cose osando ostacolare la corsa indiscriminata al colonialismo. Lo sfruttamento che, in quello scorcio di Novecento, ha coinvolto mezza Europa quando i suoi eserciti hanno scatenato una gara per impossessarsi delle risorse africane e delle sue preziose materie prime. Non c’è però solo la memoria delle radici del razzismo nel romanzo di Schiraldi. C’è la commedia umana di un mondo in trasformazione con personaggi che sono espressione di vizi e virtù universali; le ricchezze facili di un capitalismo e di una finanza rampanti accumulate da uomini spregiudicati, cinici e disposti a tutto, ma anche coraggiosi e ostinati ad andare avanti conservando amore, sentimenti e ricordi. E ci sono figli e nipoti ritrovati ed estranei protetti come fossero figli. E ancora, viaggiatori avventurosi nell’Africa dello sfruttamento e delle lotte intestine, l’altruismo contro la prevaricazione, l’audacia contro il calcolo e le spinte del progresso frenate dalle resistenze della tradizione, il bello della cultura e quello dei soldi. L’amore e l’opportunismo e l’inevitabile meticciato delle razze e delle classi sociali. La storia di un pezzo di secolo calata in scenari che fanno da sfondo a una vicenda ricca di personaggi che, tutti insieme, formano un affresco epocale. Perfino la Germania di Hitler si ispirò ai provvedimenti contro l’immigrazione negli Stati Uniti. C’è davvero la democratica America alle origini del razzismo? "Se non vogliamo risalire troppo indietro nel tempo, considerando come scaturito da una forma di razzismo il potere esercitato da alcuni popoli nei confronti di popolazione soggette ritenute subalterne, allora la risposta è sì. Le teorie del ricercatore inglese Francis Galton sulla superiorità di quella che sarebbe stata definita la razza eletta, alla fine dell’Ottocento erano rimbalzate rapidamente oltre l’Atlantico dove avevano trovato facile espressione soprattutto negli stati del Sud che faticavano a rassegnarsi all’idea che l’esito sfavorevole della Guerra di Secessione avrebbe cancellato definitivamente la schiavitù, rendendo la popolazione titolare degli stessi diritti che fino a qualche anno prima erano stati privilegio assoluto dei bianchi. Per quanti provenivano dagli stati del Sud era difficile accettare l’idea che, mentre gli ex proprietari terrieri schiavisti, dopo la vittoria dei nordisti, erano stati privati dei loro diritti politici in quanto "ribelli", i negri fossero passati dalla loro condizione di razza sottomessa alla piena cittadinanza politica, riuscendo in taluni casi a diventare addirittura capi dei loro ex padroni. Ciò significava il definitivo fallimento della White Supremcy, non più alimentata da sedimentate tradizioni culturali cui gran parte della società americana non era disposta a rinunciare, pur essendosi mostrata talvolta aperta all’immissione di nuove etnie. Un esempio per evidenziare quanto il razzismo facesse ormai parte della cultura americana. Da sempre in stati come la Virginia, i semi-schiavi, ossia gli schiavi di pelle bianca di quei tempi, allorché venivano catturati, dopo un inutile tentativo di fuga, venivano marchiati a fuoco con la lettera R, che stava per rogue, ossia schiavi, in modo da renderli immediatamente riconoscibili, così da precludere loro ogni eventuale e futura via di scampo, la successiva abolizione della marchiatura non era stata suggerita da ragioni umanitarie, ma dalla consapevolezza che il problema dell’identificazione era stato risolto sostituendo gli schiavi bianchi con i neri, visto che il colore della pelle rendeva superflua la marchiatura a fuoco, poiché il nero era già di per se stesso sinonimo di rogue. A rendere ancora più difficile la trasformazione che ci si sarebbe aspettati, contribuì la massiccia ondata di emigranti provenienti sia dall’Europa che dall’Oriente, una sorta di invasione destinata a provocare un miscuglio di razze che per molti risultava inaccettabile e che autorizzò in qualche modo il persistere di atteggiamenti razzisti e delle conseguenti discriminazioni che ancora oggi sussistono, come espressioni di una sorta di patrimonio genetico di gran parte del popolo americano. Di qui la promulgazione, nel 1907, di quella legge definita di Igiene Razziale che, come racconto nel romanzo attraverso la vicenda di una delle protagoniste, provocò la sterilizzazione di migliaia di donne, provenienti da Paesi dell’est europeo, sospettate di essere portatrici di malattie che avrebbero potuto compromettere la purezza della razza americana". In che misura questo romanzo, che affronta il tema del razzismo di un secolo fa, può definirsi attuale? "Basta guardarsi intorno: oggi, anche nel nostro Paese, alcune forme di esagerata xenofobia nei confronti degli immigrati, soprattutto di colore, sembrano nascondere l’inconfessata forma di razzismo di molti italiani che sicuramente non si indignarono quando nel 1938 furono varate le famose leggi razziali. Tornando ai nostri giorni, se oggi Trump decide di innalzare muri o chiudere le frontiere, non dobbiamo dimenticare che nel 1951, lo stesso Theodore Roosevelt non esitò ad affermare che " per sventare il suicidio della razza bianca" bisognava ricorrere alle misure più radicali ed energiche nei confronti delle razze inferiori, perché "se una di esse si trovasse ad aggredire la razza superiore questa reagirebbe con una guerra di stermini e sarebbe chiamata a mettere a morte uomini, donne e bambini, esattamente come se si trattasse di una Crociata". E, andando più indietro nel tempo, ancora oggi, in Congo, migliaia di uomini utilizzati per la raccolta del coltan, un minerale usato per apparecchiature ad alta tecnologia, vengono, nell’indifferenza generale, torturati e uccisi da quanti continuano a sfruttare le ricchezze di un Paese condannato a restare povero. Cento anni addietro, come racconto nel mio romanzo, i soldati belgi uccisero milioni di indigeni usati come schiavi per la raccolta del caucciù. A molti di essi venivano addirittura amputate le mani quando il loro raccolto si rivelava insufficiente. Nel libro ci sono diversi piani di narrazione. I perché di questa scelta? In un romanzo l’autore, quando ci riesce, prevede diversi piani narrativi. Il primo, il più semplice, è quello in cui il lettore manifesta d’impulso il proprio giudizio, con un " mi piace o non mi piace ". Poi ci sono altri piani di lettura che scendono in profondità e che per molti restano invisibili. In quei piani successivi, l’autore esprime dei messaggi, quasi criptati, con i quali trasmette alcuni altri significati in cui ha riversato molta parte di se stesso. Individuarli è la sfida rivolta al lettore più avveduto. Così chi legge può scoprire, nei personaggi e nei comportamenti descritti, quella parte di se stesso in cui ritiene di essersi riconosciuto e che, a volte, è perfino il solo a vedere. Come quando si osserva a lungo una macchia di umido su una parte che tratteggia un disegno che ciascuno interpreta a modo proprio. Spesso io, leggendo le recensioni dei miei libri, ho scoperto che c’erano cose di cui nemmeno io sospettavo l’esistenza, inserite nel contesto quasi a mia insaputa. E ciò mi appagava perché voleva dire che il mio romanzo aveva comunque lasciato un segno. Televisione. Il populismo di oggi e quello del 1993 di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 29 maggio 2017 Nella serie televisiva "1993", i cui episodi sono trasmessi in queste settimane da Sky, ci sono sempre a far da sfondo, come una colonna sonora della furia vendicativa, le folle arrabbiate, urlanti, o che idolatrano l’angelo vendicatore purché abbia indosso la toga del magistrato che sbatte in galera i potenti della politica. Le folle che si eccitano alla vista del duro Di Pietro. Le folle che sperimentano le prove del linciaggio di Bettino Craxi gettando monetine e berciando slogan spietati contro il leader caduto in disgrazia, le folle che non si ammorbidiscono nemmeno davanti alla catena di suicidi che "1993" raffigura con grande realismo, ricordando che quella rivoluzione giudiziaria, come tutte le rivoluzioni cruente, non fu un pranzo di gala ma un dramma con molte vittime e molte ghigliottine: "l’anno del Terrore", come è stato definito nel titolo di un libro di Mattia Feltri. Oggi, che non sappiamo decifrare le cose e che diamo nomi arbitrari a tutto ciò che non sappiamo afferrare, ci arrovelliamo attorno alla sindrome "populista". Ecco, ma se il populismo antipolitico, con il cappio da agitare e l’ex potente da umiliare, avesse celebrato i suoi fasti nel biennio da molti esaltato del ‘92-’93? Se chi oggi deplora il populismo giustizialista e manettaro ne avesse cavalcato l’onda in tempi non sospetti, se ne avesse fatto parte un po’ più di vent’anni fa, esaltandolo, aizzandolo, non dovrebbe forse fare i conti seriamente con la propria storia, la propria biografia? La propria ipocrisia, anche? L’idea che in politica gli indagati siano già condannati si forma lì, nel biennio ancora oggi celebrato come l’epopea di Mani Pulite. Che l’avviso di garanzia sia motivo sufficiente per farsi mettere all’angolo. Che le folle abbiano sempre ragione: che ora sono le folle dei social scatenati, ma che allora erano quelle del "popolo del fax" (ecco il popolo populista all’opera) infuriato contro tutti, voglioso di giustizia sommaria, di punizioni esemplari, di patiboli (che noia questo garantismo formalista). Quando è nato questo "populismo" rabbioso e crudele? Oggi in molti lamentano questa furia giustizialista che vuole i tribunali in piazza. Ma quanti, dello stesso schieramento politico che oggi si sente nel mirino, non dissero una parola sulla folla forcaiola che nel 1993 massacrava i nemici? Il nuovo vertice della Cei e l’impegno politico della Chiesa di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 29 maggio 2017 La storia di un Paese è una cosa maledettamente complessa, che si fa e va considerata nei tempi lunghi, evitando soprattutto di restare prigionieri dei propri giudizi e delle proprie passioni dell’oggi o dell’appena ieri. La designazione del cardinale Bassetti alla presidenza della Conferenza episcopale italiana è stata generalmente considerata la prova di quella definitiva svolta "antipolitica" voluta da tempo da papa Francesco e finalmente adottata dall’episcopato della Penisola. Una svolta, bisogna aggiungere, giudicata perlopiù con favore dall’opinione pubblica, che è in grande maggioranza ostile anch’essa all’idea che la Chiesa "faccia politica". Infatti, nella prospettiva che oggi sembra prevalere nel mondo cattolico e fuori di esso, alla Chiesa dovrebbero venire affidate principalmente due missioni. Occuparsi in special modo di coloro che a vario titolo sono vittime di situazione di disagio, di privazione, di sofferenza - di situazioni cioè che richiedono per l’appunto la sua misericordia e/o il suo aiuto e conforto. E in secondo luogo essa dovrebbe rivolgere la sua attenzione nel denunciare e far luce sui grandi mali strutturali del mondo: dalla distruzione della natura all’ingiusta divisione delle risorse, dal commercio delle armi alle grandi migrazioni umane. La vasta popolarità di papa Francesco è dovuta in misura significativa proprio all’immagine che ci si è fatta del suo pontificato come orientato precisamente in queste due direzioni. Le quali, tuttavia, mi pare che lascino in certo senso irrisolto il problema non da poco del ruolo delle Chiese nazionali: un problema che ha un rilievo tutto particolare in Europa. So bene che l’espressione Chiese nazionali - tipica delle Chiese riformate luterane - è dottrinariamente inapplicabile all’universalismo delle Chiese cattoliche pur operanti nei diversi Stati. Ma è anche vero che specie in Europa, le Chiese cattoliche stabilite nei vari Stati nazione, a causa del loro insediamento più che millenario nonché dello spessore e della ricchezza della loro presenza, sono quasi divenute un tutt’uno con le vicende storiche delle rispettive collettività nazionali. Divenendone, si voglia o no, delle protagoniste. E tuttavia, su quale possa o debba essere oggi la loro specifica missione, se esse conservino ancora o no un significato, e quale, si direbbe che l’opinione pubblica cattolica e lo stesso pontificato attuale siano però assai parchi d’indicazioni. Tra il livello planetario dei mali del mondo da un lato, e dall’altro quello dell’"ospedale da campo" per le moltitudini di individui, manca insomma una chiara messa a fuoco del senso specifico da attribuire a quell’ambito, chiamiamolo così intermedio, che invece è in certo senso proprio delle Chiese nazionali. Devono esse ancora mantenere un rapporto con la loro tradizionale identità storica? Hanno ancora un compito specifico? Il problema riguarda soprattutto quei Paesi come l’Italia rimasti fino all’Ottocento di forte tradizione e in stragrande maggioranza cattolici. Nei quali, però, proprio nell’Ottocento si creò un violento antagonismo (non importa qui vederne le ragioni) tra una politica di orientamento liberale forte di uno Stato ultra laico da un lato, e la Chiesa cattolica e per certi aspetti lo stesso cattolicesimo dall’altro. Ne risultò che è stato assai difficile per la Chiesa, attaccata politicamente e forte a sua volta di un ampio sostegno popolare, poter decidere, seppur ne avesse avuto mai voglia, di tenersi lontana dalla politica, di non "fare politica". Il fatto è che "fare politica" può voler dire molte cose. Può voler dire brigare per posti, denari e favori, o invece avere una visione del mondo diversa da quella vigente, organizzare pezzi di società, dare loro voce, proporre soluzioni. E naturalmente, come accade in tutte le faccende umane, capita che vi sia un’area in cui i due ambiti si lambiscono o addirittura si sovrappongono. Il che è di sicuro capitato anche alla Chiesa, al clero e ai cattolici italiani quando hanno "fatto politica": cioè sempre. Dal momento che - in un modo ovviamente ogni volta diverso - hanno fatto politica don Bosco e don Sturzo, don Morosini e i sacerdoti della Brigata Osoppo, hanno "fatto politica" la Fuci di Montini e L’Azione cattolica di Gedda così come la "Comunità di Sant’Egidio" (il cui presidente è stato addirittura ministro della Repubblica) o "Comunione e Liberazione". E per dirne un’altra: c’è per caso qualcuno convinto che nelle elezioni del 1948 la Chiesa avrebbe fatto meglio a non "fare politica"? Senza il suo impegno non solo probabilmente non ci sarebbe stato De Gasperi ma non ci sarebbero state le cooperative, le società di mutuo soccorso, le associazioni sindacali, le lotte per l’emancipazione, che hanno rappresentato una parte non proprio indifferente dell’Italia migliore. Certo, insieme ai detriti che il legno storto dell’umanità produce immancabilmente. Ma alla fine che cosa è più importante? In verità la storia di un Paese è una cosa maledettamente complessa, che si fa e va considerata nei tempi lunghi, evitando soprattutto di restare prigionieri dei propri giudizi e delle proprie passioni dell’oggi o dell’appena ieri. Ovvero, per restare all’argomento, avendo un’opinione o l’altra a seconda che la Chiesa faccia politica come a noi piace o come a noi non piace. A me pare che la storia dell’Italia moderna ci dica che in generale il Paese non ha certo scapitato dall’impegno politico dei cattolici, e sarei davvero sorpreso che non fosse d’accordo proprio il cardinale Gualtiero Bassetti che appena eletto ha indicato come sue figure di riferimento Giorgio La Pira e don Milani, due personalità che fino a prova contraria la politica l’avevano nel sangue. Di quell’impegno dei cattolici l’Italia ha forse ancora oggi bisogno. La domanda allora è: può mai esserci senza la Chiesa o a prescindere da essa? Mi sembra difficile pensarlo. Dietro la "balena blu" si apre l’inferno di Francesco Grignetti La Stampa, 29 maggio 2017 Il fenomeno "Blue Whale" è nato in Russia forse come un’operazione di marketing o di pubblicità occulta. Anche i teenager italiani a rischio. Gli esperti: "Chi è fragile può finire in una spirale che porta a gesti estremi". F57. La polizia postale non usa più l’espressione "Blue Whale", perché troppo gentile e tentatrice. Parla invece di F57, "la lettera e il numero che si chiede di incidere sul dorso della mano come prima prova nel percorso verso questo girone infernale". Nato in Russia come un gioco, o forse era un’operazione furbetta di auto-marketing, o addirittura pubblicità occulta di una casa di lingerie, poco importa. A questo punto, dopo che il fenomeno è esploso anche in Italia, il "Blu Whale", la Balenottera Blu, si è trasformato in un pericolo. In certi casi è diventata addirittura una psicosi di genitori e insegnanti. Ma la polizia postale avverte: "Non è più uno scherzo, perché questa brutta specie di gioco sta incrociando le fragilità di tanti, troppi teenager". Sono circa due mesi che s’indaga su "Blue Whale". In diverse procure sono stati aperti fascicoli. Forse non ci sono ancora indagati, perché non è facile capire esattamente chi è la vittima e chi il carnefice. Ma intercettazioni telematiche sono in atto per venire a capo del rebus. E allora ecco perché Carlo Solimene, direttore della divisione investigativa della Polizia postale che da tempo lavora per la sicurezza del web, dice: "Non è un gioco, ma un comportamento pericolosissimo e contagioso". E se anche non c’è nessuna prova che si sia arrivati fino all’esito estremo di qualche suicidio indotto, c’è abbastanza materia per allarmarsi. Prima avvertenza, di app come "Blue Whale" ce ne sono più di una. Hanno in comune un percorso di follia, di prove estreme, e di ricerca di protagonismo, che attira soprattutto i giovanissimi, nativi digitali. Sta diventando, insomma, una stupida moda. Seconda avvertenza, il gioco crea dei ruoli interscambiabili tra i "tutor" e i "giocatori". Come in tutti i giochi di ruolo, però, c’è chi si appassiona oltremodo, scambiando la realtà con il virtuale, e alla fine non importa più perché ci si comporta in un dato modo: il grave è che i comportamenti sono terribilmente concreti. "A fare impressione - dice a sua volta Geo Ceccaroli, Direttore del compartimento Polizia Postale dell’Emilia Romagna- sono quelli che sul web incitano i ragazzi a procedere nelle prove e li invitano a mettere in atto atti di autolesionismo". Anche in Piemonte si indaga. Paola Capozzi è la dirigente regionale della polizia postale ed è alle prese con diversi casi delicatissimi. "Alle famiglie - spiega - diciamo di stare vicini ai propri ragazzi. Non devono sottovalutare i segnali di allarme, come l’improvviso rinchiudersi nello smartphone o nel pc, ma anche i piccoli episodi di autolesionismo. Sta a loro, prima di tutti, di far capire che il disagio non si risolve nella Rete". Da quando s’è preso a parlare di "Blue Whale", però, la polizia postale si trova a dover fronteggiare un esercito di investigatori fai-da-te, di pseudogiornalisti, di genitori angosciati che creano più confusione che altro. E dato che il lavoro degli investigatori è di scandagliare i siti sospetti per capire le dinamiche in atto, è evidente che tutta questa folla di falsi bersagli non fa altro che far disperdere le energie. Per non parlare della miriade di segnalazioni che poi si rivelano sbagliate. Ormai però il fenomeno esiste, la psicosi anche, e pure - "ed è la cosa più grave, mi creda", dice Paola Capozzi - il suo mito noir. Proprio questo mito sta prendendo piede tra i giovanissimi. Il gioco, infatti, intercetta un disagio adolescenziale diffuso. E qui, tra emulazione e senso della sfida, a metà strada tra la voglia di farsi notare e la necessità di trovare un ascolto purchessia, si moltiplicano i casi di giovanissimi che cercano loro, senza nemmeno qualcuno che li inciti, di partecipare al gioco. Entrare nella app è facilissimo. "Un meccanismo perverso", lo spiega la polizia postale, che sembra fatto apposta per attirare personalità fragili. Problema nel problema, questo tipo di applicazioni attirano non solo le potenziali vittime, ma anche i potenziali carnefici. "Dietro le vesti di tutor può esserci qualsiasi malintenzionato, di cui la Rete è piena". Ecco dunque perché tanto allarme. La frittata ormai è fatta. Il mito è stato creato. La polizia postale ha perfino deciso di non usare più l’espressione "Blue Whale", perché ritenuta troppo gentile e tentatore. Nelle indagini e nelle comunicazioni chiameranno il fenomeno con la sigla F57, "la lettera e il numero che si chiede di incidere sul dorso della mano come prima prova nel percorso verso questo girone infernale". Migranti. Perché i profughi di oggi possono diventare i cittadini del domani di Antonio Mattone Il Mattino, 29 maggio 2017 L’odissea dei 1449 profughi a bordo della nave "Vos Prudence" si è conclusa ieri mattina nel porto di Napoli, dopo aver navigato per 3 giorni in cerca di un approdo, visto che la Sicilia era off-limits per le rigide misure di sicurezza legate allo svolgimento del G7 a Taormina. Tuttavia, le peripezie dei migranti continueranno nelle prossime settimane e nei prossimi mesi per le difficoltà del sistema del nostro sistema di accoglienza ormai saturo, che non riesce a garantire una adeguata collocazione ai tanti disperati che fuggono da guerre, carestie e persecuzioni. Con l’Europa che continua ad essere sostanzialmente indifferente alle richieste di una solidarietà concreta che giungono dal Governo italiano, di fronte alle ondate continue di profughi che arrivano dal mare. D’altra parte, bisogna rendersi conto che gli sbarchi continueranno finché non verranno rimosse le cause che inducono intere popolazioni a compiere questo esodo biblico. Pensiamo ai siriani. In sei anni di guerra hanno visto circa mezzo milione di persone uccise, case, chiese e moschee bombardate, con la città di Aleppo ridotta ad un ammasso di macerie, senza acqua e medicine. Se uno sta in una casa che brucia farà di tutto per scappare, niente lo potrà fermare. Così come i giovani dell’Africa sub-sahariana, una generazione connessa e informatizzata, che cerca di fuggire dalla miseria e da dittatori corrotti e senza scrupoli da cui si sentono rubare il futuro. Con queste prospettive non si può pensare di continuare a gestire l’accoglienza dei profughi con un approccio emergenziale degli interventi. L’eccezionalità dura da parecchi anni e non si vede la luce in fondo al tunnel. In questo modo molte risorse vengono destinate all’emergenza e poche alla vera e propria integrazione. Questo sistema permette uno spreco di soldi e una gestione non sempre virtuosa. Per i numerosi e improvvisi sbarchi vengono utilizzati i Cas, i centri d’accoglienza straordinaria. I gestori di queste strutture si aggiudicano le gare d’appalto con i bandi che prevedono fino a 300 posti per la grande domanda esistente. In effetti gli avvisi parlano di posti a partire da, mentre bisognerebbe mettere un limite più restrittivo al massimo dei posti per ospitare i profughi. Solo i piccoli numeri possono favorire una reale integrazione. In questo modo si è creato tutto un mondo imprenditoriale che fa accoglienza sui Cas. L’emergenzialità permette facilitazioni enormi per quanto riguarda l’iter d’aggiudicazione dell’appalto, tutti si improvvisano gestori e fanno la prima accoglienza, ma mancano tutele e monitoraggi. Solo a Napoli si calcola che esistono oltre 60 alberghi che si sono convertiti all’ospitalità dei profughi, che ricevono la cifra di 35 euro al giorno, ma che non riescono a fornire servizi e un reale accompagnamento. Per uscire da questa empasse andrebbero predisposte misure alternative, basandosi sui principi dello Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati che prevede progetti di accoglienza che favoriscono il percorso di integrazione dei rifugiati e che è considerato il fiore all’occhiello dell’Italia. Lo Sprar potrebbe occuparsi anche di prima accoglienza, ma il problema è che devono essere i sindaci a proporre i progetti al Ministero, e come è stato riportato ieri su "Il Mattino", solo un comune su tre ha scelto di accogliere i migranti sul proprio territorio. Esistono tuttavia modelli virtuosi come quello realizzato nel beneventano, dove alcuni piccoli comuni hanno aderito alla "Rete del Welcome", un progetto coordinato dalla Caritas locale che fornisce servizi e consulenza ai piccoli comuni per realizzare progetti Sprar. Piccole realtà che non hanno personale competente a disposizione e che altrimenti avrebbero subito dalle prefetture le richieste di inserire i migranti nel loro territorio senza sapere come poter realizzare strutture di accoglienza. Un’altra esperienza simile è stata realizzata da alcune amministrazioni dell’alto vicentino che si sono consorziate mettendo insieme le loro potenzialità evitando così sperequazioni nella distribuzione dei profughi e riducendo al minimo le resistenze degli abitanti che vedono così condivisa e non imposta la presenza degli stranieri. In questo modo si viene a creare quel percorso di conoscenza e di fidelizzazione che apre alla possibilità di un inserimento stabile e duraturo in queste comunità. Alcuni di questi paesini sono ormai disabitati, e i pochi abitanti rimasti sono "sentinelle che osservano il nulla" come ha scritto il poeta avellinese Franco Arminio, dove ci sono "più lampioni che cittadini". L’innesto di nuovi residenti potrebbe far rivivere borghi altrimenti destinati a scomparire. Gli immigrati possono essere una grande risorsa per l’Italia nei luoghi dove diminuisce la popolazione. Inoltre lo Stato e le Regioni potrebbero introdurre una forma di premialità per quegli enti locali che accedono al sistema Sprar. Un’altra proposta è quella di regolarizzare e costruire una rete delle famiglie che esprimono la volontà di ospitare i migranti con il coinvolgimento del Tribunale dei minori nel caso si tratti di bambini. Esistono, inoltre, alcune misure predisposte dal ministero del lavoro per offrire tirocini ai migranti. Si tratta di iniziative finanziate dalla comunità europea non molto conosciute, che hanno riguardato circa un migliaio di minori non accompagnati e che finora hanno visto convertire il 20% delle posizioni in contratti a tempo indeterminato. E altre ne sono in programma. Le migrazioni sono un fenomeno strutturale, che richiede nuove politiche e nuovi interventi. Solo così il viaggio di chi cerca un futuro migliore potrà trovare un approdo in una vera integrazione. Migranti. L’accusa di Strasburgo: "ricollocato un solo minore dei 5.000 approdati in Italia" di Goffredo De Marchis La Repubblica, 29 maggio 2017 L’Europarlamento denuncia: trasferito solo l’undici per cento dei richiedenti: "Finlandia e Malta rispettano le regole, gli altri no". Uno è il numero del cinismo europeo. L’Italia ha bisogno di 5000 posti nell’Unione per ricollocare i minori non accompagnati arrivati sulle nostre coste. Ma i paesi europei hanno accolto finora "soltanto un minore non accompagnato", scrive nero su bianco il Parlamento di Strasburgo. Così come il milite ignoto è il simbolo della ferocia della guerra, l’anonimo e unico bambino senza genitori coinvolto nel programma di accoglienza è l’emblema della mancata solidarietà della Ue, della sua disunione e della sua crisi. Uno stavolta non si riferisce al deficit, alle correzioni di bilancio ma alla stitica capacità di condivisione dei nostri partner. È il numero più significativo, un puntino scandaloso nella statistica del fenomeno migratorio e dei richiedenti asilo. L’intero piano di ricollocazione però sta fallendo. E la risoluzione approvata a larghissima maggioranza il 18 maggio dall’Europarlamento mette in chiaro le cifre di questo fallimento. Solo l’11 per cento - Al 27 aprile erano stati ricollocati 17.903 richiedenti asilo: 12.490 dalla Grecia e 5.920 dall’Italia. "Un dato - scrivono i promotori della mozione - che equivale ad appena l’11 per cento degli obblighi assunti". Cioè, 18410 persone su 160 mila previste. Chi fa la propria parte - Il programma di accoglienza solidale naturalmente esclude Italia, Grecia e Germania che fanno già il possibile nella gestione del fenomeno. In quanto paesi di arrivo sono loro a dover essere aiutati nel controllo dei flussi da tutti gli altri. Ma questa solidarietà si limita a pochissimi stati. Soltanto la Finlandia e Malta rispettano gli obblighi. E la sola Finlandia lo fa "sistematicamente" per il capitolo doloroso dei "minori non accompagnati". Chi diserta - Praticamente tutti gli altri. Alcuni più degli altri. Ungheria e Slovacchia rifiutano la ricollocazione e hanno portato la commissione Ue davanti alla Corte europea di giustizia. Austria, Polonia e Repubblica Ceca sono fra i Paesi che fanno di meno. "Ma la maggior parte degli stati membri è ancora molto in ritardo, sebbene si siano registrati alcuni progressi". L’Italia - Il paradosso è che nel 2016 il nostro Paese ha ricollocato più richiedenti asilo di quanti sia riuscita a dirottarne negli altri stati Ue. Lo scorso anno sono arrivati da noi 181.436 persone, il 18 per cento in più rispetto al 2015. Il 14 per cento di loro erano minori. Tra i richiedenti asilo sono stati ammessi gli eritrei e 20.700 sono sbarcati sulle nostre coste. In questo caso, l’Italia è indietro nella loro registrazione, necessaria a inserirli nel programma di solidarietà. Chi fa il furbo - Alcuni Stati membri utilizzano criteri restrittivi e discriminatori nel rifiutare le quote di accoglienza. Ricollocano soltanto le madri sole o escludono richiedenti di alcune nazionalità, ad esempio gli eritrei. Al 7 maggio scorso la Grecia si era vista respingere 961 persone che avevano i requisiti per essere trasferiti altrove. L’obiettivo - Il Consiglio europeo si è impegnato a garantire il traguardo di 160 mila ricollocazioni. Siamo lontanissimi dal risultato. L’Europarlamento invita gli stati a dare la priorità ai minori non accompagnati e ad altri "richiedenti vulnerabili". Si chiede quindi almeno di cancellare dalle statistiche lo scandaloso "1" che riguarda la drammatica situazione dei bambini giunti in Italia. La Grecia sta meglio di noi, almeno in questa classifica. Invece di 5.000 posti, al momento ha bisogno di altri 163 "visti" per il trasferimento di altrettanti minori. Procedure d’infrazione - Strasburgo chiede alla commissione di partire davvero con le sanzioni. Così come scattano per i decimali di sforamento del deficit (la manovra correttiva chiesta da Bruxelles all’Italia è per l’0,2 per cento), la procedura d’infrazione adesso va avviata anche per chi non rispetta il programma sui migranti. "Se i paesi non incrementeranno rapidamente le loro ricollocazioni, i poteri della commissione vanno usati senza esitazione", si legge nella mozione. "Un largo fronte europeista chiede ora a Juncker di battere un colpo", scrive il vicepresidente dell’Europarlamento David Sassoli nel suo blog su Huffpost. Ieri a Ventotene, al festival dell’associazione "La nuova Europa", Laura Boldrini ha detto che "l’Unione avrà un futuro solo senza muri e senza paura". E da Malta il segretario del Pd Matteo Renzi ha invitato il Continente "a non voltarsi dall’altra parte" davanti alla spinta migratoria. Stenti, abusi e torture: in fuga dall’inferno chiamato Libia di Mariagiovanna Capone Il Mattino, 29 maggio 2017 Quando la prua rossa della Prudence inizia le operazioni di ormeggio, sul molo 29 del varco Carmine c’è un silenzio surreale. Appare chiaro a tutti l’emergenza vissuta a bordo di questa nave di 75 metri di lunghezza, che può ospitare massimo 600 persone e invece ne accoglie oltre il doppio. Alla conta finale saranno 1.449 e vengono dalla fascia sub sahariana, Siria e Marocco, stipati uno di fianco all’altro sul ponte, stremati da tre giorni e tre notti di viaggio che dalle acque internazionali a nord delle coste della Libia li ha portati finalmente a toccare terra. Un viaggio che come sempre è carico di dolore e speranza. Per due giovani donne nigeriane il sogno di rifarsi una vita si è infranto nel momento in cui il loro barcone è stato intercettato dall’equipaggio di Medici senza Frontiere. Una 19enne sarà trovata già senza vita sul gommone dei disperati, mentre per una 21enne l’illusione della salvezza dura appena una manciata di minuti. Il tempo diveder salire a bordo della Prudence, sano e salvo, il fratello maggiore, e poi chiudere gli occhi per sempre. "Sono morte presumibilmente per lo schiacciamento" spiega Michele Trainiti, coordinatore delle operazioni di ricerca e soccorso di Msf che racconta le vari fasi dell’operazione. C’è anche una terza vittima, ma il suo corpo è nella sala mortuaria di Lampedusa. "Le sue condizioni erano talmente gravi - prosegue Trainiti che abbiamo ottenuto il permesso di approdare sull’isola sebbene ci fosse il divieto di sbarco per il G7. Ma è morto a pochi chilometri dalla costa". "Il ragazzo deceduto lo hanno scaricato i libici su un barcone in partenza perché per i suoi carnefici non aveva più senso sfruttarlo. Presentava malnutrizione ed era in coma. Ne è uscito per qualche ora, il tempo di parlare degli abusi subiti per otto mesi: torturato ripetutamente per fare da esempio per gli altri, usato per lavori forzati. È la prassi ormai, una parte dei disperati vengono dirottati in questi campi di detenzione per diventare schiavi", racconta Carlotta Berutto, infermiera torinese che da sette anni segue Mdf. I racconti di Michele e Carlotta sono orrore allo stato puro. "Anche altri a bordo presentano segni evidenti di torture. La più frequente è quella che eseguono sulla pianta dei piedi: battono con delle mazze mentre sono appesi a delle corde. Lo fanno lì per non lasciare segni evidenti sul corpo. Nel tempo si creano microfratture, con il detenuto impossibilitato a lavorare, e se non lavori non mangi, ti ammali e muori". La tragedia si tinge di altro dolore quando spiegano che l’altra tortura più comune è la violenza sessuale. "Abbiamo molti casi di violenze su uomini, donne e minori. Violenze perpetrate davanti a figli, genitori, fratelli. Per annientare ancora di più la loro personalità e renderli schiavi". C’è poi chi sul braccio ha delle cicatrici a forma di numeri. "Sono incisi con il coltello, da quel momento diventa il loro nome da schiavo". Poco dopo le 8 iniziano le operazioni di sbarco. I primi a scendere sono gli ammalati. La bandiera gialla issata segnala casi di tubercolosi e di scabbia. Poi tocca alle famiglie. Tra loro alcuni profughi siriani. Un bambino sui 4 anni stringe il bicchiere di latte e il pacco di biscotti che distribuiscono i volontari della Croce Rossa. Poi resta immobile non appena scorge le divise militari. "Non parla per il trauma della guerra". Poco dopo arrivano le 22 donne incinte e le 5 puerpere - c’è con loro anche un fagottino di 8 giorni - che durante il viaggio sono state nel "container dei vulnerabili". Sotto la tettoia della zona di identificazione vengono rifocillate coi pasti che la Prefettura di Napoli, che ha coordinato l’intera operazione, ha chiesto alla Comunità di Sant’Egidio. A prepararli giovani napoletani, migranti e profughi che frequentano la Scuola di Lingua e Cultura Italiana nel Centro storico. Una volta terminate le procedure per 1.000 ricomincia il viaggio. Salgono a bordo dei bus che li porteranno nei centri di accoglienza assegnati. Gli altri resteranno in Campania. Anche l’equipaggio della Prudence riprenderà il suo viaggio per salvare altri disperati. Si riparte a mezzogiorno verso la rotta dell’orrore. Libia. A Tripoli, nella prigione dei migranti. "Figlio mio, non andrai mai a scuola" di Francesco Battistini Corriere della Sera, 29 maggio 2017 Ashraf e sua madre Jamina tra migliaia di migranti disperati. L’Onu si occuperà di loro?. Mamma, mi dai il pallone? "No, Ashraf. Tu devi stare con me". Posso giocare almeno con le guardie? "No, ho paura che ti violentino". Mamma, ma quando andrò a scuola? "Mai". A Jamina la marocchina è rimasto solo Ashraf, 7 anni, e tutta sola se lo tiene tutto il giorno nel buio del capannone delle sudanesi, nel pozzo nero delle sue angosce. I materassi per terra, qualche sporta di plastica, un pallone mezzo sgonfio, mezz’ora d’aria, la puzza densa dei disperati ammassati da mesi. Guai a chi l’avvicina. Jamina non vuole andare in Europa, né tornare in Marocco: dice che vivrà per sempre qui con Ashraf, nel campo-carcere di Sikka, lungo la vecchia ferrovia di Tripoli. Ne ha viste troppe, la sua storia scuote perfino le guardie che ne hanno viste molte: abbandonata incinta da un francese, cacciata dalla famiglia, passata per l’Algeria e la Libia con la speranza d’arrivare in Francia assieme ad Ashraf, prima è finita schiava nel Sahara di Sebha ("un giorno mi hanno stuprato 36 camerunesi") e poi è stata venduta a un bordello dell’Isis a Sirte. Abbandonata - Quando l’hanno arrestata, il figlio sempre con lei, stava completamente nuda in una casa di jihadisti e ha dovuto spiegare il perché. Nessuno ora sa che farne: la famiglia la disconosce, il francese è sparito, il governo marocchino non vuole riavere chi ha frequentato terroristi. "Ma lei non sa nulla del mondo - dice Adel Mustafa, il direttore -, è stata solo sfortunata". In che casella mettiamo questa donna e suo figlio? Rifugiati di guerra? Migranti economici? Gente che poteva starsene a casa sua? Oggi Jamina ha 34 anni, è disturbata e spesso straparla, un giorno si vela e l’altro si spoglia, spesso picchia il bambino per niente. Ashraf sogna di fare il pilota d’aereo, non ha amici e quando incrocia un altro ragazzino, dopo un po’ l’aggredisce e lo morde. "Ci vorrebbe uno psicologo. L’abbiamo chiesto all’agenzia Onu per i profughi, l’Unhcr, ma non hanno mandato nessuno. Noi scoppiamo di gente, da sei mesi non paghiamo le guardie e nemmeno chi ci fornisce i pasti. Chi può occuparsene?". L’Onu - Probabilmente se ne occuperà l’Onu. Il bivio libico è da anni lo stesso - o la barca, o la gabbia - e se non si stoppano i barconi, si possono almeno migliorare le prigioni. Il premier Fayez Al Serraj l’ha anticipato, l’Onu l’ha in parte confermato: la Libia non ha mai firmato la Convenzione internazionale del 1951 sui profughi e a Tripoli non c’è un Parlamento che la possa ratificare, ma così non si può più andare avanti. D’ora in poi sarà l’Unhcr a gestire almeno i centri d’accoglienza governativi (poi ce n’è una trentina in mano alle milizie: per quelli si vedrà). Perché l’Europa ha investito 400 milioni e metà li ha dati l’Italia: 12 alla Tunisia, 50 al Niger, 138 ai libici. Per pattugliare il mare, presidiare i confini del Sud, migliorare le prigioni. I soldi al momento arrivano come arrivano: "Delle prime quattro motovedette libiche riparate e riconsegnate dagli italiani - protesta il colonnello guardacoste Ayoub Abulgasem, una è la 654-Sabratha e s’è già rotta quattro volte. È un arnese vecchio di vent’anni, del tempo di Gheddafi. Credo che il governo italiano potesse fare meglio". La polemica con le Ong - La Guardia costiera libica ha più uomini che mezzi, è duramente criticata dalle Ong per gli attacchi alle navi umanitarie, è stata addestrata sulle navi italiane e ancora non è ben chiaro che ruolo avrà: il porto per ora è in gran parte controllato dalle Forze speciali marittime vicine a Misurata, 153 miliziani che per salvare i migranti usano anche i vecchi yacht di Gheddafi, però sono i guardacoste a ricevere con tutti gli onori gli aiuti europei. "Negli ultimi anni il traffico in mare è molto cambiato - dice il colonnello Abulgasem - e per la verità ci servirebbero mezzi più moderni. Che cosa facciamo? Siamo stati noi a segnalare per primi lo scandalo di qualche Ong tedesca che faceva un lavoro poco chiaro. A chiedere che i volontari levassero le loro navi dalle nostre acque e andassero, piuttosto, a fare prevenzione ai confini meridionali, da dove arrivano gli immigrati. Vorrei lavorare coi giudici di Catania che indagano su questa cosa, ma non mi ha mai contattato nessuno". La polemica con le Ong è rimbalzata anche qui: "Ho lavorato fino al dicembre 2015 con Msf - racconta Ahmed L., 40 anni, oggi nelle telecomunicazioni -. È una grande organizzazione, aveva qui 65 impiegati, il lavoro era trasparente e pulito. Però anch’io preparavo le barche, i kit di salvataggio, le mappe di soccorso e ogni tanto me lo chiedevo: ma non è che in questo modo rendiamo più facile il lavoro dei trafficanti?". I migranti da sistemare - L’urgenza è altra, però. Ed è di questa che l’Onu dovrà occuparsi. Sistemare 300mila persone, forse tre volte di più, che vagano sfollate per la Libia. Trentamila donne simili a Jamina, 20mila bambini spesso orfani totali, la metà stuprata o malmenata: quando va bene, tutti sbarrati come bestiame in questi hangar senza luce e senz’acqua; quando va male, schiavi nelle migliaia di case gestite dai trafficanti. Ad Abusalim, cemento rovente e un’ora d’aria al giorno, "i pochi poliziotti che abbiamo non ricevono la paga da sei mesi, arrotondano con altri lavori e a volte sono violenti", riconosce il direttore Ramadan Rais. Gli sbirri sono tutti e solo uomini, anche nelle sezioni femminili: "Siamo abituati a considerare gli immigrati come nemici - spiega. È così dall’era Gheddafi, non si cambia in poco tempo. Questi centri sono infernali, è vero, poco umani. Gli africani stanno chiusi dentro per mesi, senza documenti. C’è la tentazione d’aprire i cancelli e far uscire tutti. Ma la soluzione quale sarebbe? L’Unhcr? Vi ricordate gli affari che faceva il figlio di Kofi Annan in Iraq? Quand’era qui, l’Onu aveva funzionari locali che giocavano sul cambio, spendevano 10mila dollari e ne fatturavano 50mila. Facevano la cresta sul cibo. E anche Serraj può dire quel che vuole: non ha mai messo piede in una prigione, è mai venuto a vedere come si vive qui dentro". I centri libici - I centri libici sono discariche umane che nessuno vuole smaltire, differenziare, riciclare. Scabbia, epatiti, Aids. Ci trovi uno come il nigerino Yusuf Ignace, che salta sulla nostra auto e ci chiede di farlo scappare: non è un profugo, per un anno ha fatto il cameriere a Tripoli, senza paga, e alla fine il padrone libico l’ha accompagnato e consegnato qui ("è un clandestino!"). O il vecchio Fred, 68 anni, nigeriano, che piange ogni giorno: "Sono venuto in Libia solo per cercare mio figlio. È sparito mentre voleva venire in Italia, non so se è vivo. Sto qui dentro ad aspettarlo, pur di trovarlo e tornare a casa con lui". C’è Abdurrahman Baldé, 15 anni, partito dalla Guinea solo per dimostrare a una squadra di calcio italiana come sa giocare. O un ingegnere senegalese che si è venduto la vacca, la casa, la moto e da febbraio marcisce al buio d’un magazzino che può tenere 500 persone e ne stipa il doppio, i materassi da dividere in tre: "Chiamate la mia ambasciata, dite che dell’Italia non me ne frega più niente, io voglio tornare in Senegal". L’ingrigito Mohammed Alamin Salah, classe 1963, oppositore armato nel Fronte di liberazione del Ciad, rinchiuso da cinque anni: "Non posso rientrare in patria, altrimenti mi ammazzano". Una bambina di 3 anni è sola, senza documenti, forse ivoriana o forse del Benin. Avevano programmato di farla nascere dopo la traversata in gommone, "perché qui sanno tutti che nascere in un Paese Schengen dà diritto all’asilo - spiegano. Ma non ha funzionato, è nata in Libia, i genitori chissà dove sono finiti". Era una bambina lasciapassare, "come tante figlie di donne che vengono violentate apposta per poter essere imbarcate sul gommone", ma adesso non serve più a nulla. Le danno il latte in polvere per neonati, che le guardie si fanno regalare da una farmacia vicina: a tre anni, non ha diritto nemmeno a un pasto. Siria. Il citizen journalist che sfida l’Isis: "il Web è libertà" di Giordano Stabile La Stampa, 29 maggio 2017 Alhamza, leader degli attivisti a Raqqa, racconterà la sua battaglia al Wired Next Fest di Milano. Abdalaziz Alhamza sa che per la sua città, Raqqa, l’ultima parte del viaggio verso la libertà è la più difficile. "I miei concittadini sono nella peggiore situazione di sempre. La morte arriva da terra, per mano dei terroristi dell’Isis, e dal cielo, con raid sempre più frequenti, meno accurati, che fanno tantissime vittime civili". Alhamza non vuole che Raqqa sia chiamata la "capitale dello Stato islamico". L’Isis non è stato accolto da liberatore a Raqqa, come in altre città della Siria o dell’Iraq: "Siamo quelli che abbiamo resistito di più - racconta - e abbiamo pagato un prezzo molto alto". Esule a Berlino - Abdalaziz Alhamza, 26 anni, biochimico, è leader e portavoce del collettivo "Raqqa viene trucidata in silenzio", conosciuto con l’acronimo inglese Rbss. Da due anni vive in Germania, a Berlino. L’Isis ha messo una taglia sulla sua testa, e incitato i lupi solitari in Europa a ucciderlo. Gli islamisti a un certo punto hanno messo online anche il suo indirizzo. "Il Web è uno strumento - spiega - la nostra arma più potente, può essere usato per il bene, per lottare per la libertà, o per il male". Un concetto che sarà ribadito nel suo discorso al Wired Next Fest, questa mattina alle 10 ai Giardini Indro Montanelli di Milano. Smascherare i terroristi - L’Isis certo lo usa per la propaganda assassina, e sfrutta tutte le possibilità tecniche, a cominciare dai messaggi criptati, per diffondere il suo messaggio di morte. Il collettivo di cittadini giornalisti di Raqqa guidato da Alhamza usa il Web per smascherare le atrocità dei terroristi, la loro corruzione, i loro lati ridicoli, anche con vignette e graffiti realizzati sui muri delle case e poi postati in Rete. E soprattutto informare il mondo, con notizie di prima mano, su che cosa è davvero la vita nel Califfato. Le rappresaglie - Un sfida ad altissimo rischio. Alhamza ricorda il momento più duro, quando quattro dei componenti del collettivo, 17 persone in tutto, sono stati traditi da una spia infiltrata dall’Isis all’interno e trucidati. Altri hanno perso amici e famigliari. "Hanno sequestrato il padre e tre amici di uno di loro, e gli hanno detto che gli avrebbero lasciati andare solo se facevano i nomi di tre dei nostri reporter. Hanno rifiutato. I terroristi hanno ucciso il padre. Hanno filmato l’esecuzione e hanno inviato il video al figlio". Trucchi sotto il niqab - Il collettivo Rbss è comunque riuscito a mantenere una squadra all’interno di Raqqa, anche oggi ci sono 10 giornalisti che riescono a far filtrare notizie, nonostante tutti gli Internet Caffè siano stati chiusi, i collegamenti siano quasi impossibili e i controlli dei jihadisti asfissianti. "Abbiamo i nostri trucchi, che ovviamente non posso rendere pubblici". Il collettivo in passato ha sfruttato le collaboratrici donne, che devono girare completamente coperte e non possono essere toccate da un uomo, per far uscire messaggi. Kamikaze e rifugiati - Mano a mano che la pressione dell’Isis cresceva sui reporter a Raqqa, il gruppo ha usato sempre più la Turchia come retrovia, in particolare Gaziantep, dove vivono decine di migliaia di rifugiati siriani. Ma l’Isis è arrivato anche lì. Ha ucciso con un cecchino, in pieno giorno, Naji Jerf, film-maker, "il padre del gruppo", come lo definisce con rimpianto Alhamza. Gli islamisti hanno anche cercato di colpire il quartier generale di Rbss a Gaziantep con un’autobomba kamikaze, intercettata dalle forze di sicurezza turche. L’ultima battaglia - I citizen journalist sono andati avanti lo stesso. Ora la fine del Califfato è vicina, le avanguardie delle Syrian democratic forces, guidate dai curdi alleati degli Usa, sono a 15 chilometri dal centro e possono vedere a occhio nudo i minareti della grande moschea. Ma Alhamza è preoccupato per i 300 mila civili intrappolati in città. "Non c’è acqua potabile, elettricità, mancano i medicinali, c’è il rischio di epidemie. I raid sono sempre più frequenti e meno accurati, fra Siria e Iraq in otto settimane hanno ucciso oltre mille persone. Hanno un impatto molto negativo sulla popolazione". E sono usati nella propaganda dell’Isis per cercare consensi. Potere ai cittadini - L’altro problema è il dopo. La gente di Raqqa teme l’arrivo dei curdi. "Le forze che stanno cercando di liberare la città sono monopolizzate dai guerriglieri dello Ypg. Non credo che siano in grado di gestire il dopo-Isis. Soltanto un governo dei cittadini, dal basso, può farlo, in maniera democratica". Il collettivo di Rbss, nato dalle proteste di massa contro il regime di Bashar al-Assad, è anche un tentativo in questo senso, la volontà di semplici persone di riprendere in mano la propria vita. A partire dall’informazione.