Camere Penali. Nuovo stop per "il divieto di confronto sulla riforma del processo" Il Dubbio, 28 maggio 2017 La delibera: fermi dal 12 al 16 giugno. La giunta dell’unione contro "la misura che estende il processo a distanza" e le norme sulla prescrizione che pregiudicano "la ragionevole durata". "Ancora una volta, anche con il ddl di riforma della legittima difesa e con la introduzione del reato di tortura, disattendendo le indicazioni dell’avvocatura e dell’accademia, si sono operati interventi legislativi sulla spinta di evidenti e pericolose pulsioni populistiche. E nonostante le molteplici adesioni del mondo dell’accademia e le critiche sollevate da diversi esponenti della politica nei confronti della riforma penale, il governo non ha tutt’ora ritenuto di dare alcun segnale di attenzione, impedendo che sul ddl si sviluppi la necessaria discussione sulle molteplici questioni tuttora controverse". Si apre con quest’accusa la delibera con cui due giorni fa l’Unione Camere penali ha proclamato la nuova settimana di astensione dalle udienze, dal 12 al 16 giugno. Continua dunque la battaglia che la giunta presieduta da Beniamino Migliucci conduce contro la riforma del processo, approvata con la fiducia al Senato ma ora al centro di una contesa tutta interna al Pd in vista dell’ultimo passaggio nell’Aula di Montecitorio. L’Ucpi si scaglia, appunto, contro "l’assoluta inammissibilità dell’uso della fiducia ai fini dell’approvazione di un ddl che incide in profondità sull’intero sistema processuale e sui diritti e sulle garanzie dei cittadini". Le garanzie dell’imputato, sostengono i penalisti, "e soprattutto quelle poste a presidio del diritto inviolabile della difesa e della dignità stessa della persona" finirebbero per essere "violate dalla estensione dell’istituto della partecipazione a distanza". Devono, dunque, "essere ribadite - conclude l’Ucpi - tutte le ragioni di protesta e di contrarietà al disegno governativo indicate nelle precedenti delibere". L’Ucpi ha invitato "le Camere penali territoriali a organizzare" nei giorni dell’astensione, "manifestazioni ed eventi dedicati ai temi della riforma e del denunciato contrasto con i principi costituzionali e convenzionali della immediatezza, del contraddittorio, della presunzione di innocenza e della ragionevole durata". Magistrati onorari. Allarme per i tagli: "così la giustizia rischia il collasso" Corriere del Veneto, 28 maggio 2017 Se mancassero i Vpo (i viceprocuratori onorari) bisognerebbe trovare come coprire il ruolo dell’accusa nel 100 per cento delle udienze del giudice di pace e nel 90 per cento del monocratico. Senza giudici di pace non arriverebbero a sentenza il 48 per cento delle cause civili e il 40 per cento dei procedimenti penali. Senza "Got" (cioè i "giudici onorari di tribunale") solo a Venezia nel 2016 ci sarebbero state quasi 5 mila sentenze in meno di volontaria giurisdizione, 2800 di esecuzioni mobiliari e così via. Per questo ieri tutti i vertici degli uffici giudiziari - dal presidente della Corte d’appello Mario Bazzo al procuratore generale Antonino Condorelli, dalla presidente del tribunale di Venezia Manuela Farini al procuratore capo di Treviso Michele Dalla Costa - si sono spesi in difesa dei magistrati onorari, che di fatto reggono il sistema. Il rischio, secondo i togati, è contenuto nel progetto del governo di riportare la magistratura onoraria a uno stato più "hobbistico", con non più di due giorni a settimana, quando oggi molti di loro lo fanno a tempo pieno o quasi. "Ci sono settori come la volontaria giurisdizione, le esecuzioni mobiliari e anche una parte dei ricorsi dei migranti che si reggono sui Got ha spiegato Farini - I giudici di pace? Io dico sempre che, cancellieri compresi, sono un "ufficio di santi" per le condizioni in cui lavorano". I giudici di pace a Venezia sono in 7, ma dovrebbero essere 30, i Got sono 29, i Vpo 14 (su 21). In Veneto sono un totale di 225 (ma dovrebbero essere 80 in più). "Rischiano di saltare metà dei processi penali e civili - ha aggiunto Condorelli - oltre alla vergogna di lavoratori che da anni prestano un ruolo importante senza welfare e certezze, da veri precari". "Il Parlamento mediti attentamente - ha spiegato Bazzo. E la cittadinanza deve sapere il danno che subirebbero gli utenti del servizio giustizia". A spiegare la vita di un magistrato onorario sono stati tre rappresentanti: Fabrizio Pertile (giudice di pace), Daniela Allegrini (Got) e Isabella Dotto (Vpo). "I tribunali saranno ingestibili, se ci impongono di lavorare meno, gran parte dei fascicoli ricadrà sui togati, che già sono in difficoltà", hanno spiegato. In realtà il governo punta ad ampliare la platea dei magistrati onorari. "Ma così si rischia di perdere la professionalità acquisita in tanti anni", replicano loro, che stanno meditando una forma di protesta basata proprio sul modello del governo: lavorare solo due giorni a settimana, per far vedere l’effetto che fa. Giustizia amministrativa. "La priorità è tagliare i tempi, facciamo come in Inghilterra" Corriere Fiorentino, 28 maggio 2017 A leggere le statistiche della Commissione europea (Eu justice scoreboard), per le cause amministrative l’Italia è nella fascia "low" per durata delle decisioni (ci vogliono mille giorni in media per il primo giudizio), ha più cause pendenti di quasi tutti gli altri grandi Paesi in Europa ma sta aggredendo il carico pendente con un tasso di recupero del 300%. Eppure, il confronto europeo sui tempi complessivi (fino al Consiglio di Stato) e sul tasso di "litigiosità" è ancora là da venire. "Non ci sono comparazioni immediatamente disponibili" spiega Edoardo Chiti, professore ordinario di Diritto amministrativo all’Università della Tuscia. Che sullo scontro tra la tutela del diritto del cittadino e il timore di vivere in una "Repubblica del Tar", mette le mani avanti: "È una semplificazione. Quello che dovremmo fare è allargare lo sguardo e riconoscere che ogni ordinamento affronta continuamente il problema dei rapporti tra corti amministrative, istituzioni politiche e amministrazioni. E l’Italia, in questo momento, fatica molto a trovare un punto di equilibrio". Per evitare semplificazioni, il professor Chiti fa due riflessioni. La prima è che "alla tutela giurisdizionale rispetto all’azione amministrativa è sempre sottesa una tensione: l’intervento del giudice è funzionale alla protezione del singolo, dei suoi diritti, in linea con la cultura liberale nella quale il diritto amministrativo si è consolidato nel corso del XIX secolo". Allo stesso tempo la giustizia amministrativa "è anche capace di incidere sullo svolgimento delle politiche pubbliche, perché le sentenze impongono a queste ultime di rimuovere eventuali arbitrii e di correggere la propria rotta. È una tensione insuperabile" presente in ogni "ordinamento contemporaneo". Succede così nei Paesi dove (come in Italia) c’è una "giurisdizione speciale, alternativa rispetto alla giurisdizione ordinaria. La strada della doppia giurisdizione è stata inaugura- ta dalla Francia nell’ultimo quarto del XIX secolo e seguita, seppure con molte varianti, da paesi come Spagna, Germania e Austria. È in questa famiglia che rientra l’Italia". Diversa invece la situazione in Inghilterra e nelle altre nazioni dove vige la common law ma "a partire dalla fine degli anni ‘70 il modello continentale e quello inglese si sono gradualmente avvicinati", anche per l’adesione all’Unione. Chissà che succederà però ora con la Brexit. L’altro nodo è quello dei tempi: come è successo nel caso dei musei, la sentenza del Tar è arrivata a due anni dal bando. "Se la giustizia amministrativa è un servizio pubblico, non vi è dubbio che cittadini, operatori economici, utenti e consumatori abbiano bisogno di pronunce in tempi adeguati - risponde Chiti. Ma in qualche modo la giustizia amministrativa è sempre in ritardo rispetto ai tempi del mercato e della società, come dimostra anche la vicenda dei musei. Ciò che la giustizia amministrativa italiana può e deve fare è fissare degli obiettivi temporali e porre in essere le condizioni per il loro raggiungimento". Non si parte da zero: "I giudizi amministrativi sono definiti in un arco di tempo compreso tra i dodici e i diciotto mesi, in media con l’Europa, su contratti pubblici e sugli atti dell’autorità indipendente". Ma si può fare di più, in questo caso "copiando" dai migliori, come in Inghilterra, dove si è puntato alla "differenziazione della composizione dell’organo giudicante in relazione alla complessità del caso" e al web, con "l’online dispute resolution. L’esperienza degli altri paesi europei offre spunti e idee che varrebbe la pena discutere e valutare". Basandosi su meno leggi, magari, più ponderate. Il braccialetto anti-stalking non va: dal 2013 è stato utilizzato una volta di Giusi Fasano Corriere della Sera, 28 maggio 2017 Può essere applicato solo se la vittima delle molestie è d’accordo e non è risolutivo. Il Viminale ne ha 2.000, ma solo 20 adatti a questo tipo di reati. E usati in altri contesti. In teoria potrebbero essere la salvezza di molte donne. Nella pratica sono strumenti che la Giustizia ha previsto ma che poi ha lasciato in un cassetto. Inspiegabilmente inutilizzati. Parliamo dei dispositivi conosciuti come braccialetti elettronici antistalking. Una definizione sbagliata, se si riferisce a uno stalker monitorato nei suoi spostamenti dalle forze dell’ordine. Perché in realtà il braccialetto (che poi è una cavigliera) può essere applicato a una persona in libertà soltanto se il giudice lo allontana dalla casa familiare e solo se l’allontanamento è la conseguenza di reati aggravati o per i quali si procede d’ufficio (per esempio minacce o lesioni). Per il più grave stalking, invece, non è previsto il braccialetto da applicare in stato di libertà, anche perché il reato prevede la misura del carcere, che lo renderebbe ovviamente inutile, oppure quella dei domiciliari e in quel caso l’ipotetico braccialetto (che può essere sì applicato) serve a controllare che l’accusato non evada, non a seguirne i movimenti. Fatta questa distinzione, però, va anche detto che gli stalker spesso perseguitano le loro vittime proprio attraverso lesioni e minacce, quindi due dei reati minori per i quali - se contestati - è possibile utilizzare i braccialetti. L’intento della norma (come spiega la deputata pd che ne è stata promotrice, Alessia Morani) è "proteggere la donna quando i reati non sono ancora così gravi da prevedere l’arresto" e farlo "con un strumento che possa allertare anche lei". La cabina di regia - A questo punto la domanda è: quante volte è stata applicata quella norma? Risposta: una. Un solo caso a partire dal 2013. Risale ad allora l’emendamento al decreto "in materia di sicurezza e contrasto alla violenza di genere" che ha previsto, appunto, l’utilizzo del braccialetto per chi fosse sottoposto ad allontanamento da casa e per i reati che dicevamo. Il motivo di un insuccesso così palese è sconosciuto. Se lo sono chiesti anche i partecipanti alla cabina di regia del Dipartimento delle pari Opportunità che si sta interessando all’argomento. Forse il fallimento è da cercare nel fatto che per un giudice conta prendersi la responsabilità di una decisione fino in fondo. E allora: se decide che un uomo va allontanato da casa ma non è così pericoloso da mettere a rischio la famiglia o la donna non ha motivo di applicare anche una misura di controllo come il braccialetto. Se invece lo ritiene pericoloso allora dispone misure più restrittive del monitoraggio a distanza (che tra l’altro ha bisogno del consenso dell’interessato). Il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore dice di aver riflettuto sull’argomento con amici magistrati per i quali "il braccialetto diventa in questo caso un provvedimento a metà strada. Come dire a quella persona: mi fido ma fino a un certo punto". Efficacia discutibile - Ora. Che sia questa o no la ragione del non utilizzo della norma non è chiaro. Né hanno mai espresso posizioni ufficiali i centri antiviolenza, non essendoci dati sull’efficacia del provvedimento. Quel che invece è noto è che dei 2.000 braccialetti elettronici al momento in uso nel nostro Paese, ce ne sono 200 cosiddetti "outdoor", che sono in grado di sorvegliare i movimenti del soggetto anche fuori dalla sua abitazione. E di quei 200 solo il 10% - quindi 20 - hanno la possibilità di connettersi anche alla potenziale vittima. Cioè sono composti di tre pezzi: la cavigliera e due device simili a telefonini, uno per l’accusato e un secondo per la donna. Funziona così: il giudice stabilisce la distanza oltre la quale lui non può avvicinarsi e, se vìola il divieto, si attiva l’allarme sia per la centralina delle forze dell’ordine sia per lei attraverso il suo device. Ma dopo quasi quattro anni nessuno può dire se il sistema è efficace oppure no, semplicemente perché i venti apparecchi che erano parte della fornitura arrivata al ministero dell’Interno, alla fine sono stati utilizzati per il controllo di detenuti che non avevano niente a che fare con l’allontanamento da casa e la violenza di genere. Il decreto svuota-carceri - Per quei detenuti l’accelerata verso il controllo a distanza è arrivata nel 2013 con il decreto svuota carceri. Dopo dieci anni di utilizzo scarsissimo (soltanto 14 pezzi nel decennio 2001-2011 per un costo di oltre dieci milioni l’anno), dal 2013 in poi la scorta dei braccialetti è andata via via diminuendo fino ad esaurirsi e oggi la Telecom - che ha stipulato fino al 2018 la convenzione per i 2000 braccialetti italiani - conta 100 detenuti "in coda" in attesa del dispositivo, mentre si stima che l’apparecchio potrebbe essere indossato da oltre 700 detenuti controllabili a distanza ai domiciliari invece che da tenere in carcere. Il bando del ministero - Di fronte alla richiesta crescente di braccialetti il ministero dell’Interno ha indetto un bando per una nuova gara d’appalto (europea) che prevede stavolta il noleggio, la manutenzione e la gestione operativa tecnologica h 24 di 12 mila braccialetti elettronici. Importo della spesa: quasi 45 milioni di euro. Il servizio è previsto per 31 mesi, la presentazione delle offerte è scaduta (si sarebbero presentate tre aziende fra le quali c’è di nuovo la Telecom) ma la procedura non è ancora chiusa e l’aggiudicazione dovrebbe avvenire entro fine giugno. Da duemila a dodicimila il salto è notevole. Ma siamo sempre a metà della cifra rispetto alla Gran Bretagna che mette in campo 25 mila braccialetti elettronici (ovviamente non solo per reati legati alla violenza di genere). "Qui da noi c’è ancora un problema di conoscenza dell’argomento", lamenta il giudice delle indagini preliminari di Roma Stefano Aprile, autore di un dossier sull’utilizzo dei dispositivi elettronici per il controllo remoto e convinto sostenitore della loro utilità: "Strumento duttile ed efficiente", scrive. Che può diventare "estremo baluardo" a difesa della vittima. Risarcimenti G8 di Genova: pignoramento al ministero dell’Interno che non vuole pagare di Marco Preve La Repubblica, 28 maggio 2017 L’ultima sentenza ha riconosciuto 224 mila euro a un giornalista tedesco pestato alla Diaz e a Bolzaneto. Di fronte alla tortura c’è un’Italia a due velocità. Quella di una classe politica che non è ancora riuscita a varare una legge, e quella in discussione è già stata bocciata da Amnesty e Antigone, e quella delle sentenze. È di queste ore l’ennesima pronuncia di un giudice civile del tribunale di Genova che ha condannato lo Stato italiano a risarcire un giornalista tedesco (all’epoca 28 enne) con 224 mila euro per i danni patrimoniali, psicologici e morali subiti al G8 di Genova. Ma la speranza che l’Italia chiuda con un minimo di dignità i conti con Herman J. è quanto mai labile. Proprio negli scorsi giorni, infatti, l’avvocato del foro di Modena Carlo Malossi ha avviato la procedura di pignoramento dei conti del Ministero dell’Interno presso Bankitalia. Malossi, che assiste anche Herman, aveva ottenuto un’analoga sentenza di risarcimento nel settembre scorso quando un altro giudice genovese, Paola Luisa Bozzo, aveva concesso 175 mila euro di risarcimento a Tanja W. all’epoca 22enne, che subì "condotte di vera e propria tortura" nonché la "lesione di diritti della persona a protezione costituzionale che non sono oggetto di tutela della norma penale sanzionatrice in questione". Da allora i ministri Angelino Alfano e il suo successore Marco Minniti hanno rifiutato di pagare il conto in attesa che si pronuncino i giudici dell’appello. Una scelta che viene applicata in casi dubbi ma che dal punto di vista morale, oltreché giuridico, nelle vicende Diaz e Bolzaneto appare quanto meno azzardata oltreché diplomaticamente sconsiderata se si pensa che, presto, sui fatti di Bolzaneto si pronuncerà la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo che già per la Diaz condannò l’Italia per l’assenza di una legge contro la tortura. Legge che ancora manca e che è addirittura accompagnata da scelte politiche che sembrano voler negare le avvenute torture. L’avvocato Malossi ha avviato la procedura di pignoramento alla quale ha fatto opposizione il Ministero e che sarà discussa il 27 giugno in tribunale a Genova. In questo quadro sconcertante trova posto un’altra meschinità burocratico ministeriale. L’ormai ultradecennale sentenza penale di primo grado per il lager di Bolzaneto fissò delle provvisionali per le oltre duecento vittime di violenze, abusi, umiliazioni. Nonostante siano passati 16 anni dai fatti Herman J. Aspetta ancora la metà della cifra - 10 mila euro - che gli venne riconosciuta dal giudice come anticipo del risarcimento civilistico. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, come tutti i suoi predecessori, non ha ancora voluto saldare il debito di cinque mila euro con il giornalista tedesco così come con molte altre parti civili. Quanto alla sentenza, il giudice Lorenzo Fabris ha riconosciuto danni patrimoniali e morali a Herman J. il quale, per il consulente medico legale, ha riportato un’invalidità permanente del 12%. Il giornalista si trovò coinvolto, si legge in sentenza in " una massiccia e sistematica violazione dei diritti umani… venne colpito con manganellate e numerosi calci alle mani, alla testa, al torace (con trauma cranico, ferita lacero contusa in regione frontale, danno all’apparato uditivo destro reversibile, contusioni multiple al torace, vasto ematoma alla spalla destra e braccio destro, al braccio sinistro, alla coscia sinistra, al ginocchio destro, al gluteo laterale… percosso e ingiuriato con sgambetti e sputi da due ali di agenti mentre transitava nel corridoio ed, ancora, trovarsi vittima di soprusi, in sede di visita medica". Il giovane tedesco "fu anche costretto ad esibire senza alcun motivo il pene" e dovette "rispondere mentre era nudo, con conseguente disagio, a domande sulla vita sentimentale e sessuale senza ragione alcuna, con relativa umiliazione, il tutto, deve essere sottolineato, in una condizione di privazione della libertà ed in un clima di indiscriminata violenza collettiva". Cremona: morto il detenuto che si era impiccato, doveva tornare in libertà a dicembre La Provincia di Cremona, 28 maggio 2017 È morto, ieri pomeriggio all’ospedale Maggiore, il detenuto, un tunisino di 35 anni, che si era impiccato in carcere. Il fatto è accaduto alle quattro del mattino di giovedì. L’uomo, dietro le sbarre per furto, era arrivato sabato a Ca’ del Ferro da San Vittore. È salito sul calorifero della cella che condivideva con un altro recluso e ha infilato le stringhe delle scarpe nel passante del blocca finestra. Avrebbe dovuto tornare in libertà il prossimo 31 dicembre. "L’insano gesto - ha commentato Alfonso Greco, segretario lombardo del Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria - non era stato consumato in carcere per il tempestivo intervento del collega in servizio, subito entrato in cella dopo aver sentito le grida del detenuto". Ha preso posizione anche il segretario generale del Sappe, Donato Capece. "Ogni nove giorni un detenuto si toglie la vita in cella e ogni 24ore ci sono in media 23 atti di autolesionismo e 3 tentati suicidi sventati dalle donne e dagli uomini del corpo di polizia penitenziaria. Ma non vediamo soluzioni concrete a questa situazione". Napoli: Orlando: "a Nola celle stile Norvegia, la bellezza potrà aiutare i detenuti" di Elena Scarici Corriere del Mezzogiorno, 28 maggio 2017 Il sindaco Biancardi avverte: "Rispettate gli impegni con noi". Se chi esce dal carcere è un po’ meglio di quando ci è entrato, questo è un vantaggio per tutti". Insomma l’orientamento del Ministero è che fino ad oggi il sistema penitenziario con le sue carceri e con le misure di detenzione previste, non sia riuscito a produrre grandi risultati. Anzi su questo punto Orlando è chiarissimo: "Certo non basta un bel carcere per rieducare i detenuti, bisogna che all’interno si facciano cose positive, però un bel carcere è una cosa che può aiutare a costruire un contesto diverso rispetto alle strutture immaginate anni fa con i raggi e che hanno un impianto tipicamente ottocentesco con pochi spazi comuni e dedicati soprattutto alla segregazione. Avere dei luoghi nei quali le persone non passino le giornate sdraiate in una branda è un modo per evitare che il carcere sia semplicemente un periodo di vacanza tra un’attività criminale e l’altra". Tutti d’accordo? Il sindaco di Nola, Geremia Biancardi rivolge un appello al ministro: "affinché non siano traditi i principi ispiratori del progetto iniziale -dice - cioè di un carcere sperimentale di fine pena, mi auguro poi che la struttura possa favorire l’integrazione dei detenuti. Sarebbe una vera opportunità per il territorio, inoltre, se le nostre eccellenze artigianali potessero essere utilizzate all’interno del penitenziario". Il sindaco si è dichiarato disponibile e pronto a collaborare, sottolineando anche che non c’è preoccupazione da parte dei cittadini, purché si rispettino le esigenze del territorio. "Chiediamo di non essere traditi per l’ennesima volta e chiediamo un confronto con il ministro e con le istituzioni locali. Il nostro parere obbligatorio ma non vincolante è stato positivo, speriamo che il ministero ci premi". Infine il ministro, intervenuto ieri all’assemblea della Banca di credito cooperativo di Napoli, ha ricevuto il premio con il melograno, simbolo del credito cooperativo dal presidente Amedeo Manzo. Napoli: Riccardo Polidoro "una maxi struttura a Nola non è l’ideale per un esperimento" di Roberto Russo Corriere del Mezzogiorno, 28 maggio 2017 Riccardo Polidoro, fondatore del "Carcere possibile", è responsabile Osservatorio carcere delle camere penali. Il rischio è che non si riesca a fare davvero un’opera di recupero e reinserimento". E gli altri limiti? "Il carcere di Nola sorgerà in un’area lontana dalla città, senza collegamenti pubblici e mi risulta anche in una zona con problemi idrogeologici. Inoltre, a Boscofangone, c’è il sospetto che in passato siano stati sepolti fusti e rifiuti tossici dalla camorra". Insomma, progetto completamente bocciato? "No, la concezione di un carcere aperto è interessante, ma servirebbe una struttura molto più snella e con non più di 4-500 detenuti, solo così si può fare un’0pera di recupero seria ed efficace". Lei visita molti penitenziari italiani, Poggioreale è il peggiore? "Poggioreale ha grandi problemi con alcuni padiglioni vecchi e cadenti dove ci piove all’interno, ma in tutt’Italia vi sono carceri altrettanto rovinati. A Santa Maria Capua Vetere, ad esempio, da sempre manca l’acqua corrente. In generale la situazione carceraria nel Paese è drammatica". Da dove partire, allora? "Occorre innanzitutto educare i cittadini prima che i detenuti. Bisogna capire che la pena non prevede un aggravio aggiuntivo come tortura perché si è costretti in 6-7 in una cella, le docce sono guaste, i cortili angusti, di estate si crepa dal caldo e, soprattutto, non si fa alcuna attività di tipo lavorativo o corsi di formazione. E c’è un altro paradosso". Quale? "La legge prevede uno sconto di 45 giorni di cella in meno ogni sei mesi a patto che al detenuto sia offerto un programma educativo. Non accade quasi mai, ma i detenuti vengono premiati solo se stanno zitti e buoni, senza far nulla. Chi voglia avere contezza della vita carceraria si prenoti per il 13 giugno quando su nostra richiesta Poggioreale aprirà le sue porte per un giorno". Trani: pulizia della spiaggia e coinvolgimento dei detenuti nella tutela dell’ambientale andriaviva.it, 28 maggio 2017 A Trani firmato un protocollo tra Legambiente e penitenziari di Puglia e Basilicata. In pochi minuti decine i sacchi di immondizia riempiti, ogni genere di rifiuto raccolto in un tratto di costa tutto sommato piccolo se si pensa ai chilometri di costa di tutta la Puglia e dell’Italia intera. Armati di rastrelli e buste, guanti alla mano, questa mattina, i volontari della Legambiente hanno ripulito la spiaggia della Cattedrale di Trani nell’ambito dell’iniziativa nazionale "Spiagge e Fondali Puliti 2017 - Clean up the Med". Alcuni dei litorali da ripulire, quest’anno, sono stati scelti direttamente dai cittadini grazie a un contest social realizzato insieme alla Sammontana. A Trani, la missione era ripulire il litorale Nord della città: in particolare la spiaggia del Castello, da tempo ormai abbandonata al degrado e sporcizia di ogni genere, e Lido Spiaggia Verde. All’iniziativa hanno fattivamente collaborato anche la direzione delle Case circondariali di Trani e della Asl Bat, del Centro di salute mentale Trani-Bisceglie, i centri di Accoglienza Migrantes Liberi, Terre Solidali e Consorzio Matrix, le scuole della città, le associazioni cittadine Hastarci e Il Colore degli anni e la Lega Navale. Presenti anche il vice direttore carcere, Bruna Piarulli; il presidente Legambiente Puglia, Francesco Tarantini; il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per la Puglia e la Basilicata, Carmelo Cantone, e il sindaco Amedeo Bottaro. Ed è proprio tra Legambiente Puglia e il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per la Puglia e la Basilicata che è stato firmato anche un importante protocollo d’intesa sulla sensibilizzazione e coinvolgimento dei detenuti nelle attività di tutela ambientale. "Spiagge e fondali Puliti rappresenta una grande mobilitazione di volontari - ha dichiarato Tarantini -. Con più di 300 eventi in tutta Italia, rappresenta un gesto d’amore nei confronti di quelle spiagge che spesso si trasformano in discarica a cielo aperto. Anche quest’anno abbiamo fatto un monitoraggio del beach litter, ossia un rifiuto spiaggiato, abbandonato in mare in maniera consapevole. La plastica - ha precisato - è quello maggiormente rinvenuto. Le cause sono tre: una cattiva gestione dei rifiuti urbani; poi i rifiuti che provengono anche da attività di pesca e acquacolture; ma anche da una cattiva abitudine dei cittadini di abbandonare nei water rifiuti come coton fioc, blister di medicinali e contenitori di lenti a contatto". I rifiuti dal mare arrivano direttamente sulle nostre tavole. "Questa plastica - ha spiegato - che galleggia in mare, per effetto degli agenti atmosferici, si trasforma in microplastica, vieni ingerita direttamente dai pesci ed entra direttamente nella catena alimentare". Domani appuntamento i volontari si sposteranno al Lido Spiaggia Verde, sempre dalle 9.30 alle 13, per il secondo round. Reggio Calabria: concluso al Panella-Vallauri il progetto "Giovani dentro, giovani fuori" di Ilaria Quattrone strettoweb.com, 28 maggio 2017 Lunedì 29 maggio, alle ore 9.30, presso l’Istituto Tecnico Industriale "Panella - Vallauri", si svolgerà l’evento conclusivo del progetto "Giovani dentro, giovani fuori". Un progetto che ha dato la possibilità a quaranta studenti delle quinte classi di riflettere sui temi della legalità e della cittadinanza attiva con il confronto diretto con alcuni detenuti della Casa Circondariale di Arghillà. Per gli studenti è stata un’occasione per conoscere direttamente la dimensione carceraria, solitamente riportata in maniera distorta da film e tv, e per comprendere profondamente il dramma e le lacerazioni di chi, avendo violato la legge, sconta la propria pena recluso. Gli incontri hanno avuto l’obiettivo di svolgere un’azione di prevenzione della devianza e di sensibilizzare sul tema del recupero e del reintegro nella società di chi si è visto comminare una pena carceraria. L’evento conclusivo sarà introdotto dall’avvocato Patrizia Surace, direttore scientifico del progetto. I risultati del progetto e della ricerca dell’avvocato Surace verranno pubblicati anche sulla rivista scientifica Ratio Sociologica, dell’Università degli Studi Chieti-Pescara. Seguirà la proiezione del documentario realizzato da Sergio Conti, dell’agenzia di comunicazione Iamu.it, che racconterà le testimonianze degli studenti coinvolti. Interverranno Anna Nucera, dirigente scolastica dell’Istituto "Panella-Vallauri", Maria Carmela Longo, direttore della Casa Circondariale, Eduardo Lamberti Castronuovo, editore della rete televisiva RTV, Don Ennio Stamile, referente regionale di Libera e Rosario Tortorella, Provveditore vicario dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria. L’evento sarà coordinato da Domenico Nasone, insegnante di religione e referente dell’associazione Libera. Le conclusioni saranno affidate all’Assessore regionale alla Pubblica Istruzione, Federica Roccisano, che ha sostenuto e patrocinato il progetto, comprendendone da subito il forte valore sociale ed educativo. Napoli: a Secondigliano i detenuti portano in scena "Il Ciclope" di Euripide pupia.tv, 28 maggio 2017 "Un uomo può cadere molte volte, ma non è mai un insuccesso se decide di rialzarsi. Siamo qui per evitare che una persona entri in carcere perché ha commesso un reato ed esca dopo averne subito lui uno". Con questa riflessione il presidente de "La Mansarda", Samuele Ciambriello, ha aperto al carcere di Secondigliano la rappresentazione de il "Ciclope" di Euripide. Questo testo, ironico e divertente, è stato tradotto in dialetto napoletano e ha tutti i connotati della farsa. La vicenda è quella nota dell’accecamento del Ciclope da parte di Ulisse. "Essa vuole rappresentare, utilizzando la metafora della cecità del Ciclope, come ciascuno di noi, nel quotidiano, può essere accecato dalla gelosia, dall’invidia, dall’odio, dalla violenza", così Samuele Ciambriello nel motivare la rappresentazione. A seguire un breve sketch sulla parodia della trama dell’Otello. Erano presenti alla rappresentazione il direttore del carcere di Secondigliano, Liberato Guerriero, la garante dei detenuti Adriana Tocco, il consigliere regionale Gianluca Daniele, la magistrata di sorveglianza Margherita Di Giglio, l’ex presidente del Tribunale di sorveglianza Carmine Antonio Esposito, gli educatori del carcere ed i responsabili della Polizia penitenziaria, insieme ai familiari dei detenuti-artisti che, terminata la rappresentazione, si sono trattenuti con i propri congiunti. Entrambe le rappresentazioni hanno visto coinvolti undici detenuti del reparto Mediterraneo del carcere di Secondigliano, che con sei volontarie, uno scenografo e il regista Mauro Acanfora da sei mesi si sono preparati a questo evento. Il primo giugno lo spettacolo si replicherà nel teatro centrale del carcere per i detenuti dell’alta sicurezza. Migranti. "Ero straniero Days" raccolta di firme per superare la Bossi-Fini di Damiano Aliprandi Il Dubbio , 28 maggio 2017 Si conclude oggi "Ero straniero Days": il primo weekend di raccolta firme straordinaria sulla legge di iniziativa popolare per cambiare le politiche sull’immigrazione e superare la legge Bossi- Fini organizzata dal Comitato promotore della campagna "Ero straniero". Sarà possibile firmare in decine di grandi città e piccoli comuni per arrivare al traguardo delle 50.000 firme da raggiungere in sei mesi per portare la legge all’attenzione del parlamento. "Ero straniero. L’umanità che fa bene" è promossa da Radicali Italiani con Emma Bonino, Fondazione Casa della carità "Angelo Abriani", Acli, Arci, Asgi, Centro Astalli, Cnca, A Buon Diritto, Cild, insieme a loro molte parrocchie, oltre 100 sindaci e il sostegno di Caritas italiana, Migrantes e Comunità di Sant’Egidio. Cresce, quindi, l’opposizione alla proposta di apertura dei nuovi Cpr, i centri per il rimpatrio ideati dal ministro degli Interni Marco Minniti. La legge a firma di Marco Minniti in merito all’immigrazione è composta da quattro punti principali: abolizione del secondo grado per i richiedenti asilo, l’abolizione dell’udienza, l’introduzione del lavoro volontario per i migranti e per ultimo l’allargamento della rete dei centri per il rimpatrio. Quest’ultimi sono i Cpr. Si passerà da quattro a venti centri, uno in ogni regione, per un totale di 1.600 posti. Di fronte alle preoccupazioni espresse da numerose organizzazioni impegnate per la difesa dei diritti umani, il ministro dell’interno Minniti aveva assicurato che i nuovi centri saranno piccoli, con una capienza di cento persone al massimo, sorgeranno lontano dalle città e vicino agli aeroporti e soprattutto saranno "tutt’altra cosa rispetto ai Cie". Per Riccardo Magi, segretario dei Radicali Italiani, "bisogna invece contrastare le cause dell’irregolarità, che la legge Bossi Fini ha prodotto in questi anni chiudendo ogni via di accesso legale all’Italia. Ecco perché bisogna superare questa cattiva legge, come vogliamo fare con la legge di iniziativa popolare". Ma a criticare i nuovi centri sono anche gli operatori sociali. Secondo loro, la nuova legge costringe chi lavora nelle strutture di assistenza a comportarsi come un pubblico ufficiale, minando il rapporto di fiducia con le persone assistite. Il presidente di Antigone Patrizio Gonnella così si era espresso: "Se il problema è aumentare i rimpatri, non potremmo pensare di estendere i programmi di rimpatrio volontario? Se invece questi centri servono a recludere i presunti terroristi in attesa di espulsione allora stiamo sbagliando perché per i presunti terroristi ci sono le carceri". Come già denunciato da Il Dubbio, dopo la comunicazione del Viminale che ha indicato varie strutture delle regioni per trasformarle in centri per il rimpatrio degli immigrati irregolari, sono montate alcune polemiche. In particolare la regione Sardegna - già luogo di diversi istituti penitenziari di alta sicurezza e 41 bis - si era riservata di far pervenire al ministero degli Interni la posizione da promuovere con il coinvolgimento dell’Anci (associazione nazionale dei comuni italiani) e delle amministrazioni locali. Detto, fatto. Il presidente Emiliano Deiana dell’Anci Sardegna, il presidente Andrea Soddu del Consiglio delle Autonomie locali e il sindaco Massimo Zedda della città metropolitana di Cagliari hanno inoltrato al presidente della Regione Francesco Pigliaru e all’assessore Affari generali Filippo Spanu una richiesta ben specifica: no ai migranti nei Cpr e basta a guerre tra poveri Il fallimento del vertice lascia l’Italia sola di fronte alla tragedia dei migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 28 maggio 2017 Per quanto riguarda l’immigrazione l’Italia esce dal G7 di Taormina con la consapevolezza di essere più sola mentre l’Europa vede rafforzarsi le sue divisioni. Al di là delle parole del premier Paolo Gentiloni, che nella conferenza stampa finale del vertice ieri ha risolto la questione come "un punto chiuso da settimane, sul quale non c’è stato dibattito", la realtà è che le aspettative italiane di un maggiore coinvolgimento internazionale nel fronteggiare i flussi provenienti dall’Africa sono andate deluse. Non solo: più del generico impegno a difendere i diritti dei migranti più deboli che appare nel documento finale - impegno spesso utilizzato dai vari vertici, a partire da quelli europei, solo per giustificare nuove azioni di contrasto all’immigrazione - le parole con cui Donald Trump ha ridotto il dramma di chi fugge da guerre e povertà a una pura questione di sicurezza, rivendicando il diritto di ogni Stato a porre limiti all’accoglienza e a difendere i propri confini, non potranno non rafforzare quanti in Europa vanno propagandando da tempo le stesse parole d’ordine, primo fra tutti i Paesi del gruppo Visegrad. La linea americana potrebbe così diventare presto quella europea. Chi rischia di pagare più di ogni altro questo fallimento è proprio l’Italia. Da tempo Roma spinge perché l’Unione europea si assuma maggiori responsabilità nella gestione comune dei migranti che partono dalla Libia. Ci provò a novembre del 2015 con un vertice Ue-Paesi africani a La Valletta e la creazione di un Fondo destinato a finanziare progetti di sviluppo nei paesi di origine e di transito dei migranti. Senza grandi risultati. Chiusa nel frattempo la rotta balcanica grazie all’accordo del 2016 con la Turchia, quella del Mediterraneo centrale è rimasta l’unica strada percorribile per quanti tentano di arrivare in Europa. Per provare ancora una volta a fermarli la Commissione europea a maggio dello scorso anno fece suo il progetto dei migration compact proposto da Matteo Renzi e promise 60 miliardi di euro in investimenti. A febbraio di quest’anno un nuovo vertice di Malta ha sancito la svolta, preferendo ai progetti di sviluppo ( i cui risultati, se ci saranno, si vedranno solo tra anni) la scelta di investire direttamente sulla Libia per fermare i flussi. Peccato che chi dovrebbe farlo, il governo del premier Serraj, si mostra ogni giorno sempre più incapace di controllare il suo territorio. Al punto che adesso, in un ultimo tentativo, il governo Gentiloni ha deciso di avviare una trattare con le tribù del Fezzan che controllano il sud del paese nordafricano e con i governi di Ciad e Niger per convincerli a sigillare le frontiere: soldi e mezzi per fermare i migranti rinchiudendoli in campi allestiti nei pressi dei confini. Non volendo aprire vie legali di ingresso per i migranti, unica soluzione alle continue tragedie del Mediterraneo, Roma e Bruxelles sembrano più che altro affidarsi a una politica fatta di continui annunci ad effetto. Come quello di un accordo con il Mali per i rimpatri dei migranti irregolari, annunciato da Bruxelles alla fine dell’anno scorso e smentito da Bamako a gennaio di quest’anno. I risultati di queste politiche si vedono tutti i giorni nei porti siciliani. E che dopo il vertice di Taormina l’Italia sia quanto meno più sola rispetto al passato, è più di una semplice possibilità. Anche alla luce della riforma del regolamento di Dublino, penalizzante per i paesi di primo arrivo alla quale Bruxelles sta lavorando da tempo. Non a caso a lanciare l’allarme sulle possibili conseguenze di queste politiche è proprio chi - come le Ong - ogni giorno è impegnato nell’evitare nuove tragedie nel Mediterraneo: "Il fallimento del G7 di Taormina - ha denunciato ieri Medici senza frontiere - potrà solo causare più sofferenze, aumentare le morti in mare, perpetuare le terribili condizioni di accoglienza per migranti e rifugiati, nonché giustificare accordi inumani che esternalizzano la gestione delle migrazione a paesi insicuri". Droghe. Fumare cannabis in nome della legge di Roberto Saviano L’Espresso, 28 maggio 2017 Regolarizzare le droghe leggere significa sottrarle al monopolio del traffico mafioso. E anche renderle socialmente accettabili. Mi sono imbattuto in questa riflessione di George Orwell: "La legge di per sé non è protezione. I governi fanno le leggi, ma che vengano o meno messe in pratica dipende dal clima generale del Paese. Se gran parte delle persone è interessata alla libertà di parola, allora ci sarà libertà di parola anche se la legge la proibisce. Se l’opinione pubblica è inerte, le minoranze scomode verranno perseguitate anche se esistono leggi per proteggerle". Che rapporto c’è tra le leggi di un Paese e la direzione che la società in quel Paese prende? Ho sempre immaginato un rapporto osmotico, di reciproco condizionamento. Se non esiste una legge sull’omofobia, per esempio, ma il Paese è in grado di provare empatia e riconoscere l’altro da sé come ricchezza, allora non ci sarà bisogno di alcuna legge. Tutto sta, spesso, a intendersi sul significato originario della parola "diverso". Diverso significa "volto dall’altra parte", chi dunque non accetta le "diversità", mal sopporta chi non è volto verso di sé, chi guarda altrove e capita che ci sia presa in giro, insulto, violenza. Se ci fossero leggi cambierebbe qualcosa? Ecco, su questo rifletto e mi rispondo di sì, probabilmente qualcosa potrebbe cambiare. Penso alle leggi che non ci sono, a quelle che hanno tardato ad arrivare e ci penso perché le leggi, soprattutto quelle più controverse, generano e alimentano dibattito. Penso alla legge sulle unioni civili, alle polemiche sulla stepchild adoption (poi stralciata dal testo), ma penso anche a una legge che regolamenti la legalizzazione della cannabis, e al dibattito pressoché assente nel nostro Paese su questo tema. Una legge auspicata da operatori del diritto, da chi ogni giorno affronta il disagio e combatte la criminalità organizzata. Una legge che, a differenza di quanto superficialmente si potrebbe pensare, non porterà all’aumento del consumo di cannabis ma eliminerebbe quegli ostacoli che oggi ne impediscono un corretto e adeguato uso terapeutico. I consumi non aumenterebbero perché i dati ci dicono chiaramente che, nonostante sia illegale, in Italia fa uso di cannabis chi vuole farne, ovviamente alimentando un mercato che è totalmente gestito dalle organizzazioni criminali. Potrebbero sembrare argomenti distanti, ma mi capita di associare il concetto di diversità alla legalizzazione della cannabis. Sei diverso da me perché fumi cannabis, sei peggiore di me perché fumi cannabis, ho fallito come genitore perché mio figlio fuma cannabis, ho deluso la mia famiglia perché fumo cannabis. E allora c’è il sottoinsieme che comprende chi fuma, quello che stigmatizza chi fuma, quello dei genitori che si sentono falliti e che temono il giudizio della società e quello dei figli che si sentono una delusione e temono il giudizio dei genitori. Cosa accadrebbe, se la cannabis fosse legale, al modo in cui oggi pensiamo al consumo? Al modo in cui siamo obbligati a parlarne dal momento che è un mercato gestito dalle organizzazioni criminali? Una riflessione, non disgiunta da un certo dolore, abbiamo dovuto farla tutti quando lo scorso febbraio si è suicidato il sedicenne di Lavagna trovato in possesso dalla Guardia di Finanza di 10 grammi di hashish. La mia personale riflessione è partita da qui: se il consumo di droghe leggere, nel nostro Paese, fosse stato in quel momento avulso da considerazioni di tipo morale che portano poi anche a giudizi, talvolta inclementi, sul ruolo del genitore che non riesce a impedire e al figlio che delude, forse una scoperta frequente, come quella di un adolescente che fuma spinelli, avrebbe avuto un epilogo diverso. La prima obiezione che io stesso faccio al mio ragionamento è questa: il ragazzo di Lavagna era minorenne e mai e poi mai si potrà legalizzare l’uso di droghe anche leggere per i minorenni. Vero, ma un dibattito serio è d’aiuto anche e soprattutto ai minorenni, è un primo fondamentale passo per creare consapevolezza dei rischi e rendere edotti sulle modalità di assunzione. A un anno dalla scomparsa di Marco Pannella, mi torna alla mente una sua celebre frase, una frase che dovrebbe essere scritta ovunque, nelle scuole, nei tribunali, in ogni casa, su ogni muro. Una frase su cui tutti dovremmo riflettere: "Se tu vuoi vietare l’esercizio di una facoltà umana che per qualsiasi motivo è praticata a livello di massa, tu fallirai e sarai costretto all’illusione autoritaria del potere che colpisce il "colpevole" e lo colpisce a morte". Ungheria. Ong a rischio, pronta una legge per fermarle di Carlo Lania Il Manifesto, 28 maggio 2017 Dopo le università straniere, nel mirino le organizzazioni che tutelano i diritti civili. Amnesty International: "Vogliono costringerci a lasciare il paese". L’Ungheria di Viktor Orban prepara l’ennesimo giro di vite contro le libertà dei suoi cittadini, lanciando allo stesso tempo una nuova sfida all’Unione europea. In parlamento è infatti in discussione il disegno di legge presentato dal partito conservatore Fidesz del premier contro le organizzazioni non governative del paese. Il voto è previsto per il 30 maggio e se verranno approvate le nuove norme limiteranno notevolmente l’attività delle Ong, accusate di fatto dal governo di essere al soldo di forze straniere. Un provvedimento che segue di poco la legge sull’istruzione superiore approvata l’11 aprile scorso, regole più rigide per le università straniere presenti in Ungheria pensate - secondo le opposizioni - per colpire soprattutto la Central European University fondata dal magnate americano di origine ungherese George Soros. Decisioni viste con preoccupazione sempre crescente da Bruxelles, anche perché rappresentano solo l’ultimo colpo alle libertà del paese. Prima di queste, infatti, ci sono stati i provvedimenti restrittivi nei confronti dei richiedenti asilo, gli attacchi alla libertà di stampa, la riscrittura della Costituzione, per citarne solo alcuni. Al punto che il 17 maggio l’europarlamento ha avviato una procedura contro l’Ungheria ritenendo che nel Paese sia in corso "un grave deterioramento dello Stato di diritto, della democrazia e dei diritti fondamentali". La risposta di Budapest non si è fatta attendere: "I politici di Bruxelles e le Ong stanno attaccando l’Ungheria per diverse questioni legate all’immigrazione" ha replicato Gyorgy Bakondi, consigliere alla sicurezza di Orban. La deriva autoritaria e antieuropea imboccata da Orban dopo sette anni di governo sembra ormai inarrestabile, anche se non mancano segni di vita sempre più forti da parte delle opposizioni. Domenica scorsa almeno cinquemila persone hanno manifestato contro la legge sull’istruzione superiore e scandendo slogan a favore dell’Unione europea. Altre diecimila hanno invece sfilato per le strade di Budapest il Primo maggio. Con la bandiera blu dell’Europa dipinta sui visi e tra le mani hanno invaso Piazza degli Eroi, luogo simbolo dell’opposizione ungherese ai tempi del comunismo, chiedendo di mettere fine a un percorso che molti temono possa far precipitare il paese in un nuovo regime. La legge anti-Ong è solo l’ultimo tassello del puzzle autoritario allestito da Orban, che ha preso a modello un analogo provvedimento russo. La versione ungherese prevede che tutte le organizzazioni che ricevono dall’estero più di 7.200.000 fiorini all’anno, circa 23 mila euro, debbano essere iscritte in un registro e classificate come organizzazioni sostenute da paesi stranieri, etichetta che poi deve risultare in tutte le loro pubblicazioni, siti web o riviste. I nomi dei donatori saranno inoltre pubblicati dal governo su un sito. Da quelle che si occupano della tutele dell’ambiente a quelle che curano l’assistenza degli anziani, sono migliaia le Ong attive in Ungheria, ma nel mirino ci sono soprattutto organizzazioni come la Tasz, che si occupa di fornire assistenza legale agli ungheresi che ritengono che i loro diritti non siano rispettati, Amnesty International e il Comitato Helsinki ungherese. Tutte Ong che documentano le continue violazioni dei diritti civili da parte del governo, che a sua volta le considera "agenti prezzolati da George Soros", in cui unico scopo è quello di "influenzare, senza l’autorizzazione degli elettori, la politica, contro il governo nazionale". L’accusa a Soros, visto come un nemico da Orban, non è casuale. Secondo il quotidiano Le Monde nel 2016 l’Open Society Foundations del finanziere americano avrebbe contribuito con 3,4 milioni di euro al sostentamento delle Ong ungheresi. "Orban giustifica la legge con esigenza di trasparenza, ma in Ungheria le Ong sono già trasparenti" spiega Gabor Gyulai, direttore programmi di asilo del Comitato Helsinki ungherese. "Tutte sono obbligate a pubblicare ogni anno l’origine dei finanziamenti che ricevono e come spendono queste risorse. La legge non contribuirà dunque in nessun modo alla trasparenza del settore civile". Il rischio è che per colpire le Ong si finisca con creare un danno alla parte più debole delle società ungherese. "Il settore non governativo - prosegue infatti Gyulai - fornisce servizi che nei paesi democratici sono garantiti dallo Stato: assistenza sociale, legale e umanitaria a persone che si trovano in difficoltà, protezione dell’ambiente, monitoraggio sulla libertà di stampa. I finanziamenti statali sono distribuiti seguendo preferenze politiche e la legge non farà altro che rendere più difficile per le Ong reperire finanziamenti privati, sia da ungheresi che dall’estero". Per il direttore della sezione ungherese di Amnesty International, Aron Demeter, scopo del governo sarebbe uno solo: "Vogliono stigmatizzarci, intimidire i nostri sponsor e costringerci, in ultima analisi, a lasciare il Paese". Anche il Consiglio d’Europa ha chiesto a Orban un ripensamento ritirando la legge. Un invito rimasto però finora inascoltato. Israele cede, successo per lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi di Michele Giorgio Il Manifesto, 28 maggio 2017 Dopo 40 giorni il digiuno è terminato venerdì notte, dopo ore di trattative tra gli scioperanti, le autorità carcerarie e la Croce Rossa. Israele costretto ad accettare alcune delle richieste presentate dal promotore della protesta, il leader incarcerato di Fatah Marwan Barghouti che emerge ancora più popolare e influente. Si festeggiava la "vittoria" ieri in piazza Yasser Arafat a Ramallah dove per 40 giorni, sotto la tenda del "presidio permanente", centinaia di persone, in maggioranza giovani, hanno partecipato a dibattiti e incontri a sostegno dello sciopero della fame cominciato lo scorso 17 aprile da 1500 detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Il digiuno di protesta è terminato nella notte tra venerdì e sabato, all’inizio del mese di Ramadan, con un accordo tra gli scioperanti, le autorità carcerarie israeliane e la Croce Rossa. Caldo e il digiuno per il Ramadan non hanno impedito alla folla di sostenitori, attivisti e familiari dei detenuti, di celebrare, con canti politici e danze tradizionali, quello che i palestinesi descrivono come un successo sull’ostinazione del governo Netanyahu che - a differenza dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno - si era dichiarato contro qualsiasi ipotesi di trattativa con i detenuti che chiedevano migliori condizioni di vita nei penitenziari. E invece quel negoziato escluso per oltre un mese i funzionari del "Servizio delle prigioni israeliane", alla fine hanno dovuto avviarlo, nel carcere di Ashkelon, prima con i rappresentanti degli scioperanti - Ahmad Barghouthi, Nasser Uweis, Ammar Mardi e Nasser Abu Hmeid - e poi con l’ispiratore principale della protesta, con l’anima del digiuno andato avanti per 40 giorni, Marwan Barghouti. Il leader del partito Fatah in Cisgiordania, in carcere del 2002, con il quale sino a quel punto avevano evitato ogni forma di dialogo è stato centrale per sbloccare la trattativa. "Soltanto quando (gli israeliani) hanno coinvolto Marwan è stato possibile arrivare all’intesa che garantirà ai nostri fratelli incarcerati migliori condizioni di vita", spiegava ieri Issa Qaraqe, del Comitato nazionale di sostegno ai detenuti. Sui miglioramenti strappati a Israele, fino a ieri sera regnava l’incertezza. I detenuti hanno ottenuto l’aumento delle visite dei familiari, da una a due volte al mese. Le autorità israeliane si sono impegnate a revocare le restrizioni che limitavano l’accesso alle prigioni ai familiari adulti dei reclusi. Invece non è chiaro se i detenuti godranno davvero dell’installazione di telefoni pubblici nelle prigioni e della possibilità di accedere alla visione di un maggior numero di canali televisivi. Niente da fare per la fine delle detenzioni amministrative, quelle senza processo. Dallo sciopero della fame appena terminato è emerso anche un traguardo personale raggiunto da Marwan Barghouti. Superando l’ostruzionismo di non pochi palestinesi, molti dei quali ai vertici del suo partito, e la non collaborazione del movimento islamico Hamas - impegnato in un nuovo scontro con Fatah e il presidente dell’Anp Abu Mazen - il principale promotore della protesta ha confermato la sua popolarità nelle strade dei Territori occupati, anche se i suoi familiari preferiscono ridimensionare questo aspetto. "Non è la vittoria di mio padre, è la vittoria di tutti i prigionieri e di tutti i palestinesi. La battaglia portata avanti da tanti detenuti, di ogni orientamento politico, ha confermato che i palestinesi otterranno i loro diritti solo quando saranno di nuovo uniti e determinati", ripeteva ieri Qassam Barghouti, il figlio del leader di Fatah, tra militanti e amici che si abbracciavano nella sede del Comitato "Free Marwan Baghouti" a Ramallah. L’esito dello sciopero della fame avrà un impatto anche sui rapporti di potere ai vertici di Fatah dove sono diversi i candidati a prendere il posto dell’82enne presidente dell’Anp Abu Mazen. "Marwan Barghouti era già molto popolare e adesso lo è ancora di più. Il suo prestigio è più forte nella base di Fatah - spiega l’analista Ghassan Khatib - ora è il principale candidato a succedere ad Abu Mazen, gli altri pretendenti si sono tutti indeboliti". Come Barghouti potrà diventare presidente è un interrogativo senza risposta da anni. È in carcere, sconta cinque ergastoli, ed è difficile immaginare che Israele possa scarcerarlo alla luce delle dichiarazioni nettamente contrarie a questa possibilità espresse dal premier Netanyahu e da altri leader politici. "Mai dire mai" avverte Khatib "le condizioni attuali non permettono la liberazione di Barghouti. Le cose però potrebbero cambiare e, comunque, a decidere non sarà solo Israele". Libia. Assalto a Tripoli con assedio al carcere di Saadi Gheddafi di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 28 maggio 2017 La Libia continua a essere "un caos" dove infuriano le milizie jihadiste e dove l’Isis, cacciato da Sirte, ha ancora circa 500 combattenti e sta cercando di riorganizzarsi "nella valli desertiche e tra le colline rocciose a est della capitale Tripoli" con un avamposto, una roccaforte, mentre il tentativo di mettere in piedi un governo di accordo nazionale sponsorizzato dalla comunità internazionale nel 2015 deve ormai considerarsi fallito. Giudizio lapidario, questo, che si trova scritto nero su bianco sull’ultimo numero del settimanale britannico The Economist, all’indomani dell’attentato di Manchester e dell’arresto proprio a Tripoli del fratello minore e del padre dell’attentatore suicida, Salman Abedi, sospettato di aver aderito all’Isis. Non si può dargli frettolosamente torto alla luce dei nuovi sanguinosi scontri - con oltre cinquanta morti, anche civili - che nei due giorni passati hanno visto come teatro proprio il quartiere di Abu Salim a Tripoli che confina con quelle colline rocciose e valli desertiche. Nel quartiere tripolino di Abu Salim gli abitanti ieri si sono svegliati - raccontano i media locali - con i rumori sordi degli obici sparati dai carri armati e dei colpi dei fucili mitragliatori dell’assedio al carcere di massima sicurezza, tristemente noto durante la dittatura, nel quale erano fino a ieri rinchiusi il terzo figlio di Muammar Gheddafi, il "calciatore" Saadi - noto per aver giocato una sola partita, contro la Juventus, di cui per altro era tifoso e socio e per il resto interessato soprattutto a movimenti di calcio-mercato, dal Perugia all’Udinese fino alla Sampdoria - e con lui l’ex capo dei servizi segreti del Colonnello, il famigerato Abdallah Senoussi. I due prigionieri eccellenti, secondo quanto ha dichiarato il ministero della Difesa del governo Serraj, sarebbero stati alla fine tradotti in "un luogo sicuro". Mentre nella guerra per le strade, inclusa l’autostrada in direzione dell’aeroporto, il bilancio di due giorni di combattimenti è stato di 52 morti, in gran parte appartenenti alla brigata fedele al governo Serraj di stanza nel quartiere di Abu Salim, assalita, a quanto pare, dalle milizie dell’ex premier Khalifa Ghwell, spodestato da Serraj e non nuovo a colpi di mano militari - l’ultimo nell’ottobre scorso - e scontri con le milizie fedeli al nuovo governo per mostrare chi ancora controlla davvero la capitale. Dei Gheddafi, dopo anni di silenzio, si è tornato a parlare proprio pochi giorni fa quando sul Times di Londra è apparsa una intervista scritta dal Cairo a Ahmed Gheddafi al Dam, cugino del Colonello, che ha avuto molta eco in Libia. Il cugino Gheddafi sosteneva - facendo seguire una smentita a mezza, ieri - che la vedova del Colonnello e alcuni dei figli che vivono con lei nel dorato esilio in Oman, quindi anche l’unica figlia Aysha - ormai appoggiano il generale ribelle Khalifa Haftar che, appoggiato da Egitto e Russia, si è contrapposto a Serraj proponendosi come il nuovo uomo forte del paese. Haftar è uno dei militari che ha contribuito alla salita al potere del Colonnello Gheddafi nel 1969 e è stato il suo braccio destro fino alla cattura durante la guerra in Ciad, la liberazione ad opera degli americani e il suo esilio negli Usa fino alla rivoluzione del 2011. Adesso il generale della Cirenaica è ancora alle prese con la città ribelle di Derna, dove non riesce da mesi e mesi ad avere ragione dei miliziani legati ad Al Qaeda. Venerdì scorso, primo giorno di Ramadan, l’Egitto ha bombardato Derna dove, secondo quanto a spiegato al telefono il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shukri al Segretario di Stato Usa Rex Tillerson, si nasconderebbero gli autori dalla strage di cristiani copti - 35 morti - nel sud dell’Egitto, il giorno prima. Stati Uniti: i cani cambiano la vita ai detenuti di Petr Svab Epoch Times, 28 maggio 2017 In cinque prigioni della Florida, alcuni detenuti stanno imparando ad addestrare i cani e i risultati sono straordinari. Il programma si chiama Tails e insegna ai detenuti e agli animali il giusto comportamento. I cani sono animali che in genere non vengono adottati ma, in alcune carceri americane, gruppi di detenuti con l’aiuto di un addestratore professionista, insegnano i corretti comportamenti ai cani: dopo otto-dodici settimane questi animali subiscono un’incredibile trasformazione. L’ufficiale Lisa Irre, coordinatrice dell’Ufficio dello Sceriffo K9 di Jacksonville, in un video sul sito del programma Tails ha dichiarato: "Quando i cani entrano nelle carceri sono difficili da gestire, sono in cattive condizioni di salute e sembrano stare male, ma alla fine delle otto settimane sono completamente diversi"; lo scorso anno sono entrati nel programma duecento tre cani e alla fine del corso duecento due hanno trovato una nuova casa. I cambiamenti però non si riscontrano solo negli animali, anche le persone che partecipano a questo progetto traggono benefici, dice Irre: "Molti ragazzi quando entrano nelle prigioni sono duri e rozzi, e i cani li aiutano a far uscire il loro lato buono". Il programma non insegna ai detenuti soltanto come addestrare i cani, ma si riflette anche nei rapporti che si creano in alcune attività cruciali della vita quotidiana, come avere pazienza, agire in modo responsabile e collaborare bene con gli altri, infatti ogni cane ha due addestratori/detenuti che devono lavorare insieme. Nuova opportunità - Deane pensa che tra i motivi per cui i cani aiutino tanto i prigionieri, c’è il fatto che i ragazzi non si sentono giudicati da loro. Sia i cani che i detenuti, attraverso il programma, stanno vivendo una seconda opportunità, per questo Irre cerca di non guardare la documentazione sui crimini commessi dai partecipanti e dice: "Non voglio sapere, voglio vederli per come sono ora". E molti sono cambiati drasticamente, uno di loro ha inviato questa lettera dove descrive cosa l’ha colpito: "Sono venuto in questo posto pieno di odio e di risentimento. Ho perso tutti e tutto quello che non ho mai avuto. Molte volte. Perché, Signore, sono qui? E poi mi ha mostrato queste meravigliose creature. Tutto da solo, bloccato per il solo crimine di essere nato in un mondo che non mi vuole. Eppure sono qui, mi hanno mostrato l’amore incondizionato che mi restituisce il mio cuore. Spero di aiutare questi cani fino a quando Dio lo permetterà".