Scontare la pena con misure alternative riduce il numero dei recidivi di Marta Rizzo La Repubblica, 27 maggio 2017 Solo il 19% dei condannati in esecuzione penale esterna commette nuovi reati, una volta estinta la pena, a fronte del 70% dei detenuti. Parlano Lucia Castellano, Dirigente Generale dell’Esecuzione Penale Esterna del Ministero della Giustizia, e Stefano Anastasia, Garante dei Diritti dei Detenuti di Lazio e Umbria. Lucia Castellano, dirigente generale per l’Esecuzione Penale Esterna (EPE) spiega la necessità di superare il solo aspetto retributivo della pena, per fare in modo che chi commette reato possa scontare la detenzione non in prigione, ma nella comunità, perché la condanna sia davvero un’occasione di recupero e non semplicemente punitiva. Stefano Anastasia, chiarisce che difendere la dignità di chi delinque è una forma di inclusione ed evoluzione sociale indispensabile. Dettagli sull’EPE. L’Esecuzione Penale Esterna (cioè misure alternative al carcere e sanzioni di comunità, applicabili, grazie alla nuova legge sulla "messa alla prova", anche prima della sentenza di condanna), fino a 2 anni fa faceva parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). Dal 2015 è passata al Dipartimento della Giustizia Minorile, che ha assunto la dicitura di Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità. Questa contaminazione con il settore minorile ha lo scopo di valorizzare la pena scontata sul territorio, rispetto all’internamento carcerario, come avviene per i giovani: a fronte di poche centinaia di ragazzi reclusi, molti sono i giovani autori di reato affidati a servizi sociali ed esecuzione esterna. L’Esecuzione Esterna non vuol dire depenalizzazione. Piuttosto che ignorare e rimuovere la vita di chi commette reato, relegandola in un luogo di reclusione ostico come il carcere, la collettività deve imparare a gestire quella parte di sé oscura, rappresentata da chi vìola le regole del patto sociale. "La sfida di quest’ufficio - dice Lucia Castellano - è quella di aumentare il numero di misure alternative e di sanzioni di comunità, in modo che siano la prima delle risposte punitive, lasciando il carcere come extrema ratio. In questo, l’aver spostato il settore delle misure alternative dal DAP al Dipartimento della Giustizia minorile è stato un passo fondamentale. Il fine ultimo di quest’Ufficio è fare in modo che la pena alternativa abbia un contenuto sanzionatorio reale, da scontare nel contesto sociale, senza scambiarlo per depenalizzazione". Coinvolte diverse intelligenze. L’esecuzione esterna è una priorità. Lucia Castellano gestisce i 72 uffici di Esecuzione Penale Esterna d’Italia, suddivisi in 11 interdistrettuali, 18 distrettuali e 43 locali. "Il Ministro Orlando - continua Lucia Castellano - ha voluto fortemente gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale interna ed esterna, che hanno coinvolto tutte le intelligenze del Paese, da professori universitari, ad architetti, sociologi, giuristi, allo scopo di elaborare un documento di reimpostazione dell’organizzazione della pena. Dai 18 tavoli di lavoro che hanno prodotto il documento è emersa con chiarezza la priorità dell’esecuzione esterna rispetto a quella carceraria". La "messa alla prova". Il punto centrale del ragionamento sull’Esecuzione Penale è la consapevolezza che si costruisce sicurezza sociale soltanto attraverso un sistema sanzionatorio, che consente all’autore di un reato di restare all’interno del contesto sociale. In Italia, esiste un’esecuzione penale interna, carceraria, e un’esecuzione penale esterna (divisa in "misure alternative alla detenzione", per i condannati già sottoposti all’esito del processo e "messa alla prova", per gli imputati). Vivono recluse 56.436 persone, che in carcere attendono la sentenza o scontano una pena di tipo retributivo, in sistemi obsoleti e sostanzialmente vendicativi, che conducono ad un alto tasso di recidiva: "La prigione - scriveva Michel Foucault in Sorvegliare e punire (1975) - è il solo luogo in cui il Potere può manifestarsi allo stato bruto, nella sua dimensione più eccessiva e giustificarsi, fuori, come Potere Morale". La pena riparativa in Italia. Sono, invece, 45.456 le persone che scontano una pena all’esterno del carcere. Di questi, 9.782 sono "messi alla prova" (imputati per reati non superiori ai 4 anni, esercitano lavori di pubblica utilità al posto della condanna. Se la prova va a buon fine non si celebra il processo e il reato si estingue, facendo così risparmiare tempo e costi del processo e della detenzione). Vi sono, poi, 6.517 persone condannate al lavoro di pubblica utilità per violazione del codice della strada e 415 condannati al lavoro di pubblica utilità per violazione della legge sugli stupefacenti. Le misure alternative alla reclusione sono: 1) L’ affidamento in prova al servizio sociale che coinvolge 13.651 condannati, i quali vengono affidati agli Uffici di Esecuzione Penale Esterna che li prendono in carico e organizzano per loro un programma di recupero e reinserimento sociale; 2) Detenzione domiciliare, che coinvolge 10.324 condannati; 3) Semilibertà, per 814 persone che lavorano fuori, ma dormono in carcere. Un dato molto interessante è quello relativo alle revoche delle misure alternative per commissione di nuovi reati, che raggiunge solo lo 0,74%, rispetto al totale. Far lavorare il condannato nel territorio. "Ogni parte d’Italia, ogni distretto, ha una propria vocazione: turistica, industriale, agricola. L’obiettivo degli uffici sul territorio è quello di trovare risorse, per impiegare chi commette reato in quelle che sono le peculiarità del luogo in cui viene punito - conclude Lucia Castellano - Prendiamo contatti con altri Ministeri, con enti di volontariato, con chi si occupa della cura del territorio, affinché gli autori di reato possano riparare alla violazione del patto sociale rendendosi utili alla collettività: un concetto di pena riparativo, dunque, che ricucia lo strappo che il singolo ha causato alla collettività". L’Esecuzione Penale Esterna garantisce inclusione sociale. "Quarant’anni di esperienza e i recenti sviluppi della esecuzione penale esterna - dice Stefano Anastasia, Garante dei Detenuti di Lazio e Umbria e coautore del libro Abolire il carcere, con Luigi Manconi - ci dicono che l’alternativa al carcere c’è, è possibile e utile praticarla. L’esecuzione penale esterna garantisce più sicurezza e più inclusione sociale, tanto ai condannati quanto alla società. Certo richiede coraggio, condivisione e investimenti: il coraggio di resistere alla sirena populista del carcere; la condivisione delle azioni per il reinserimento con le altre amministrazioni statali, territoriali e del privato sociale; l’investimento nelle strutture pubbliche che se ne occupano". La "detenzione sociale". "In carcere non ci sono più di 10.000 persone che, per titolo di reato o per affiliazione criminale, possano essere qualificate pericolose. Le altre 40.000 appartengono a quella che Sandro Margara, grande giudice di sorveglianza e capo dell’amministrazione penitenziaria, chiamava "detenzione sociale": persone che sono in carcere perché prive di mezzi per starne fuori. Il potenziamento dell’esecuzione penale esterna serve anche a evitare che i più bisognosi siano costretti in carcere come in un grande ospizio dei poveri. Il primo grande obiettivo di una giustizia penale riformata dovrebbe essere quello, quindi, di fare dell’esecuzione penale esterna non un privilegio o un beneficio, come ancora si dice del linguaggio carcerario, ma la modalità ordinaria di esecuzione delle pene". I penalisti tra separazione carriere e intercettazioni di Barbara Alessandrini L’Opinione, 27 maggio 2017 Prosegue la raccolta firme organizzata dall’Unione Camere Penali per la separazione delle carriere. Più di ventimila firme raccolte finora, una cifra di tutto rispetto considerato che il traguardo dell’impegno per il quesito è iniziato una manciata di mesi e punta alla raccolta delle cinquantamila firme attraverso una serie di iniziative programmate in maniera articolata sul territorio nazionale ma senza la copertura e l’appoggio di alcun partito politico. A Roma gli avvocati penalisti hanno programmato un’altra raccolta firme a piazza Cola di Rienzo dalle 16 alle 20 di oggi per sottoscrivere la proposta di legge. E sono proprio le cifre della campagna per la riforma che mira a stabilire l’indipendenza del giudice dal pubblico ministero da cui passa una maggior serenità di giudizio e il miglioramento della giustizia e della giurisdizione, ad iniziare ad incrinare i timori che l’iniziativa possa ridursi ad una battaglia identitaria che sul tema possa pregiudicare una più incisiva futura battaglie politica. Inevitabile che la battaglia si saldi alla serie di astensioni dalle udienze con cui i penalisti da mesi manifestano contro il ddl di riforma del processo penale per via della sua natura incoerente e lesiva delle fondamentali garanzie costituzionali del giusto processo e dei principi di civiltà giuridica che dovrebbero esser ben saldi all’interno di qualsiasi procedimento penale. Si è infatti appenda conclusa la quarta astensione in poco più di due mesi degli avvocati penalisti contro la riforma su cui il ministro Andrea Orlando ha già ottenuto la fiducia in Senato, dando prova di disprezzo per il dibattito parlamentare, tanto più grave se, come nel caso della riforma del processo penale, si tratta di interventi normativi che impattano così fortemente sui principi e le garanzie costituzionali dei cittadini, deprimono le garanzie e i diritti processuali degli accusati distorcendo pesantemente il modello accusatorio del giusto processo e i rendendo i processi interminabili. A Montecitorio, per ragioni di calendario d’aula ma soprattutto per valutazioni di opportunità politica, la strada della fiducia è decisamente più in salita ma ancora non è certo quale sarà lo scenario definitivo di una riforma manifestamente offensiva delle garanzie degli imputati ma anche delle persone vittime dei reati. C’è dunque un ulteriore margine di tempo per l’avvocatura penale per negoziare sul piano politico qualche correttivo ad un testo che prevede un inutile aumento delle pene edittali e la indiscriminata sospensione dei termini di prescrizione violando il principio di presunzione di innocenza e mortificando l’interesse della collettività a conoscere nei tempi più brevi se un imputato è colpevole o innocente. E che introduce un processo in cui, a discrezione del giudice, un numero sempre maggiore di imputati "parteciperanno" a distanza in videoconferenza dal luogo di detenzione, privati della possibilità di difendersi accanto al proprio avvocato. Privati del diritto di difesa, di colloquiare con il difensore nell’ambito dell’istruttoria dibattimentale e del processo, del diritto all’immediatezza, all’oralità ed al contraddittorio processuale, al rispetto della propria dignità. Tutte garanzie costituzionali e riconosciute dalla giurisprudenza europea che la norma piega a ragioni efficientiste, di risparmio e di sicurezza pretestuose (come la dimostrato dalla decisione del tribunale di Roma di riconoscere a 14 imputati detenuti su 17 nel processo di "Mafia Capitale" il diritto di presenziare in aula) contro cui si è espresso in più occasioni anche il presidente del Csm Albamonte. Senza contare che, così come introdotta, la video conferenza è un’eccezione inspiegabile rispetto a qualsiasi altra sede comunitaria dove viene utilizzata e ammessa solo per l’assunzione di singole prove come l’esame dei testimoni, periti e consulenti ma mai per lo svolgimento dell’intero processo a distanza nei confronti dell’imputato. Le proteste dei penalisti contro il ddl di riforma della giustizia penale, nel frattempo, hanno intercettato i gravi sviluppi di queste ultime settimane dell’indagine Consip legati alla pubblicazione illegale oltre che delle conversazioni tra l’ex premier Matteo Renzi e suo padre Tiziano, anche di quelle tra quest’ultimo ed il suo difensore. Da giorni nell’avvocatura penale richiama un ulteriore vulnus alla civiltà giuridica richiamando l’inviolabilità assoluta delle comunicazioni con il difensore, di cui il cpp vieta l’intercettazione. Tanto che delle captazioni tra Tiziano Renzi e il suo avvocato le Camere penali territoriali di Roma e Napoli (entrambe si occupano del procedimento Consip) e l’Ucpi chiedono la distruzione forti di un importante precedente. A marzo del 2016, il Tribunale di Roma, durante il processo Mafia Capitale, emise un’ordinanza in cui richiamando il divieto di intercettare conversazioni tra avvocato e cliente, previsto dall’articolo 103 del cpp, stabiliva in base all’articolo 271, la distruzione immediata senza neppure provvedere al deposito dell’intercettazione occasionale ed illecita. Le ragioni della illegalità ed illiceità del materiale captato nel caso Consip, spiegano i penalisti, consistono d’altronde in quattro semplici punti: "che la conversazione tra difensore e difeso è stata ascoltata da chi svolge le indagini, che del testo trascritto o del supporto informatico che contiene la conversazione qualcuno si è indebitamente appropriato o peggio l’abbia rubato, che il giornalista ha ricevuto e poi utilizzato il prodotto di tale indebita appropriazione/furto". Puntualizzano infatti i penalisti che "è illegale ricevere il prodotto di una indebita appropriazione/furto, appropriarsi o rubare un atto di indagine, è vietato dalla legge trascrivere il testo di conversazioni tra difensore e assistito. Ed è espressamente vietato dall’articolo 103 del cpp, che non a caso rubrica come ‘Garanzie di libertà del difensorè anche semplicemente ascoltare le conversazioni che intercorrono tra difensore e il proprio cliente. Tutte prescrizioni tese a salvaguardare regole giuridiche fondamentali per l’ordinamento". Le norme per combattere la barbarie di consentire l’ascolto e l’uso illegale di conversazioni tra la difesa e l’assistito che, tra l’altro, consentono di carpire illegalmente informazioni sulla strategia, esistono e sono lì a circoscrivere i confini dell’uso delle intercettazioni come mezzo per la ricerca della prova e non come strumento per l’indiscriminata e pervasiva diffusione di notizie personali o per ricercare la notizia di reato. Lo "sciopero" dei penalisti finisce davanti alla Consulta di Errico Novi Il Dubbio, 27 maggio 2017 Il Tribunale di Reggio Emilia invia gli atti alla Corte costituzionale: "violati i diritti dei detenuti". Secondo il collegio del processo Aemilia i difensori allungano la detenzione di presunti innocenti. dura replica dell’Ucpi: "di fatto ci accusano di estorsione". Con la loro astensione dalle udienze i penalisti immaginavano di avviare un braccio di ferro con governo e Parlamento: l’iniziativa dell’Unione Camere penali, che dal 12 al 16 giugno consumeranno una nuova settimana di "sciopero", nasce infatti per contestare alcuni contenuti della riforma del processo, ora all’esame della Camera. Ma il vero "conflitto" si apre con un Tribunale, anziché con l’esecutivo. Precisamente con il collegio di Reggio Emilia davanti al quale si celebra il processo "Aemilia". La Corte, con un’ordinanza emanata martedì scorso, ha addirittura sollevato davanti alla Consulta la questione di legittimità costituzionale delle norme grazie alle quali i penalisti possono astenersi dalle udienze anche se difensori di detenuti qualora questi ultimi prestino il loro consenso. Si tratta di fatto di un pesante macigno che viene calato sulla strada del diritto di "sciopero" degli avvocati. A decidere a questo punto sarà il giudice delle leggi. Non a breve: per una pronuncia del genere non sarebbe insolito aspettare anche un anno. Ma di certo la posta in gioco è alta. Non a caso la risposta dell’Unione Camere penali è stata molto aspra. Non la si poteva sottoporre già alla Corte costituzionale. Ma visto che il collegio di "Aemilia" aveva aperto le ostilità con una remissione di atti davanti alla Commissione di garanzia per gli scioperi, è proprio a quest’ultima che l’Ucpi ha sottoposto l’altro ieri una lunga memoria, in cui contesta punto per punto gli argomenti del Tribunale. Il nocciolo è uno: i diritti dei detenuti. Che, secondo il collegio, verrebbero "compressi" proprio dal "diritto di sciopero" dei loro difensori. A scegliere di sollevare la questione di legittimità è stato il presidente del collegio, Francesco Caruso, che nel frattempo è stato nominato presidente del Tribunale di Bologna e che però è applicato all’importante processo di Reggio. A giudizio si contano 150 imputati, tutti con l’aggravante mafiosa. Proprio Caruso ha spiegato come, secondo la valutazione della sezione collegiale, "il fardello dello sciopero finisca per cadere tutto sugli imputati, fino a prova contraria innocenti. Nel momento in cui i difensori si astengono, i detenuti a giudizio devono decidere se prestare il consenso. E lo fanno. Perché altrimenti il rapporto con l’avvocato potrebbe risentirne. Ma pagano un prezzo alto, appunto", ha sostenuto il presidente, "perché i giorni trascorsi in custodia cautelare a causa del rinvio per l’astensione del difensore sospendono il decorrere dei termini della misura. Non solo: l’aspetto forse più grave è che l’imputato riconosciuto innocente potrà sì chiedere il risarcimento per ingiusta detenzione ma non per i giorni in più sofferti a causa dello sciopero". Caruso non avrebbe potuto seguire altra strada. Nell’ordinanza si cita anche "la programmazione della fase dibattimentale" che la "reiterazione di astensioni e di rinvii disarticola e sconvolge". Ma qui, riconosce il Tribunale, si tratta di "quelle generiche esigenze di giustizia che la Cassazione ha valutato come recessive rispetto al diritto di astensione". E già. Ecco perché la sola strada per eccepire il diritto di "sciopero" dei penalisti era il conflitto con i diritti degli assistiti-detenuti. Le norme nel mirino sono quelle contenute nel Codice di autoregolamentazione degli avvocati. Fonte secondaria ma richiamata da una legge vera e propria. Le argomentazioni del Tribunale hanno suscitato il fortissimo disappunto delle Camere penali. Affidato alla memoria che presidente e segretario dell’Ucpi, Beniamino Migliucci, e Francesco Petrelli, hanno consegnato giovedì alla Commissione di garanzia sugli scioperi. Nel momento in cui si dubita che "il detenuto possa liberamente prestare il proprio consenso al rinvio del processo per l’astensione del proprio difensore" e si sospetta che "tale consenso sia estorto dal difensore, contro l’interesse del proprio assistito", si fanno "affermazioni gravemente lesive dell’onorabilità professionale della intera classe forense" - notano Migliucci e Petrelli - che configurerebbero addirittura un "reato". L’Ucpi considera irragionevole paventare il rischio che "il termine massimo della custodia cautelare" sia consumato per colpa degli avvocati prima che si esaurisca "il limite temporale entro cui concludere il processo". I termini di custodia, ricordano i penalisti, sono "non certo brevi" (in questo caso si arriva a 6 anni, ndr) e non può essere alterata la possibilità di celebrare il processo in ragione di una astensione del difensore che determina, come nel caso di specie, un rinvio di cinque giorni". Riforma penitenziaria e cannabis terapeutica. Rita Bernardini ricomincia sciopero della fame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 maggio 2017 Riprende la lotta per lo stallo sulla riforma penitenziaria e per la cannabis terapeutica. Dalla mezzanotte di giovedì, Rita Bernardini, coordinatrice della presidenza del Partito Radicale, ha ripreso lo sciopero della fame per la riforma dell’ordinamento penitenziario e per il diritto dei malati di curarsi con la cannabis. Una "ripresa" quella della Bernardini che già lo scorso febbraio aveva digiunato - assieme ad altri dirigenti del Partito Radicale - oltre un mese per gli stessi motivi. Il provvedimento di Orlando sul penale che contiene anche la delega sulla riforma dell’Ordinamento penitenziario non è stato ancora approvato definitivamente e più passa il tempo, più aumentano gli attriti tra diverse fazioni politiche. Proprio per questo motivo Rita Bernardini chiede da tempo che venga stralciata la parte riguardante la riforma dell’esecuzione penale: la delega sull’ordinamento penitenziario non è divisiva e trova l’appoggio di gran parte dell’opposizione, mentre la riforma complessiva del processo penale trova ostacoli non solo dall’opposizione ma anche all’interno della stessa maggioranza. Anche il nuovo presidente dell’associazione nazionale magistrati Eugenio Albamonte è dello stesso avviso. Che cosa prevede la riforma sull’ordinamento penitenziario? È stata oggetto di studio e di proposta attraverso il lavoro dei 18 tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale sui quali ha molto puntato proprio il ministro Orlando. Il disegno di legge dele- ga prevede punti essenziali per rendere legale l’esecuzione penale: incremento della possibilità d’accesso alle pene e alle misure alternative anche per i recidivi, maggiori possibilità di lavoro, di formazione e di studio sia in carcere che una volta usciti, giustizia riparativa e apertura del carcere alla società esterna, accesso alle cure, particolare attenzione e riguardo ai tossicodipendenti e ai malati psichiatrici, effettivo diritto all’affettività affinché la persona reclusa mantenga rapporti stabili con i familiari, in particolare con i figli minori. L’altro tema per il quale Rita Bernardini è in sciopero della fame riguarda l’utilizzo della cannabis a scopo terapeutico. In Italia dal 2007 una tabella ministeriale (decreto del 18 aprile) consente la prescrizione con ricetta medica di diversi derivati della cannabis dalle riconosciute proprietà terapeutiche. Ma poiché i protocolli attuativi regionali risultano farraginosi, per i pazienti accedere ai farmaci è praticamente impossibile. Per questo i radicali chiedono che il libero accesso ai farmaci cannabinoidi venga reso effettivo, sia attraverso la possibilità ottenere i farmaci gratuitamente e facilmente, sia per mezzo della regolamentazione dell’auto coltivazione, cioè della coltivazione ai fini esclusivi di utilizzo terapeutico da parte del paziente coltivatore. Il caso emblematico riguarda la vicenda dell’abruzzese Fabrizio Pellegrini, un artista di strada, pianista e pittore. Il suo corpo è malato, affetto dal 2002 dalla fibromialgia, una grave malattia autoimmune. È intollerante agli oppiacei: l’unica medicina efficace certificata è la cannabis. Venne condannato per coltivazione domestica di cannabis per uso terapeutico e inizia un calvario dai contorni kafkiani di arresti, carcerazioni inumane e degradanti e di condanne anche definitive. La Regione Abruzzo è la prima ad aver legalizzato la cannabis terapeutica creando un fondo apposito di 50 mila euro. Ma la legge è inattuata a causa della sua farraginosità. La Asl prescrive la cannabis a Pellegrini e ottiene l’autorizzazione dal ministero a importarla dall’Olanda, ma non anticipa i soldi. Pellegrini, indigente, paga 500 euro, raccolti con una colletta. Gli bastano per un mese. Poi decide di far da sé per via dei costi insostenibili. Finisce in carcere nel 2003 per tre giorni, nel 2005 per tre mesi, nel 2008 per un mese. Poi nel 2016 la condanna definitiva, cumulo di due pene, a poco più di due anni. Ora è ai domiciliari, ma il problema rimane. Per questo Rita Bernardini è in sciopero della fame per chiedere una veloce soluzione per i pazienti. Compresa quella di piantarla da sé. Consiglio Nazionale Forense e "Nessuno tocchi Caino" uniti contro la pena di morte di Errico Novi Il Dubbio, 27 maggio 2017 Protocollo d’intesa per impedire che la lotta al terrorismo faccia aumentare le esecuzioni. Lo sforzo cioè che alcuni Paesi devono compiere in questa fase drammatica per tenere insieme la lotta all’Isis e la tutela dei diritti. Ed è proprio la difficoltà della sfida che ha indotto l’organizzazione radicale a chiedere aiuto all’avvocatura. ù L’intesa firmata ieri sarà decisiva per attuare un progetto approvato dalla Commissione europea e nell’ambito del quale Nessuno tocchi Caino è l’organizzazione capofila: il titolo di quel progetto è appunto "Contenere la pena di morte in tempo di guerra al terrorismo in Egitto, Somalia e Tunisia". Missione comunque impegnativa a Tunisi e ancor più al Cairo e a Mogadiscio. Mascherin e D’Elia firmano davanti al plenum del Consiglio nazionale forense, riunitosi ieri per raccogliere un nuovo importante mandato sulla strada della difesa dei diritti a livello internazionale. Nessuno tocchi Caino è parte integrante del Partito radicale. Ha convinto Bruxelles a sostenere il progetto con una piattaforma calibrata: ottenere l’osservanza più rigorosa e ampia possibile di tutte le norme e degli standard del diritto internazionale in modo che nei tre Paesi in questione le esecuzioni capitali possano ridursi al minimo, anche in una fase di feroce offensiva del terrore. Farlo è possibile a condizione che i soggetti impegnati, in quei Paesi, nell’esercizio della giurisdizione conoscano nel dettaglio gli strumenti giuridici disponibili. È la la tesoriera di Nessuno tocchi Caino Elisabetta Zamparutti a spiegare: "Il contributo del Cnf è assolutamente prezioso e necessario: sia perché consentirà di attivare delle relazioni strutturate con gli organismi dell’avvocatura nei tre Paesi in questione, sia perché il progetto consisterà, in concreto, nell’organizzare in questi Paesi dei veri e propri training condotti anche dagli avvocati italiani e rivolti a tutti i soggetti in grado di contribuire a promuovere l’osservanza del diritto e a contenere così le esecuzioni capitali. I soggetti sono i parlamentari, i magistrati, gli agenti penitenziari e naturalmente gli stessi avvocati di quei Paesi". Il Cnf, organismo di rappresentanza istituzionale dell’avvocatura italiana, ha ormai ormai assunto su di sé il fardello di un ruolo sociale inteso ben al di là dei confini nazionali. "Si tratta di una battaglia che ci vede pienamente e orgogliosamente coinvolti", ha detto Mascherin, "non a caso sono stati proprio gli avvocati ad assumere storicamente per primi l’impegno non solo a limitare ma per la assoluta abolizione della pena di morte. Questa intesa è straordinaria", ha proseguito il presidente del Cnf, "come di straordinario valore è la battaglia condotta in questo campo da Nessuno tocchi Caino e dai radicali. La strada segnata da Marco Pannella si realizza anche in progetti come questo, e a Pannella noi avvocati vogliamo bene. Il Cnf guarda all’obiettivo ultimo dell’abolizione, rispetto al quale questo progetto di contenere le esecuzioni nei tre Paesi non può che essere un passaggio". Paradossalmente tocca a D’Elia richiamare sé e gli avvocati alla dimensione effettivamente praticabile che la battaglia ha in questo momento: il nostro progetto per "contenere" la pena di morte in Tunisia, Egitto e Somalia, osserva, "ha incontrato il pieno consenso e il conseguente sostegno della Commissione europea proprio perché immediatamente attuabile, rispetto all’aspirazione imprescindibile, ma dal contenuto innanzitutto ideale, ad abolire del tutto le esecuzioni. Questo impegno", dice il segretario di Nessuno tocchi Caino, "è coerente con gli obiettivi ultimi della moratoria e infine dell’abolizione, in quanto metodo per raggiungerli e obiettivo intermedio. È un metodo anche perché consente di far maturare, innanzitutto nei tre Paesi interessati, la consapevolezza che può poi creare il terreno favorevole all’effettiva scomparsa della pena capitale". Della delegazione radicale fa parte anche Laura Hart, che è nel Consiglio direttivo di Nessuno tocchi Caino e rappresenta il partito presso l’Onu. Anche lei, un istante dopo la firma del protocollo, si riunisce con il coordinatore della Commissione Diritti umani del Cnf, Francesco Caia, per mettere a punto i dettagli dell’impegno che l’avvocatura investirà nel progetto. Uno sforzo importante in un momento in cui basta niente per deragliare dalla strada dei diritti. Sedici mesi ai torturatori del cane: sono pochi di Chiara Pellegrini Libero, 27 maggio 2017 Pena sospesa e niente cella per i quattro giovani. Ma faranno volontariato in un canile. Quatto ragazzi di Sangineto (Cosenza) il 21 giugno dello scorso anno, catturarono un cane bianco di tre anni, lo impiccarono senza pietà ad un albero e lo colpirono a colpi di badile fino a morte. Non contenti, con un atto di ulteriore crudeltà, pubblicarono il video delle sevizie su Facebook. Ieri il giudice monocratico del tribunale di Paola, Alfredo Cosenza, ha condannato i quattro giovani: Giuseppe Liparoto, Nicholas Fusaro, Francesco e Luca Bonatta ad un anno e quattro mesi di reclusione ciascuno, il massimo della pena. Nella sentenza i quattro, giudicati con rito abbreviato, vengono accusati di aver sottoposto Angelo, questo il nome del cane, a sevizie prima di finirlo a colpi di vanga. Accogliendo quindi la richiesta del procuratore facente funzione, Maurizio De Franchis, che aveva definito il gesto dei quattro "crudele". Secondo l’accusa i giovani avrebbero trovato "compiacimento" nel seviziare l’animale, come dimostrano le fasi del gesto filmate e postate. Il giudice ha anche disposto che i quattro imputati svolgano attività di volontariato per sei mesi in un canile municipale, condannandoli anche a risarcire 2.000 euro a ciascuna delle venti associazioni Qui sopra,la manifestazione che si è svolta nel paese di Sangineto, in provincia di Cosenza, per chiedere giustizia dopo il crudele massacro del cane Angelo (qui a destra) che si sono costituite parte civile nel processo. Soddisfazione per la sentenza è stata espressa da Riccardo Manca, dell’associazione Animalisti italiani Onlus. "Per la prima volta" ha detto Manca, "viene applicata nel nostro Paese la pena massima per le sevizie e l’uccisione di animali. Angelo, creatura inerme e indifesa, ha finalmente avuto giustizia". Plauso per l’azione rapida della magistratura da parte di Michela Vittoria Brambilla, presidente del Movimento animalista e della Lega italiana per la Difesa degli Animali e dell’Ambiente, "non solo la severità della sentenza, il massimo della pena entro i limiti concessi dalle leggi vigenti, ma anche altri aspetti della vicenda processuale", sottolinea l’ex ministro, "sono apprezzabili: per esempio la decisione di rigettare la richiesta di patteggiamento inizialmente avanzata dagli imputati, quella di non concedere la messa in prova". Non è la prima volta che la magistratura si esprime per difendere gli animali seviziati. Nel 2010 sei cuneesi (allevatori, trasportatori e addetti al mercato agroalimentare Miac di Cuneo) sono stati condannati per maltrattamenti ad una mucca. Nel 26 giugno 2006, al mercato di bestiame del Miac, Tea Dronjic, esponente dell’associazione tedesca "Animals Angels" videoregistrò le sevizie ad una mucca. L’animale veniva sottoposto a bastonate e scosse elettriche anche sui genitali, un toro venne fatto passare sopra ad un mucca accasciata a terra, che infine fatta entrare a forza dentro la pala del trattore, ruotandole il capo all’indietro e trascinandola per la coda. La sentenza stabilì un risarcimento dei danni in favore della parte civile (l’associazione tedesca e la Lav). Ogni imputato versò 4.000 euro. Novembre 2016, il tribunale di Massa condanna a sei mesi un cacciatore residente nella provincia per aver lasciato morire il proprio cane perché inabile a cacciare. Zeus, questo il nome dell’animale di razza Breton di dieci anni, era stato condannato a morire legato ad una catena, in una gabbia per uccelli. E ancora lo scorso gennaio due allevatori modenesi, un 54enne e la moglie di 43 anni, sono stati condannati nel processo di primo grado rispettivamente a otto e sei mesi per maltrattamento di animali, pena sospesa. Nell’allevamento di cani a Cittanova, che faceva parte della "Fattoria didattica delle Rose", la Municipale trovò 356 cani di razza stipati in gabbie per conigli, senza luce e con poco cibo. La pubblica accusa aveva chiesto per i due una condanna a 10 mesi. Il giudice ha stabilito un risarcimento di 4.000 euro ad Anpana (Associazione nazionale protezione animali, natura e ambiente). Il 54enne è stato colpito anche dalla sospensione per sei mesi dall’esercizio della professione. Molestie sessuali, prof assolto: "Vittima di suggestione collettiva" di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 27 maggio 2017 L’insegnante arrestato nel 2014 e incarcerato dopo le accuse di quattro alunne. Per i giudici colpa di voci, equivoci ed errori. Quasi quasi, alla fine, il meno restano i 19 giorni a San Vittore nel raggio degli arrestati per reati sessuali, e i successivi altri 11 mesi ai domiciliari fino allo scadere della custodia cautelare: il meno, in confronto all’accusa di aver approfittato della propria condizione di docente di arte alla scuola media Manzoni di Milano per toccare il fondoschiena, accarezzare le cosce o sfiorare l’inguine di 4 alunne di I e III media. Una "violenza sessuale" dalla quale il Tribunale ha assolto "con formula piena perché il fatto non sussiste" il professor Maurizio Minora, ritenendolo vittima di una "suggestione collettiva": innestatasi da un lato sulla sua dichiarata propensione a "un atteggiamento fisico e affettuoso sia con i maschi sia con le femmine" (come pacche sulle spalle o sculacciate per farli rientrare in classe), e dall’altro su "voci incontrollate e destituite di ogni fondamento" che di bisbiglio in bisbiglio lo volevano gay, poi pedofilo, poi già denunciato in passato, poi persino violentatore del proprio figlio, o egli stesso abusato da piccolo. La Procura della Repubblica, che aveva chiesto la condanna a 2 anni e 6 mesi, non ha impugnato l’assoluzione, e nemmeno la Procura Generale. L’assoluzione è dunque definitiva, al pari che per l’insegnante di sostegno Ripalta Izzi, per la quale erano stati chiesti 2 anni nell’ipotesi avesse saputo delle molestie ma non le avesse impedite. Per i giudici Giovanna Ichino, Anna Zamagni e (estensore) Alessandro Santangelo, i denunciati "atteggiamenti sessualmente molesti non trovano riscontri in terze persone, ma solo nelle reciproche" (e "in più punti contraddittorie e/o inverosimili") dichiarazioni delle quattro ragazze, "che non può sottacersi fossero legate da relazioni psicologiche molto complesse": ad esempio una "psicologicamente succube" della sua migliore amica, o un’altra vittima di bullismo. La ragazza-capogruppo avrebbe dunque cominciato "ad attribuire agli atteggiamenti fisici e affettuosi, da sempre tenuti dal professore, una connotazione sessuale che in realtà non avevano affatto, influenzando le persone a lei più vicine per trovare conferma al suo erroneo vissuto soggettivo". Tra le incongruenze (valorizzate dai difensori Tiziana Bellani, Gabriele Fuga e Guido Camera), anche il fatto che due ragazze datassero alcune molestie in epoca successiva all’installazione di telecamere che nulla avevano invece mostrato (e non per la presunta fuga di notizie ipotizzata dai vigili a carico della preside, da ciò assolta già nel 2015 dal gup). A detta dei giudici la "suggestione collettiva", scaturita da una lettera scritta da una ragazza sul tema della rabbia alla fine di un laboratorio teatrale scolastico, sarebbe peraltro debordata pure in alcuni atti di indagine: come l’informativa nella quale la polizia locale il 30 maggio 2014 rappresentava al pm Gianluca Prisco e al gip Luigi Gargiulo che le 4 ragazze si erano presentate alla preside lamentando non (come nel reale contenuto delle dichiarazioni) che tutte e quattro avessero detto di sapere che una fosse stata toccata nel fondoschiena quel giorno, ma che il professore avesse "toccato a tutte e quattro il fondo schiena": circostanza, rimarca invece il Tribunale, "smentita dalle stesse" ragazze, giacché tre in sede di incidente probatorio" nel novembre 2014 "non riferivano affatto di essere state palpeggiate in quel frangente". Frutto di un equivoco pare essere stata anche la domanda posta all’appena arrestato docente, dalla quale - stando alla trascrizione - sembrava esistere la conferma di una ragazza testimone oculare di uno degli episodi denunciati da una compagna: ciò non poteva invece essere, perché la presunta teste oculare non era mai stata interrogata dalla polizia locale prima dell’arresto dell’uomo il 5 giugno 2014, mentre lo sarebbe stata solo il 14 giugno, peraltro non confermando la scena di cui la si asseriva teste. Napoli: piscina, tennis, prati e niente mura. A Nola sorgerà il primo carcere "aperto" di Roberto Russo Corriere del Mezzogiorno, 27 maggio 2017 Il progetto voluto dal ministro Orlando. E un’impresa napoletana coinvolge Fuksas. Niente sbarre alle finestre, niente mura perimetrali, celle singole. E ancora: campo di calcio, campi da tennis, piscina, teatro, aule, laboratori, refettori, sale per i vari culti religiosi. E attorno verde, tanto verde: alberi e prati all’inglese. Un resort più che un carcere quello progettato dal Ministero della Giustizia a Nola, nell’agro di Boscofangone, destinato ad accogliere 1.200 detenuti non pericolosi e a decongestionare Poggioreale e Secondigliano. Ma sarà soprattutto il primo esperimento di carcere "aperto" in Italia, sul modello delle prigioni-non prigioni danesi o norvegesi. Fortissimamente voluto dal guardasigilli Andrea Orlando, il nuovo penitenziario previsto dal piano carceri dovrà essere pronto nel giro di un quinquennio al costo di 120 milioni di euro. Dal punto di vista politico rappresenterà anche un tributo postumo a Marco Pannella e alle sue battaglie per una detenzione dal volto umano. Orlando infatti ritiene inaccettabili le condizioni di detenzione in molte carceri italiane, così come la stessa Corte di Strasburgo che ha condannato l’Italia per trattamento inumano dei detenuti. Così il ministero sta bruciano le tappe per concludere velocemente la gara. Sono già 14 i raggruppamenti di imprese che hanno manifestato interesse, coinvolgendo fior di progettisti. Tra le aziende figura solo una napoletana: la società di ingegneria "Tecnosistem", da quarant’anni specializzata in opere edilizie e infrastrutturali, che ha deciso di affidare la progettazione a un architetto del calibro di Massimiliano Fuksas. In attesa dell’esito della gara è opportuno chiarire che carcere aperto non vuol dire ovviamente che i detenuti potranno uscire dalla struttura. Se è vero che non sono previste mura perimetrali e sbarre alle finestre, al loro posto ci saranno griglia in acciaio e robusti vetri antisfondamento, inoltre un modernissimo sistema di videosorveglianza. Insomma, l’esperimento" tenderà a preservare la sicurezza ma non a scapito della vivibilità e soprattutto non precluderà alla vista e ai sensi dei reclusi le immagini della vita che scorre all’esterno e che, nel caso specifico, sarà rappresentata dai confinanti centri commerciali, dalle campagne e dalle auto che passano sulle statali. E dunque si spiegano così anche la piscina e i campi da tennis, le celle singole con televisore a cristalli liquidi da 20 pollici, i laboratori dove imparare un mestiere, il teatro, le sale per i vari culti religiosi. Per ovvi motivi non si tratterà di un carcere di massima sicurezza, i detenuti al 41 bis ma anche quelli ritenuti pericolosi a Nola non potranno essere ospitati. Come sta reagendo il territorio? Prudente, ma aperto al dialogo il sindaco Geremia Biancardi che già da tempo ha spiegato: "Il ministro Orlando ci ha rassicurato sulla collocazione del penitenziario in un’area distante sia da Nola che dal centro abitato della frazione di Polvica. Dunque non ci saranno problemi per la vita quotidiana dei cittadini. Inoltre, è bene sottolineare che si tratta di un carcere sperimentale. Infatti, non avrà le mura di cinta. Sarà un penitenziario dove sconteranno la pena quei detenuti che dovranno essere prontamente reinseriti in società". Raffaele Soprano, presidente della Fondazione Gigli di Nola, ha assicurato la disponibilità nel collaborare al recupero dei detenuti. Come? "Insegnando loro l’arte della cartapesta con la quale i nostri artigiani preparano i rivestimenti per i Gigli. Una tradizione antichissima - spiega - che passa attraverso i titolari delle botteghe di Nola e che contiamo di poter trasmettere ai detenuti". Tutti contenti? Non proprio. Contrarietà vengono avanzate da "Antigone", l’associazione che in tutt’Italia si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale. "La dimensione del carcere è eccessiva, c’è il totale isolamento dalla città, la scelta della zona che presenta problemi di carattere idrogeologico e di inquinamento, nonché la vaghezza relativamente alle attività lavorative che saranno svolte e ai rapporti con il territorio su questo fronte. Si rischia di trasformare la città metropolitana di Napoli in una prison valley all’italiana". Infine, Corrado Marcetti, architetto della Fondazione Michelucci, fa notare: "L’area prescelta è in territorio extraurbano, periferico e mal collegato, in una zona agricola un tempo cuore della Campania Felix, poi avvelenata (e mai bonificata) dai fusti di liquami interrati dalla camorra". Insomma, il dibattito è aperto. Parma: dialogo tra il Vescovo Enrico Solmi e la redazione di Ristretti Orizzonti Ristretti Orizzonti, 27 maggio 2017 Doveva essere un’intervista ma a noi è sembrato piuttosto un dialogo, un momento di incontro tra il rappresentante più autorevole della Chiesa di Parma e il gruppo di redattori ristretti nella sezione di Alta Sicurezza della Casa di Reclusione. Un dialogo profondo, attento e rispettoso. Monsignor Enrico Solmi è arrivato accompagnato dal cappellano Fra Giovanni Mascarucci; dopo i saluti e le reciproche presentazioni, seduti intorno al tavolo della nostra redazione, interviene Nino di Girgenti presentando il primo inserto di Parma uscito sulla rivista "Ristretti Orizzonti". Il tema che abbiamo affrontato è quello del rapporto con le nostre famiglie: noi per loro siamo come fantasmi; siamo nel loro affetto ma fuori dalla loro vita e non riusciamo ad avere un contatto diretto e profondo con loro. Qui cerchiamo di esprimere con la scrittura quello che vorremmo dire a voce. Noi moriremo in carcere. E ora desidero porle subito una domanda:- Il nostro problema è la carenza di volontari che sono un collegamento importante con il fuori, con le famiglie. C’è solo Padre Giovanni che ci aiuta. Attraverso la sua funzione di vescovo potrebbe stimolare il territorio a essere più presente. Qui ci dicono che è la città che non sente il carcere come parte di sé ma forse è l’istituzione che allontana le persone. Noi chiediamo maggiore sensibilità. Vescovo: - Sono certo che nella percezione della gente di Parma il carcere è parte della città, una parte che di cui ci si ricorda a volte di più, a volte di meno. Nella percezione della gente voi ci siete; anche nelle persone più semplici che sono poi quelle che sostengono la città. Ma anche nei giovani che - purtroppo - sono pochi dal punto di vista demografico e questo è un problema e nelle persone che vengono a Parma a cercare un lavoro. Quando qui dentro si celebra un battesimo o una cresima, i nomi delle persone vengono scritti nei registri del Duomo e questo è un segno di grande valore simbolico. Poi ci sono i seminaristi che vengono a fare volontariato in carcere e, anche se sono un numero piccolo, tuttavia potranno più avanti sensibilizzare le loro parrocchie e le loro comunità. Per Pasqua entrerà una parrocchia per celebrare la Messa; certo è necessaria una disponibilità da parte dell’istituzione penitenziaria e penso anche che si possa lavorare ancora di più. Vi dico sinceramente che non m’ impressiono affatto dei progetti in fase elettorale; per carità ben vengano tutte le opere eccezionali ma sono convinto che si cresce solo nella quotidianità. Desidero raccontarvi un episodio che mi è capitato qualche tempo fa, durante la visita a un convento di suore. C’era una suora di oltre 90 anni che stava sferruzzando e chiedeva alle consorelle: "Ma sapete chi è questo?" Le hanno detto che ero il Vescovo mentre lei continuava a lavorare a maglia per fare berretti di lana per i detenuti. Suor Monica non capiva chi era il Vescovo ma, nella sua mente un po’ persa, voi c’eravate!. Gianfranco Ruà: - Noi le chiediamo di aiutarci, di essere il nostro paladino. Noi desideriamo l’uguaglianza, l’uguaglianza tra questo carcere e le altre carceri. Qui c’è una grande differenza, qui non si sperimenta solo la sofferenza della privazione della libertà ma c’è anche la sofferenza della malattia, di persone detenute che sono arrivate a Parma perché malate. E poi c’è una terza sofferenza; non otteniamo quello che nelle altre carceri è scontato, siamo chiusi 20 ore su 24 e siamo limitati in tutto, anche nel mangiare, anche se paghiamo noi la nostra spesa. Le chiediamo un aiuto; perché noi che siamo suoi parrocchiani dobbiamo soffrire più degli altri? Lei può fare qualcosa per noi? Vescovo: - Ma perché il carcere di Parma è così? Io lo chiedo a voi. Gianfranco Ruà: - Non si sa però è così. Le faccio un esempio: un Ispettore di Polizia Penitenziaria che è stato recentemente nel carcere di Opera, diceva che là si respira un’aria diversa eppure quell’istituto è come il nostro, c’è l’ Alta Sicurezza e anche il 41 bis. Ma è diverso. Non si sa perché. - Vescovo: - Se non conoscete voi le ragioni, faccio molta fatica a conoscerle dall’esterno ma questa situazione la avverto anche io. In più quello che si fa non è conosciuto fuori; anche qui come a Opera si producono le ostie per la Messa, anche qui c’è una panetteria ma nessuno lo dice. In ogni caso accolgo molto volentieri la vostra richiesta e vi ricordo che, durante l’Anno Santo, gli unici due luoghi dove era possibile prendere direttamente l’indulgenza erano il convento e il carcere. La Chiesa vi pensa ma questa vostra riflessione la portiamo con noi. - Antonio Sorrento: - Mi chiamo Antonio e sono in carcere da 25 anni; non mi capita spesso di parlare di speranza e mi chiedo: posso credere mai in coloro che hanno in consegna la mia sorte? Posso mai sperare che le persone che hanno toccato con mano il mio cambiamento, mi possano dare speranze sia concrete che spirituali? Perché sono così ostili? Perché vengono ignorate anche le ordinanze della Magistratura di Sorveglianza? Io dovevo andare a far visita a mio padre quando è morto, la Magistratura aveva concesso la possibilità eppure non è stato possibile. Lui era una brava persona, un lavoratore onesto; solo io, il quarto di dieci figli, gli ho dato dispiaceri. Perché non mi hanno lasciato andare a casa per un saluto? Dove devo porre la speranza? Solo nello spirito?. Vescovo: - Mentre parlava, riflettevo a cose che in questi giorni avevo pensato e scritto proprio sull’editoriale di Vita Nuova: Gesù è un condannato a morte dai media, dal furore della folla e la sua condanna è fatta contraddicendo il diritto e mettendo a nudo la pochezza di chi rappresenta il diritto. Ricordate il Vangelo di Giovanni "…chi non apre gli occhi alla luce". Tutto esplode nel momento della Passione: i giudici d’Israele che, contraddicendo i loro princìpi, riconoscono l’autorità di Cesare e Pilato che si lava le mani, pur sapendo che Gesù è innocente. Lavarsi le mani non è un gesto neutro! Cristo viene messo nelle mani degli altri e gli altri fanno di lui un gioco, giocano con la sua vita. In Palestina esistono ancora le tracce di quel gioco, una specie di "gioco dell’Oca". È raccapricciante. In ogni caso io penso che non ci sia nessuna distinzione tra spiritualità e materialità: noi siamo spirito e materia. Certo, la speranza va posta in Dio, in quel valore superiore che, ciascuno - credente o no - sente dentro di sé, una speranza che illumini chi deve dare speranza agli altri. L’opinione pubblica in questo momento fa solo lievitare il caos e la confusione; nelle trasmissioni televisive non si ragiona, non c’è nemmeno il tempo per riflettere. La speranza ha bisogno di un tempo giusto e di un’obbedienza. Ecco, l’obbedienza è molto importante. Pilato non fece così; lui che era l’espressione del diritto, non fu obbediente ai suoi doveri e permise che Gesù fosse crocefisso. Un elemento che dà speranza è quando accade che i nostri atteggiamenti e i nostri pensieri stanno lievitando verso il bene, quando vediamo le cose da un’altra angolazione, quando sappiamo dare e chiedere perdono. La bellezza della speranza è fisica e concreta: un peso dentro di me è come un macigno ma, quando riesco a spostarlo, guarisco. La speranza è quando io faccio pace con chi ho davanti a me ma anche con chi non c’è più, così lei può fare pace con suo padre anche se non c’è più. E questo vale anche per le persone che ci hanno fatto del male e a cui abbiamo fatto del male. E, credetemi per favore, quando dico questo, parlo di me, penso a me. Carmelo Latino: - Sono in carcere da circa 20 anni e sto pagando per un reato che ho commesso; a differenza dei miei compagni, ho un fine pena già stabilito. Un anno e mezzo fa sono arrivato qui a Parma e devo dire che in questo carcere si è "scavato il suolo". Uno qui è costretto a sopportare cose che non sono scritte da nessuna parte e io non trovo pace né risposte. Sto scontando la mia pena fino all’ultimo giorno ma la Magistratura è assente, è tutto molto difficile. Ora la Chiesa come Istituzione perché non riesce a far cambiare qualcosa che non è la libertà? Ho perso la fede, non vedo la mia famiglia da più di 800 giorni, i miei figli sono diventati degli sconosciuti così come la mia compagna; ho deciso di tagliare i ponti con loro, di allontanarmi per non soffrire. Padre Giovanni mi ha sopportato a lungo, ha fatto un grande lavoro tra me e la mia famiglia, è stato il ponte con loro ma Lei come uomo di Chiesa può fare uno sforzo per cambiare qualcosa all’interno di questo istituto? Padre Giovanni: Sono entrato in questo istituto nel 2013; arrivavo da Bologna. Subito prendo atto della rigidità; poi con il nuovo Direttore, si apre uno spiraglio e noi cerchiamo di avanzare a piccoli passi; la redazione di Ristretti sembrava un obiettivo impossibile e invece è arrivata. Stiamo facendo davvero piccoli passi in avanti. Sarebbe molto importante fare formazione alle persone che qui operano; anche noi ne abbiamo bisogno! Ci stiamo pensando; il 3 maggio il vescovo incontrerà un piccolo gruppo di medici e infermieri e poi - speriamo - anche il personale di custodia. Per due volte sono andato a Reggio Emilia a invitare i Magistrati di Sorveglianza a venire! Vescovo: Quello che Carmelo mi dice lo avverto anche io; sono in contatto con i cappellani che operano qui e con la consulta per il carcere istituita dalla Caritas. Stante la durezza del carcere, la domanda è di mantenere e favorire la presenza dei volontari, perché questa presenza permanga. Per Natale mi ha fatto piacere che il Direttore mi abbia accompagnato a salutare le persone detenute; è un gesto importante, una porta socchiusa e, attraverso questa porta socchiusa, bisogna continuare a chiedere che anche Parma diventi un istituto come gli altri. Due volte l’anno in città si organizzava il "pranzo amico" a cui partecipavano alcune persone detenute che potevano uscire e stare un po’ con noi; ora, da due anni, non è più possibile fare niente perché dal carcere non esce più nessuno. Andrea Gangitano:- Secondo me stiamo girando intorno al problema; finché il carcere sarà gestito da queste stesse persone come potrà cambiare? Mi chiedo: perché torturarci? Quando tu torturi un essere umano, cosa stai facendo? Finché non cambieranno le menti o le persone, qui non cambierà niente. Ai volontari dicono: ma che venite a fare, questa è gente che ha ucciso … Vescovo: - Lei sottolinea con la sua sofferenza un fatto che si sta diffondendo nell’intera società; la tortura è negare alle persone la propria dignità, allora quando tolgo l’insegnante di sostegno a un figlio disabile, quando tolgo l’aiuto al tetraplegico, quando tolgo la casa a una famiglia, cosa sto facendo? Ci sono luoghi in cui questa sofferenza non è sopportabile. Andrea Gangitano: - Ma cosa dire se quelli che dovrebbero rispettare la legge sono i primi a violarla? Vescovo: - Sì, penso di capire quello che sta dicendo, quello che succede anche qui dentro. Questo voi lo patite anche per la sedimentazione di pratiche che insistono nel carcere di Parma ma è tanto diverso dal fatto che in Italia si faccia una legge che viene contraddetta immediatamente dopo? Ma poi chi fa le leggi? Il Parlamento o la Magistratura? Stiamo vivendo una rarefazione di umanità e voi siete una delle parti che ne soffre di più per due ragioni: la realtà del carcere di Parma, innanzitutto, e poi il fatto che, quando viene meno qualcosa nella società, ne soffre immediatamente chi è più debole. Corrado Favara: - Sono Corrado Favara e Le porto i saluti di tutta la sezione AS1. Sono un cattolico atipico, vivo nel ricordo della fede della mia giovinezza. Penso all’inferno di Dante "lasciate ogni speranza …" ma noi non possiamo lasciare la speranza, non da credenti, ma da uomini. La Chiesa è stata presente qui, prima con Padre Celso che ha subito come noi quella condizione che si vive qui dentro e poi con Padre Giovanni che ha portato una ventata nuova, anche grazie al Direttore attuale. Ricordo la Pasqua di due anni fa; la meraviglia di vedere che il Vescovo era venuto a trovarci in carcere, la voce che correva "c’è il Vescovo, c’è il Vescovo, allora qualcosa di nuovo sta nascendo!" Ma bisogna dare uno spazio giusto alla piantina perché possa crescere. Lei è una persona importante in questa città ma allora io Le chiedo perché si è creata questa separazione tra Parma e il carcere? Perché siamo così isolati? - Vescovo: Sono certissimo che quello che dite è vero ma bisogna mantenere alta una tensione positiva. Tra poco ricevo una classe di ragazzi del liceo che ha perso un compagno in un incidente; anche a loro devo portare speranza. La speranza siamo noi con le ali, la fede in Dio che mette le ali, la fede in Dio anche in chi non la riconosce. Dobbiamo continuare a lavorare per questo. - In chiusura interviene Claudio Conte chiedendo a Monsignor Solmi di sostenere la battaglia contro il 4bis - ergastolo ostativo che uccide la speranza. Il Vescovo assicura vicinanza e impegno; prima di lasciare la nostra redazione accompagnato da Padre Giovanni, saluta ciascuno dei presenti. A cura della redazione di Ristretti Orizzonti Ivrea (To): appello di Radicali e Sel "Orlando venga a visitare il carcere" di Vincenzo Iorio La Sentinella del Canavese, 27 maggio 2017 "Venga a rendersi conto della situazione esplosiva tra sovraffollamento e mancanza di personale". Una situazione esplosiva che presto potrebbe degenerare. Gli ultimi, di una lunga serie, di episodi di violenza e disagio registrati nel carcere di Ivrea, chiamano in ballo direttamente il ministro di Giustizia Andrea Orlando, invitato a venire in città per rendersi conto di persona della drammatica situazione in cui versa la casa circondariale di corso Vercelli. Solo la scorsa settimana un agente di polizia penitenziaria, l’ennesimo, è stato aggredito; un detenuto ha cercato di togliersi la vita; un altro ha dato fuoco alla sua cella. Per non parlare dell’inchiesta giudiziaria, condotta personalmente dal procuratore Giuseppe Ferrando, sulle presunte violenze ai danni dei detenuti da parte di un gruppo di agenti. L’appello al numero uno di via Arenula arriva dal consigliere regionale Marco Grimaldi (Sel) e dai radicali italiani Silvja Manzi e Igor Boni, più volte in visita al carcere, l’ultima a gennaio. "Crediamo che quanto sta succedendo imponga un’attenzione e un intervento al massimo livello - dichiarano Grimaldi, Boni e Manzi -. Per questo chiediamo al ministro Orlando di venire di persona a verificare una situazione che non è allarmistico definire esplosiva. I fatti balzati agli onori delle cronache dei giornali non sono infatti che il pixel di una fotografia ben più complessa e cruda". I numeri, secondo i tre, parlano da soli. Il carcere, che ha come capienza 192 posti regolamentari, è evidentemente sovraffollato: 244 detenuti di cui 102 stranieri (41,80%). Per quanto riguarda il personale della casa circondariale, delle 220 unità ottimali 183 sono in pianta organica, ma solo 144 sono effettivamente a disposizione della direttrice. Negli ultimi mesi, all’aumento delle presenze si è sommato l’arrivo di diversi casi di detenuti trasferiti da altri istituti, per lo più a causa di sanzioni disciplinari. Questa delicata situazione si scontra con la carenza di organico e con gli scarsi strumenti che la struttura ha a disposizione. "Una gestione meno conflittuale e più promiscua dei detenuti - spiega Grimaldi - avrebbe bisogno di aree comuni e di un impianto di videosorveglianza che consentirebbe agli agenti un minor carico di lavoro (costerebbe solo 40mila euro)". "A gennaio durante la nostra visita - spiegano Grimaldi, Boni e Manzi - gli operatori sanitari e del Sert dissero alla delegazione che dei 244 detenuti, ben 240 facevano uso di psicofarmaci, dai semplici analgesici a terapie più importanti. Mentre una guardia medica è presente h 24, per contro lo psicologo è attivo solo 24 ore al mese e lo psichiatra 2 ore a settimana. Vi sono inoltre 64 tossicodipendenti, tutti in terapia di mantenimento (a lievi dosi scalari). Inoltre, vi è una sostanziale assenza di attività ricreative, di studio o lavorative (solo 80 detenuti hanno la possibilità di svolgere un lavoro). Chiaramente tutto ciò richiederebbe ben altro investimento da parte delle istituzioni locali e del Governo". "Il nostro viaggio Codice a sbarre nei meandri delle carceri piemontesi ci ha mostrato che la vicenda di Ivrea è una delle più emblematiche - aggiungono -. Il punto non è trovare un capro espiatorio. Sovraffollamento, mancanza di personale e, soprattutto, assenza di alternative vere alla reclusione tout court, non possono che essere fonte di disagio e tensioni". "Evidentemente - concludono Grimaldi, Boni e Manzi - la vita in questo istituto è insostenibile per detenuti e operatori. Oltretutto, se vi sono o vi sono stati abusi - come alcuni carcerati denunciano - c’è da sperare che la Procura li porti alla luce al più presto". Trento: la Costituzione è entrata in carcere di Valentina Stella Il Dubbio, 27 maggio 2017 Si conclude lunedì il ciclo di incontri con i detenuti dello Spini di Gardolo. Andrea De Bertolini, presidente dell’ordine degli avvocati trentini: "è un’iniziativa che è espressione delle sinergie tra associazionismo, accademia e istituzione forense". Rispetto della Costituzione, diritto alla salute, libertà religiosa, principio di uguaglianza, libertà personale: questi gli argomenti al centro dei cicli di incontri che alcuni professori e ricercatori della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento hanno tenuto con i detenuti del carcere Spini di Gardolo di Trento, grazie ad una convenzione con l’associazione Apas (Associazione Provinciale di Aiuto Sociale per i detenuti, gli ex- detenuti e le loro famiglie) della citta, con due principali obiettivi: instaurare un dialogo a più voci focalizzato su alcuni principi costituzionali che possono concretamente servire da strumenti di emancipazione e integrazione sia dentro che fuori la prigione; rendere più concreto lo scopo di rieducazione e responsabilizzazione che la pena dovrebbe avere in forza dell’art. 27 della Carta Costituzionale. "Un detenuto dopo la lezione, lasciato solo nei suoi pensieri, ha deciso di leggersela tutta la Costituzione - ci racconta Matilde Bellingeri, laureanda in legge e coordinatrice del progetto insieme ad Aaron Giazzon per Apas - non ricordava quando fosse stata l’ultima volta in cui lo avesse fatto. E così, leggendo, si è messo a contare. Ha contato quante volte nella Costituzione sono richiamate le parole diritti (48), doveri (8), limiti (24), libertà (21). Senza "conta carattere", senza "selezione automatica", solo con una matita e un foglietto su cui prendere appunti, dettato dalla voglia di condividere una nuova riflessione con la sua classe. Essere speranza piuttosto che avere speranza". Il 29 maggio, a conclusione delle lezioni iniziate lo scorso 6 marzo, si terrà, presso la Sala Fondazione Caritro di Trento, l’evento di restituzione del progetto, in collaborazione con l’ordine degli avvocati di Trento, dal titolo "La Costituzione entra in carcere"; parteciperanno il direttore della casa circondariale Valerio Pappalardo, il preside della Facoltà di Giurisprudenza Giuseppe Nesi, il direttore di Apas Fabio Tognotti, l’onorevole Franco Corleone, coordinatore dei Garanti regionali per i diritti dei detenuti. Parteciperanno anche il professore Carlo Casonato, docente di Diritto Costituzionale dell’Università di Trento e responsabile del progetto per la Facoltà, che traccia un bilancio di questi primi mesi di incontri: "Abbiamo imparato molto, anzitutto, noi docenti. Le immagini con cui i detenuti hanno descritto la Costituzione, ad esempio, sono quelle di una palude, di una promessa tradita, della Salerno- Reggio Calabria. Ma poi qualcuno ha anche parlato della rete del trapezista, che ti salva quando sbagli. Sono immagini concrete, prodotte da un vissuto molto distante da quello degli studenti universitari. Le domande che si fanno in carcere, però, sono le stesse che si fanno fuori: quando si arriverà ad una piena applicazione dei principi costituzionali? Il significato del corso è proprio quello di rendere concreta la finalità rieducativa della pena". L’avvocato Andrea de Bertolini, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Trento, che concluderà l’incontro di lunedì dice: "È un’iniziativa culturale importante, espressione delle virtuose sinergie che il territorio palesa. Associazionismo sociale, Accademia come fulcro scientifico, Istituzione forense nella tipica funzione sociale, unite in comuni denominatori: tutela dei diritti e integrazione. Perché la "società dei giusti" non identifichi il carcere unicamente in luogo di repressione e di oblio rimuovendone l’esistenza per la quiete delle coscienze collettive. Perché, per i condannati, il carcere non sia un luogo in cui "si resta passando" marchiati dallo stigma sociale indelebile dell’ex detenuto". Gorizia: "Courage. Ritornare a casa", lo spettacolo teatrale con i detenuti diariodelweb.it, 27 maggio 2017 Fierascena, compagnia teatrale professionale per il Teatro sociale con il sostegno dell’ Unione territoriale intercomunale Collio - Alto Isonzo, il Comune di Gorizia e la Caritas diocesana di Gorizia e in collaborazione con l’Associazione nazionale dei Critici di Teatro e Casa circondariale di Gorizia per una rappresentazione diretta da Elisa Menon. Lo spettacolo giunge alla fine del progetto "Il Teatro delle ceneri" realizzato dall’Associazione culturale Fierascena, compagnia teatrale professionale per il Teatro sociale. Il laboratorio teatrale viene progettato sulla base di concreti obbiettivi riabilitativi precisati all’incontro con i partecipanti e si configura pertanto come uno spazio non solo di svago per i detenuti ma anche di lavoro su di se all’interno del quale viene richiesto uno sforzo di presenza, di partecipazione, di riflessione. Lo spettacolo avrà luogo venerdì 9 giugno alle 16.30 via Barzellini 8. Il tema del coraggio affrontato nello spettacolo - "Courage racconta il coraggio che serve per rimanere presenti e prepararsi per il dopo, per guardare fuori partendo da dentro, per accettare chi siamo e per decidere chi saremo. Courage racconta il viaggio che c’è da affrontare quando, crollate le mura e vinta la città di Troia, le ampie, bianche, bellissime vele vengono spiegate e la prua delle navi si dirige finalmente verso l’amata patria, la casa, la famiglia. Ritornare a casa è un viaggio individuale, interiore, sognato molte volte, desiderato, è un viaggio anche per chi aspetta, che si compie al passo di una tela tessuta e disfatta, al passo dell’ attesa, dell’assenza. È un incontro con quello che si è lasciato, con il proprio passato, per il proprio futuro, è il punto di equilibrio tra una storia che finisce e una nuova storia che inizia e che richiede ancora una volta coraggio: il coraggio di ritornare a casa, di varcare la soglia e vedere chi siamo, chi saremo". Ingresso libero con prenotazione inviando copia della propria carta d’identità all’indirizzo: fierascena@gmail.com entro il 30 maggio 2017. Il G7 cade sui migranti: bocciato il piano italiano, vince la linea Trump di Angela Mauro Huffington Post, 27 maggio 2017 Ma a Palazzo Chigi sono soddisfatti: "Si rischiava di non citare il tema". Unica intesa: sul terrorismo. Niente sul clima, si spera nel commercio. Ben 5 pagine, con riferimenti ai diritti dei rifugiati, le motivazioni di questa emergenza immigrazione senza fine, i contributi positivi dei migranti. Era questo, in origine, il documento che la presidenza italiana del G7 aveva preparato per il vertice di Taormina. Ma qui la bozza "made in Italy" naufraga, inabissata dalla presidenza Usa, affondata da Stephen Miller, lo sherpa di Donald Trump deputato a trattare sul tema migranti. Trentunenne, falco ultraconservatore: c’è Miller dietro il ‘Muslim ban’ di Trump. E c’è sempre Miller dietro i discorsi più infuocati del presidente. C’è stato Miller qui a Taormina a imporre la linea americana: immigrazione uguale sicurezza. Stop. Le cinque pagine italiane si sono asciugate fino alla stringata dichiarazione diffusa oggi. Questa: "Pur sostenendo i diritti umani dei migranti e rifugiati, riaffermiamo i diritti sovrani degli Stati di controllare i loro confini e fissare chiari limiti ai livelli netti di immigrazione, come elementi chiave della loro sicurezza nazionale e del loro benessere economico". L’Italia riesce a spuntare un accenno ad una "partnership" tutta da "stabilire" per "aiutare i paesi a creare nei loro confini le condizioni che risolvano le cause della migrazione". Stop. Da Palazzo Chigi tentano di salvare le apparenze, parlando di compromesso positivo, insistono sul fatto che niente era scontato, che la dichiarazione poteva anche non contenere alcun riferimento all’immigrazione, che Trump addirittura poteva anche decidere di non venire a Taormina e snobbare il vertice dei Grandi. Ma la voce senza entusiasmo di Paolo Gentiloni, nella breve dichiarazione alle tv al termine di questa prima giornata di vertice, tradisce delusione. Non a caso, il premier non fa il minimo accenno al tema immigrazione. Con grande dispiacere, visto che il governo di Roma - già in era Renzi - ha scelto Taormina per questo G7 a guida italiana proprio per mettere i leader di fronte al Mediterraneo: bellissimo paesaggio eppure epicentro dell’emergenza. Speranze deluse. L’unica questione sulla quale i leader trovano accordo è la lotta al terrorismo, tema che gli attentati di Manchester piazzano in primo piano. E si impegnano anche a chiedere ai grandi provider di internet di fare la loro parte contro le minacce terroristiche in rete. "Internet è molto spesso eco di atti di terrorismo", dice Gentiloni. Unicuum nel suo genere a Taormina, la dichiarazione comune sul terrorismo viene firmata con grande enfasi: in diretta davanti alle tv. Gentiloni ringrazia tutti per "l’unità, l’impegno, la determinazione". La premier britannica Theresa May pure ringrazia: "Possa la forza stare con noi". Applausi, ma i volti restano tesi. Perché per evitare il fallimento del vertice non basta il terrorismo. Sul clima per esempio non c’è speranza di chiudere alcunché. Il tema "resta sospeso", è costretto ad ammettere Gentiloni. "Gli americani hanno detto che è in corso una loro riflessione interna, della quale gli altri paesi hanno preso atto confermando il loro impegno totale per il rispetto dell’accordo di Parigi sul clima, un pezzo del nostro futuro". Angela Merkel affronta Trump a muso duro. "Abbiamo avuto una conversazione vivace", dice dopo un faccia a faccia con il presidente Usa sui cambiamenti cliamatici, il commercio internazionale, i rapporti con la Russia. "Abbiamo detto chiaramente che vogliamo che gli Usa rispettino l’impegno preso con l’accordo sul clima" di Parigi, aggiunge la Cancelliera. Ma nemmeno lei la spunta con Trump: "Gli Usa hanno chiarito di non aver ancora preso una decisione e che tale decisione non verrà presa qui". A Palazzo Chigi sperano che si possa raggiungere un compromesso almeno sul commercio internazionale: ultima chance per dare una parvenza di riuscita al vertice. Ma anche su questo la discussione è a dir poco tesa. La mattinata inizia con gli spifferi sulle parole di Trump contro la Germania e il suo surplus commerciale. A Taormina spirano venti forti di guerra commerciale contro l’Europa. La Cancelliera e gli altri leader perdono terreno contro Trump, che conferma l’interesse a stabilire legami e rapporti bilaterali: con la Gran Bretagna della Brexit, il governo di Theresa May. Succede proprio mentre gli altri stanno per iniziare la discussione sul commercio. Trump e May si vedono per un bilaterale in una pausa dei lavori del vertice. Chiariscono i dissapori dopo la fuga di notizie di intelligence dopo l’attentato a Manchester, ma soprattutto confermano l’intesa commerciale. Un accordo a due, in barba a ogni ricerca di accordo comune. "Sul commercio internazionale si sta ancora lavorando, ma sono stati individuati dei punti in comune su cui si può lavorare...", confida Gentiloni. La speranza è l’ultima a morire. Ma la prima giornata di vertice fa pendere la bilancia dalla parte di Trump, il nuovo leader che sguazza tra le debolezze degli altri. A cominciare da quelle dell’Unione Europea, ferita dalla Brexit, sempre più debole, con gli ospiti Jean Claude Juncker e Donald Tusk che cercare invano di parare i colpi dei grandi. Qui a Taormina c’è anche chi fa notare come questo sia il primo vertice per ben quattro grandi: Trump, il francese Macron, May e lo stesso Gentiloni. Quattro debuttanti, normale che prevalga la volontà di piantare paletti più che la ricerca di accordo. Ma questo è il primo G7 dell’era Trump che dà il via ad un’era per molti versi imprevedibile. Nemmeno il concerto serale nella bellissima cornice del Teatro greco di Taormina riesce a spazzare via la delusione dei leader occidentali, ognuno in abito da sera, accompagnati dai rispettivi consorti, atmosfera certo più rilassata al tramonto. Anche quello del G7? Migranti. In marcia per l’accoglienza, Bologna "senza paura" e senza il Sindaco di Giovanni Stinco Il Manifesto, 27 maggio 2017 Contro muri e razzismo. Ma l’opposizione alla legge Minniti-Orlando frena il Pd. Sindacati, associazioni, centri sociali, ong, attivisti e operatori. Bologna si prepara a scendere in piazza questo pomeriggio con la "Marcia per l’accoglienza, contro muri e razzismo. #NoOneIsIllegal". Una manifestazione, a differenza di quanto successo a Milano, organizzata dal basso, senza l’appoggio delle istituzioni. E la giunta, rispetto a quanto successo a Milano, ha spiegato di condividere lo spirito dell’evento, ma di non poter esserci perché non è stata coinvolta dall’inizio nella definizione della piattaforma politica e perché non condivide "la richiesta di dissociarsi da una legge dello Stato come quella Minniti-Orlando". Per intenderci quella, criticata anche da molti giuristi, che ha compresso le possibilità dei migranti di appellarsi contro eventuali no delle commissioni che devono decidere sulle loro richieste di asilo. Nonostante l’amministrazione abbia deciso di non aderire saranno in tanti a scendere in strada. Tutta Coalizione Civica, Sinistra Italiana, Possibile e i consiglieri comunali di quella parte del Pd più sensibile alle tematiche dell’accoglienza. Ma se a Milano il sindaco Sala aveva marciato in testa al corteo, a Bologna il primo cittadino Virginio Merola non ci sarà. E con lui grande assente sarà il Pd che non si è schierato. E la differenza non è certo da poco, così come balza all’occhio la differenza tra le due piattaforme politiche: inclusiva quella milanese del "20 Maggio senza muri", con dure critiche al governo quella bolognese. A partecipare alla marcia per l’accoglienza, a titolo personale, saranno l’assessore al Bilancio Davide Conte e quello all’economia, il dem Matteo Lepore. Cosa chiederanno i manifestanti? Una risposta politica, culturale e sociale a razzismo e xenofobia, "a chi vuole un’Europa fatta di nuovi muri e filo spinato, di carceri speciali e hotspot per migranti da respingere e sfruttare", alle campagne elettorali fatte sulla pelle dei migranti e "alle nuove ipocrisie del governo Gentiloni sul tema immigrazione". Bersaglio polemico di chi scenderà in piazza è la legge Minniti-Orlando, "che comporterà lo svuotamento del diritto di asilo e quindi la riduzione delle speranze di costruirsi un futuro migliore per chi arriva in Italia". "Oggi più che mai - è l’appello degli organizzatori - occorre ricordare di restare umani, per non accettare misure come quelle che discriminano ed escludono chi più si trova in difficoltà, considerandolo elemento di "degrado" di cui liberarsi". "Pensiamo che sia il tempo che Bologna, non solo per la sua storia, ma anche per il presente di impegno quotidiano di migliaia di cittadini e associazioni di vario tipo, dimostri con una grande marcia di essere indisponibile al ricatto della paura". Restano per ora inascoltati gli inviti all’amministrazione comunale, che negli anni ha comunque fatto molto sul versante dell’accoglienza. "Chiediamo - dice Siid Negash del Coordinamento Eritrea Democratica - che il Comune dia vita ad una rete di enti locali pronti a non utilizzare i poteri che il Ministro Minniti ha dato ai sindaci col "Daspo urbano", strumento ingiusto, pericoloso e razzista". L’impennata delle espulsioni dopo gli attentati che hanno colpito l’Europa di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 27 maggio 2017 L’ultimo risale a ieri, caricato su un volo per la Tunisia a poche ore dalla scarcerazione. Ha 24 anni, era detenuto per violenza sessuale e droga, segnalato dietro le sbarre come soggetto sensibile alla propaganda islamista radicale; ma soprattutto la polizia s’era accorta che da libero aveva avuto contatti con Tommaso Ben Yousef Ismail Hosni, l’accoltellatore della stazione di Milano. Così è diventato il quarantaseiesimo espulso dall’Italia del 2017 per motivi di prevenzione antiterrorismo. Una cifra che nasconde un ritmo da record. In tutto il 2016 erano stati 66, e così nel 2015. Nei primi cinque mesi di quest’anno siamo già a 46, con questa frequenza a dicembre si supererebbe quota 100. Soglie di rischio - la strada imboccata dai ministri dell’Interno (Marco Minniti, ma anche il suo predecessore Angelino Alfano) dopo gli attentati che hanno insanguinato l’Europa: allontanamento dei soggetti a rischio estremismo islamico con provvedimento amministrativo. E la soglia del rischio è stata recentemente abbassata nella misura in cui s’è alzata quella del pericolo attentati di marca jihadista, per cui ora vengono espulsi anche persone che prima sarebbero passate inosservate, o senza destare sufficienti sospetti. La metà esatta dei soggetti rimpatriati nel 2017 sono tunisini, 23; poi ci sono 11 marocchini, 4 egiziani, e pakistani e altrettanti kosovari, un francese e un sudanese. Numeri limitati dalla scarsa collaborazione di altri Paesi (Iraq e Siria in primo luogo), ma che danno la dimensione di quella raggiunta con Marocco e Tunisia che non solo accettano di riaccogliere i cittadini in odore di terrorismo, ma sviluppano indagini a partire da quei personaggi, in alcuni casi con qualche successo. La difficoltà a processare i sospetti - La scelta di procedere con maggiore decisione con questa politica è una delle conseguenze delle difficoltà riscontrate nel raccogliere elementi per processare e condannare i sospetti "combattenti", anche dopo l’introduzione di nuovi reati come l’addestramento o l’auto addestramento al compimento di attentati, o di generiche "condotte con finalità di terrorismo". Reati dalle finalità preventive, che spesso non si riescono a provare. Ma restano gli indizi, i comportamenti ambigui, e allora scatta l’espulsione. Come quando le segnalazioni arrivano dai servizi segreti e altre attività di intelligence che non si riesce a tramutare in atti utilizzabili davanti a un tribunale; anche in questi casi, se il rischio è ritenuto comunque concreto, si procede con l’allontanamento. Un terzo gruppo di espulsi sono i detenuti stranieri per reati comuni - quasi sempre legati al traffico di stupefacenti - che durante il periodo trascorso in cella hanno dato segnali di interesse per la propaganda islamica radicale, o si sono lasciati andare a esultanze o commenti favorevoli alla notizia di qualche attentato; anche loro, scontata la pena, vengono rispediti in patria. Infine ci sono i cosiddetti "predicatori d’odio", cioè gli imam o altro fedeli che nei loro proclami si distinguono per segnare confini troppo netti con le regole della civiltà occidentale. In provincia di Vicenza ne è stato individuato uno che intimava di non ascoltare musica dopo che alcuni bambini, a scuola, si tappavano le orecchie quando i compagni cantavano; la maestra ha chiesto il motivo e loro hanno raccontato che gliel’avevano ordinato i genitori, dopo essere stati in moschea. Se "il profeta Maometto è la linea rossa" - Ma l’attività a cui si dedicano con maggiore attenzione gli specialisti della Direzione centrale della polizia di prevenzione è il controllo di internet e dei social network. È lì che si scoprono dialoghi e contatti da cui emergono i "soggetti di prossima disponibilità alla mobilitazione", come tecnicamente vengono definiti i potenziali terroristi, candidati all’espulsione. Dopo l’attentato parigino a Charlie Hebdo, il marocchino Oussama Khachia scrisse su Facebook che la strage dei giornalisti era giusta perché "ogni cosa ha un limite, il profeta Maometto è la linea rossa", e comunque "è meglio morire in piedi che inginocchiati di fronte ai miscredenti"; due mesi dopo l’allontanamento dall’Italia, è andato in Siria dove è stato ucciso combattendo. Il ventiduenne tunisino Ben Dihab Nasredine, che viveva in provincia di Brescia, è stato rimpatriato a dicembre 2016 dopo che su internet sono stati intercettati i dialoghi in cui si diceva "pronto in qualsiasi momento a favorire la vittoria dei musulmani in questa terra di miscredenti". Nel suo Paese è stato arrestato e ha confessato l’appartenenza a un gruppo estremista, come ha fatto il marocchino F. Y., trentaquattrenne residente nelle Marche, in stretto contatto con un forein fighters giunto in Siria da Milano. Su Facebook incitava all’unità dei diversi fronti combattenti nel nome di Allah, e nel dubbio che stesse cadendo nella rete dei reclutatori è stato rispedito in patria, dove ha cominciato a collaborare con gli investigatori fornendo informazioni su altri potenziali combattenti. Terrorista per il giudice ma rifugiata per il ministero: liberata cittadina libica di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 27 maggio 2017 La donna lavorava come ricercatrice all’università di Palermo ma era stata condannata a un anno e otto mesi per propaganda islamica. Minniti chiede l’immediata revoca del beneficio. Terrorista islamica per il giudice, perseguitata politica per la commissione ministeriale: rischia di trasformarsi in un rebus diplomatico e giudiziario il destino di Khadiga Shabbi, la ricercatrice libica che lavorava all’università di Palermo e condannata a un anno e otto mesi per istigazione al terrorismo; ieri alla donna, che era detenuta nel Cie di Ponte Galeria a Roma è stato concesso lo status di perseguitata politica ed è stata rimessa in libertà. Ma il ministro dell’interno Marco Minniti è subito intervenuto chiedendo al questore di Roma che alla sospetta terrorista venga immediatamente ritirato questo beneficio. La propaganda sul web e l’arresto - Khadiga Shabbi negli ultimi anni ha fatto di continuo dentro e fuori dal carcere. La donna era arrivata a Palermo grazie a una borsa di studio e aveva cominciato l’attività di ricercatrice presso l’università. La procura ne aveva però chiesto l’arresto nel dicembre del 2015 dopo aver scoperto che Khadiga, sul web, avrebbe svolto attività di propaganda a favore della jihad e di appoggio ad alcuni gruppi fondamentalisti del suo paese. Il tribunale aveva rimesso in libertà la donna ma un ricorso in Cassazione dei pm ne aveva determinato l’arresto-bis. Giudicata con rito abbreviato, era stata condannata dal gup di Palermo a un anno e 8 mesi (contro i 4 del pm): poiché incensurata, aveva ottenuto i benefici di legge ma contemporaneamente ne era stato chiesta l’espulsione, previo trasferimento al Cie di Roma. Qui però Khadiga aveva avviato la richiesta di asilo politico: non voleva tornare in Libia dove è in atto la guerra civile. Minniti: un errore liberarla - Ieri la svolta, con la concessione di un permesso umanitario di due anni da parte della commissione territoriale di Roma. "La commissione del Viminale ha esaminato con molta attenzione la nostra corposa istanza e ha deciso scevra da condizionamenti mediatici e ambientali. Sia il giudice che la commissione hanno avuto rispetto delle norme: a partire da quelle costituzionali" ha dichiarato Michele Andreano, l’avvocato della cittadina libica. "La mia cliente - ha proseguito - se fosse tornata in Libia avrebbe rischiato la vita, è libera e intende tornare a Palermo". Poco dopo le 15 Khadiga ha lasciato il Cie ma sulla sua libertà pende adesso una spada di Damocle. Il ministro dell’Interno Marco Minniti ha chiesto al questore di Roma l’immediata revoca della protezione umanitaria, convinto che la protezione sia stata concessa erroneamente. Secondo il ministro, infatti poteva essere solo evitata l’espulsione verso la Libia senza che però sui aprissero per la donna i cancelli del Cie. "Istigazione al suicidio": inchiesta sul rito social della giovane studentessa di Giuseppe Legato e Simona Lorenzetti La Stampa, 27 maggio 2017 Accertamenti sul possibile caso di Blue Whale. Sentiti i compagni ci classe: "Una cosa mia, statene fuori". Istigazione al suicidio. È il titolo di reato che compare sul fascicolo d’inchiesta aperto dalla procura di Asti. Il caso è quello della giovane studentessa di una scuola di Moncalieri, che secondo una prima ipotesi investigativa potrebbe essere finita, anche solo per emulazione, in un gioco più grande di lei. Un macabro rituale in 50 punti, facilmente rintracciabile su Internet e che si ispira alla leggenda della Blue Whale, la balena blu. Prevede una serie di tappe, una al giorno: un susseguirsi di gesti autolesionistici che si concludono con il suicidio dall’ultimo piano di un palazzo. Che questo gioco molto probabilmente non esista poco incide sulla vicenda. Perché tra molti giovani il messaggio è passato in maniera dirompente e basta collegarsi a Internet per accedere a un manuale che recita cosa fare e cosa no per arrivare alla fine. Alla morte. L’indagine, che in un primo momento era approdata in procura a Torino, è stata trasferita ad Asti per competenza territoriale: la giovane, infatti, risiede in un comune del Torinese ma che ricade da un punto di vista giurisdizionale sotto la procura astigiana. Da qui l’invio degli atti negli uffici di via Govone, dove a seguire l’inchiesta è il procuratore capo, Alberto Perduca. L’ipotesi di reato è contro ignoti. Intanto ieri è stata una lunga giornata di indagini per i carabinieri di Moncalieri, che hanno sentito alcuni compagni di classe della giovane Sara in caserma. Sono stati loro a segnalare a una delle insegnanti che l’amica si stava presentando a scuola con tagli alle braccia e alle labbra. Cosi l’hanno salvata da un estremo disagio giovanile sul quale, secondo i carabinieri, si potrebbe essere innestato il macabro rituale: "Era da 10 giorni che le chiedevamo che cosa le stesse succedendo. Ci eravamo preoccupati molto perché abbiamo collegato i fatti al gioco assurdo del Blue Whale. Lei ha risposto sempre che non erano fatti nostri. Che non voleva parlarne. Continuava a ripeterci: è roba mia, lasciatemi stare. Quando abbiamo visto anche il taglio sul labbro ne abbiamo discusso insieme e ci siamo convinti a dirlo alla professoressa". La storia che segue è quella di uno scudo tempestivo di scuola, forze dell’ordine, procura, assistenti sociali. Il vicepreside ha telefonato in caserma e il meccanismo si è attivato velocemente. Alcune settimane fa Sara era stata vista piangere a scuola e aveva manifestato il suo disagio personale a qualcuno: "Era stata però rinfrancata e ascoltata - spiegano dall’istituto - perché si era riusciti a intercettare la sua fiducia". La ragazza ha negato di fronte ai militari di essere entrata in contatto con alcun "curatore", (così si chiamerebbe il gestore dell’applicazione). Ha negato decisamente pur ammettendo una situazione familiare molto complessa. Vive coi nonni, senza mamma e papà. Ciò che si tratta di capire ora è se qualcuno le abbia messo in testa questo gioco folle e perverso. O se avesse deciso di farlo anche solo leggendo su Internet dettagli e suggestioni. E per far questo i carabinieri hanno sequestrato in casa il pc e lo smartphone oltre a una serie di appunti scritti a mano. Il procuratore Perduca disporrà una consulenza tecnica e informatica. Per cercare eventuali contatti e tracce che possano far luce su questa storia. Anche i profili social e i dati di navigazione sul web verranno estrapolati dalle memorie dei dispositivi e scandagliati. Sara intanto è stata medicata all’ospedale Regina Margherita di Torino. I medici hanno stilato un referto sui numerosi tagli che si è procurata con un rasoio, probabilmente quello del nonno. Uno di questi richiamerebbe la forma di una balena. Che sia solo un profondo disagio o anche un tentativo di emulare un gioco perverso, sarà appurato dalla magistratura. Libano. Un italiano nell’inferno di Beirut per salvare gli ostaggi degli sciiti di Gianni Riotta La Stampa, 27 maggio 2017 Venticinque anni fa finiva la crisi dei prigionieri occidentali di Hezbollah grazie al diplomatico Onu Gian Domenico Picco. La chiave della mia vita è il numero 8. Sono nato l’8 ottobre 1948, e mediai il cessate il fuoco della guerra Iran-Iraq, dopo otto anni di guerra l’8-8-1988" sorride Giandomenico Picco, Gianni per gli amici, in un bar qualunque dietro la chiassosa stazione ferroviaria di Grand Central, New York. I capelli si son fatti grigi, gli occhi più malinconici, la conversazione resta quieta, da friulano Doc di Udine, papà farmacista e mamma casalinga. Quando i ricordi prendono il sopravvento però, l’alto ed elegante businessman italiano, doppiopetto principe di Galles, torna Gianni Picco, l’inviato delle Nazioni Unite che, alla fine degli Anni 80, sotto il segno del suo Numero-Nemesi, negoziò il rilascio degli ostaggi occidentali, rapiti in Libano da milizie che confluiranno in Hezbollah. Gli ultimi, liberati dalle cantine infernali di Beirut sventrata dalla guerra civile, i volontari tedeschi Thomas Kemptner e Heinrich Struebig rapiti nel 1989, vennero rilasciati 25 anni fa, il 17 giugno del 1992 e, con qualche fatica, ho convinto Gianni Picco ad abbandonare la sua casa nel verde del Connecticut e ricordare i giorni in cui, bendato, coperto con un plaid sporco sul sedile posteriore di un’auto crivellata di colpi, rischiò la vita per salvare innocenti. "Il segretario generale dell’Onu era Javier Pérez de Cuéllar, la Guerra Fredda volgeva al termine ma in Libano, dal 1975 al 1990, la guerra civile, innescata da cristiani maroniti e palestinesi, degenerata in faida di tutti contro tutti, con Israele, Siria, Iran, gli occidentali a mestare, fece 120.000 morti. I padri di quel che sarà Hezbollah, decisero di ricorrere al rapimento di occidentali, come assicurazione contro rappresaglie e ricatto politico-economico. Scompaiono, Ak 47 in faccia e cappuccio sugli occhi, 104 persone, tra cui 26 americani, 16 francesi, 12 inglesi, sette svizzeri e tedeschi. "L’11 settembre 1985, sedici anni prima della strage alle Torri Gemelle, nel giorno del suo compleanno, le milizie rapiscono anche l’italiano Alberto Molinari, vicepresidente della Camera di Commercio a Beirut. "Non è mai stato ritrovato", lamenta Picco. A mandar Picco, di notte, tra i crateri delle esplosioni a incontrare, accecato da una benda, capibanda spietati, è l’intuizione, avuta negoziando tra Iraq e Iran: "Gli occidentali erano per l’Iraq sunnita di Saddam Hussein - ricorda Picco piluccando un hamburger - l’Iran sciita di Khomeini era un paria da evitare. Conobbi però ex studenti come Mohammad Javad Zarif che, da borsista in America era diventato diplomatico del suo Paese all’Onu grazie al suo inglese, ed oggi è ministro degli Esteri di Teheran. Capii che, legati dalla fede islamica sciita agli Hezbollah in Libano, gli iraniani erano la strada per salvare gli ostaggi". Con l’ok di de Cuellar, che lo considera "soldato disarmato della diplomazia", Gianni Picco raggiunge Beirut da Cipro, con mezzi di fortuna. Pensa al reverendo anglicano inglese Terry Waite, che aveva provato a negoziare un’intesa solo per essere sequestrato il 20 gennaio 1987, per cinque anni in isolamento e al buio, squassato dall’asma. O al giornalista dell’AP Terry Anderson, rapito il 16 marzo 1985 e, dopo la detenzione più lunga, rilasciato nel 4 dicembre 1991. O ai destini fatali, il capo della stazione Cia William Buckley, rapito nel marzo 1984, orribilmente torturato, giustiziato o morto per un infarto davanti al boia, il colonnello dei marines Higgins, in mano a Hezbollah dal 1988, impiccato. I terroristi gettano nella spazzatura i corpi dei due americani, monito sprezzante. "È tempo di andare. Ti vogliono parlare": con queste parole un miliziano intima a Picco di lasciare la relativa quiete del campo Onu e perdersi nella notte. "Fu la prima di mille avventure, paura in pancia, il pensiero a moglie e figlio che temevo di non rivedere. Seppi che avevano lustrato il box metallico con cui avevano rapito il reverendo Waite, uomo della mia stazza, spesso trasferito curvo in un frigorifero. - Prendiamo Picco, l’italiano, uno dell’Onu ci fa gioco, dicevano certi capi, ma quella notte, quando mi tolsero la benda vidi un signore, mascherato, che dialogò e mi fece avvicinare il primo ostaggio". A lungo Picco non lo saprà, furono gli israeliani a rivelarlo, ma sta trattando con il capo delle operazioni militari di Hezbollah, Imad Fayez Mughniyeh, nome di battaglia al-Hajj Radwan, regista delle stragi in Libano che colpirà in Argentina l’ambasciata di Israele, per saltare su un’autobomba a Damasco 2008, l’"8" del destino di Picco. "Perché si fidassero di me, fosse la pressione iraniana o avessero capito che la crudeltà non paga, non so. Funzionò comunque e furono i giorni migliori della mia vita". Decorato con le onorificenze dei Paesi coinvolti, - "il presidente Bush padre mi offrì la cittadinanza americana che declinai" - autore di toccanti volumi di memorie, Picco si scontra con le gelosie dei burocrati Onu, scettici sul "diplomatico disarmato", e lascia il Palazzo di Vetro. Funzionerebbe il suo coraggio spavaldo con Isis, con i jihadisti che detengono in Siria il gesuita padre Dall’Olio e l’imprenditore Sergio Zanotti? Picco è perplesso "Il mio mondo era più semplice, Usa e Urss comandavano. Ora è una giungla. Io andai mentre tutti mi dicevano "fai carriera, chi te lo fa fare?", perché non credevo che un diplomatico Onu potesse essere equidistante tra terrore e tolleranza. Ho pagato dei prezzi duri, pubblici e privati, per le mie scelte". Fiero quando racconta quelle notti a Beirut, 25 anni fa, lo sguardo di Picco si vela di tristezza davanti al presente, perché è duro, e solitario, e senza paga, il mestiere di eroe. Stati Uniti. Sfuggì al boia per sette volte, messo a morte a 75 anni Avvenire, 27 maggio 2017 Condannato per omicidio in Alabama, Tommy Arthur era stato soprannominato "Houdini" per la sua abilità a sfuggire alle esecuzioni. Ma l’altra notte è stato ucciso. Era stato soprannominato "Houdini" perché per ben sette volte era riuscito ad evitare il boia con vari appigli legali. Ma dopo l’ennesimo rinvio, per lui ieri sera non c’è stato più nulla da fare. Il detenuto Tommy Arthur, 75 anni, è stato ucciso in un carcere nel sudest dell’Alabama, in Usa, con un’iniezione letale dopo essere stato condannato per un omicidio avvenuto nel 1982. La vittima, Troy Wicker, fu ammazzata a colpi di pistola mentre dormiva nella cittadina di Muscle Shoals. All’epoca, la moglie disse di essere stata violentata da un afroamericano che poi ammazzò il marito. Dopo confessò dicendo di aver pianificato con Arthur l’uccisione del consorte e l’uomo si presentò a casa loro con una parrucca stile afro per compiere il delitto. La donna lo pagò con 10mila dollari. Tra il 2001 e il 2016 sono state fissate sette esecuzioni, tutte rinviate dopo i vari appelli degli avvocati. Fino a l’altrasera. Libia. Assalto al carcere di Tripoli dove è detenuto il figlio di Gheddafi di Giordano Stabile La Stampa, 27 maggio 2017 Una milizia fedele al governo di Al-Serraj ha preso il controllo della prigione di Al-Habada, scontri con gli islamisti, Saif trasferito "in un luogo sicuro". Una milizia armata fedele al governo di unione nazionale del premier Fayez al-Serraj ha assaltato e preso il controllo del carcere di Al Hadaba, a Tripoli, nella periferia meridionale della capitale. Nella stessa aerea, e nel quartiere roccaforte degli islamisti di Abu Salim, ci sono stati violentissimi scontri, anche con uso di artiglieria. Più a Ovest colpi di artiglieria avrebbero colpito anche edifici dell’Eni al Mellitah, senza gravi danni. Scontri in tutti i sobborghi - Gli scontri sembra legati all’incontro del 2 maggio fra Al-Serraj e il generale Khalifa Haftar, ex fedelissimo di Gheddafi che controlla la Cirenaica. Le milizie islamiste che fanno capo al Gran Muftì Sadiq al-Ghariani e all’ex premier Khalifa Ghwell sono andate in fibrillazione e avrebbero minacciato di attaccare il quartiere generale di Al-Serraj. Sono state contrastate dalla milizia Raqa, legata all’alleato di Al-Serraj Abdulrauf Kara, e dalle Brigate rivoluzionarie di Tripoli, fedeli a un altro signore della guerra tripolino, Haitem Tajouri. Prigionieri trasferiti al sicuro - Gli islamisti hanno anche minacciato di giustiziare il figlio di Gheddafi, Saif, che era nella prigione di Al-Habada, sotto il loro controllo. Per questo, a quanto finora si è riusciti a ricostruire, le milizie di Tajouri hanno assaltato il carcere - dove sono reclusi diversi esponenti dell’ex regime, compreso l’ex capo degli 007 Abdallah al Senoussi - e trasferito i prigionieri in un "luogo sicuro". Bilancio pesante - Ma la battaglia più dura è avvenuta nel quartiere islamista di Abu Salim. Qui le milizie fedeli ad Al-Serraj hanno perso 52 combattenti. "Almeno 17 di loro sono stati uccisi a sangue freddo", ha accusato Bishr Hachem Bishr, consigliere militare del Governo di accordo nazionale (Gna) alla tv qatarina Al-Jazeera. Molti civili sono rimasti intrappolati tra i due fuochi e non riescono a lasciare le zone degli scontri. Altre milizie islamiste, la Terza Forza di Misurata, avevano trucidato 150 soldati del generale Haftar in una base nel Fezzan, nel Sud della Libia, la scorsa settimana.