Meno reati, più detenuti (oltre 56 mila). Antigone: "effetto degli allarmi sicurezza" di Laura Pasotti Redattore Sociale, 26 maggio 2017 Rapporto Antigone. In 6 mesi i detenuti sono aumentati di 1.500 unità arrivando a oltre 56 mila: di cui il 34% in custodia cautelare. Gli stranieri sono il 34,1%. Si finisce in carcere per reati contro il patrimonio, contro la persona e contro la legge sulle droghe (il 15% del totale). Crescono leggermente le misure alternative Diminuiscono sensibilmente i reati, crescono invece i detenuti. È quanto emerge da "Torna il carcere", il XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione realizzato da Antigone e presentato ieri mattina a Roma. Negli ultimi 6 mesi il numero dei detenuti nei 190 istituti penitenziari italiani è cresciuto di 1.500 unità, arrivando a oltre 56 mila. "Una crescita progressiva, ma non lineare", si legge nel rapporto. Nel semestre precedente la crescita era stata di 1.100 unità. Negli ultimi 16 mesi i detenuti sono cresciuti di 4.272. Il tasso di sovraffollamento è passato dal 105% del 2015 al 112,8% dell’aprile di quest’anno. Aumentano anche i detenuti in custodia cautelare (sono il 34,6% del totale) e la percentuale degli stranieri (il 34,1%). I reati invece calano. Nel 2015 quelli denunciati erano oltre 2,6 milioni contro i 2,8 milioni del 2014. Per alcuni reati il calo è stato enorme: nel 1991 gli omicidi sono stati 1.916, nel 2016 sono scesi a 397. In calo violenze sessuali, rapine, furti, usura, omicidi volontari. "Tra il 2014 e oggi i delitti sono diminuiti senza che fossero approvate norme che cambiassero in maniera significativa la legislazione preesistente, nonostante ciò i detenuti sono tornati a crescere - scrive Antigone. Le spiegazioni possono ricondursi a tre circostanze: tra il 2010 e il 2014 c’è stata grande attenzione su carceri e sovraffollamento e il messaggio era ridurre la pressione repressiva, nel frattempo è ripartita la campagna sulla sicurezza che evita di fondarsi su dati di realtà ma si appella alla percezione di insicurezza con un atteggiamento repressivo verso chi vive ai margini, alla fine del 2015 è terminata la misura della liberazione anticipata speciale che portava da 45 a 75 giorni lo sconto di pena per buona condotta". Reati. A fine 2016 erano 30.900 le persone in carcere condannate o accusate di reati contro il patrimonio (pari al 24,8% del totale), contro i 29.913 del 2015. Tra gli altri reati più frequenti: quelli contro la persona (21.887 detenuti) e contro la legge sulle droghe (18.702 detenuti). "Per i detenuti in carcere per violazione della legge sulle droghe lo Stato spende ogni anno circa 1 miliardo di euro. Dopo una leggere flessione avutasi lo scorso anno, il dato è tornato a crescere". Sono 1.797 le violazioni del testo unico sull’immigrazione e 3.869 le persone in carcere per reati di tipo contravvenzionale. Aumentano i detenuti per condanne inferiori a 3 anni e diminuiscono i detenuti con condanne superiori ai 10, "dimostrando che ci si allontana da quel modello di extrema ratio cui l’uso del carcere dovrebbe essere improntato". Custodia cautelare. Nonostante le riforme il nostro Paese rimane sopra la media dell’Unione europea. L’Italia è infatti il quinto Paese Ue con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare: a fine 2016 erano il 34,6%, la media europea è del 22 per cento. "Nel 2008 la carcerazione in assenza di condanna definitiva riguardava il 51,3% dei detenuti - si legge nel rapporto - Le riforme degli ultimi anni hanno permesso una certa deflazione, senza riportarci a soglie accettabili, in linea col resto d’Europa. Il ricorso alla custodia cautelare è peraltro selettivo e ingiusto, giacché riguarda soprattutto i detenuti più vulnerabili, come gli stranieri". Misure alternative. In lieve crescita il ricorso alle misure alternative: poco più di 24 mila a fine febbraio 2017 contro le 23.424 di fine 2016. "Una lieve crescita fatta in gran parte dall’aumento dell’affidamento in prova al servizio sociale (+448) e in misura minore alla detenzione domiciliare (+179)". Solo il 5,92% dei deTEnuti ha visto revocare la misura alternativa, tra questi meno dell’1% è dovuto alla commissione di nuovi reati. Costi. Il bilancio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel 2017 è di circa 2,8 miliardi di euro (-40 milioni rispetto al 2016). Più del 70% delle risorse va alla voce "polizia penitenziaria", anche se non comprende alcune spese a favore della polizia penitenziaria stessa come buoni pasto, mense, vestiario, armamento, trattamento previdenziale. Soo l’8,5% delle risorse è speso direttamente per i detenuti (circa 11 euro al giorno ciascuno). Il budget per istruzione e scuola è di poco più di 2,8 milioni di euro, le attività culturali, ricreative, sportive e le biblioteche di 624 mila euro. I compensi per i detenuti che lavorano ammontano a 115 milioni di euro. "L’anno scorso abbiamo lanciato la campagna 20x20 per arrivare a spendere entro il 2020 il 20% del bilancio del Dap in misure alternative sapendo che la percentuale di recidiva tra chi ne beneficia scende al 19% contro circa il 68% di chi sconta la pena in carcere - si legge nel rapporto - Tuttavia per queste misure il Dap ha speso nel 2016 meno del 3% del proprio bilancio e le risorse per il 2017 si attestano alla stessa cifra". Donne. A fine 2016 erano 2.285, poco più del 4% del totale. La percentuale è rimasta invariata negli anni. I reati per cui sono in carcere sono quelli contro il patrimonio e quelli legati alla legge sulle droghe. "Numeri esigui rispetto alla detenzione maschile ma che spesso si traducono in una scarsa attenzione al percorso trattamentale: poche le detenute che lavorano o che seguono un corso di istruzione e formazione". Ad aprile erano 50 i bambini conviventi in carcere con le loro 42 madri. Minori. A fine 2016 erano 462 i ragazzi presenti in carcere, di cui 283 giovani adulti. Quelli con condanna definitiva erano 261. La permanenza media è stata di 138 giorni per i maschi italiani e 130 per le femmine italiane, 117 per i maschi stranieri e 93 per le femmine straniere. Al 15 maggio 2017 erano presenti anche 11 detenuti per violazione del Testo unico sull’immigrazione. "Come ci è capitato di renderci conto nelle visite, c’è il forte rischio che tra loro ci siano ragazzi migranti che, dopo un viaggio drammatico, sono stati accusati di essere scafisti solo perché indicati dal vero scafista (assente sull’imbarcazione) come colore che dovevano reggere il timone o svolgere altre piccole mansioni di bordo". Personale. Nelle carceri italiane ci sono molti agenti, pochissimi educatori e poco personale medico e paramedico. I poliziotti sono quasi il 90% del personale, gli educatori il 2,17%. La carenza di organico è dovuta a un numero previsto di agenti molto alto. "Una carenza reale e forte riguarda invece gli educatori: per loro il divario fra organico previsto e in forza si attesta intorno a un valore medio di -35% con punte drammatiche in Toscana, Umbria, Lombardia, Emilia-Romagna e Marche - si legge. Appare quanto mai necessario concentrare le risorse per incrementare la presenza di educatori, medici, psicologi e altre figure funzionali al reinserimento sociale degli ex detenuti". Rapporto Antigone. Pochi delitti molti detenuti: il paradosso della sicurezza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 maggio 2017 Il carcere ritorna protagonista: aumenta il numero dei detenuti, nonostante la diminuzione dei reati. È quello che emerge dal tredicesimo rapporto dell’associazione Antigone intitolato "Torna il carcere". I numeri sono chiari: negli ultimi 6 mesi si è passati da 54.912 presenze a 56.436. Il rapporto dell’associazione Antigone, presieduta da Patrizio Gonnella e dalla coordinatrice Susanna Marietti, sulle condizioni di detenzione è stato presentato ieri mattina a Roma con il Capo del Dap, Santi Consolo, e il Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma. Secondo gli ultimi dati forniti dall’Istat, infatti, si registra il 10,6% in meno di rapine (cioè furti aggravati dalla violenza o dalla minaccia), quasi il 7% in meno dei furti, il 15% in meno di omicidi volontari e tentati omicidi, il 6% in meno di violenze sessuali il 7,4% in meno di usura). Ci si era illusi che, dopo la condanna per trattamenti inumani e degradanti della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (sentenza Torreggiani, 2013), il carcere potesse tornare a perseguire gli obiettivi dettati dalla Costituzione. I provvedimenti che incentivavano l’utilizzo delle misure alternative, le proposte degli Stati Generali dell’Esecuzione penale, l’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà aveva reso fiducioso Antigone per un positivo cambio di clima politico. E invece numeri e politiche ben fotografate dal rapporto, curato da Alessio Scandurra, Gennaro Santoro e Daniela Ronco, evidenziano passi indietro: 56.436 è il numero di persone detenute duemila persone in più in soli quattro mesi -; sono stati 45 i suicidi in carcere nel corso del 2016 - spesso avvenuti dopo la detenzione in celle di isolamento - e con 19 suicidi dall’inizio del nuovo anno; la riforma dell’ordinamento penitenziario è ferma al palo; la legge sul reato di tortura resa "monca" per le varie modifiche. E il populismo penale rischia di essere l’unica risposta all’insicurezza dei cittadini. Sovraffollamento - Nel rapporto di Antigone viene spiegato che negli ultimi 6 mesi si è passati dalle 54.912 presenze del 31 ottobre del 2016 alle 56.436 del 30 aprile 2017, con una crescita di 1.524 detenuti in un semestre. Alessio Scandurra scrive nel rapporto che si tratta di un aumento tutt’altro che trascurabile: non solo conferma una tendenza all’aumento già registrato nei mesi precedenti, ma soprattutto perché questa tendenza viene consolidata e appare in progressiva accelerazione. Nel semestre precedente, dal 30 aprile al 31 ottobre del 2016, la crescita era stata infatti di 1.187 detenuti. "Se i prossimi anni dovessero vedere una crescita della popolazione detenuta pari a quella registrata negli ultimi sei mesi - spiega Scandurra, alla fine del 2020 saremmo già oltre i 67.000". Custodia cautelare - L’Italia è il quinto paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare, scrive Gennaro Santoro nel rapporto, con una percentuale di detenuti non definitivi, al 31 dicembre 2016, pari al 34,6% rispetto ad una media europea pari al 22%. Tra le varie cause che provocano l’elevato numero di ristretti non definitivi viene identificata l’eccessiva durata del procedimento penale e la scarsa applicazione di misure meno afflittive, quale ad esempio gli arresti domiciliari (con o senza l’utilizzo del braccialetto elettronico). Tale dato, inevitabilmente comporta che la custodia cautelare rappresenti anche una anticipazione (o, spesso, una sostituzione) della pena finale. "Ciò comporta - si legge sempre nel rapporto - che la custodia cautelare svolga una funzione in parte contraria alla legge, perché si pone in contrasto con il principio di presunzione di innocenza sopra menzionato: la funzione della custodia cautelare dovrebbe infatti risiedere esclusivamente nel rispondere alle esigenze cautelari". Antigone denuncia le conseguenze drammatiche di tale situazione che si riversano sui detenuti stessi che, in quanto non definitivi, sono destinatari di norme e prassi carcerarie deteriori rispetto a quelle dedicate ai definitivi (ad esempio, per l’accesso al lavoro), nonostante possano trascorrere in carcere numerosi anni. Stranieri in carcere - Secondo Antigone ci crea un effetto "criminalizzazione dello straniero", con un aumento dal 33,2% del 2015 al 34,1% di oggi. Sono, poi, 356 i detenuti su cui si concentrano i timori connessi alla radicalizzazione. 11 sono i minori detenuti con l’accusa di essere scafisti. Ma, secondo Antigone, vi è il "forte rischio" che tra loro ci siano ragazzi indicati come tali dai veri scafisti, solo perché dovevano reggere il timone o svolgere altre piccole mansioni a bordo. Misure alternative - "Sarebbe importante monitorare scrive Daniela Ronco nel rapporto di Antigone - in maniera sistematica e accurata i dati sulla recidiva nel nostro paese: le ricerche condotte, a livello nazionale o locale, dimostrano l’idea della funzione di riduzione della recidiva in caso di condanna scontata in misura alternativa anziché in carcere". L’Ordinamento Penitenziario individua tre tipi di misure alternative: l’affidamento in prova al servizio sociale, la semi- libertà, la detenzione domiciliare. La misura più utilizzata resta l’affidamento in prova al servizio sociale, ossia quella sanzione penale che consente al condannato di espiare la pena detentiva inflitta o residua in regime di libertà assistita e controllata, sulla base di un programma di trattamento. Carcerati da paura. Di nuovo celle affollate, nonostante i reati in calo di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 maggio 2017 XIII Rapporto di Antigone. A un anno dagli Stati generali nessuna riforma. Finito l’effetto della reprimenda di Strasburgo e ripreso a spirare il vento elettorale dritto sul fuoco dell’insicurezza, il trend della popolazione carceraria ha cambiato nuovamente di segno. In modo inversamente proporzionale a quello dei reati. Non a caso l’ultimo rapporto di Antigone, il XIII, sulle condizioni di detenzione nei 190 istituti penitenziari italiani, presentato ieri a Roma alla presenza del Capo del Dap Santi Consolo e del Garante nazionale delle persone private della libertà personale Mauro Palma, si intitola: "Torna il carcere". Ed è un carcere a misura di uomo e non di donna (che sono solo il 4,2% del totale); dove è quasi impossibile curarsi; che produce disagio mentale (45 suicidi nel 2016); che scala la classifica dell’Unione europea per il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare (il 34,6% a dicembre 2016, al quinto posto in Europa, mentre erano 34,1% nel 2015); che si affolla sempre più di stranieri (34,1% a dicembre 2016, contro il 33,2% dell’anno precedente) e di persone che hanno violato le leggi sulla droga (il 34,2%), mentre il 25% del totale è tossicodipendente. In sostanza, come spiega lo stesso Osservatorio di Antigone, autorizzato ad entrare in tutti gli istituti italiani dal 1998, ad affollare le celle sono sempre più i piccoli malavitosi, sempre meno i grandi signori del crimine: "Aumentano i detenuti per condanne inferiori ai tre anni (dal 23,7% al 24,3% del 2015) e diminuiscono quelli per condanne superiore ai dieci (dal 28,9% al 28,6%) - si legge nel rapporto - dimostrando così che ci si allontana da quel modello di extrema ratio cui l’uso del carcere dovrebbe essere improntato". E infatti, la curva dei numeri di reclusi, che tra il 2012 e il 2014 puntava verso il basso, grazie alla pressione della Corte europea dei diritti umani che nel 2013 condannò l’Italia, ha ripreso a salire (in cella sono attualmente 56.436, pari ad un tasso di affollamento del 112,8%, mentre a giugno 2015 erano 52.754 per una capienza di 49.701 posti). Esattamente in direzione opposta va il diagramma che rappresenta i reati, inclusi quelli di maggior allarme sociale: violenze sessuali (-6,04%), rapine (-10,62%), furti (-6,97%), usura (-7,41%), omicidi volontari (-15%). Addirittura, se si fa un raffronto con i dati di 25 anni fa, si scopre che "si ammazzava cinque volte di più, ma si finiva in galera due volte di meno". "Non si era ossessionati dalla sicurezza", sottolinea il rapporto. Da notare che gli ingressi in carcere dalla libertà sono in costante calo (nei primi sei mesi del 2016 sono stati 34.046, erano 88 mila nel 2009), il che vuol dire che aumenta il cosiddetto fenomeno delle "porte girevoli": più si sta in cella più ci si torna. Inoltre, sostiene Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, "c’è stato un freno a quella stagione di riforme che aveva creato un clima "normale" sul carcere, il fatto che non ci fosse un ozio forzoso, le celle aperte, la comunicazione con l’esterno. A un anno dagli Stati Generali sulle carceri non sappiamo nemmeno se la riforma che doveva cambiare l’ordinamento penitenziario passa o meno e al tempo stesso si parla di riforma della legittima difesa. Tutto questo alimenta la paura, mentre noi chiediamo che si ritorni a quella visione". Terrorismo. Radicalizzati, 365 osservati speciali Sono 365, i detenuti islamici su cui si concentrano i timori connessi alla radicalizzazione, secondo il rapporto dell’associazione Antigone. Il Dap li suddivide in tre categorie: i "segnalati" (124), gli "attenzionati" (76) e i "monitorati" (165). I detenuti ristretti per reati connessi al terrorismo internazionale (che rientrano tra i monitorati) sono 44. Una porzione risibile, dunque, dei 6.138 (11,4% dei totale) detenuti musulmani. La maggior parte dei carcerati infatti si dichiara cattolica (29.568 detenuti, il 54,7%), mentre solo il 4,2% (2.263 unità) è ortodossa. Consistente però il numero di detenuti (14.235, il 26,3% del totale) che hanno preferito non dichiarare la propria fede, e tra questi circa 5.000 provengono da paesi tradizionalmente musulmani, "il che indica una reticenza a dichiararsi musulmani per evitare lo stigma", suggerisce il rapporto di Antigone. "A inizio 2016, il numero di persone partite per la Siria o l’Iraq, o comunque implicate a diverso titolo nelle dinamiche del conflitto sirio-iracheno ammontava a 93 unità (dato rilevante ma senza dubbio inferiore agli altri Paesi europei), di cui 14 reduci e 21 deceduti. Nel 2015 sono state arrestate 291 persone ed altre 518 indagate; espulsi in 66 tra i quali anche 5 imam responsabili di iniziative estremiste e di incitamento alla violenza interreligiosa e interraziale. MINORI. 11 accusati di essere scafisti. Inconsapevoli. "C’è il forte rischio", sostiene Antigone, che tra i 462 ragazzi presenti in carcere (tra questi, 283 i giovani adulti) a fine 2016, dei quali 261 avevano una sentenza definitiva, "ci siano ragazzi migranti che, dopo un viaggio drammatico, sono stati accusati di essere scafisti solo perché indicati dal vero scafista (assente sull’imbarcazione) come coloro che dovevano reggere il timone o svolgere altre piccole mansioni a bordo". I minorenni entrati negli istituti penali a loro dedicati nel corso del 2016 sono stati 1.141. Nel maggio 2017 erano 11 i detenuti per violazione delle leggi sull’immigrazione. La permanenza media dei ragazzi in istituto è stata di 138 giorno per gli italiani maschi, 130 giorni per le italiane femmine, 117 giorni per i detenuti stranieri maschi e 93 giorni per le straniere femmine. Costi e personale. Il 70% dei fondi per gli agenti. Pochi educatori. È sostanzialmente stabile il fondo a disposizione dell’amministrazione penitenziaria negli ultimi anni, anche se in calo di 40 milioni rispetto al 2016. Nel 2017, dei 2,8 miliardi di euro del bilancio del Dap, più del 70%, pari a 1,9 miliardi di euro, va alla voce Polizia Penitenziaria. Solo l’8,5% delle risorse è speso direttamente per i detenuti: circa 11 euro a giorno per ciascuno. "Nelle carceri italiane ci sono molti agenti, pochissimi educatori e poco personale medico e para-medico - riferisce Antigone - I poliziotti penitenziari sono l’89,36% del personale, gli educatori il 2,17%. La media europea di agenti negli istituti rispetto al totale del personale è del 68%. Il rapporto fra detenuti e agenti in Italia è di 1,67: per ogni poliziotto poco più di un detenuto e mezzo. In Francia è 2,5, in Spagna 3,7, in Inghilterra 3,9". Nel mondo. 10 milioni, ma il primato è degli Usa. Usa, Cina e Russia: è il podio dei Paesi con il maggior numero di carcerati al mondo (se ne stimano 10 milioni in tutto il globo, senza contare i migranti reclusi nei centri amministrativi). A inizio 2016 gli Stati Uniti recludevano 2.145.100 persone nelle loro 4.575 prigioni (locali, statali, federali, private a vario livello). Il loro tasso di detenzione era di 666 detenuti ogni 100 mila abitanti, il più alto al mondo. Sceso rispetto al 2008, quando Obama divenne presidente, e quando il tasso di detenzione era di 755 detenuti ogni 100 mila abitanti. Segue la Cina, in numeri assoluti (ma non relativi) con oltre 1,6 milioni di detenuti (2,3 se si conta la custodia cautelare e la detenzione amministrativa). Al terzo posto la Russia, con un tasso di detenzione di 436 detenuti per 100.000 abitanti (il più alto in Europa). Per i detenuti è spesso difficile accedere alle cure. Nel 2016 ben 45 suicidi di Laura Pasotti Redattore Sociale, 26 maggio 2017 Rapporto Antigone sulla situazione delle carceri italiane nel 2016: in crescita le segnalazioni riguardanti il diritto alla salute e la possibilità di accedere a cure mediche. Nel 2016 sono stati 45 i suicidi, spesso di detenuti in isolamento. Nei primi mesi del 2017 già 19 casi. Negli ultimi mesi è in netto aumento il numero delle segnalazioni pervenute all’Associazione Antigone sul diritto alla salute e il difficile accesso alle cure mediche nelle carceri italiane. Altro dato è quello che riguarda i suicidi: 45 nel 2016, di cui molti casi di persone in regime di isolamento e già 19 nei primi mesi del 2017. Sono i dati che emergono da "Torna il carcere", il XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione presentano questa mattina a Roma da Antigone. In particolare nel report vengono citati 3 casi emblematici delle conseguenze tragiche che può avere la negazione del diritto alla salute: Alfredo Liotta, morto a 41 anni nel carcere di Siracusa e per il quale inizierà a breve il processo che vede imputati per omicidio colposo 8 medici del carcere e il perito nominato dal Tribunale di Catania e in cui Antigone si è costituita parte civile; Stefano Borriello, 29enne deceduto nel penitenziario di Pordenone per una polmonite batterica non adeguatamente trattata; A.A. in coma in seguito a un ictus i cui sintomi sono stati sottovalutati dal personale sanitario del carcere di Rebibbia. Per quanto riguarda i suicidi, Antigone ne riporta 5 di detenuti sottoposti a regime di isolamento. Youssef Mouchine, 30 anni, morto il 24 ottobre 2016 nel carcere di Paola, in provincia di Cosenza. "Il caso è ancora da chiarire - scrive l’Associazione - poiché la famiglia ha chiesto l’apertura di un’inchiesta". Youssef era a pochi giorni dalla fine della pena, non aveva mai manifestato tendenze suicide ma si era lamentato con la famiglia di maltrattamenti, dell’isolamento, del divieto di comunicare con i familiari. Inoltre, aggiunge Antigone, "la morte è stata notificata alla famiglia dopo la sepoltura, contravvenendo al diritto dei familiari di vedersi consegnare il corpo per procedere al rito funebre di loro scelta". Una persona transessuale di origine peruviana si è suicidata il 14 luglio 2016 nel carcere di Sollicciano a Firenze dove stava finendo di scontare la pena di una cella di transito, simile all’isolamento. Maurilio Pio Morabito, 46 anni, si è suicidato nel carcere di Paola il 29 aprile 2016: trasferito da un altro carcere, dove era stato aggredito e minacciato di morte, appena prima della morte aveva scritto a familiari e avvocato "dove diceva loro che non aveva alcuna intenzione di morire, ma se fosse accaduto avrebbe avuto l’apparenza di un suicidio". Il detenuto era in isolamento sotto osservazione costante. Il suicidio è oggetto di indagine. Un 25enne si è tolto la vita il 3 febbraio del 2016 nel carcere di Siracusa dove si trovava in isolamento in attesa di giudizio. L’ultimo caso è del 2017 e riguarda Sasha Z., 33 anni, morto il 3 maggio scorso nel carcere di Saluzzo: condannato per furto a meno di un anno di detenzione, era in isolamento da alcuni giorni. Aumentano i detenuti stranieri. "Colpa della loro criminalizzazione" di Laura Pasotti Redattore Sociale, 26 maggio 2017 Rapporto Antigone. Sono il 34,1% del totale. In gran parte marocchini, romeni, albanesi e tunisini. Sono dentro per reati contro il patrimonio e contro la legge sulle droghe. Il 54% è cattolico, i musulmani sono l’11,4% ma molti non dichiarano la propria fede per paura di stigma. Quelli su cui si concentrano timori di radicalizzazione sono 365. Aumentano gli stranieri detenuti, ad aprile erano poco più di 19 mila, pari al 34,1% del totale (56.436): erano il 33,2% nel 2015. In gran parte sono marocchini, rumeni, albanesi e tunisini. Sono dentro per reati contro il patrimonio (prima causa anche per gli italiani), per violazione della legge sulle droghe (+5,8% nel 2016), reati connessi con la prostituzione (il 77% del totale) e alle legge sugli stranieri (più di 9 su 10). Poco più della metà si trova nelle carceri del Nord (51,6%). Sono i dati che emergono da "Torna il carcere", il XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione realizzato da Antigone e presentato ieri a Roma in cui si legge: "Come dimostrano i reati di cui vengono accusati, la devianza degli stranieri si connota dunque per essere strettamente connessa a fattori economici e alle ridotte possibilità di sostentamento, il che conferma il legame tra situazione di irregolarità e facilità di acceso al circuito penitenziario". La maggior parte dei detenuti presenti nelle carceri si dichiara cattolico (29.568 detenuti pari al 54,7% del totale), i musulmani sono l’11,4% (6.138) e gli ortodossi il 4,2% (2.263). "A questi però vanno aggiunti gli oltre 14 mila detenuti che hanno preferito non dichiarare la propria fede - si legge nel rapporto - Tra questi circa 5 mila vengono da Paesi tradizionalmente musulmani, il che indica una reticenza a dichiararsi musulmani per evitare lo stigma". Negli istituti penali italiani ci sono oltre 200 cappelle (almeno 1 per istituto), 69 sono gli spazi adibiti a sale da preghiera per i detenuti musulmani (ricavate in salette per la socialità, passeggi per le ore d’aria, biblioteche). I cappellani presenti sono 411, gli imam 47. I timori di radicalizzazione si concentrano su 365 detenuti che l’amministrazione divide tra "segnalati" (124), attenzionati (76) e monitorati (165). Tra questi ultimi ci sono 44 detenuti ristretti per reati connessi al terrorismo internazionale. Le pratiche per cui si decide di avviare un’osservazione sono diverse, si spiega nel rapporto: atteggiamenti sfidanti verso l’autorità, rifiuto di condividere gli spazi con detenuti di altre confessioni, segni di giubilo di catastrofi naturali o attentati in Occidente, esposizione di simboli e vessilli correlati al jihad. Fino a qualche mese fa i detenuti accusati di terrorismo islamico erano detenuti nei circuiti AS2 presso le carceri di Rossano (9) e Sassari (18), oggi è stata istituita un’apposita sezione nel carcere di Nuoro. A inizio 2016 il numero di persone partite per la Siria o l’Iraq o implicate nelle dinamiche del conflitto era 93, "un dato rilevante ma senza dubbio inferiore rispetto a quello di altri Paesi europei", nel corso del 2015 sono state arrestate 291 persone e altre 518 sono state indagate in stato di libertà. Sono 66 i provvedimenti di espulsione eseguiti per motivi di sicurezza dello Stato/prevenzione del terrorismo: i destinatari erano soggetti evidenziatisi per un avanzato processo di radicalizzazione o per aver fornito sostegno ideologico alla causa dello Stato islamico. Tra le persone espulse anche 5 imam responsabili di iniziative estremiste e incitamento alla violenza interreligiosa e interrazziale. Stranieri detenuti e radicalizzazione: false verità e numeri reali di Violetto Gorrasi today.it, 26 maggio 2017 Di quali reati sono accusati gli stranieri detenuti in Italia? Esiste davvero un’emergenza legata alla radicalizzazione islamica nelle nostre carceri? Leggende e falsi miti alimentano il razzismo, ma i numeri ridimensionano il fenomeno. Due citazioni per cominciare. "I percorsi di radicalizzazione si sviluppano soprattutto in alcuni luoghi, nelle carceri e nel web, più che in altri luoghi che abbiamo magari molto seguito negli scorsi anni o decenni. Non c’è un idealtipo uguale per ciascuno dei soggetti che si radicalizzano, sono situazioni molto diverse. Ma bisogna lavorare sulle carceri e sul web per la prevenzione". Parole del premier Paolo Gentiloni al termine di un incontro tenutosi a gennaio con la commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista. "L’Italia ha importato dalla Romania il 40 per cento dei loro criminali", scriveva invece su Facebook il vice presidente della Camera Luigi Di Maio provocando non poche polemiche. I temi degli stranieri detenuti e radicalizzati occupano sovente le pagine dei giornali. E se spesso leggiamo falsità che diventano "verità" nella percezione comune anche in seguito alla diffusione sul web di bufale virali, i numeri ridimensionano il fenomeno per come viene descritto da alcuni media. Dal XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione elaborato da Antigone, emerge che a partire dai primi anni ‘90 il numero di stranieri presenti nelle carceri italiane è aumentato senza sosta. Nel 2010 c’era stata una battuta d’arresto e l’inizio di un’inflessione della curva. Adesso però la percentuale ha ripreso a salire. Ad aprile i detenuti stranieri erano 19.268 a fronte di 56.436 detenuti totali (34,1%). Nel 2014 erano il 32,5%, nel 2015 il 33,2%. Il 51,6% della popolazione straniera detenuta risiede nelle carceri del Nord, solo il 26,28% al Centro e il 22,08% al Sud. Per capire chi sono gli stranieri in carcere bisogna guardare ai dati degli stranieri presenti sul territorio italiano. La comunità straniera più numerosa è quella rumena, che rappresenta il 22,9% del totale degli stranieri, seguita da quella albanese (9,3%) e marocchina (8,7%). In carcere invece, i detenuti stranieri più rappresentati sono, nell’ordine, i marocchini (18,2% del totale degli stranieri in carcere), i romeni (14,1%), gli albanesi (13,6%) e i tunisini (10,5%). I reati per cui si contraddistinguono gli stranieri sono soprattutto quelli contro il patrimonio: sono 8.607 i detenuti trattenuti per questa fattispecie di reato (che comunque rappresenta la prima causa di detenzione anche fra gli italiani, capito Di Maio?). Seguono i reati contro la legge sulle droghe (per cui c’è stato un aumento globale del 5.8% nel 2016): 6.922 sono le persone incarcerate per questi reati, più dei trattenuti per i reati contro la persona (che sono 6.571 e che invece rappresentano il secondo gruppo di pene per gli italiani). Gli stranieri superano infine gli italiani per i reati connessi alla prostituzione (77% del totale) e per quelli connessi alla legge sugli stranieri (92,1% del totale). Come dimostrano i reati di cui vengono accusati, la devianza degli stranieri si connota dunque per essere strettamente connessa a fattori economici e alle ridotte possibilità di sostentamento, il che conferma il legame tra situazione di irregolarità e facilità di accesso al circuito penitenziario. Altro tema è quello della radicalizzazione. La maggior parte dei detenuti presenti nelle carceri si dichiara cattolica (29.568 detenuti, il 54,7% del totale); seguono i detenuti musulmani, con 6.138 unità (11,4%) e infine gli ortodossi, con 2.263 unità (4,2%). A questi vanno però aggiunti i 14.235 detenuti (26,3% del totale) che hanno preferito non dichiarare la propria fede. Tra questi, circa cinquemila provengono da paesi tradizionalmente musulmani, il che indica una reticenza a dichiararsi musulmani per evitare lo stigma. Le cappelle presenti negli istituti di pena sono più di duecento, almeno una per istituto. 69 gli spazi adibiti a sale da preghiera per detenuti musulmani (salette per la socialità, passeggi per le ore d’aria, teatri, biblioteche e simili). I cappellani presenti nelle carceri sono 411, gli imam 47. Nessun allarmismo: in Italia ci sono meno persone radicalizzate e meno foreign fighters rispetto ad altri Paesi occidentali. I detenuti su cui si concentrano i timori connessi alla radicalizzazione sono 365, suddivisi dall’amministrazione in tre categorie: i "segnalati" (124), gli "attenzionati" (76) e i "monitorati" (165). I detenuti ristretti per reati connessi al terrorismo internazionale (che rientrano tra i monitorati) sono 44. Le pratiche per le quali si decide di avviare un’osservazione sono diverse: atteggiamenti sfidanti nei confronti dell’autorità, rifiuto di condividere gli spazi con detenuti di altre confessioni, segni di giubilo a fronte di catastrofi naturali o attentati in Occidente, esposizione di simboli e vessilli correlati al Jihad. Fino a qualche mese fa i detenuti accusati di terrorismo islamico erano custoditi nei circuiti cosiddetti "AS2" presso le carceri di Rossano (dove se ne contavano nove) e di Sassari (diciotto presenti). A queste due si è aggiunta un’altra sezione apposita, istituita di recente nel carcere di Nuoro. A inizio 2016, il numero di persone partite per la Siria o l’Iraq, o comunque implicate a diverso titolo nelle dinamiche del conflitto sirio-iracheno ammontava, al 31 dicembre 2015, a 93 unità (dato rilevante ma senza dubbio inferiore rispetto a quella di altri Paesi europei), di cui 14 reduci e 21 deceduti. Nel corso del 2015 sono state arrestate 291 persone ed altre 518 sono state indagate in stato di libertà. Sono stati eseguiti 66 provvedimenti di espulsione per motivi di sicurezza dello Stato/prevenzione del terrorismo nei confronti di soggetti evidenziatisi per il loro avanzato processo di radicalizzazione o per aver fornito sostegno ideologico alla causa dello Stato Islamico. Tra costoro sono stati espulsi anche cinque imam responsabili di iniziative estremiste e di incitamento alla violenza interreligiosa e interraziale. Gualtiero Bassetti neo-presidente della Cei. Quando scoprì il carcere duro, dallo spioncino di Adam Smulevich e Mauro Bonciani Corriere Fiorentino, 26 maggio 2017 Credo fosse la sua prima intervista a un giornale laico e nazionale, anche se era un piccolo settimanale, Vita, nato da poco per iniziativa di Riccardo Bonacina. Il neo-presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, allora, era da neppure un anno vescovo di Massa Marittima e Piombino, dopo aver a lungo diretto il Seminario minore e poi quello Maggiore, a Firenze, dove era diventato prete. Avevo saputo, non ricordo più da chi, che don Gualtiero, come lo chiamavano molti amici comuni, fosse rimasto molto colpito dalla realtà carceraria, conosciuta per via dei due penitenziari che si trovavano nella sua diocesi, Porto Azzurro all’Elba e Pianosa. Era l’autunno del 1995. Proposi la notizia al giornale, con cui collaboravo proprio da Firenze, perché il carcere era un tema di cui Vita voleva occuparsi programmaticamente. Bassetti non si negò, anche perché c’erano molte amicizie comuni, a partire da quella del suo compagno di seminario don Silvano Seghi, e poi perché avevo collaborato a lungo, e ogni tanto lo facevo ancora, con Toscana Oggi, il settimanale delle diocesi toscane. Ricordo una lunga chiacchierata telefonica, in cui Bassetti mi raccontò la scoperta dell’universo carcerario. E se a Porto Azzurro c’erano gli ergastolani (nel 1987, con la rivolta capeggiata da Mario Tuti e Lorenzo Bozano, il biondino della spider rossa, si sfiorò la tragedia) ma si trattava tutto sommato di un carcere "normale", a Pianosa lo Stato aveva reimpiantato un penitenziario di massima sicurezza, dopo le stragi mafiose del ‘93. In quell’isola Bassetti scoprì i detenuti sottoposti al regime durissimo, il 41 bis. "Che impressione", mi raccontò, "ho parlato con le persone attraverso un spioncino quadrato, di 10 centimetri per lato". Bassetti mi parlò la sua commozione nel trovare detenuti che cercavano un conforto, o semplicemente un dialogo, mentre altri, sdegnosamente, non rispondevano neppure al saluto "du previti". Un prete che fino a ieri aveva insegnato ad altri preti a stare al mondo e a guadagnarsi il paradiso - e non ce n’era uno che non ne portasse nel cuore insegnamenti e grande umanità - e che ora entrava in un girone infernale. Leggendo, in questi giorni, i vaticanisti che ricordano il profilo di pastore dell’arcivescovo di Perugia, ho pensato che Bassetti abbia imparato a pascere le sue pecore, proprio superando posti di controllo e mettendo la faccia allo sportello di una porta blindata, come fece molte volte, per parlare a dei criminali veri, di quelli che scioglievano i bambini nell’acido. Nessuno può dire se qualche picciotto di Cosa nostra rimase colpito da quel prete di mezza età e dall’eloquio rotondamente toscano. Qualcuno, se è uscito o se uscirà, potrebbe ricordarsi di quegli occhi che lo guardavano dentro, dicendogli probabilmente le cose dette da Gesù a Zaccheo che, nella Gerico dell’anno 30, un po’ capo-mafia lo era. Un ideale "vengo a casa tua", oltre le sbarre e il male di cui ognuno è capace. L’articolo occupò una pagina intera, con le foto del vescovo assieme a un giovane detenuto, ammalato di Aids, di Porto Azzurro che, in carcere, aveva ritrovato la fede e col quale era iniziato un dialogo fecondo. Pochi giorni dopo, Bassetti mi spedì un biglietto di ringraziamento, pieno di parole affettuose per me e la mia famiglia, cui assicurava la sua preghiera. Incorniciato, ci ha seguito per vari traslochi. Nell’intestazione, il suo stemma episcopale che recitava: In Charitate fundati, "rafforzati dalla Carità". Quando lo scelse, all’atto della nomina, don Gualtiero non aveva probabilmente immaginato quanto uno dei gesti caritatevoli più difficili, elevato da Cristo a beatitudine nel Discorso della montagna, ossia visitare i carcerati, lo avrebbe rafforzato come prete e come vescovo. Giovani e mafie, il primo impatto è con la droga. Ecco chi sono i baby criminali di Gabriella Lanza Redattore Sociale, 26 maggio 2017 Spaccio, riscossione di tangenti e intimidazioni, detenzione di armi, gambizzazioni e delitti su commissione. Sono questi i reati maggiormente commessi dai minori affiliati ad organizzazioni criminali secondo il dossier "Under" dell’Associazione Antimafie da Sud. Spesso sono giovani che hanno abbondonato la scuola, vivono in ghetti urbani e in condizioni di indigenza. A volte hanno una laurea e sono cresciuti in famiglie oneste. Ma tutti hanno intrapreso la carriera da criminale. Sono i ragazzi raccontati nel rapporto "Under" realizzato dall’Associazione Antimafie daSud: un reportage di dodici mesi nel Sud Italia e nel Lazio per capire come si diventa membri di una organizzazione mafiosa. Il primo impatto con il mondo del malaffare avviene tramite la droga. Nel 1984 i minori denunciati per reati inerenti agli stupefacenti erano appena 578, sei anni dopo 2.113, fino ad arrivare ai 5.123 under 18 denunciati nel 2016. Lo conferma il magistrato Francesco Cascini, capo-dipartimento della Giustizia minorile: "Il tema della droga è enorme, quasi il 50% dei reati ha a che fare con gli stupefacenti, ma l’impatto sociale è sottovalutato". Non solo droga. I baby criminali sono coinvolti anche in riscossione di tangenti e intimidazioni, detenzione di armi, gambizzazioni e delitti su commissione. Secondo i dati aggiornati al 15 dicembre 2016 del Ministero della Giustizia, nell’Ufficio di Servizio Sociale per Minorenni (USSM) c’è stato un aumento costante, quasi il 40% dal 2007 al 2015, dei ragazzi (italiani e stranieri) presi in carico, passando da 14.744 a 20.538. Quelli presi in carico per la prima volta nel 2016 sono stati 7.456, che si aggiungono ai 14.240 già presenti per arrivare a quota 21.696. Di questi il 77% ha meno di diciotto anni. I reati maggiormente commessi sono i furti (26%), lesioni personali volontarie e stupefacenti (11% ciascuno) e rapine (10%). Povertà e abbondono precoce della scuola sono due dei fattori che portano più velocemente i giovani sulla strada della criminalità. Secondo Save the Children, la percentuale di ragazzi tra i 18 e i 24 anni che abbandona prematuramente gli studi o la formazione si attesta in Italia intorno al 14,7%. E in alcune regioni del sud questa media è ancora più alta, come in Sicilia, dove un giovane su 4 interrompe gli studi alle scuole medie inferiori. Sono invece tre milioni i minori indigenti secondo l’Istat. Di questi, 1 milione e 131mila non possono permettersi beni essenziali (cibo, vestiti, una casa), mentre i restanti 2 milioni e 110mila, in povertà relativa, non riescono a mangiare verdure fresche, carne o pesce una volta al giorno, né ad avere giocattoli o libri. Giovani e mafie, come si cresce nei clan? Le storie dei baby criminali di Gabriella Lanza Redattore Sociale, 26 maggio 2017 Presentato ieri a Roma il rapporto "Under" realizzato dall’Associazione Antimafie da Sud: un viaggio nel Mezzogiorno d’Italia e nel Lazio per capire attraverso dati e racconti perché si diventa criminali. Come si diventa criminali? È questa la domanda a cui il rapporto "Under", realizzato dall’Associazione Antimafie da Sud, cerca di rispondere attraverso dati, storie e foto dei giovani, spesso minorenni, che per caso o per scelta sono entrati a far parte di organizzazioni criminali. Un esercito cresciuto all’ombra dei clan e dei "cattivi maestri" pronto anche a morire o a uccidere per soldi o per il fascino del potere. Il dossier è stato presentato ieri a Roma presso lo Spazio ÀP - Accademia Popolare dell’antimafia e dei diritti, in ricordo dell’anniversario della strage di Capaci, è stato curato dai giornalisti Marco Carta e Danilo Chirico e realizzato con il contributo di Fondazione con il Sud e pubblicata da Giulio Perrone Editore. Un viaggio lungo dodici mesi nelle periferie del Mezzogiorno d’Italia e del Lazio per indagare il legame tra il mondo dei giovani e il sistema mafioso e che fa luce sulla trasmissione di ruoli e "valori". "Da Palermo a Reggio Calabria, Bari, Napoli, Roma, seppur con sfumature diverse, è lo spaccio della droga, il principale reato di cui si macchiano i baby criminali - spiega Chirico. Seguono la riscossione di tangenti e le intimidazioni, la detenzione di armi, le gambizzazioni e i delitti su commissione. Basti sapere che i minori denunciati per reati inerenti agli stupefacenti sono passati dagli appena 578 del 1984 ai 2.113 del ‘90, fino ad arrivare ai 5.123 under 18 denunciati nel 2016. Cifre che, naturalmente, non dicono molto sul dato sommerso ma che spostano l’allarme dei ‘baby spacciatori’ ad almeno trent’anni fa". Nel dossier sono raccontate in prima persone le storie, note e meno note, dei giovani che abitano le nostre periferie: dalle ragazze della Locride, in Calabria, costrette al matrimonio per vincoli di sangue a quelle, ai giovani rampolli condannati a seguire le orme dei padri mafiosi, dagli emarginati dalle periferie di Roma ai minori del carcere minorile Malaspina di Palermo. Scuola e giustizia sono i pilastri intorno a cui ruotano i racconti dei protagonisti di "Under" e a cui sono dedicati due focus con le interviste a Valeria Fedeli, Ministro dell’Istruzione e a Francesco Cascini, ex Capo Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero della Giustizia. Non solo storie: l’ultima parte del dossier è dedicata all’immaginario dei giovani attraverso una analisi su cinema, social media e videogame. Ad arricchire il rapporto il reportage fotografico a cura di Pierpaolo Lo Giudice: un viaggio nel mondo marginale delle periferie urbane per raccontare quanto e come questi luoghi, in assenza di politiche sociali e in presenza di progetti architettonici sono diventati dei veri e propri ghetti. Dichiarazioni spontanee senza "garanzie" di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2017 Corte di cassazione - Sentenza 26246/2017. La polizia giudiziaria può acquisire, senza mediazione del Pm, le dichiarazioni spontanee dell’indagato in assenza del difensore e omettendo l’avviso di esercitare il diritto al silenzio. Le "notizie" raccolte possono essere utilizzate nella fase procedimentale e quindi nell’incidente cautelare e nei riti a prova contraria, ma non possono essere usate come prova in dibattimento. Spetta poi al giudice accertare, anche d’ufficio, sulla base di tutti gli elementi a sua disposizione, che le affermazioni dell’indagato siano state realmente spontanee e non indotte o sollecitate: una valutazione di cui il giudice deve dare atto con una motivazione adeguata. La Cassazione, con la sentenza 26246 depositata ieri, prende le distanze dal principio secondo il quale, qualunque dichiarazione, sia spontanea sia sollecitata, assunta senza le garanzie previste dall’articolo 64 del codice di procedura penale per l’interrogatorio, con i relativi avvertimenti è radicalmente inutilizzabile. I sostenitori di questo indirizzo, non condiviso nella sentenza in commento, basano la loro tesi sulla lettura dell’articolo 63 del codice di rito, che prevede l’inutilizzabilità delle dichiarazioni fatte alla polizia giudiziaria da una persona non imputata o non sottoposta a indagini, nel caso emergano indizi a suo carico. Lo stesso vale se la persona doveva essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o come persona sottoposta a indagini. Una norma che, per i fautori della tesi più "garantista" sarebbe prevalente sull’articolo 350, comma 7 del codice di procedura penale che, al contrario, è esplicita nel limitare l’inutilizzabilità delle dichiarazioni spontanee solo al dibattimento. Ed è appunto sulla lettura di quest’ultima norma che, con la sentenza 26246, i giudici basano la loro decisione. La Suprema corte respinge il ricorso di un indagato per riciclaggio, il cui difensore contestava la possibilità di usare, in qualunque contesto, quanto detto dal suo cliente alla polizia giudiziaria nel corso di una perquisizione domiciliare. La Cassazione però non è d’accordo. L’articolo 350, finito nel mirino della difesa, è infatti, compatibile con le indicazioni della normativa europea e, in particolare con quelle contenute nella direttiva 2012/13/Ue in materia di diritti di informazione dell’indagato. La direttiva in questione è stata attuata con il Dlgs 101 del 2014 che, sottolinea la Suprema corte, non ha modificato l’articolo 350. Con l’articolo 3 la norma europea chiede agli Stati membri di informare "tempestivamente" le persone imputate o indagate del loro diritto a farsi assistere da un legale o di restare in silenzio. Una disposizione attuata solo attraverso la modifica degli articoli 291 e 369 bis del codice di procedura penale in tema di misure cautelari e indagini preliminari. Il legislatore ha, evidentemente, ritenuto "tempestive" le informazioni di garanzia fornite al momento dell’applicazione delle misure cautelari e del compimento degli atti ai quali il difensore ha diritto di assistere. Mentre, non intervenendo sull’articolo 350, ha voluto lasciare l’indagato libero di entrare in contatto con la polizia giudiziaria in modo "informale" nel corso di tutta l’attività processuale. Per la Cassazione l’interpretazione è conforme anche con la giurisprudenza della Cedu, almeno con il suo orientamento consolidato, mentre non esiste nessun obbligo, come affermato dalla Consulta (sentenza 49 del 2015)di allinearsi a pronunce che esprimono principi non definitivi. Telefonata divulgabile sul sito del giornale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2017 Corte di cassazione - Sentenza 13151/2017. L’interesse pubblico alla notizia giustifica la divulgazione sul sito Internet del giornale il testo integrale di una telefonata . Né l’inibitoria del Garante della privacy che chiede la rimozione, fa scattare in automatico il diritto al risarcimento danni in sede civile perché la decisione spetta al giudice ordinario. La Cassazione (sentenza 13151), ribadisce la possibilità di pubblicare le intercettazioni quando il diritto di cronaca è prevalente. A chiedere un risarcimento ad un giornale locale era stato il comandante dei vigili del fuoco del posto, che lamentava la violazione della sua privacy. La conversazione tra il comandante e un consigliere comunale, abusivamente captata da terzi e "passata" oltre che alle autorità locali anche al giornale, era stata pubblicata anche in formato audio sul sito con possibilità di scaricarla gratuitamente. La Corte d’Appello aveva respinto la richiesta di risarcimento per i danni subìti: forzate dimissioni dal Corpo dei vigili del fuoco e da dipendente del Comune. Un verdetto sfavorevole che era arrivato malgrado l’Authority avesse accertato che raccolta e pubblicazione erano avvenute violando la legge. Tra le informazioni "carpite" c’era, infatti, anche quella relativa all’orientamento politico. Il Garante però può intervenire sul trattamento illegittimo dei dati per farlo cessare, ma sul risarcimento decide il giudice. La Cassazione ricorda che il giornalista può diffondere dati personali anche "senza il consenso dell’interessato, purché nei limiti del diritto di cronaca, e in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione rispetto a fatti di interesse pubblico". E l’interesse, anche se a livello locale, nel caso esaminato c’era. Processo telematico per tutti nella Ue di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2017 Corte di giustizia dell’Unione europea - Sentenza 18 maggio 2017 (C-99/16). Se gli ordini nazionali non forniscono ai professionisti di altri Stati membri un dispositivo che permette l’accesso a reti necessarie per la trasmissione di atti giudiziari, impedendo lo svolgimento di un servizio agli avvocati, è certa la violazione del diritto Ue. È la Corte di giustizia dell’Unione europea a stabilirlo con la sentenza del 18 maggio (C-99/16), che scardina un altro ostacolo alla libera prestazione dei servizi. La vicenda nazionale riguardava un avvocato, cittadino francese, iscritto presso l’ordine forense di Lussemburgo, che non aveva ottenuto dall’Ordine degli avvocati di Lione un dispositivo di accesso alla rete privata virtuale degli avvocati (Rpva). L’Ordine aveva risposto no alla richiesta perché il legale non era iscritto nel foro di Lione. Di qui l’impugnazione dinanzi al Tribunale di Lione che ha sollevato un quesito pregiudiziale alla Corte Ue. Gli euro-giudici, in primo luogo, hanno accertato che la comunicazione elettronica, non obbligatoria, è riservata agli avvocati iscritti a un ordine francese, con la conseguenza che i legali stabiliti in altri Stati membri possono utilizzare unicamente il deposito in cancelleria o via posta. Un evidente ostacolo per i professionisti non iscritti in un ordine francese, che potrebbe costringere i legali a ricorrere all’assistenza di un avvocato registrato in Francia solo per poter accedere al servizio di dematerializzazione delle procedure, con un aggravio di costi. Di conseguenza, la Corte Ue bolla il no al rilascio del dispositivo come una restrizione alla libera prestazione dei servizi vietata dall’articolo 56 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Detto questo, gli euro-giudici aprono uno spiraglio al mantenimento della limitazione in forza del buon funzionamento dell’amministrazione della giustizia e della tutela del cliente ossia del destinatario finale dei servizi giuridici. Si tratta - osserva la Corte - di motivi imperativi di interesse pubblico che possono essere raggiunti anche con un controllo, come avviene con il sistema francese, del prestatore del servizio. Ed infatti, la limitazione al rilascio del dispositivo di accesso è giustificata dalle autorità nazionali con la circostanza che solo per gli iscritti ad un ordine francese, per i quali vige un sistema di sincronizzazione degli elenchi degli avvocati, è possibile accertare l’effettiva iscrizione, mentre, a causa dell’assenza di sistemi di "interoperabilità tra gli elenchi degli avvocati" dei vari Stati membri, per i legali di altri Paesi l’identificazione simultanea con la validità del certificato elettronico non sarebbe possibile. Aperto lo spiraglio, però, la Corte passa la parola ai giudici nazionali ai quali spetta verificare se siano possibili alcuni adattamenti per consentire l’accesso ai dispositivi e il controllo anche per gli avvocati di altri Stati membri. Sul punto, però, gli euro-giudici sembrano propendere per la non giustificazione della restrizione anche perché, in ogni caso, gli avvocati "francesi" possono depositare gli atti o inviarli via posta senza avvalersi del dispositivo elettronico, con la conseguenza che il diniego al rilascio "non può essere considerato coerente con gli obiettivi di tutela dei destinatari dei servizi giuridici e di buona amministrazione della giustizia". Sassari: detenuto di 43 anni suicida dopo una settimana in cella La Nuova Sardegna, 26 maggio 2017 Non sopportava il peso del carcere e ieri mattina si è tolto la vita nella sua cella, a Bancali, dove era stato trasferito da qualche giorno. Giovanni Cherchi, 43enne residente a Olbia, era stato arrestato la scorsa settimana con l’accusa di tentato omicidio dopo una lite finita a coltellate in un bar di via Fausto Noce. Dal carcere di Nuchis era stato trasferito da qualche giorno a Bancali senza che nessuno sapesse niente, né i suoi familiari e né gli avvocati difensori. Duramente provato, ieri mattina ha deciso di chiudere i conti con la vita. Il suo corpo è stato scoperto al momento della sveglia dai compagni di cella che subito hanno dato l’allarme. Giovanni Cherchi era stato arrestato martedì scorso insieme al fratello Nicola. I carabinieri li avevano subito individuati dopo una violenta lite dentro lo Snack bar di via Fausto Noce conclusa con l’accoltellamento del proprietario del locale, Federico Porcu. Il gip del tribunale di Tempio aveva convalidato il fermo e disposto la scarcerazione di Nicola Cherchi. Per il fratello Giovanni, su cui evidentemente pesava il carico maggiore di responsabilità, il magistrato aveva invece deciso la custodia cautelare in carcere. I due fratelli Cherchi erano ben noti alle forze dell’ordine. Nicola nel 1995, giovanissimo, mise a segno con un complice una rapina finita nel sangue nei confronti di Peppino Uda, un commerciante originario di Silanus ucciso dietro il bancone del suo negozietto di generi alimentari con due colpi di fucile. Giovanni, sempre negli anni Novanta, era rimasto anche lui coinvolto in inchieste per rapina e con quell’accusa era anche finito in carcere. I processi però avevano dimostrato il contrario e Cherchi era stato assolto da tutte le accuse. Ieri la notizia del suicidio in cella è stata diffusa e commentata dal segretario generale aggiunto del sindacato Osapp, Domenico Nicotra, che ha attaccato la direzione del carcere di Bancali. "È inaccettabile - ha detto Nicotra - che simili criticità possano accadere in strutture nuove come quella di Sassari, in cui l’amministrazione penitenziaria ha investito molto in termini di risorse finanziarie, ma forse è arrivato il momento di investire sui quadri dirigenziali e direttivi". "Per questo motivo - conclude Nicotra - facciamo appello al provveditore e al capo del Dipartimento perché valutino l’avvicendamento del direttore e del comandante del reparto". Cagliari: al carcere di Uta quasi il doppio dei detenuti rispetto al numero regolamentare di Lorenzo Ena L’Unione Sarda, 26 maggio 2017 Sono quasi il doppio rispetto al numero regolamentare i detenuti del carcere di Uta. Il sovraffollamento è denunciato dalla presidente di Socialismo diritti riforme, Maria Grazia Caligaris: "L’istituto può ospitare 567 reclusi ma si sta arrivando a quasi mille unità e 950 è il limite tollerabile. Il dato è preoccupante e di certo non favorisce le attività trattamentali e neppure la sicurezza, visto che il numero degli agenti è in costante calo". Caligaris non ha dubbi: "La necessità di accrescere il numero dei posti letto risponde a una richiesta del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e probabilmente all’inderogabile bisogno di ridurre il sovraffollamento in altre regioni italiane. Una recente indagine svolta dal Servizio Studi del Senato ha infatti evidenziato che in Puglia il tasso di sovraffollamento è pari al 140% mentre in Lombardia ammonta al 132%. Esempi negativi ai quali cui occorre rimediare anche per evitare sanzioni europee: ciascun detenuto deve avere a disposizione almeno tre metri quadri, escluso il mobilio". Al problema del sovraffollamento si unisce l’insufficienza di personale: "A Uta sono in servizio effettivo 285 agenti di polizia penitenziaria. Un numero molto lontano dai 445 previsti dalla pianta organica ministeriale. Ciò significa che troppo spesso un agente deve garantire il benessere dei detenuti di un’intera sezione con oltre 100 ristretti. È carente anche il numero degli educatori, soltanto nove. La situazione difficile da gestire potrebbe davvero portare al collasso del sistema". Per Caligaris la situazione è fallimentare in tutte le nuove carceri sarde: "La finalità del piano carceri era rendere meno afflittiva la pena e sostituire le strutture ottocentesche di Buoncammino, Sassari, Tempio-piazza Mannu, Oristano. In realtà si stanno utilizzando le nuove strutture sarde come contenitori per alleggerirne altre". Milano: l’Ipm "Cesare Beccaria" affonda, salvatelo di don Gino Rigoldi Corriere della Sera, 26 maggio 2017 Cesare Beccaria è morto, ma anche l’Ipm "Cesare Beccaria" è messo piuttosto male, e da parecchio tempo. L’edificio, vecchio di almeno 70 anni, fu costruito in economia: significa, oggi, muri scrostati, servizi precari, docce che si infiltrano al piano di sotto, incuria generale. La ristrutturazione di una sua parte è iniziata sei anni fa, si dice sia completata, però ancora non è possibile utilizzarla. Ma in realtà è ancora più in crisi il progetto educativo che si alimenta di relazioni tra i giovani detenuti e gli adulti nelle varie funzioni di custodia, di educazione, di organizzazione e di comando. La direttrice, persona seria e onesta, buona educatrice, è direttrice "vicaria", quindi temporanea, con tutte le conseguenze del caso dal punto di vista delle responsabilità e delle decisioni da prendere. Gli agenti di Polizia penitenziaria sono costretti a fare troppi straordinari perché, tra distacchi e malattie, in servizio sono stati spesso in numero ridotto. La parte educativa e quella dei servizi sociali si tiene con motivazioni, competenze e rapporti a corrente alternata. Il Tribunale dei Minori finora è stato sostanzialmente assente. Ne risulta un clima generale di sfiducia e di lavoro frammentato, senza un progetto complessivo. Abbiamo una buona scuola, progetti di formazione professionale, ma poche, pochissime risorse per il reinserimento sociale. Reinserimento sociale che è fondamentale perché da noi ci sono soltanto ragazzi provenienti da classi sociali povere, spesso al limite dell’indigenza. Il sindaco Sala ci ha assicurato la presenza generosa della città, ci contiamo. Urge la nomina di un direttore stabile con competenza ed esperienza di comando, e l’adeguamento del numero di agenti. A Milano, e non solo, ci sono dirigenti del ministero disponibili, ma la qualifica di direttore del Beccaria non è di tipo dirigenziale, perciò significherebbe perdere parte dello stipendio e un livello gerarchico inferiore. Al Beccaria abbiamo molto da cambiare, ma il primo segnale deve venire dal Dipartimento della Giustizia minorile. Così come siamo adesso niente si muove, molto peggiora. Il Beccaria rischia di fare la fine della rana bollita: messa in pentola in acqua fredda, mano a mano che la temperatura sale non se ne accorge, fino a che è troppo tardi per spegnere il fuoco. Milano: Osteria Antichi Mestieri, un progetto sociale di reintegrazione Il Giorno, 26 maggio 2017 Un’iniziativa promossa dall’Accademia della Cultura Gastronomica Lombarda. Il cibo come occasione di cultura, di crescita individuale e reinserimento sociale. Presso l’Osteria Antichi Maestri lavorano sia gli ex detenuti, sia persone ancora in carcere, beneficiarie dell’articolo 21 dell’ordinamento Penitenziario, che consente di lavorare all’esterno. Un’iniziativa promossa dalla cooperativa sociale Progetto Onesimo, presieduta da Nicola Garofalo, presidente dell’Accademia della Cultura Gastronomica Lombarda e ideatore di questo locale che offre, attraverso il lavoro e La formazione, una seconda vita a chi altrimenti sarebbe perduto. Ad affiancarlo Bruno Ballistreri, chef executive che, dopo aver lavorato sia in Italia che all’estero, ha vissuto l’esperienza del carcere. Appassionato di storia della gastronomia e antiche ricette italiane, Ballistreri terrà anche corsi di formazione professionali per giovani allievi. Il programma formativo è suddiviso in due blocchi distinti. Uno, uguale per tutti, consentirà ai tirocinanti di selezionare e utilizzare le materie prime, le tecniche di abbinamento e armonizzazione dei sapori, unitamente a nozioni di contabilità aziendale, utili per gestire un proprio Laboratorio artigianale. Un secondo blocco prevede modalità personalizzate, mirate a far specializzare gli allievi in un unico elaborato, per acquisire la massima competenza sul prodotto col quale vorrà cimentarsi. Particolare attenzione è data alla individuazione di fornitori artigianali delle materie prime per preparare le pietanze, offrendo ai clienti prodotti genuini e certificati, legati alla regione e alla tradizione. Elemento di rilievo dell’iniziativa, l’offerta di prodotti a marchio "Antichi Maestri", legati a ricette storiche del territorio Lombardo. Il progetto, infine, coinvolge varie Pro Loco e artigiani che contribuiscono a valorizzare prodotti dei rispettivi territori. Santa Maria Capua Vetere (Ce): sartoria e cioccolateria, così il carcere rieduca Il Mattino, 26 maggio 2017 Un protocollo di intesa che prevede iniziative culturali e percorsi di economia sociale per il reinserimento dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, tra cui la creazione di una sartoria sociale e una cioccolateria all’interno dell’istituto di pena, è stato siglato ieri mattina tra i vertici della casa circondariale e il Comitato Don Peppe Diana. L’accordo è stato firmato dalla direttrice dell’istituto Carlotta Giaquinto e da Valerio Taglione, coordinatore del Comitato che porta il nome del sacerdote ucciso da Casalesi il 19 marzo del 1994. Il protocollo prevede che il Comitato Don Diana metta a disposizione il proprio know how, "attingendo alle competenze e all’esperienza delle associazioni e delle cooperative sociali ad esso aderenti", sostenendo così la direzione del penitenziario in progetti che prevedano agricoltura biologica sui terreni interni all’area carceraria, la nascita di una sartoria sociale e di una cioccolateria, l’attuazione del programma ambientale "Verso rifiuti zero". Il Comitato Don Diana secondo il protocollo favorirà inoltre esperienze di "apprendimento in situazione" presso i beni confiscati alla camorra. "Il protocollo siglato oggi - spiega Taglione - rappresenta l’inizio di una sinergia finalizzata a costruire un cammino di rinascita sociale che parta dal carcere per continuare finalmente all’esterno". Analoghe iniziative volte al reinserimento dei detenuti e al loro impegno nel sociale sono state varate nei mesi scorsi con i detenuti del carcere di Carinola. Spoleto (Pg): l’Inps gli chiede di inserire un Pin, detenuto invalido perde la pensione di Angela Balenzano Corriere del Mezzogiorno, 26 maggio 2017 Giuseppe Montani percepiva 300 euro al mese per un’invalidità al 75 per cento, ora più nulla. Detenuto nel carcere di Spoleto dove sta scontando una pena di 30 anni per una serie di reati non riceve più i suoi 300 euro per una invalidità al 75 per cento per due motivi. Il primo: qualche tempo fa l’Inps ha inviato una lettera al detenuto direttamente in carcere pretendendo da lui l’inserimento del codice Pin nel sistema dell’Istituto di previdenza così da poter inserire una nuova documentazione e una eventuale certificazione che attesti un’attività lavorativa. Azioni che Montani come qualsiasi altro detenuto non possono compiere per ovvi motivi. Il boss, secondo motivo, ha trascurato quella lettera, forse non comprendendone i contenuti fino in fondo, lasciandola in un cassettino della sua cella. Risultato? Pensione sospesa. Dovrà essere un familiare a rimettere le cose al posto e fare in modo che l’Inps non invii più comunicazioni in carcere. Una pensione erogata e poi interrotta. Perché la pratica andava perfezionata con altri documenti. Come ad esempio una dichiarazione di responsabilità relativa all’eventuale svolgimento di una attività lavorativa. Il destinatario della lettera dell’Inps con le nuove richieste è il boss barese del quartiere San Paolo, Giuseppe Montani, 46 anni, che però non è un uomo libero. È detenuto nel carcere di Spoleto dove sta scontando una pena per una serie di reati, tra i quali l’associazione mafiosa. Una pena che finirà nel 2030. Ma l’indirizzo sulla lettera dell’Istituto nazionale di previdenza sociale è quello del carcere in Umbria. Non quello di un suo familiare, ma proprio quello del penitenziario. Il detenuto non può certo rivolgersi ad un centro di assistenza fiscale (Caf) così come richiesto nella lettera, né inserire il suo pin e neppure la documentazione che gli è stata richiesta qualora lavorasse. Non può farlo per motivi lapalissiani. Ma la cieca burocrazia non guarda in faccia nessuno. Così il detenuto Montani riceve questa lettera e trascurando, o forse non comprendendone i contenuti, la lascia in un cassettino della sua cella. Fino a quando si rende conto che la sua pensione di circa 300 euro al mese non arriva più. Il boss godeva di una pensione di invalidità al 75 per cento. Una pensione "non rivedibile". Si rivolge così al suo avvocato, Nicolò Nono Dachille, al quale spiega la situazione e dopo qualche giorno, qualche ricerca e un po’ di telefonate, viene fuori la lettera dell’Inps che Montani aveva trascurato da settimane. Peraltro era anche scaduto il termine per la presentazione della documentazione che l’ente gli aveva chiesto. Ecco spiegate le ragioni dell’interruzione della pensione. Ma è comunque tutto da rifare: perché le richieste dell’Inps dovranno essere inviate ad un familiare di Montani (e non a lui in carcere) che con il codice Pin rilasciato dall’istituto e di una carta nazionale dei servizi, dovrà accedere nel servizio e inserire i dati richiesti. Fermo restando che nessun certificato che attesti lo svolgimento di un’attività lavorativa potrà essere inserito nel sistema Inps: Montani è detenuto da anni. Insomma la lettera inviata all’indirizzo del carcere di Spoleto e che il boss ha ignorato lo ha lasciato senza pensione. Ora la macchina della burocrazia dovrà rimettersi in moto e ripartire dall’inizio, ma - assicura l’avvocato - è solo una questione di tempo. Di rimettere tutto in ordine e soprattutto affidare la gestione della pratica ad un parente. In modo tale che le future comunicazioni dell’Inps e le richieste di nuova documentazione non arrivino in carcere, dove il boss non può far nulla. Roma: artigianato "made in carcere", oggi l’esposizione al Maxxi Famiglia Cristiana, 26 maggio 2017 Sabato 27 maggio, dalle 11.00 alle 18.00, in occasione dell’ultimo weekend della mostra del Maxxi di Roma "Please Come Back. Il mondo come prigione?", diciassette associazioni attive nel mondo delle carceri di tutta Italia faranno conoscere il proprio operato attraverso i prodotti realizzati artigianalmente dai detenuti di ciascuna cooperativa. Prodotti fatti bene che fanno del bene - Oggetti di design, borse, cosmesi, abbigliamento, marmellate, caffè, tisane, prodotti da forno, birre artigianali, olio, formaggi. Tutto… "made in jail". Sabato 27 maggio, dalle 11.00 alle 18.00, in occasione dell’ultimo weekend della mostra al Maxxi di Roma Please Come Back. Il mondo come prigione?, diciassette associazioni attive nel mondo delle carceri di tutta Italia faranno conoscere il proprio operato attraverso i prodotti realizzati artigianalmente dai detenuti di ciascuna cooperativa, che saranno in vendita negli stand allestiti nella piazza del museo. L’acquisto dei prodotti contribuirà a sostenere le cooperative e il lavoro dei detenuti. L’evento rappresenta l’appuntamento conclusivo della mostra Please Come Back, a cura di Hou Hanru e Luigia Lonardelli, che si conclude domenica 28 maggio. Nella mostra, 26 artisti di tutto il mondo raccontano attraverso 50 opere il carcere come metafora del mondo contemporaneo e il mondo contemporaneo come metafora del carcere: tecnologico, iperconnesso, condiviso e sempre più controllato. Le cooperative partecipanti: Cooperativa Opera In Fiore, Milano, Carcere Di Opera; Made In Carcere, Lecce, Carcere Di Lecce E Trani Associazione Solidarte, Latina, Casa Circondariale Latina Cooperativa Sociale Rio Terà Dei Pensieri, Venezia, Casa Circondariale Maschile Santa Maria Maggiore Casa Di Reclusione Per Donne Della Giudecca Sprigioniamo Sapori, Ragusa, Casa Circondariale Ragusa Cooperativa Lazzarelle, Pozzuoli, Casa Circondariale Pozzuoli Associazione Artistica Sociale E Culturale Scugnizzi, Napoli, Istituto Di Pena Minorile Nisida Fatto A Scampia, Coop. Sociale La Roccia Cotti In Fragranza, Carcere Minorile Di Palermo. Dal Carcere Di Rebibbia, Roma: Coop. Cibo Libero, Caseificio Birrificio, Ass. Semi Di Libertà Onlus Forno Fine Pane Mai Ricuciamo, Neroluce Made In Jail, Cooperativa Sociale Seriarte Ecologica Associazione Vic, Volontari In Carcere Men At Work Caffè Galeotto, Cooperativa Sociale Panta Coop. Siena: "Sistema penitenziario e detenuti stranieri", convegno all’Università per stranieri sienanews.it, 26 maggio 2017 Oggi e sabato, all’Università per Stranieri, si parlerà dei problemi del sistema penitenziario verso nuove risorse e prospettive. Alle 10 in Aula Magna, infatti, avrà inizio il Convegno Internazionale dedicato proprio alle tematiche del carcere, dal nome "Sistema penitenziario e detenuti stranieri: problematiche, risorse e prospettive". Si tratta di due giornate di lavoro, dove saranno presentati i principali risultati del progetto RiUscire, coordinato dalla professoressa Antonella Benucci e finanziato all’interno del programma Erasmus, vincitore del Label Europeo 2016. All’interno della due giorni, si darà spazio al confronto di esperti internazionali su come è possibile trasformare il contesto penitenziario europeo da luogo di esclusione e privazione a luogo di acquisizione di competenze e di preparazione al reinserimento sociale. Secondo i dati raccolti dall’ateneo, la presenza di detenuti stranieri nelle strutture penitenziarie è in crescita nella maggior parte dei Paesi europei: attualmente oscilla tra il 30 e 40% del totale della popolazione reclusa. È proprio questa fascia di detenuti a correre più frequentemente i rischi della radicalizzazione e della marginalizzazione, come testimonieranno i direttori di carceri presenti, gli esperti europei e i ricercatori. È opinione, ormai diffusa, che il detenuto straniero non possa raggiungere l’obiettivo del reinserimento nella società soprattutto a causa dello svantaggio linguistico che impedirebbe un reale immissione in ambiente lavorativo, interno o esterno al carcere. L’esperienza di ricerca dimostra invece che è possibile sfruttare e valorizzare la dimensione interlinguistica e interculturale del contesto penitenziario, trasformandolo in un luogo ricco di risorse. Una tematica ancora difficile da affrontare e tante barriere ancora da superare. Su questo tema saranno portate esperienze e buone pratiche svolte in Spagna, Francia, Germania, Portogallo, Italia. Pompei (Na): il 10 giugno si terrà il III Convegno del volontariato penitenziario salernotoday.it, 26 maggio 2017 "Con l’anno della Misericordia e gli appelli di Papa Francesco, sono nate tante iniziative verso il Carcere", ha raccontato il delegato regionale Don Rosario Petrone, componente, tra l’altro, del progetto nazionale della Caritas "Liberare la pena". "Sensibilizzare per liberare: dall’impegno alla progettualità": questo il titolo del III convegno del volontariato penitenziario che si terrà il 10 giugno, a Pompei, e che vedrà riuniti tutti i cappellani delle Carceri della Campania. Dopo il saluto alle 9.30 del Vescovo Pasquale Cascio, prenderà la parola il delegato regionale dei Cappellani, Don Rosario Petrone, parroco salernitano. A seguire, le relazioni di Cinzia Neglia della Caritas Italiana e di Francesco Cosentino, vice presidente del Seac. Prima del dibattito e della presentazione dei progetti, dunque, interverrà anche il dottor Giuseppe Martone, Provveditore Reggente. "Con l’anno della Misericordia e gli appelli di Papa Francesco, sono nate tante iniziative verso il Carcere - ha spiegato il delegato Don Rosario Petrone, componente, tra l’altro, del progetto nazionale della Caritas Liberare la pena. Con i cappellani del Carcere si pensò di organizzare un evento a Pompei, coinvolgendo il Prap, i direttori degli istituti penitenziari e i volontari: con la giornata della Misericordia, siamo riusciti a portare a Pompei quasi 2000 detenuti. Don Raffaele Grimaldi, allora delegato regionale, è stato nominato ispettore nazionale dei cappellani del Carcere e sono, quindi, subentrato io come delegato regionale: cercheremo di portare avanti tutto quello che ha avviato Don Raffaele", ha concluso il delegato. Prevista una folta partecipazione per il 10 giugno, presso il Santuario di Pompei. Monza: alla Casa circondariale nuovo campo da gioco polivalente di basket e volley mi-lorenteggio.com, 26 maggio 2017 Una mattinata dedicata allo sport e al divertimento in cui i detenuti sono stati i veri protagonisti con partite di calcio e pallacanestro, diretti da due speciali allenatori come Emiliano Mondonico e Carlo Recalcati. Presenti anche Oreste Perri, Presidente Coni Lombardia, Fabio Pizzul, Consigliere regionale, Cherubina Bertola, Vicesindaca del Comune di Monza, Maria Pitaniello, Direttrice della Casa Circondariale di Monza, Massimo Achini, Presidente Csi Milano, Nicola Colombo, Presidente S.S. Monza 1912 ed Ilaria Conciato del Consorzio Vero Volley. Non una comune conferenza stampa, ma un momento di unione, in cui tutte le barriere, per un attimo, sono state abbattute. Questa mattina, presso la Casa Circondariale di Monza è stato inaugurato un nuovo campo da gioco polivalente per basket e volley, simbolo di come lo sport possa essere veicolo ideale per ridare forza al senso delle regole e per far ritrovare dopo un momento di buio la possibilità di una nuova prospettiva. Alla conferenza, iniziata con il taglio del nastro in campo di alcuni detenuti, sono intervenuti: Maria Pitaniello, Direttrice della Casa Circondariale di Monza: "Il progetto dello sport in carcere va avanti da diversi anni e con il nuovo campo polivalente siamo in grado ampliare la proposta sportiva per i detenuti. Lo sport educa a rispettare le regole, a rispettare i compagni e anche se stessi. Divertirsi, allentare la tensione e fare squadra è importante per migliorare la vita di tutti, anche qui". Massimo Achini, Presidente del Csi Milano: "Oggi la novità non è lo sport in carcere, ma crederci davvero con l’ambizione di poter esprimere al meglio le sue potenzialità educative. Oltre ad inaugurare il nuovo spazio polisportivo del Carcere di Monza, annunciamo che i detenuti della casa circondariale parteciperanno ai campionati della prossima stagione sportiva del Csi Milano con una squadra di pallavolo ed una di pallacanestro, oltre alla squadra di calcio a 7 che milita da alcuni anni nelle nostre competizioni". Oreste Perri, Presidente Coni Lombardia: "In campo oggi ho visto delle persone che si sono sentite libere giocando. Lo sport aiuta a tirare fuori la parte buona di ciascuno, a sentirsi meno soli e a credere in se stessi. Riuscire a far sorridere qualcuno è il regalo più bello che si può fare a se stessi e agli altri. Il rispetto delle regole, l’aiuto e lo scambio reciproco sono i valori che un progetto come questo riesce a trasmettere". Fabio Pizzul, Consigliere regionale Lombardia: "Mi impegno da diversi anni nel mettere a sistema tutte le attività che vengono realizzate in carcere costruendo un collegamento con il territorio e con la società. Lo sport e la voglia di mettersi in gioco sono una vera scuola di vita in grado di dare speranza e prospettive migliori per il futuro". Hanno portato la loro testimonianza anche: Emiliano Mondonico, ex allenatore di calcio: "È importante aiutare chi è in difficoltà. Non ho allenato solo dei campioni, ma oggi alleno anche squadre con ragazzi in difficoltà e si vive meglio quando si ha la forza e la volontà di sostenere gli altri. Questi ragazzi ogni mattina si alzano e sanno che devono fare goal, non solo in campo, ma soprattutto nella vita. Fare squadra e rispettare le regole sono insegnamenti che lo sport può offrire". Carlo Recalcati, allenatore della Pallacanestro Cantù : "La capacità e la voglia di stare insieme dei detenuti erano evidenti sul campo di gioco. Attraverso lo sport si possono imparare le regole necessarie per ributtarsi nella vita dopo aver scontato la pena dei propri errori. Sapere che il nostro intervento di oggi può aiutarli è davvero appagante". Nicola Colombo, Presidente della S.S. Monza 1912: "Siamo venuti qui per poter tendere una mano a coloro che vivono il difficile mondo del carcere e per cercare di aiutarli a recuperare la propria vita ed i contatti con l’esterno. Parlare di sport e in particolare di calcio può favorire il reinserimento sociale e poterlo praticare anche qui è sicuramente un veicolo per raggiungere e mantenere la salute fisica e mentale". Nell’occasione è stata anche premiata l’Alba, squadra formata da detenuti che partecipa al campionato Csi di calcio a 7: "La nostra squadra partecipa al campionato provinciale del Csi Milano da due anni. Lo sport è disciplina, ci aiuta a riflettere sulle regole della vita e a capire i nostri errori. Grazie a questo progetto possiamo dimostrare che in noi non c’è solo una parte negativa, ma c’è anche del bene. Il calcio ci sta offrendo speranza e ci fa capire che fuori c’è un mondo in cui possiamo veramente integrarci. Abbiamo riscoperto lo sport anche come strumento di aggregazione e integrazione tra diverse culture ed esperienze. Grazie di cuore per questa grande possibilità". Prosegue così il Progetto Carceri, percorso che il Csi Milano intraprende da ormai qualche anno, gestendo ed organizzando all’interno del carcere numerose attività di valorizzazione della pratica e della cultura sportiva, frutto della profonda convinzione che lo sport possa contribuire in modo significativo a migliorare la condizione fisica e psichica di chi vive un periodo difficile come quello detentivo. Oggi è stato lo sport il vero protagonista, con partite di calcio 4 vs 4 e di basket 3 vs 3 tra detenuti, calciatori della S.S. Monza 1912, che attualmente milita in Serie D, ed alcuni componenti della polizia penitenziaria che parteciperanno al prossimo campionato di calcio del CSI. I match hanno visto Emiliano Mondonico e Carlo Recalcati in veste di arbitri ed allenatori. I mezzi dati a Tripoli e il giallo sugli spari ai migranti. E Minniti convoca i prefetti di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 26 maggio 2017 Il portavoce della Marina libica, Ayob Amr Ghasem: "Mai sparato, noi vogliamo salvarli. Chi lo dice lo dimostri e noi perseguiremo i colpevoli". Il cambio di strategia della Guardia costiera libica è cominciato un paio di settimane fa. E si è reso più evidente negli ultimi giorni con la scelta di riportare sulle coste africane i barconi intercettati mentre erano in navigazione. La denuncia delle Organizzazioni non governative di "colpi sparati contro i migranti" viene smentita categoricamente dal portavoce Ayob Amr Ghasem che sfida i responsabili di Jugend Rettet "a produrre prove incontrovertibili come foto o video, perché saremmo noi a deferirli alla magistratura". Ma nessuno nega che dopo la consegna delle motovedette da parte del governo italiano ci sia la volontà di mostrarsi inflessibili. Con tutti i rischi che questo comporta. E dunque si cerca di rimodulare il sistema affidando un ruolo sempre più centrale alla Guardia costiera. Anche perché i numeri degli sbarchi continuano ad aumentare e in vista della stagione estiva bisogna far funzionare il piano dell’accoglienza. Per questo il ministro dell’Interno Marco Minniti ha convocato per domani al Viminale i prefetti dei capoluoghi. La distribuzione nei centri - In attesa che i sindaci forniscano la disponibilità di strutture dove sistemare i richiedenti asilo, si è deciso di analizzare la mappa dei luoghi che non hanno ancora aderito all’accordo siglato con l’Anci, l’associazione dei Comuni. La direttiva che verrà data ai prefetti è quella di reperire il maggior numero di posti possibili, tenendo conto che i centri già esistenti sono ormai stracolmi e non si può correre il rischio di rimanere "scoperti". Il numero dei migranti che giungono in Italia continua a salire: secondo i dati aggiornati a ieri sono 50.267 gli sbarcati, quasi il 40 per cento in più dello stesso periodo del 2016. Ma ciò che maggiormente allarma sono le nazionalità, perché si tratta di persone che arrivano soprattutto da Nigeria, Bangladesh, Guinea, Costa d’Avorio. E dunque non è automatico che possano ottenere lo status di rifugiati. La Guardia costiera libica - L’ammiraglio Ghasem assicura che "il nostro unico obiettivo è quello di salvare i migranti" e sfida le Ong: "Perché ci dichiarano guerra? Dovrebbero piuttosto cooperare con noi, se vogliono veramente fare l’interesse dei migranti. E invece alcune tendenziose aiutano i trafficanti di esseri umani che in Africa creano il sogno di emigrare in Europa per approfittarne". Accuse vecchie che i responsabili delle Ong hanno già respinto. E ieri, di fronte al comitato parlamentare di Controllo sui servizi segreti, il direttore dell’Aisi Mario Parente ha ribadito di non avere "alcun dossier che testimonia rapporti tra le organizzazioni non governative e gli scafisti", così confermando quanto aveva già dichiarato il direttore dell’Aise, Alberto Manenti. L’accordo con Tripoli e le forniture - Nei prossimi giorni l’Italia consegnerà proprio alla Guardia costiera altre quattro motovedette per il controllo di coste e spiagge. Il patto siglato a febbraio prevede anche una consegna scaglionata di mezzi e apparecchiature - gommoni, ambulanze, jeep, automobili, telefoni satellitari - che devono servire ai pattugliamenti su tutto il territorio proprio nella lotta ai trafficanti di uomini. Ma la vera scommessa fatta da Minniti riguarda pure l’accordo con Ciad e Niger, oltre naturalmente alla Libia, per il controllo del confine meridionale. Nel progetto sarà coinvolta anche l’Unione Europea - così come hanno chiesto lo stesso Minniti in accordo con il collega tedesco de Maizière - in modo da poter creare lì dei campi di accoglienza per i profughi in modo da procedere alla loro identificazione e destinazione finale. Rischi sottovalutati, gli sbagli europei in Libia di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 26 maggio 2017 Soltanto una coalizione che si muove davvero unita può trovare gli strumenti per combattere il terrorismo riuscendo a prevalere. E così salvare il futuro di tutti. Da anni l’Italia è impegnata sul fronte libico in un’attività di prevenzione che mira a fermare i flussi migratori e a proteggere le aziende impegnate in quell’area. Ha evidenziato ripetutamente i rischi legati al terrorismo in un Paese allo sbando dove i leader dell’Isis hanno già dimostrato di essere pronti a combattere e morire pur di conquistare la maggior parte dei territori. E ha chiesto aiuto alla Ue per pianificare progetti concreti a sostegno della popolazione nordafricana e contro l’offensiva delle organizzazioni criminali. Ma non ha mai ottenuto risposte soddisfacenti dai partner europei. Gli appelli sono sempre caduti nel vuoto. Non si può negare che anche il nostro Paese abbia commesso errori, talvolta puntando su personaggi ambigui, altre volte prendendo una strada che non si è rivelata efficace. Ma aveva comunque la volontà di risolvere i problemi e, nonostante le promesse e gli impegni formali, il governo di Roma è stato lasciato solo ad affrontare un’emergenza che era invece di tutta l’Europa. Ora lo scenario è completamente cambiato. Salman Abedi, l’attentatore di Manchester che lunedì sera ha fatto strage al concerto dell’idolo delle ragazzine Ariana Grande, è un cittadino britannico con origini libiche. La sua famiglia viveva in Libia, i "visti" sul suo passaporto britannico dimostrano che anche lui è andato più volte a Tripoli. E questo fa presumere che proprio lì possa aver avuto legami tali da aiutarlo nella sua missione di morte. Soprattutto fa temere che i suoi contatti possano essere ancora attivi e determinati a portare avanti quella stessa strategia del terrore. Anche perché gli accertamenti condotti in queste ore accreditano la possibilità del suo inserimento in una "rete" che porta alla cellula jihadista entrata in azione nei mesi scorsi a Parigi e Bruxelles. Per gli apparati di sicurezza e intelligence europei la Libia è improvvisamente balzata in cima alla lista delle priorità da affrontare. Una realtà che gli analisti italiani indagavano invece da tempo e hanno continuato a esplorare anche grazie all’attività delle forze speciali che da oltre un anno - in base a un decreto firmato dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi nel marzo 2016 - effettuano missioni segrete proprio nello Stato africano. L’Italia è l’unico Paese ad aver siglato un accordo bilaterale di cooperazione con il governo guidato da Fayez al-Serraj, impegnandosi a fare da mediatore per raggiungere un accordo politico interno che possa pacificare il Paese. Dieci giorni fa il ministro dell’Interno Marco Minniti e il collega tedesco Thomas de Maizière hanno firmato un appello congiunto affinché l’Ue intervenga per programmare interventi nel sud della Libia, al confine con il Niger. L’obiettivo principale è sviluppare progetti in quell’area per convincere le popolazioni locali a rimanere, pattugliare le frontiere per impedire l’attraversamento del deserto, creare campi di accoglienza dove chi vuole chiedere asilo possa essere identificato e - una volta ottenuto il riconoscimento dello status - dirottato nel Paese dove ha chiesto di vivere. Si tratta di un’iniziativa importante che avvicina Berlino e Roma. La Francia ha subito espresso sostegno. E la Commissione guidata da Jean-Claude Juncker ha fatto sapere di voler affrontare il problema con urgenza non escludendo di poter partecipare anche con un impegno economico. Una posizione che però - come già accaduto in passato di fronte a richieste di aiuto - potrebbe risolversi in un nulla di fatto. E invece mai come in questo momento sarebbe necessario fare fronte comune e pianificare una strategia di intervento che possa aiutare il governo di Tripoli a stabilizzarsi, in modo da avere il controllo del proprio territorio e riportare la situazione alla normalità. È vero che negli ultimi mesi l’Isis ha subito una battuta d’arresto nell’avanzata in Libia, ma la sua presenza è ancora molto forte. Così come è vero che dalle città riconquistate dalla coalizione occidentale sono fuggiti moltissimi reduci. Alcuni hanno fatto rientro nei Paesi d’origine, altri potrebbero essere entrati in Europa o comunque intenzionati ad arrivare. È una situazione che non si può sottovalutare perché i rischi sono davvero altissimi. Quanto accaduto in quell’arena del Regno Unito piena di adolescenti felici per il concerto della loro beniamina, mostra la barbarie dei fondamentalisti islamici. La rivendicazione di Daesh che definisce i ragazzini sugli spalti "un raggruppamento di crociati", annuncia che "il peggio deve ancora venire" e "loda il signore" per la missione compiuta dal kamikaze, fa ben comprendere che cos’altro può accadere. Per questo non bisogna perdere l’occasione di reagire e bisogna farlo in maniera forte, con provvedimenti efficaci. Soltanto una coalizione che si muove davvero unita può trovare gli strumenti per combattere il terrorismo riuscendo a prevalere. E così salvare il futuro di tutti. Militari nelle strade, in Brasile tornano i fantasmi di Tommaso Pellizzari Corriere della Sera, 26 maggio 2017 Tutto già visto, come gli striscioni con la scritta "Diretas já", elezioni subito. Era lo slogan di metà anni 80, quando il Paese cercava di uscire dalla dittatura. "Tristeza não tem fim, felicidade sim": la tristezza non ha fine, la felicità sì. C’è tutto il senso della vita, nei versi di una celebre canzone di Vinicius de Moraes. E tutto il Brasile. C’è quello in tumultuosa crescita del 1959, che si presentava al mondo col musical "Orfeo negro". Erano gli anni del presidente visionario Juscelino Kubitschek, che fece costruire nel nulla del sertão la capitale Brasilia. La stessa città in cui (quasi 60 anni dopo) decine di migliaia di persone sono scese in strada per chiedere le dimissioni del presidente Michel Temer. E non solo per la pubblicazione dei nastri in cui si sente la sua voce autorizzare il pagamento di mazzette all’ex presidente del Parlamento Eduardo Cunha in cambio del suo silenzio sul caso Lava Jato, la Tangentopoli brasiliana: la botta finale alla reputazione dell’uomo che mezzo Paese non ha mai riconosciuto come legittimo erede di Dilma Rousseff, cacciata dalla presidenza con l’impeachment. Il Brasile che oggi protesta è anche il Paese che, come a fine anni 50, ha visto un periodo di grande espansione esaurirsi senza lasciare tracce. Le proteste durante la Confederations Cup del 2013 (e proseguite durante il Mondiale 2014) nascevano da un’evidenza indiscutibile: invece di scuole, ospedali e autostrade, il decennio d’oro 2000-2010 (il Pil di quell’anno registrò un +7,5%) aveva lasciato al Brasile 12 stadi, splendidi e costosissimi, molti dei quali già in rovina e abbandonati. Come parecchie delle strutture olimpiche per i Giochi di Rio 2016. La città carioca è stata l’ultima a tornare a una realtà tragica: finite le Olimpiadi, sono finiti anche i soldi per pagare i poliziotti. È così che i narcos si sono ripresi le favelas e le strade del ricco quartiere di Leblon sono diventate tra le più rapinate. Tutto già visto, come gli striscioni con la scritta "Diretas já", elezioni subito. Era lo slogan di metà anni 80, quando il Brasile cercava di uscire dalla dittatura. Ci è riuscito, se è vero che Temer ha sospeso il decreto con cui ha mandato l’esercito nelle strade. Ma è l’unica buona notizia da oltre un anno. Difficile che ne arrivino altre, in futuro.