Prigionieri e suicidi: così il carcere uccide di Arianna Giunti L’Espresso, 25 maggio 2017 Celle sature, carenza di medici, l’aumento di casi di malasanità e l’abuso di psicofarmaci: in meno di cinque mesi si sono già registrati 39 decessi. La Polizia penitenziaria non riesce a impedire queste morti. E la Procura di Roma indaga per istigazione al suicidio. Carmelo Mortari aveva 58 anni. Lo hanno trovato in una pozza di sangue nella sua cella di Rebibbia, reparto G9, lo scorso 25 marzo. Si è tagliato la gola ed è morto lentamente, dissanguato. Soffriva di depressione, ma nessuno se n’era accorto. Il giorno dopo a qualche chilometro di distanza Vehbija Hrustic, 30 anni, si è impiccato alla grata del bagno di Regina Coeli, dilaniato dal dolore. Gli avevano appena detto che sua figlia era morta. Sapevano che era sconvolto, ma non sono riusciti a fermarlo. Michele Daniele di anni ne aveva 41 ed era "dipendente dall’alcol", come recita la sua cartella clinica. Secondo lo psichiatra che lo ha visitato, però, "non correva rischi suicidari". Una settimana dopo si è ucciso nel bagno della sua cella di San Vittore impiccandosi con la cintura dell’accappatoio. In meno di cinque mesi, dall’inizio dell’anno a oggi, nelle carceri italiane sono già registrati 39 decessi fra cui 19 suicidi. Una media di quattro morti al mese. A febbraio, in particolare, si sono contati quattro suicidi in un solo giorno. Nell’anno 2016, in totale, erano centoquindici. Una strage inarrestabile e silenziosa che sembra essere la diretta conseguenza dello stato in cui versano le nostre prigioni, riprecipitate in un baratro allarmante. Il decreto "svuota carceri" voluto nel 2014 dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, infatti, ha avuto un effetto positivo ma molto breve: oggi le celle sono tornate a riempirsi a ritmo vertiginoso e contano un totale di 56.289 detenuti per 50.211 posti a disposizione, secondo gli ultimi dati disponibili del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Tanto che di recente l’Italia - ancora una volta - è stata bacchettata dal Consiglio d’Europa. Un’emergenza fotografata anche dall’ultimo rapporto dell’associazione Antigone sullo stato di detenzione in Italia, che fa luce soprattutto sull’inquietante ritorno del sovraffollamento: secondo l’osservatorio, la popolazione carceraria è aumentata di 2mila unità soltanto negli ultimi quattro mesi. Però, oltre le celle sature, sono molte tante le piaghe che non accennano a guarire: la carenza di medici dietro le sbarre, l’aumento di casi di malasanità e l’abuso di psicofarmaci. Le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) - le strutture che dovrebbero accogliere i detenuti con problemi psichiatrici - sono troppo poche e troppo piene. Quindi i detenuti con patologie psichiche sono "curati" nelle celle ricorrendo a un massiccio uso di sedativi con conseguenze a volte letali. Mentre i poliziotti incaricati di sorvegliarli fanno quello che possono, ma sono troppo pochi. Capita che per un intero piano ci sia un solo agente. È così diventa una corsa contro il tempo. Che spesso si perde. Gli muore la figlia, si uccide in cella - Sono bastati 45 minuti perché Vehbija Hrustic, detenuto di 30 anni, si infilasse al collo un cappio ricavato da un lenzuolo e si appendesse alle grate del bagno, a Regina Coeli. Era in carcere dallo scorso agosto in attesa di giudizio, ed era incensurato. Aveva una figlia, Iana, un anno appena, che soffriva di una grave patologia cardiaca congenita. Il giorno in cui sua figlia è morta all’ospedale Bambin Gesù, il 14 marzo scorso, Vehbja Hrustic lo ha saputo dallo psicologo del carcere. Raccontano che si è piegato in due dal dolore. Gli hanno permesso di andare al funerale, e da allora non ha più parlato. Si è chiuso in un silenzio ostinato e premonitore. Sapevano della sua condizione gli agenti della penitenziaria, la direzione carceraria, i magistrati di sorveglianza. Eppure nonostante l’altissimo rischio suicidario Hrustic non era sottoposto a un controllo di sorveglianza a vista. "Il detenuto è totalmente abbandonato a se stesso, demotivato dalla prematura scomparsa della figlia: tale drammatico evento potrebbe portarlo a commettere un gesto estremo", si legge nell’istanza di scarcerazione datata 17 marzo che il legale del 30enne, Michela Renzi, aveva presentato ai giudici per chiedere che gli fossero concessi quantomeno i domiciliari. Per quindici giorni il legale si è presentata davanti al magistrato del Tribunale di sorveglianza per avvertire che la situazione stava precipitando. Una corsa contro il tempo, rimasta inascoltata. Perché il carcere, irremovibile, continuava a sostenere la sua versione: "La terapia farmacologica sta funzionando". Gli psicofarmaci che gli facevano ingoiare più volte al giorno però non sono evidentemente serviti a nulla. "Me ne vado dalla piccola Iana", è stata l’ultima frase che l’avvocato Renzi gli ha sentito sussurrare. E così Vehbja aspettato che calasse la notte e si è ammazzato. Oggi sul suo decesso è stata aperta un’inchiesta coordinata dal pubblico ministero romano Laura Condemi. L’accusa è pesantissima: istigazione al suicidio. "Non doveva trovarsi un carcere - spiega l’avvocato Renzi - avrebbe dovuto essere seguito in un percorso psicologico costante che potesse permettergli di superare un momento così tragico, che avrebbe annientato qualsiasi essere umano. A maggior ragione un detenuto costretto a vivere dietro le sbarre". "Si trattava di un uomo fortemente a rischio - le fa eco il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia - sia perché incensurato, e dunque non abituato alla vita nel carcere, sia perché prostrato da un lutto devastante, come può essere la morte di una figlia". Ma il dato di fatto è che in carcere mancano operatori sanitari specializzati: psichiatri, psicologi e tecnici della riabilitazione psichiatrica. Secondo quanto prevede l’ordinamento giudiziario, in ogni regione devono essere garantiti appositi servizi di assistenza, attraverso l’attivazione di reparti di "Osservazione psichiatrica" per la cura dei detenuti affetti da specifiche patologie e stabilire la loro compatibilità con il regime carcerario. Il più delle volte però - come confermano i sopralluoghi dei vari garanti dei diritti delle persone private della libertà - questo si traduce in "celle lisce", prive di qualsiasi tipo di mobilio, dove sono presenti letti di contenzione con lacci di cuoio e dove vengono immobilizzati i detenuti in preda a crisi psichiatriche. A San Vittore - nonostante l’annunciata chiusura - è ancora presente la cella numero 5, utilizzata come cella di contenzione per detenuti definiti "problematici". Suicida a 22 anni - Problematico era anche Valerio Guerrieri, 22 anni, affetto da "personalità borderline" e dichiarato da una perizia psichiatrica "incline al suicidio". Arrestato lo scorso gennaio per resistenza a pubblico ufficiale e reati minori, era stato portato alla Rems di Ceccano, nel Frusinate, per ben due volte. Ma per ben due volte si era allontanato. A febbraio lo avevano trasferito quindi a Regina Coeli, terzo piano, seconda sezione. I giudici avevano già stabilito la sua incompatibilità con il carcere, per via del suo disagio psichico, e ne avevano predisposto il trasferimento alla Rems di Subiaco, ritenuta più idonea ad accoglierlo. La struttura però era piena e così Lorenzo è rimasto in carcere in attesa che si liberasse un posto. Nessuno - a parte la sua famiglia - si era evidentemente reso conto dell’abisso di disperazione nel quale il 22enne stava precipitando giorno dopo giorno. Il pomeriggio del 24 febbraio Valerio aspetta che il suo compagno di cella si addormenti. Quindi va in bagno, fabbrica una sorta di cappio con un lenzuolo e si impicca alle grate. È lo stesso bagno dove ha trovato la morte Vehbja Hrustic, nello stesso identico modo. "Non doveva trovarsi in carcere, quel suicidio si poteva evitare", dicono oggi dall’Osservatorio Antigone. "Si tratta di una sezione che conta 170 detenuti e un solo agente incaricato di sorvegliarli su quattro piani", si sono difesi i sindacati di polizia penitenziaria. Una tragica vicenda, questa, che accende l’attenzione sulla situazione dei Rems, le strutture che dopo la chiusura degli Opg dovrebbero accogliere i detenuti afflitti da gravi patologie psichiatriche e socialmente pericolosi e indirizzarli verso percorsi riabilitativi. In tutta Italia sono attualmente 28 per un totale di 624 posti disponibili. E sono quasi sempre piene. Sul caso di Valerio Guerrieri la Procura di Roma ha ora aperto un’inchiesta per omicidio colposo. "Lo hanno imbottito di psicofarmaci", denuncia oggi la madre attraverso il suo legale Claudia Serafini. Overdose da psicofarmaci - L’abuso di psicofarmaci in carcere, infatti, come evidenziato anche da un’inchiesta dell’Espresso, è un problema che sta sfuggendo al controllo dei operatori giudiziari e dei medici che prestano servizio negli istituti di pena. Secondo recenti stime delle associazioni a tutela dei detenuti, quasi il 50% dei detenuti fa uso di psicofarmaci o potenti sedativi che inibiscono il normale funzionamento psichico. Sono farmaci che provocano sbalzi di umore difficili da gestire, soprattutto nelle persone che hanno un passato di tossicodipendenza. Senza contare il fatto che le benzodiazepine - i sedativi più comunemente usati anche da detenuti perfettamente sani e non affetti da patologie mentali - provocano astinenza già dopo 15 giorni di assunzione. Gli psicofarmaci diventano infatti l’unica "anestesia" a disposizione dei prigionieri per riuscire a sopportare condizioni disumane e carcerazioni preventive. E così lo spaccio di medicinali nelle celle e l’uso smodato di sedativi continuano a moltiplicarsi. Con conseguenze spesso tragiche, come dimostrano recentissimi fatti di cronaca. Nel carcere di Perugia lo scorso novembre uno "speedball" di cocaina, ammoniaca e medicinali ha quasi ucciso un detenuto magrebino. Mentre lo scorso 4 aprile un potente mix di psicofarmaci e droga è stato fatale a un detenuto 33enne rinchiuso nel penitenziario di Rimini. E poi c’è la vicenda di Andrea Cesar, 36 anni, detenuto in attesa di giudizio, trovato cadavere nella sua cella al secondo piano del carcere di Trieste la notte nel 27 aprile. Secondo gli inquirenti che stanno ancora indagando, Cesar sarebbe stato stroncato da un massiccio cocktail di psicofarmaci. Parallelamente all’inchiesta aperta in Procura, la direzione dell’istituto di pena ha aperto un’indagine interna. "Lo scambio di farmaci all’interno del penitenziario non è controllabile - ha ammesso il direttore del carcere triestino Silvia Della Bella - può capitare che qualche recluso riesca ad occultare i farmaci eludendo la sorveglianza per poi assumerli quando e come vogliono". La notte in cui è morto il 36enne - ha spiegato il segretario provinciale della Uil Penitenziari Alessandro Penna - c’erano di turno soltanto due agenti. Uno dei due era stato mandato in ospedale per piantonare un detenuto. L’altro era rimasto a controllare un intero carcere. Da solo. Carceri, crolla il numero di agenti. Al via stato di agitazione di Giorgio Saccoia rassegna.it, 25 maggio 2017 In dieci anni si è registrata un’emorragia di personale: 8.500 unità in meno e solo in parte per il calo degli addetti. In molti, infatti, si spostano verso gli uffici amministrativi. Chiaramonte (Fp Cgil): "Un’emergenza che mette a rischio le ferie". La carceri si svuotano, ma solo di poliziotti penitenziari. Una vera e propria emorragia di personale che sta determinando una situazione di vera e propria emergenza. A denunciarlo è la Fp Cgil Polizia Penitenziaria alla luce di un report, condotto su numeri emersi dal confronto col Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, da dove emerge come in dieci anni, dal 2007 al 2017, il numero di agenti nelle carceri sia crollato di oltre 8.500 unità. Una flessione per la Fp Cgil legata in parte al calo del personale, ma soprattutto allo spostamento di molti addetti dagli istituti agli uffici amministrativi, portando il totale di poliziotti penitenziari nelle carceri a circa 33 mila addetti rispetto agli oltre 41 mila del 2007. Dai dati del report della Fp Cgil Polizia Penitenziaria si rileva come il numero di agenti sia crollato - tra maggio 2007 e maggio 2017 - di circa 4.700 unità, "determinando una situazione di vera e propria emergenza". Si è passati infatti da 41.314 agenti di dieci anni fa agli attuali 36.631. Una fotografia che ha indotto la Fp Cgil Polizia Penitenziaria a proclamare "lo stato di agitazione del personale e a chiedere il rientro immediato negli istituti penitenziari dei poliziotti in esubero nelle sedi amministrative prima del piano ferie". La Fp Cgil Polizia Penitenziaria punta anche il dito contro "la crescita costante di agenti che si spostano dalle carceri verso gli uffici amministrativi attraverso un sistema di mobilità a chiamata diretta". Difatti, nell’analisi si sottolinea che ai 36.631 agenti previsti in servizio vanno sottratti circa 4 mila distaccati, e di questi addirittura circa 400 in sedi amministrative diverse da quelle della giustizia. Il che fa crollare il numero di agenti divisi negli oltre 200 istituti penitenziari della penisola a 32.718, ovvero 8.596 in meno rispetto al 2007. "Una situazione già critica che, con l’estate alle porte, rischia di diventare una vera e propria emergenza", sottolinea il segretario nazionale della Fp Cgil, Salvatore Chiaramonte, che fa notare come: "la totale insufficienza di personale impedisce a chi svolge questo lavoro di poter esercitare il diritto alle ferie. Con un organico ridotto all’osso, mentre bisognerà attendere mesi per l’implementazione dei circa 500 nuovi prossimi assunti, è concreto il rischio che le lavoratrici e i lavoratori della polizia penitenziaria non possano andare in ferie". Il sindacato chiede quindi il rientro immediato del personale distaccato in esubero. "È ora di smetterla con questa fuga dalle carceri - osserva ancora Chiaramonte, che produce un problema di trattamento tra gli stessi lavoratori, in termini di privilegi, e che soprattutto si riflette su chi nelle carceri ci lavora. Specie in un periodo come questo, con l’estate che si avvicina, chiediamo che venga invertita la tendenza, riportando nelle carceri il personale impiegato nelle amministrazioni prima dell’inizio del piano ferie estive". In generale, pur con il recente via libera ai nuovi ingressi la situazione rimane critica. "Registriamo positivamente le prossime nuove assunzioni - aggiunge il dirigente sindacale, ma queste non riusciranno a colmare una carenza strutturale di organico. Per queste ragioni bisogna interrompere questa pratica della chiamata diretta per riportare gli agenti di polizia penitenziaria nei loro luoghi di lavoro. Il sistema merita un’attenzione adeguata e rispetto nei confronti di personale impegnato in un settore difficile, come abbiamo dimostrato in questi mesi con la campagna #dentroametà, e senza per altro un contratto nazionale ormai da oltre otto anni", conclude Chiaramonte. Separazione delle carriere in magistratura, la questione irrisolta Giovanni Verde Il Mattino, 25 maggio 2017 Semantica. È interessante analizzare il linguaggio degli altri (anche il proprio quando si è obiettivato nella forma scritta e l’autore se ne è in qualche modo distaccato). È possibile percepire o tentare di comprendere che cosa c’è dietro, quali sono le premesse o i presupposti. In un determinato contesto, nel quale il ministro Orlando si trova a difendere la sua azione, egli afferma che, quanto al problema delle intercettazioni, il rimedio sta nell’impedirne la diffusione, quando non siano pertinenti all’ indagine e non abbiano rilevanza penale. In un diverso contesto, afferma che quando una intercettazione è uscita (in un qualsiasi modo) dalla sfera della riservatezza, è difficile impedirne la pubblicazione, ameno che gli stessi giornalisti non si diano regole di comportamento adeguate. Nel primo contesto aveva da difendere un disegno di legge del suo ministero; nell’altro contesto, aveva da fare i conti con l’opinione pubblica e con la necessità di non apparire come fautore di censure. Il linguaggio (non solo del ministro) sconta le incertezze su di una scelta di fondo, che la politica, senza distinzioni di appartenenza, non vuole e non sa fare, dal momento che, quando si è al potere, c’è insofferenza per un eccessivo controllo della magistratura sull’esercizio e sulle modalità di esercizio del potere e, quando si anela ad esercitarlo, una accentuazione del potere della magistratura e un’esasperazione del panpenalismo costituiscono un’arma irrinunciabile di lotta politica. In realtà, non c’è politico che osi dire che c’è un uso eccessivo e, spesso, abusivo dello strumento delle intercettazioni o, dicendolo, che faccia qualche proposta per limitarle, perché se lo dicesse o le facesse, rischierebbe di rimanere bruciato. Il neo-presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, il dr. Eugenio Albamonte, premessa la necessità dello strumento delle intercettazioni, sembra consapevole che la loro fuoriuscita, risalendo a ritroso, dipenda o dall’ufficio del pubblico ministero o dagli investigatori, ma esclude che agiscano in sincronia, uno come mandante dell’altro. Subito dopo (o prima) afferma che la fuga di notizie sulle microspie o sulla conversazione tra Matteo e Tiziano Renzi danneggia le indagini e di non riuscire a capire perché mai "un magistrato dovrebbe diffondere un’ intercettazione quando poi danneggia la propria indagine". Qui i contesti sono raccolti in un unico arco temporale. Da un lato c’è il riconoscimento di ciò che non si può disconoscere. L’intercettazione diventa pubblica perché qualcuno che la maneggia vuole che diventi pubblica e questo qualcuno va ricercato o tra chi è incaricato delle indagini e tra i pubblici ministeri che le dirigono. Subito dopo, tuttavia, si afferma che non è verosimile che sia il pubblico ministero a farle trapelare, perché così facendo danneggerebbe l’indagine. Il linguaggio adoperato merita un’analisi approfondita. È chiaro che, assumendo che un pubblico ministero non avrebbe interesse a fare trapelare la notizia, perché danneggerebbe l’indagine, si finisce col dare per scontato che la fuga sia da attribuire a responsabilità degli indagatori, tra i quali andrebbe ricercato il "corvo". Meno chiara è la ragione per la quale la notizia danneggerebbe l’indagine. Se la notizia non è pertinente al reato per cui si indaga e se non riguarda fatti penalmente rilevanti, è difficile comprendere che danno possa fare. Di conseguenza, l’unica spiegazione della fuga va ricercata o in un interesse materiale (in sostanza, perché viene venduta in cambio di qualcosa) o in un interesse di altro genere (in sostanza, perché si vuole sollecitare l’attenzione della pubblica opinione sul fatto, anche se non penalmente rilevante, o per delegittimare le persone o per creare intorno al proprio operato una atmosfera di benevola attesa, così legittimandolo a prescindere dai risultati processuali che si possano conseguire). In sostanza, l’argomento adoperato dal presidente Albamonte non prova nulla e si traduce in una difesa di evidente tipo corporativo. Di più. La sua prospettiva è quella del pubblico ministero, che si preoccupa dei risultati dell’indagine, molto meno si preoccupa o non si preoccupa affatto delle conseguenze che la diffusione delle notizie può avere sulla vita altrui. Il linguaggio disvela quale è l’universo di chi è chiamato ad esercitare l’azione penale. L’indagine finisce con l’essere il "moloch" da difendere e da portare innanzi, costi quel che costi, anche se in questo modo si rischia di compromettere la serenità e, spesso, molto più della serenità delle persone. E l’unica preoccupazione del pubblico ministero è quella di non comprometterla. Le considerazioni del dr. Albamonte chiamano in ballo il Csm. Quest’ultimo non ha poteri ispettivi e non gestisce l’azione disciplinare. Può esaminare l’attività del magistrato, curando di non interferire sulla gestione dei processi, dal punto di vista della compatibilità ambientale e funzionale. Nelle ipotesi estreme può pervenire a provvedimenti di incompatibilità ambientale, disponendo il trasferimento d’ufficio, o funzionale, disponendo il cambiamento delle funzioni. In disparte il contenuto afflittivo per il singolo magistrato (che, nella prassi, non raramente è mancato), si tratta di provvedimenti che non pongono rimedio al fenomeno. Il quale resterà quello attuale finché non ci saremo resi conto che esiste un solco profondo che differenzia l’attività del giudice - il quale, anche quando condanna, costituisce l’estremo baluardo a difesa dei diritti della persona, perché arriva alla decisione o dovrebbe arrivarvi con distaccata sofferenza e dopo avere rispettato, a garanzia dell’imputato, tutte le regole del giusto processo - da quella del pubblico ministero, che dirige l’indagine, la sua indagine e, quindi, non può non farla propria e in qualche modo venirne coinvolto. Tornano gli eterni e irrisolti problemi quali ci sono proposti da una Costituzione che per questa parte è inesorabilmente invecchiata: è giusto ricomprendere nell’unico corpo della magistratura giudici e pubblici ministeri? E se non fosse giusto, quali sarebbero le garanzie che dovrebbero caratterizzare l’autonomia del pubblico ministero? In questa prospettiva, non si dovrebbe riconsiderare il dogma dell’obbligatorietà E via di questo passo. I problemi tornano, ma sono fini a sé stessi, perché non ci sono le condizioni per affrontarli. Insomma, allo stato, non possiamo che rassegnarci a considerare anche l’affare Consip come un male necessario. Tanto rumore per nulla. Legittima difesa, fanno testo i precedenti non i populismi Daniele Piva Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2017 La legittima difesa disegnata dal Codice penale non è un totem irriformabile, ma l’intervento sulla materia (Atto Senato 2816) andrebbe fatto tenendo conto dell’esperienza giurisprudenziale più che dell’onda di ventate populiste. Nei casi di cronaca più eclatanti, già con la norma vigente - che non brilla per precisione - si è giunti spesso a proscioglimento; né è comunque pensabile, specie a fronte di omicidio, escludere tour court ogni discrezionalità del giudice, trattandosi semmai di meglio orientarne e vincolarne il giudizio, senza lanciare allarmanti messaggi di sfiducia. Anche volendo prescindere dall’uso dell’espressione "si considera legittima difesa" al rinnovato capoverso dell’articolo 52 del Codice penale - che sembrerebbe introdurre una scriminante nuova, diversa e autonoma rispetto all’attuale - la norma pecca di determinatezza e ragionevolezza nel riferimento all’aggressione commessa in tempo di notte: cosa significa? Al sopraggiungere del buio, con orario mobile a seconda della stagione o del "locus commissi delicti". Se invece volesse intendersi, come nell’esperienza francese cui si ispira (articolo 122-6, comma 2, Codice penale) una situazione di "minorata difesa" della vittima, davvero non si comprende per quale motivo all’aggressione commessa di giorno non debba essere riconosciuto lo stesso effetto, essendo semmai l’invasione del domicilio a inficiare, di per sé, le capacità difensive indipendentemente dall’orario. Inoltre la difesa legittima si estende, senza alcun limite temporale, a ogni reazione a seguito dell’introduzione nel domicilio con violenza alle persone o sulle cose ovvero con minaccia o con inganno. Ma anche in merito a quest’ultima ipotesi non si comprende fino a che punto sia giustificata la reazione ogniqualvolta manchi una violenza a persone: tanto che, nei casi in cui a essere difesi siano beni propri o altrui, l’attuale lettera b) del capoverso dell’articolo 52 del Codice penale, richiede oggi che, oltre a non esservi desistenza, vi sia proprio pericolo di aggressione. Venendo alle modifiche della scriminante putativa, il nuovo ultimo comma dell’articolo 59 del Codice penale presenta la locuzione del grave turbamento psichico destinata ad alimentare e non certo a limitare la discrezionalità del giudicante che neppure potrebbe ritenerlo implicitamente dimostrato in situazioni di pericolo attuale per la vita, per l’integrità fisica o per la libertà personale o sessuale, salvo svuotarne il significato di ogni contenuto con indebita sovrapposizione di elementi normativi: in sostanza, se questo era il senso, sarebbe stato meglio non farne alcun cenno, al fine di garantire con certezza l’esclusione della colpa ovvero chiarire che, in questi casi, l’errore essenzialmente verte, ancora una volta, sulla proporzione e non sul pericolo attuale di un’offesa ingiusta. Né si comprende perché si è voluto intervenire sull’ipotesi dell’erronea supposizione di una difesa legittima obiettivamente insussistente e non, a fortiori, in quella, se non altro più meritevole di modifiche in bonam partem, dell’eccesso colposo (articolo 55 del Codice penale) in cui la persona versa in una causa di giustificazione di cui semplicemente supera i limiti, magari per limitarne la rilevanza alle sole ipotesi di colpa grave ovvero escludere la responsabilità di chi abbia agito per turbamento, paura o panico come avviene in Germania (§ 33 del Codice penale tedesco). Dulcis in fundo, il carico allo Stato delle spese di difesa della persona dichiarata non punibile per aver commesso il fatto per legittima difesa o stato di necessità. A parte l’impreciso riferimento alla non punibilità, pedissequamente ripresa dagli articoli 52 e 54 del Codice penale, anziché alla formula di proscioglimento dell’articolo 530 del Codice di procedura penale utilizzata in questi casi ("perché il fatto non costituisce reato"), la novità suona come autentico slogan, non tanto per gli oneri di spesa cui pure si provvede sulla base di calcoli ingovernabili e di accantonamenti solo temporanei, quanto per il fatto che si inserisce nell’ambito di un ordinamento che, salvo l’ipotesi di ingiusta detenzione, non risarcisce il soggetto assolto a fine processo: sicché, non si vede davvero per quale motivo l’imputato prosciolto per insussistenza del fatto o per non averlo commesso dovrebbe pagarsi l’avvocato mentre non vi sarebbe alcun costo da sostenere per chi il fatto lo ha commesso ma per difesa legittima o stato di necessità o vi ha comunque concorso. Toghe "sporche", sanzioni più dure di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2017 Stretta sui reati contro la pubblica amministrazione, dalla corruzione alla concussione, passando dal traffico d’influenze. Almeno se commessi da avvocati e magistrati. Il Senato ha approvato ieri all’unanimità il disegno di legge che modifica alcuni aspetti del Codice penale intervenendo su quattro fattispecie che, in parte, erano state ritoccate nel 2015 nell’ambito del disegno di legge che riformò il falso in bilancio. Ora il provvedimento passa all’esame della Camera. Intervento, a dire la verità, non particolarmente sofisticato, visto che non tocca aspetti della condotta, ma si "limita" a innalzare le sanzioni in tutti i casi previsti. A ispirare il disegno di legge, il cui primo firmatario è Francesco Nitto Palma, l’ex ministro della Giustizia di Forza Italia, è la sottolineatura della gravità dei fenomeni di corruzione, sempre difficili da individuare e di fatto parificati anche nella lettura da parte di organismi internazionali a quelli più gravi propri del crimine organizzato. Nello specifico poi, la necessità di aggravare il trattamento sanzionatorio nasce dalla considerazione di un particolare allarme sociale quando questa categoria di reati riguarda figure che, più di altre, dovrebbero dare garanzie di affidabilità e liceità delle condotte. Nel dettaglio, si introduce una nuova aggravante nell’articolo 317 del Codice penale, in base alla quale si prevede, per il reato di concussione un aumento di pena fino alla metà nel caso in cui i fatti corruttivi siano commessi in relazione all’esercizio di attività giurisdizionali. La norma, da ultimo modificata dalla legge n. 69 del 2015, punisce con la reclusione da 6 a 12 anni il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità. Per quanto riguarda il reato di corruzione in atti giudiziari, viene prevista un’ulteriore aggravante (aumento fino alla metà delle pene di cui al primo e al secondo comma dell’articolo 319-ter del Codice) quando i fatti corruttivi sono commessi da un avvocato in relazione all’esercizio dell’attività forense. L’ipotesi base della corruzione in atti giudiziari, costituita da fatti di corruzione propria e impropria ma compiuti per favorire o danneggiare una parte in un processo, sono puniti con la detenzione da un minimo di 6 a un massimo di 12 anni. Va comunque ricordato che l’articolo 380 Codice penale ("Patrocinio o consulenza infedele") colpisce la condotta dell’avvocato che, con infedeltà ai propri doveri professionali, danneggia gli interessi della parte da lui difesa; con un aggravamento di pena nel caso in cui il fatto sia stato commesso a danno di una persona imputata di un delitto. Inserendo un ulteriore comma nell’articolo 346 del Codice penale, si prevede una nuova circostanza aggravante del reato di millantato credito, per la quale le pene previste dal primo e dal secondo comma sono aumentate fino alla metà se i fatti previsti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giurisdizionale. Infine l’articolo 4 interviene sul reato di traffico di influenze illecite, modificando la circostanza aggravante prevista dal quarto comma dell’articolo 346-bis del Codice. Il comma prevede un aumento di pena nel caso in cui le condotte illecite sono commesse nell’esercizio di attività giudiziarie. Il disegno di legge prevede che in tali casi la pena sia aumentata fino alla metà. Magistratura onoraria, il caso italiano anomalia d’Europa di Margherita Morelli* Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2017 Il Forum europeo del giudice laico, il sesto dopo la sottoscrizione della Carta Europea del giudice Laico, ha fatto eco alla manifestazione dei giudici onorari che, per la seconda volta nell’arco di un paio di mesi, hanno protestato dopo l’emanazione dello schema del primo decreto attuativo delle legge delega n° 57 del 29 aprile 2016, licenziato dal Governo il 5 maggio 17 e pubblicato il 15 maggio, intitolato Statuto unico della magistratura onoraria, proclamando anche l’astensione, per un mese, da tutte le attività. Si è infatti, riunita a Stoccolma, il 12 maggio, l’Assemblea generale delle associazioni europee dei giudici laici. Il ministro della Giustizia Morgan Johansson ha sottolineato il ruolo fondamentale dei giudici laici ossia dei giudici non professionali, nel rapporto con il diritto alla partecipazione del cittadino all’amministrazione della Giustizia. Ha evidenziato il proprio impegno a sostegno della magistratura laica in Svezia, nonostante le pressioni subite per ridurla e addirittura eliminarla dal panorama giudiziario. Ha altresì, più volte rimarcato il ruolo dei giudici di pace nel sistema legale e l’importanza delle loro decisioni in qualsiasi ambito dell’ordine sociale. Questi in definitiva, gli obiettivi annunciati dal Ministro svedese: 1) maggiore presenza dei giudici laici; 2) aumento della qualità del lavoro; 3) maggiore controllo nell’applicazione del diritto; 4) trasparenza e monitoraggio del relativo sistema; 5) incrementare l’affezione dei cittadini al sistema giustizia. Il Governo svedese punta dunque, a preservarne e accrescerne il ruolo. Di misura invece, l’intervento di Cecilia Wikstrom presidente della Commissione per le petizioni dell’Unione europea, avendo la parlamentare europea illustrato piuttosto il lavoro svolto dalla Commissione nell’ambito dell’Unione europea. Dopo gli interventi istituzionali, sono stati illustrati i report degli Stati partecipanti che hanno evidenziato una generale tendenza di alcuni Governi a ridurre il numero dei giudici laici, è il caso della Polonia, o la totale abolizione della funzione, come in Ungheria. In qualche altro Stato si tende invece, alla loro implementazione anche con impegno presso le Corti di appello, come nel caso dei giudici laici in Belgio. Sono stati evidenziati i rischi connessi al lavoro della magistratura laica che pongono seri problemi di sicurezza, come il caso dell’Irlanda del Nord in cui, in sei mesi, sono stati presi di mira ben tre giudici in attentati terroristici. L’Italia, a causa del mancato recepimento delle istanze della categoria, ha ottenuto il sostegno di tutte le associazioni aderenti alla Rete europea che hanno sottoscritto un documento da inviarsi alle istituzioni italiane. L’Assemblea annuale ha chiuso i lavori conferendo la nuova presidenza all’Italia. La magistratura laica e onoraria, un problema anche culturale di livello europeo - Solo il confronto nel corso degli anni, diretto e immediato, con la magistratura laica europea e con il variegato sistema su cui è costruita la sua funzione nei vari Stati europei, piuttosto che le cifre e i dati della Commissione Europea, possono dare il senso della evoluzione (o involuzione, a secondo dei casi) della magistratura non professionale d’oltralpe ma, ancor più, della metamorfosi subita da quella italiana. In Europa, per la maggior parte, i giudici laici sono volontari vengono impiegati per poche ore e ricevono una indennità solo per le spese. Spesso vengono scelti dalla politica come in Svezia e per la loro posizione sociale, l’onorabilità, l’esperienza e la formazione maturata in vari campi delle attività lavorative. Talvolta, sono chiamati ad assumere decisioni vincolanti nei Tribunali o in collegi formati anche da giudici professionali come il caso della Germania. E tuttavia, non si riscontra alcun sistema europeo in cui i giudici non professionali siano impiegati a tempo pieno, per due o anche tre udienze settimanali civili o penali, da tenersi secondo un sistema tabellare approvato dall’organo di autogoverno della magistratura, che siano soggetti a valutazioni di idoneità e di produttività, che seguano corsi obbligatori di formazione e non godano di alcuna tutela, ricevendo indennità non adeguate al lavoro svolto ma soprattutto, trattino oltre il 50% degli affari contenziosi civili e penali e siano stati reiteratamente prorogati nella funzioni per circa un ventennio. Un problema italiano - A parte i pochi casi in cui sono impiegati giudici laici, come ad esempio il Tribunale per i minorenni, i giudici di pace che avrebbero dovuto restare nelle funzioni per non più di due mandati quadriennali, a cui la legge istituiva del 1991 aveva inteso attribuire il contenzioso della tolleranza e della convivenza, riservandogli piuttosto una funzione conciliativa, da giudice dell’equità formativa o sostitutiva della regola da applicare, si è man mano destrutturato divenendo un giudice tecnico e professionale, le cui competenze sono state notevolmente ampliate. I giudici onorari di tribunale, istituiti nel 1998 che avrebbero solo dovuto sostituire i magistrati impediti o assenti, restando in servizio per tre anni prorogati di altri tre, sono invece, di fatto, rimasti stabilmente in servizio e, divenuti magistrati decidenti, trattano gran parte del contenzioso dei tribunali mentre ai vice procuratori onorari, in servizio presso le procure, viene affidato stabilmente tutto il settore penale nei reati di competenza del giudice di pace e gran parte del lavoro delle procure, in udienza. La legge delega mira a riordinare lo status di tutta la magistratura onoraria e così, i giudici di pace e giudici onorari di tribunale confluiranno nel giudice onorario di pace mentre i vice procuratori onorari saranno inseriti in uffici che costituiranno articolazioni delle procure. La ratio dello schema di decreto attuativo della delega, contestato dalla magistratura onoraria, non gradito a una parte della magistratura di carriera, oltre che a una parte politica in Parlamento e a gran parte dell’Avvocatura, sembra invece piuttosto volta alla riorganizzazione degli uffici attraverso la demolizione della giurisdizione (degiurisdizionalizzazione). È prevista la occasionalità della funzione e la temporaneità dell’incarico, la rideterminazione del ruolo e del compenso della magistratura onoraria, la natura formativa delle attività svolte presso le strutture organizzative dell’ufficio del processo e compiti e attività delegabili dal magistrato professionale oltre a un regime previdenziale a carico dello stesso magistrato onorario e un regime transitorio per i giudici in servizio. È proprio quest’ultimo a essere oggetto di forte opposizione da parte dei giudici onorari poiché decorso il primo mandato di quattro anni, andrebbe a regime la nuova normativa che prevede un impegno ancor più gravoso per i giudici di pace a causa dell’aumento cospicuo della competenza (per valore, in materia di condominio, esecuzione mobiliare, diritti reali, nuove fattispecie di reato), con una indennità di circa 700 euro nette mensili. Non vi è dubbio che fin da subito, la riforma della magistratura onoraria, lungi dal costituire una risoluzione opportuna ed equa alla reiterata inerzia del legislatore e alla manifesta incapacità della politica di risolvere i problemi della giustizia, evidenzi altresì, per alcuni aspetti, un eccesso di delega, si ponga in contrasto con i principi costituzionali di ragionevolezza, del giusto processo e sia fortemente limitativa dell’autonomia, dell’indipendenza e della libertà di chi è chiamato a giudicare. Non appare conforme al principio della tutela giurisdizionale effettiva che costituisce un principio generale dell’Unione, desumibile dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue (diritto a una tutela giurisdizionale effettiva, davanti a un giudice imparziale) né con la raccomandazione n° 12/10 del Comitato dei Ministri in ambito europeo tra i cui principi si annoverano: permanenza dei giudici nelle funzioni, inamovibilità, divieto di essere assegnati a nuove funzioni o incarichi senza consenso, indipendenza, responsabilità ed efficacia delle decisioni, giusta remunerazione, destituzione solo in caso di gravi infrazioni del codice disciplinare e non ultimo, con la decisione adottata dal Comitato europeo dei diritti sociali, nel novembre 2015. Il Comitato ha infatti, riconosciuto la condizione discriminatoria della magistratura onoraria in servizio rispetto a quella di carriera a causa della totale mancanza di tutele sociali, oltre che fortemente penalizzante per tutta la categoria. Superare il limbo della precarietà - Vero è che la magistratura onoraria, nel corso degli anni si è indiscutibilmente professionalizzata. Ciò nonostante, è confinata da decenni nel limbo della precarietà a causa delle proroghe annuali ed è privata di ogni garanzia e tutela sociale. Resa schiava dei propri bisogni, fortemente demotivata, con una indennità mensile sicuramente irrisoria oltre che indecorosa, con un carico di lavoro insostenibile che non consente, di fatto, di svolgere altre attività, se il decreto venisse approvato così com’è, resterebbe il volto distorto della giustizia amministrata, in nome del popolo, da un sistema di caporalato giudiziario di cui la causa non potrebbe che essere attribuita all’ignavia e alla isteria del legislatore e ai preconcetti di alcuni. Garantire, di certo, a queste condizioni, decisioni giuste ed eque per i cittadini, sarebbe oltremodo difficile e sicuramente l’Europa non resterebbe a guardare. *Presidente European Network of Associations of Lay Judges Toghe rosse addio, nell’Anm di Milano avanza la "destra" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 25 maggio 2017 A Milano le toghe sono sempre meno "rosse". È questo il dato più significativo che emerge dalla lettura dei risultati delle elezioni, svoltesi da domenica a martedì, per il rinnovo dei sette componenti della locale Giunta distrettuale dell’Associazione nazionale magistrati. Questi i numeri al termine dello spoglio: Unicost 157 voti e 2 seggi (25,82%), Magistratura indipendente 181 voti e 2 seggi (29,77%), Area-Md 194 voti e 2 seggi (31,92 %), Autonomia & Indipendenza 76 voti e un seggio (12,50 %). Le elezioni, con sistema proporzionale, hanno visto 615 votanti su 730 aventi diritto, segno indiscutibile che la maggior parte dei magistrati continua, nonostante tutto, ad apprezzare e a riconoscersi nel sistema delle correnti. Il raffronto con la tornata precedente - Per fare un confronto con le precedenti elezioni del 2013, Unicost aveva preso 162 voti e 2 seggi, Magistratura indipendente 196 voti e 2 seggi, Area- Md 267 voti e 3 seggi (Autonomia & Indipendenza, la corrente dell’ex presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, non esisteva essendo nata per scissione da Magistratura indipendente nel 2015). In quattro anni, quindi, il cartello delle toghe progressiste ha perso, oltre che un seggio, ben 73 voti. Una enormità se si considera che il Palazzo di Giustizia di Milano è da sempre un feudo incontrastato di Magistratura democratica. Corrente che esprime da decenni e senza soluzione di continuità il vertice della Procura più importante del Paese. Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D’Ambrosio, Edmondo Bruti Liberati e l’attuale Francesco Greco gli inquilini illustri dell’ufficio al quarto piano di via Luciano Manara iscritti ad Md. Senza contare, poi, i vari aggiunti o pm di punta che si sono succeduti negli anni. Solo per fare qualche nome: Armando Spataro, Gherardo Colombo, Ferdinando Pomarici, tutti esponenti di spicco di Area- Md. Area, peraltro, esprime anche l’attuale presidente del Tribunale di Milano Roberto Bichi oltre a numerosi presidenti di sezione. Dal punto di vista degli incarichi direttivi e semi direttivi, un quasi monopolio. E sono di provenienza milanese anche due degli attuali togati di Area al Csm, il giudice Nicola Clivio e il procuratore Fabio Napoleone. Evidentemente, però, la base della magistratura pare non riconoscersi più in una corrente connotata da forti contenuti ideologi, tanto da essere maggiormente attratta dai gruppi associativi "conservatori". Piace la "destra sindacalista" - La "destra giudiziaria", come i magistrati di Area chiamano i loro colleghi iscritti a Magistratura Indipendente e ad Autonomia & Indipendenza (257 voti se a Milano se si sommano le preferenze andate ai due gruppi), ha saputo affrontare temi che riguardano da vicino le condizioni di lavoro delle toghe: come i carichi esigibili (il numero di procedimenti che un magistrato può trattare in anno), la responsabilità civile, le ferie, la legittimazione per i tramutamenti. Materie molto sensibili per i giovani magistrati che vivono la propria funzione con più pragmatismo rispetto ai colleghi più anziani, mossi da intenti ideologici che sembrano evaporare inesorabilmente con l’avvicendarsi delle generazioni. Paiono lontanissimi i tempi degli scontri con i governi Berlusconi: da quelli del Pool di Mani Pulite che bloccarono il decreto Biondi al sit-in sulle scale del Palazzo di Giustizia nel 2013 da parte dei parlamentari dell’allora Popolo della Libertà. "L’attacco giudiziario ha valicato qualsiasi regola democratica e ha spinto il Pdl a reagire all’emergenza giudiziaria e ai nuovi assalti della magistratura rossa", dicevano i parlamentari azzurri, capeggiati da Angelino Alfano, per sostenere Silvio Berlusconi attanagliato dai processi milanesi. Gallina, il più votato: "diamo voce a esigenze diffuse" - Per il giudice Mauro Gallina, che insieme al sostituto Ilaria Perinu, entrambi nella lista di Magistratura indipendente, sono stati i più votati del distretto, rispettivamente con 138 e 132 preferenze, "il nostro gruppo ha saputo intercettare in questi anni le esigenze dei magistrati. I quali più che ad una conflittualità permanente con il governo puntano ad avere migliori condizioni di lavoro". Dello stesso avviso il togato di Mi Claudio Galoppi che proprio a Milano era stato eletto al Csm: "Il dato è davvero significativo se confrontato con quello del 2008, quando Area aveva 279 voti, Unicost 238 e Magistratura indipendente solo 51 voti. Oggi, con 181 voti e 2 seggi, abbiamo quadruplicato il consenso, ottenendo sempre maggiore fiducia da parte dei colleghi". "Servono prove, non chiacchiere". Giustizia giusta, un Falcone da ovazione di Claudio Cerasa Il Foglio, 25 maggio 2017 Il giudice raccontato dagli atti desecretati È il 15 ottobre del 1991, sono le 9 e 30, siamo a Roma, nella sede del Consiglio superiore della magistratura, e di fronte alla prima commissione del Csm c’è un Giovanni Falcone in forma, tonico, che parla, ribatte, accusa, si difende, si sfoga e che in pochi minuti mette insieme una serie di considerazioni importanti che non a caso, in questi giorni di grandi celebrazioni, a 25 anni dalla strage di Capaci, sono state tralasciate sulle pagine dei grandi giornali. Sono una pagina storica favolosa. Un manifesto di garantismo. Un esempio, non a caso rimosso, di cosa significa giudicare facendosi guidare dalle prove e non dal pettegolezzo. I documenti sono stati desecretati sette giorni fa, dopo venticinque anni, e riguardano un passaggio importante della vita di Falcone. Un mese prima, il 5 e l’11 settembre, al Consiglio superiore della magistratura erano arrivati due esposti firmati da quattro feroci professionisti dell’antimafia, contro i quali ha battagliato a lungo Giovanni Falcone: l’avvocato Giuseppe Zupo, il professor Leoluca Orlando, il professor Alfredo Galasso e Carmine Mancuso. Gli esposti contenevano critiche micidiali contro Falcone e i quattro ricorrenti, che non perdonavano a Falcone la sua autonomia di pensiero, accusavano di fatto il giudice di non aver adeguatamente valorizzato, nei processi per i cosiddetti "omicidi politici" (Reina, Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa), elementi documentali depositati in filoni d’indagine in precedenza già avviati dal procuratore Costa e già coltivati dal consigliere istruttore Chinnici. Senso dell’accusa: Falcone non avrebbe attribuito la giusta valenza alle dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia (Pellegriti e Calderone) che avrebbero potuto aiutare a combattere con più efficacia Cosa Nostra. In quelle ore, di fatto, Giovanni Falcone era chiamato, come ricorda oggi l’attuale consigliere del Csm Antonio Ardituro, "a discolparsi da accuse di avere tenuto le prove nei cassetti o, comunque di aver fatto male le indagini’. Abbiamo letto le 142 pagine appena desecretate e abbiamo capito perfettamente perché i grandi giornali italiani si sono dimenticati di mettere il naso in quella storia e in quelle parole, che rilette oggi somigliano a uno straordinario atto di accusa contro la repubblica del sospetto. È in quel contesto che Falcone denunciò coloro che cercavano "di far politica attraverso il sistema giudiziario". È in quel contesto che Falcone ricordò che è anche compito dei magistrati ricordarsi che "la cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo". Ed è in quell’occasione che Falcone, pochi mesi prima di essere ucciso, mostrò la sua idea di giustizia attraverso alcune frasi che abbiamo estrapolato e che meritano di essere incorniciate. Falcone attaccò la politicizzazione dell’azione giudiziaria ("Sono convinto non che la via giudiziaria sia una bella scorciatoia per risolvere i problemi politici ma che la presenza dello Stato è fondamentale in una zona per combattere certi fenomeni che, prima che economici e sociali, sono squisitamente fenomeni di pertinenza criminale..."). Ricordò che i magistrati non devono occuparsi dei pettegolezzi ma hanno il dovere di fare attenzione alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, da sottoporre a rigoroso vaglio e riscontro. "A me - disse Falcone - sembra profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e contestare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario. Non si può ragionare: intanto contesto il reato e poi si vede. Perché da queste contestazioni poi derivano conseguenze incalcolabili". In questo contesto Falcone fece qualcosa di più e colse l’occasione dell’audizione al Csm per denunciare i metodi perversi utilizzati da alcuni professionisti dell’antimafia che già a quei tempi avevano cominciato a utilizzare la lotta contro la criminalità organizzata (ne sa qualcosa l’attuale sindaco di Palermo?) per avere un tornaconto politico personale. Falcone fu accusato da Leoluca Orlando e compagnia di non aver perseguito con la giusta durezza "il terzo livello della mafia" e rispose a quelle accuse con frasi che non potevano che essere omesse oggi dai nuovi e cialtronissimi professionisti dell’antimafia. "Non esistono vertici politici che possono in qualche modo orientare la politica di Cosa nostra". È vero esattamente il contrario. "Il terzo livello - inteso qual direzione strategica, che è formata da politici, massoni, capitani d’industria ecc. e che sia quella che orienta Cosa nostra - vive solo nella fantasia degli scrittori: non esiste nella pratica". Il dialogo tra Falcone e i suoi accusatori andrebbe volantinato nelle scuole di magistratura e nelle redazioni di alcuni giornali e merita di essere letto con attenzione perché ci dice molto non solo del carattere combattivo, da guerriero, del giudice ucciso venticinque anni fa dalla mafia mani dice anche qualcosa di più su un certo modo di intendere la giustizia e su alcuni equivoci storici che oggi sono all’origine del grande cortocircuito con cui deve fare i conti il nostro sistema mediatico e giudiziario. Uno in particolare. Essere garantisti non vuol dire prendere le parti di un sospettato, o voler nascondere "le prove nei cassetti", ma significa semplicemente prendere le parti di una giustizia giusta e credibile in cui i fatti fino a prova contraria dovrebbero contare più dei sospetti, delle illazioni e dei pettegolezzi. "L’informazione di garanzia - ricordò Falcone in quella straordinaria audizione - non è una coltellata che si può infliggere così, è qualcosa che deve essere utilizzata nell’interesse dell’indiziato". Chissà se oggi si ricorderà Falcone partendo anche da qui. La morale e il diritto non sono la stessa cosa di Piero Sansonetti Il Dubbio, 25 maggio 2017 Le celebrazioni del venticinquesimo anniversario dell’uccisione di Giovanni Falcone hanno fatto emergere, in modo molto evidente, la divisione di pensiero che esiste nell’opinione pubblica, nel mondo politico e nella stessa magistratura, sul ruolo e i compiti che la magistratura deve avere. C’è una idea, che è quella che aveva Giovanni Falcone - e che nella sostanza è quella scritta in Costituzione - secondo la quale il compito della magistratura non è un compito morale ma un compito strettamente di giurisdizione: deve indagare sui delitti, cercarne i colpevoli, trovare le prove, mandarli a processo, decidere, per loro, la giusta punizione. E per fare questo deve rispettare pienamente le regole, il diritto alla difesa, la presunzione di innocenza e lo Stato di diritto: e quindi ha bisogno di una professionalità e di una sapienza molto alte e di un grande rigore. Poi c’è una seconda idea, che è quella molto spesso propugnata, soprattutto sui giornali e in Tv, ad esempio, dal giudice Piercamillo Davigo (ma anche da parecchi altri magistrati, giornalisti e politici) secondo la quale la magistratura ha un mandato superiore, di natura morale: a lei - unico potere onesto e puro - è affida- to il compito di combattere il male, di sgominare i corrotti, di far trionfare il bene e il suo regno. I metodi contano poco. È il fine che conta. La prima idea è figlia della cultura liberale. La seconda idea - che pure deve essere presa in considerazione con apertura mentale, e senza anatemi, anche perché è molto diffusa - è una idea, per così dire, monarchica. La prima idea viene descritta bene, sui giornali di ieri, da un articolo sul "Corriere" di Giovanni Bianconi. Il quale spiega il pensiero di Falcone e racconta della sua polemica contro chi gli attribuiva la teoria del " terzo livello della mafia", e cioè l’idea che la mafia fosse solo il braccio armato di alcuni settori della politica o più precisamente della Dc. Falcone - spiega Bianconi - era invece convinto del contrario: che "Cosa nostra" fosse "Cosa nostra", una entità precisa, definita, autonoma. Falcone è colui che per primo definì in modo molto chiaro, e anche tecnico, i confini di "Cosa Nostra", ne scoprì e ne analizzò la struttura, i meccanismi, i vertici, gli uomini, il funzionamento del potere. E trasformò tutte queste conoscenze prima in indizi, poi in prove, poi in un processo che decapitò la mafia siciliana. Falcone sicuramente è il magistrato che più di tutti gli altri molto, molto più di tutti gli altri assestò colpi alla mafia, riducendone drasticamente il potere, l’influenza, le possibilità di azione. Per questo la mafia lo uccise. E una volta perduto Falcone, e poi Borsellino, la magistratura collezionò solo insuccessi. Anche perché scelse quella seconda idea di giustizia di cui parlavamo qualche riga sopra. L’idea della magistratura come "ente morale". Alla quale la società assegna un compito superiore. Di questa idea è testimonianza concretissima la lunga intervista rilasciata a Marco Travaglio dal procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e ancor più ne sono testimonianza i commenti dello stesso Travaglio, pubblicati ieri sul "Fatto". Roberto Scarpinato ricorda una serie di episodi degli anni scorsi, noti, avvenuti dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino, che probabilmente servirono a depistare. Furono molti i depistaggi. Scarpinato non ricorda quello del pentito Scarantino che mandò la magistratura "per campi", per molti anni. Ma Scarpinato, e poi Travaglio, non si limitano a raccontare: dicono che tutto ciò dimostra quello che Falcone escluse: l’esistenza di un terzo livello e cioè di una cabina di regia della mafia, esterna alla mafia e interna al mondo politico. Hanno qualche indizio? Qualche prova? No, i processi e le inchieste hanno sempre escluso questa ipotesi. Scarpinato e Travaglio hanno una teoria politica e ritengono che una teoria politica non abbia bisogno di prove. Scrive Travaglio: uno straniero che capitasse in Italia "si domanderebbe il perché di questo bizzarro fenomeno... e risponderebbe: vuoi vedere che in Italia governa la criminalità organizzata? Risposta esatta". Vogliamo tradurre? Gentiloni è il capo della mafia, una specie di Riina, Padoan è il cassiere, come Pippo Calò, Alfano è Provenzano. Voi dite che è un delirio? No, è solo la estrema conclusione di un modo di pensare estremo, fondamentalista: che vede nella giustizia una mazza da usare per abbattere i nemici, perché così si pensa di moralizzare l’Italia. Per la prima volta un detenuto Isis reclama i suoi diritti a un processo di Manuela D’Alessandro glistatigenerali.com, 25 maggio 2017 "Non mi hanno nemmeno avvisato della videoconferenza. Giudice, secondo lei è possibile che ci tolgano anche il diritto di prepararci?". Non è una novità che i detenuti reclamino (giustamente) i propri diritti in aula. Ma è la prima volta che a farlo di fronte a una corte italiana è un presunto appartenente all’Isis, oggi condannato in appello a 6 anni perché avrebbe avuto in animo, tra le altre cose, di far saltare la base militare di Ghedi, nel bresciano. Muhammad Waqas, pakistano di 28 anni, è uno preparato. Come ha ricordato il suo avvocato, "ha vissuto sin dalla sua fanciullezza a Brescia, si è diplomato in ragioneria con ottimi voti e poi si è dedicato a un lavoro onesto come contabile in una ditta di trasporti". Uno che nelle dichiarazioni spontanee ha sfoggiato un ottimo italiano con riferimenti precisi agli articoli del codice e consapevolezza dei suoi diritti. "Avevo chiesto anche le motivazioni della sentenza di primo grado, ma non mi sono arrivate. Non so nemmeno perché mi hanno condannato. Estradatemi in Pakistan - ha poi concluso il suo intervento in cui si è dichiarato estraneo all’Isis - e quando la sentenza diventerà definitiva semmai chiedete l’estradizione al mio Paese". Più volte Waqas e il suo legale, Luca Crotti, si sono sentiti al telefono per concordare la strategia difensiva. Tra i punti più contestati dagli avvocati della riforma Orlando, c’è quello che prevede l’ampliamento della discrezionalità dei giudici nel disporre la videoconferenza dal carcere. Che anche in casi come quelli di presunti terroristi appare una severa violazione dei diritti della difesa. Lazio: reinserimento dei detenuti, idee in campo ilgiornaleditalia.org, 25 maggio 2017 In regione Lazio proposte per avviare ad una seconda vita migliore chi ha scontato la pena. Lavoro, sport e cultura: tre pilastri sui quali fondare un reale reinserimento dei detenuti, una volta scontata la pena. Se ne è parlato in Regione Lazio al convegno "Garantire la Giustizia: corretta e giusta integrazione per la sicurezza", organizzato dal Forum Nazionale dei Giovani, dall’Associazione "Gruppo Idee" e dalla Commissione di Vigilanza sul Pluralismo dell’Informazione della Regione Lazio, presso la Sala G. Mechelli. Al dibattito, moderato dal giornalista Rai Bruno Vespa, hanno partecipato figure politiche e istituzionali tra cui il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, il vicepresidente del consiglio regionale Massimiliano Smeriglio, i consiglieri regionali Cangemi e Righini. La tesi portata al convegno dai promotori è chiara: occorre lavorare al reinserimento del reo nella società, che dopo aver scontato una giusta pena a seguito di un giusto processo, torna in libertà. Per far sì che, ha sottolineato la vicepresidente di Gruppo Idee Germana De Angelis, il modello carcerario si evolva positivamente creando non un detenuto modello bensì un cittadino modello. Un obiettivo che viene inseguito attraverso alcuni progetti come ad esempio l’attivazione di corsi universitari nel carcere di Frosinone in collaborazione con l’università di Roma Tor Vergata, oppure le giornate dedicate al retake e al decoro urbano a Terni, o ancora il laboratorio sartoriale di Neroluce e l’esperienza sportiva dei Bisonti nell’ambito del rugby o della nazionale Rebibbia composta da detenuti e agenti di polizia penitenziaria, nell’ambito del calcio. Un lavoro incoraggiato dal Forum nazionale Giovani, che ha insistito con Luigi Iorio e Flavia Cerquoni sull’importanza di guardare soprattutto alle fasce di detenuti più giovani, con il Garante dei Detenuti Stefano Anastasia che ha speso le sue parole sulla condizione dei penitenziari del Lazio. Ma l’importanza dell’appuntamento, e la speranza che vi possano essere sviluppi positivi e soprattutto concreti alle idee messe in campo, è data appunto dalle presenze istituzionali, a partire dal già citato sottosegretario Ferri, da autorevoli rappresentanti della magistratura ed anche dell’amministrazione penitenziaria stessa, con le direttrici di Regina Coeli Silvana Sergi e di Rebibbia Rosella Santoro. Napoli: a Nola il terzo carcere, nasce la Prison Valley d’Italia di Samuele Cafasso pagina99.it, 25 maggio 2017 Il governo va avanti con il piano di un maxi-istituto da 1.200 posti alle porte della città. Contraddicendo la promessa di costruire solo piccole prigioni decentrate. Aprile 2016: gli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal ministro Andrea Orlando terminano i lavori con la raccomandazione di limitare al minimo la detenzione come pena correttiva e costruire, se proprio necessario, nuove carceri solo di piccole dimensioni, possibilmente inserite all’interno dei contesti urbani. Marzo 2017: il governo pubblica il bando per la realizzazione di un maxi carcere da 1.200 detenuti a Nola, provincia di Napoli, in un’area completamente scollegata da centri urbani. Non solo: si tratta del terzo polo nella grande Napoli, dopo Secondigliano e Poggioreale, area dove è difficilissimo già adesso portare avanti i piani di rieducazione dei condannati. Intanto continua a salire il numero di detenuti nel nostro Paese: erano 52mila a fine 2015, sono saliti a 54.653 a fine 2016 e ad aprile hanno toccato quota 56.436. Sono oltre seimila in più della capienza massima, secondo i dati ufficiali. "In realtà la situazione è di molto peggiore perché in Italia vi sono almeno cinquemila celle inagibili" sostiene la deputata Rita Bernardini che, insieme a Luigi Manconi, chiede "una amnistia e un indulto" per far fronte a una situazione "di totale illegalità". Una proposta, ammette lo stesso Manconi, che "ha scarsissime possibilità di passare in questa legislatura, ancora meno nella prossima". Sono passati quattro anni dalla sentenza Torreggiani con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato il Paese per le condizioni disumane delle carceri. Quattro anni in cui il numero dei detenuti, soprattutto grazie a misure temporanee, è prima calato drasticamente ma che, adesso, è iniziato a risalire. La Campania è diventata il territorio dove si misurano tutte le contraddizioni e le difficoltà del nostro sistema carcerario. Un carcere a Nola era già previsto nel piano del governo Berlusconi che, dieci anni fa, intendeva risolvere il problema del sovraffollamento carcerario con "20 mila nuovi posti" da realizzare con una pioggia di soldi, 1,5 miliardi di euro. Piano naufragato. Quando arriva il governo Renzi, Orlando cambia linea: convoca gli Stati Generali e promuove un disegno di riforma che da una parte acceleri l’uso delle pene alternativa e che, dall’altra, renda la detenzione più umana, intervenendo sull’architettura carceraria, sul diritto all’affettività dei detenuti, sull’ampliamento delle occasioni di lavoro negli istituti di pena come strumento di rieducazione. Tutto questo è previsto nella delega al governo contenuta nella riforma penale all’esame del Parlamento. "Ma dopo, ovviamente, dipenderà da come tutto questo verrà tradotto in atti concreti dal governo" mette le mani avanti Bernardini. Intanto rispunta il maxi-carcere di Nola. E fa litigare gli architetti che pure erano stati chiamati dal governo stesso a dare il loro parere su una nuova stagione dell’edilizia carceraria. Cesare Burdese definisce il progetto "un "crimine architettonico" perché disumano; una proposta calata dall’alto, in un vuoto di tradizione di studi e sperimentazione;· un regresso sul piano del trattamento penitenziario". Perché allora andare avanti su Nola? La spiegazione ufficiale è che Nola sia necessario per garantire il principio di territorialità, secondo cui ogni detenuto dovrebbe scontare la pena il più possibile vicino a casa. Ad oggi la Campania ospita settemila detenuti, con un’eccedenza rispetto alla capacità degli istituti di pena di oltre novecento unità. I detenuti residenti campani però sono oltre novemilacinquecento. Anche escludendo i 41bis, c’è un numero rilevante di detenuti "in trasferta". Ma basta questo a giustificare un maxi carcere quando la linea annunciata era stata quella di chiudere quella stagione? Alessio Scandurra, associazione Antigone, parla del rischio di una "prison Valley" campana e punta il dito sulle burocrazie statali: "Questo è un progetto che farà contente le decine di agenti di polizia campani che potranno così tornare a casa. Si pensa a loro, non ai detenuti. Era già successo con Favignana quando, chiuso il vecchio carcere, se ne è costruito uno poco più in là per rispondere alle esigenze dell’indotto carcerario. In Italia la politica penitenziaria si fa ancora così, anche se non si dovrebbe". In realtà il progetto è molto cambiato rispetto alla prima versione: sarà un carcere senza il muro di cinta esterno, costruito secondo una logica che "mima" la vita familiare, raggruppando i carcerati in unità residenziali simili ad abitazioni civili, con spazi dedicati all’affettività dei detenuti. Per questo l’architetto Luca Zevi, che del tavolo dedicato all’edilizia penitenziaria degli Stati generali è stato il coordinatore, non boccia completamente il progetto: "Sia chiaro, io mai avrei fatto un maxi-carcere - premette - però l’attuale progetto è senz’altro migliore di quello di partenza. Come Stati generali non c’è una pronuncia ufficiale, io come singolo ho preferito intervenire ottenendo un miglioramento, "il meno peggio", per così dire. Con un no netto il carcere sarebbe stato costruito lo stesso, e con un progetto peggiore di quello poi approvato". Ma la nuova stagione delle carceri italiane, quella è ancora lontana. Alba (Cn): riapre una parte del carcere, da lunedì ospiterà 32 detenuti di Cristina Borgogno La Stampa, 25 maggio 2017 Chiuso a gennaio 2016 dopo i casi di legionella, domani il sindaco dovrebbe revocare il divieto di erogazione dell’acqua. Navette degli agenti della polizia penitenziaria ferme dall’altro ieri e una trentina di detenuti che dovrebbero arrivare ad Alba lunedì. La notizia era nell’aria da giorni, in attesa della firma del sindaco per la revoca dell’ordinanza di divieto di erogazione dell’acqua calda sanitaria che ancora oggi non c’è, ma che pare arriverà domani. Finalmente, anche se solo parzialmente, riapre il carcere "Giuseppe Montalto", chiuso da gennaio 2016 per un’epidemia di legionella, per poter intervenire su tubature e impianti e debellare il batterio che già si era presentato in più occasioni in passato. I lavori avviati tre mesi fa dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria ci sono stati, anche se in una parte limitata della grande struttura di località Toppino: il reparto dei collaboratori di giustizia, già reparto femminile e oggetto di un intervento di recupero importante non molti anni fa per realizzare 38 celle singole, i cui impianti ora sono indipendenti dal resto della struttura. "Restano ancora alcuni dettagli burocratici dell’iter, ma dovremmo essere pronti - conferma la direttrice del "Montalto", Giuseppina Piscioneri. Nei primi giorni della prossima settimana arriveranno 32 detenuti comuni di media sicurezza, che saliranno a una cinquantina nei prossimi mesi. Abbiamo chiesto di avere detenuti con una pena piuttosto lunga per rilanciare le attività e i progetti agricoli come il vigneto che, durante la chiusura, sono proseguiti e che puntiamo ad ampliare. Un’ottima notizia anche per i nostri agenti che, da martedì, non sono più costretti a viaggiare per Saluzzo, Asti e Alessandria in una condizione di stress che è stata molto pesante per tutti". Intorno alla metà di aprile, i controlli sull’acqua avevano dato esito positivo e si attendeva il confronto tra Comune e Ufficio igiene dell’Asl, che ha fatto le analisi, per firmare la revoca. È degli ultimi giorni, invece, la promessa fatta dal ministro alla Giustizia, Andrea Orlando, in risposta al question time del deputato albese Mariano Rabino, di fornire il cronoprogramma dei lavori dell’intero istituto entro un mese. "Si tratta di importanti opere strutturali sull’impianto idrico e di adeguamento dei servizi dei reparti degli ambienti per cui non sono stati forniti elementi di aggiornamento sull’avanzamento dei procedimenti" aveva detto Orlando, garantendo "la massima attenzione per arrivare alla definitiva riattivazione della casa di reclusione di Alba". Secondo i tecnici del ministero, sarà più lungo il ripristino delle quattro sezioni comuni di tutto il carcere che poteva accogliere fino a 122 detenuti e per cui da Roma sono stati impegnati 2 milioni di euro nel programma triennale delle opere di ristrutturazione 2016-2018. Bologna: "così controlliamo i detenuti a rischio radicalizzazione" di Alessandro Cori La Repubblica, 25 maggio 2017 In seguito agli ultimi attentati dieci carcerati seguiti con attenzione per il cambiamento delle loro abitudini. Come riuscire a capire quali sono i detenuti a rischio radicalizzazione islamica? Bisogna saper cogliere i "segnali", come l’intensificazione della pratica religiosa, il rifiuto di condividere gli spazi comuni, l’esultanza di fronte agli attentati e i cambiamenti nell’aspetto (barba lunga e vestiti tradizionali) e nelle scelte alimentari (per esempio non bere più Coca Cola). Dopo l’attentato di Manchester dal Viminale è arrivata la richiesta di aumentare i controlli sui detenuti che potrebbero avvicinarsi all’ideologia jihadista e l’argomento è stato affrontato martedì nella riunione tra il prefetto Matteo Piantedosi e le forze di polizia. Agli agenti che lavorano in carcere spetta il compito di individuare questi segnali prima che sia troppo tardi. Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap) ha stilato un elenco dei comportamenti da considerare "anomali". "Noi osserviamo i cambiamenti - spiega un agente della Dozza - e li segnaliamo al nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria (Nic), che si occupa di svolgere le indagini in carcere. Non basta un singolo elemento, servono più segnali insieme per attivare la vigilanza". I soggetti a rischio radicalizzazione vengono distinti in tre livelli: segnalati, attenzionati e monitorati (i più pericolosi). Alla Dozza sono una decina i detenuti monitorati per i loro atteggiamenti che potrebbero far pensare ad una vicinanza agli ambienti estremisti. L’attentato di Manchester ha riacceso l’attenzione anche sulla sicurezza in occasione degli eventi che si terranno a Bologna nei prossimi mesi. "La situazione che si è creata in una città grande come la nostra crea sicuramente allarme", ha detto l’assessore alla sicurezza Riccardo Malagoli. "Le feste di strada più grandi, su richiesta della Prefettura, avranno i blocchi di cemento", i cosiddetti new jersey. Tuttavia, ha ricordato Malagoli, "si tratta sempre di questioni difficilmente evitabili. C’è una grande attenzione da parte di tutti, ma si fa fatica a fermare le schegge impazzite". Roma: detenuto a Rebibbia, pesa 230 chili e dice "sono condannato a morte" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 maggio 2017 La relazione del Garante nazionale sull’istituto romano ne restituisce un quadro degradante. C’è anche il caso di un recluso che ha finito di scontare la pena a ottobre del 2016 e dovrebbe essere trasferito in una Rems. Un detenuto che pesa più di 230 chili ed è del tutto incompatibile con il regime detentivo, un recluso che ha finito di scontare la pena che però è rimasto dentro in attesa di essere trasferito in una Rems, un reparto in condizioni talmente disastrate da chiederne l’immediata misura, stanze detentive in condizioni di enorme degrado che violerebbero i diritti umani. Questo è il quadro che emerge dall’ultimo rapporto pubblicato dal Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma in merito alla visita della casa circondariale di Rebibbia. La visita risale al 22 dicembre del 2016 ed era mirata a verificare le condizioni detentive del Reparto G9 e alcune situazioni particolari segnalate al Garante Nazionale relative a detenuti ristretti nel Reparto G11. In particolare il signor A.M., recluso nel reparto G11 è affetto da gravi patologie che ne hanno determinato una invalidità al 100%. A ciò si aggiunge lo stato di grave obesità - pesa oltre 230 chili - che gli impedisce di svolgere qualsiasi tipo di attività, in quanto la sua mole ostacola ogni suo spostamento dalla stanza di pernottamento. Di conseguenza sta scontando la pena in una situazione detentiva di coercizione strutturale e psicologica. Lui stesso, nel colloquio con il Garante nazionale, si è definito una persona "condannata a morte" e che quotidianamente vive l’insofferenza a vedersi sempre più enorme a causa della sua "inattività forzata" e, spesso in preda a crisi di panico per il timore di non poter ricevere le dovute cure salvavita in caso di un’emergenza. Nel rapporto, Mauro Palma ritiene che "tale criticità non sia connessa alla particolare situazione detentiva nell’Istituto "Raffaele Cinotti", ma all’impossibilità in sé di detenere in carcere una persona con tali caratteristiche fisiche e ponderali, sia per la difficoltà di movimento che per la necessità di accadimento, oltre che per possibili emergenze che tale situazione può determinare. Pertanto, ritiene che la situazione in essere non muti anche nel caso di trasferimento ad altro istituto e che conseguentemente debba essere opportunamente valutata la possibilità di sospensione dell’esecuzione penale o quantomeno mutata la misura privativa della libertà attualmente applicata". Dal controllo del registro "diversi detenuti" la delegazione del garante ha scoperto che il signor O. A. aveva finito la pena il 21.10.2016 ma, al momento della visita, cioè due mesi dopo, era ancora ristretto nel reparto G11, pur essendo agli atti una richiesta di scarcerazione da parte delle Autorità giudiziarie e la richiesta di relativa assegnazione presso una Rems. Per tale motivo, a dicembre, il signore aveva annunciato in una lettera rivolta alla direzione la volontà di compiere azioni di autolesionismo come segno di protesta per la mancata scarcerazione e il mancato trasferimento. Il Garante denuncia che la mancata scarcerazione e la presenza di internati in Istituti di pena rappresentano una violazione del diritto Il rapporto, redatto il 18 aprile scorso, è stato reso pubblico martedì sul sito del Garante in attesa della risposta del Dap e del ministero della Giustizia. La delegazione del Garante nazionale composta da Mauro Palma e Giovanni Suriano, componente dell’ufficio - ha visitato il carcere di Rebibbia assieme a Stefano Anastasia, garante regionale diritti detenuti del Lazio. Nella visita hanno verificato le condizioni generali del reparto G9. Vengono evidenziate criticità sia strutturali che di carattere igienico-sanitarie, in violazione dell’articolo 18.1 delle Regole penitenziarie europee relativo all’assegnazione delle camere di detenzione, nonché degli standard stabiliti dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, dei trattamenti e delle pene inumani o degradanti. Pesanti infiltrazioni di umidità fin dall’ingresso; nell’atrio erano evidenti dei buchi contornati da macchie umide, da cui - secondo quanto riferito dagli agenti di polizia penitenziaria al Garante - nei giorni di pioggia colava l’acqua che bagnava vistosamente le pareti e il pavimento e veniva raccolta in secchi e bacinelle; il soffitto e le pareti del corridoio erano sporchi e umidi, con l’intonaco marcito a causa delle infiltrazioni, così come le mura perimetrali e i tramezzi interni dell’intera area del reparto trovati in condizioni fatiscenti; pavimento deteriorato con buche ricoperte da fogli di giornale. Inoltre, nel giorno della visita, in fondo al corridoio c’era una finestra rotta con i pezzi di vetro accessibili ai detenuti, con grave rischio di uso per atti di autolesionismo. Nel rapporto si legge che "le stanze del piano terra adibite sia ad attività comuni che al pernottamento, erano nelle stesse condizioni: la stanza della socialità era carica di muffa sulle pareti e al suo interno vi era un tavolo da ping-pong vecchio e senza racchette, mentre da una parete all’altra erano stese delle corde che reggevano panni messi ad asciugare, trasformando la stanza di socialità in uno stenditoio. Tutta la sezione era gelida a causa del cattivo funzionamento dell’impianto di riscaldamento che - secondo quanto dichiarato dalla direttrice - quando funziona non arriva mai oltre il 30% dell’erogazione di calore prevista per riscaldare l’ambiente. Le docce comuni erano state chiuse perché non funzionanti e i detenuti della sezione erano costretti a fare la doccia in altri reparti, con evidente disagio e difficoltà nella cura dell’igiene personale. La stanza del "barbiere" è apparsa anch’essa in uno stato di totale degrado: al suo interno, oltre a un lavandino malandato, vi erano due boiler spenti e nient’altro. Condizioni pessime anche alcune stanze detentive occupate da sei persone: ognuna misura circa 27 mq, compreso il gabinetto alla turca, che è separato dalla camera da una parete fredda e trasudava muffa. Lo spazio bagno era utilizzato anche come luogo per la conservazione e la cottura degli alimenti. Alcune stanze detentive sono stare rese inagibili a causa delle condizioni degradante. Altre che sono rimaste aperte, invece, presentavano condizioni talmente inaccettabili che, secondo il parere di Mauro Palma, potrebbero essere considerate di per sé in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani. Il reparto G9 è noto alla cronaca per le evasioni avvenute l’anno scorso. Il Garante Nazionale ha visionato dall’esterno la stanza n. 12, dalla quale erano evasi nel mese di ottobre tre detenuti, e si presentava come le altre: deteriorata e carica di muffa. Novara: detenuti all’opera al Parco della Mora di Pernate corrieredinovara.com, 25 maggio 2017 Manutenzione del verde, degli arredi e della pista di pattinaggio del Parco della Mora di via Collodi a Pernate. È stato questo l’intervento iniziato oggi, martedì 22 maggio, nell’ambito delle Giornate di recupero del patrimonio ambientale condotte da Assa mediante l’impiego dei detenuti che in permesso premio escono dalla Casa circondariale di via Sforzesca. L’intervento ha riguardato prevalentemente il ripristino delle condizioni di sicurezza e di fruibilità della pista di pattinaggio presente nel parco che risultava danneggiata anche da atti vandalici e invasa da sporcizia ed erbacce. Sono iniziati lo smantellamento e la sostituzione dei cordoli perimetrali e dei pannelli di protezione. Contestualmente Assa, con i detenuti in permesso premio e con i cantieristi dei Cantieri di lavoro del Comune di Novara appartenenti sia alla categoria "disoccupati", sia "detenuti", è intervenuta massicciamente sulla vegetazione per rendere fruibile anche la parte del parco circostante la pista. Gli interventi verranno ultimati con la collaborazione della società A.s.d. Gioca Pattinaggio Artistico che metterà a disposizione parte dei materiali da sostituire. La Giornata è stata anche l’occasione per un pubblico ringraziamento da parte della Scuola dell’infanzia "Collodi" ai detenuti per l’attività di manutenzione anche straordinaria alla struttura scolastica che è stata da loro svolta durante le recenti vacanze pasquali. Alla presenza del sindaco Alessandro Canelli, la dirigente scolastica dell’Istituto comprensivo "Bottacchi" Laura Panziera (I.C. che comprende, appunto, la "Collodi") insieme con la coordinatrice Patrizia Bonelli hanno donato alla Casa circondariale un bellissimo e coloratissimo poster realizzato, con molta creatività, dai bambini sotto la guida delle loro insegnanti per esprimere tutta la gratitudine per il lavoro volontario del quale hanno beneficiato. Due disegni di ringraziamento sono stati donati al sindaco e un calendario con i volti dei bimbi e incorniciato dalle impronte delle loro manine è stato destinato all’Assa rappresentata dal presidente Giuseppe Antonio Policaro. In questo modo i bambini, le insegnanti, e per loro tramite le famiglie e il personale tutto della Scuola dell’infanzia "Collodi" hanno espresso la gratitudine per i lavori di risistemazione dei quali la struttura necessitava e che sono stati eseguiti concretamente dai detenuti coadiuvati dai "cantieristi" grazie all’impegno di tutti i soggetti coinvolti nel protocollo triennale che rende possibili questi tipi di intervento, ossia Comune di Novara, Magistratura di Sorveglianza, Ufficio esecuzioni penali esterne Uepe, Assa e anche l’Atc. Nella Scuola dell’infanzia "Collodi" di via Spreafico erano stati ripristinati gli intonaci interni ed esterni, imbiancati i bagni, la sala per il riposino pomeridiano, l’ingresso e la sala armadietti, le guaine di copertura delle pensiline di ingresso gravemente compromesse. Era stato effettuato anche un necessario intervento sulla parte idraulica e si era provveduto alla completa pulizia delle gronde perimetrali, alla pulizia dei pozzetti, a un intervento sul pergolato per evitare l’ingresso di api e vespe nella zona gioco. Era stata inoltre eseguita una manutenzione della parte esterna in modo che potesse essere utilizzata nelle belle giornate. In particolare erano state dipinte le fioriere, risistemati arredi e panchine con trattamento impregnante, le parti sollevate dei camminamenti e ridimensionata la vegetazione che ostruiva i canali di gronda, eseguiti il taglio e la mondatura dell’erba. "Siamo anche noi - ha rimarcato Alessandro Canelli rivolgendosi ai detenuti - a ringraziarvi per il lavoro svolto con serietà in questi mesi e che desideriamo fortemente possa proseguire con gli stessi risultati finora ottenuti, risultati che hanno restituito decoro a diverse realtà cittadine. Viviamo in una città che necessita di numerosi interventi di manutenzione: l’Amministrazione crede che interventi qualificati e specialistici come quelli da voi svolti siano fondamentali per riuscire a raggiungere l’obiettivo di una città sempre più gradevole e siamo pertanto intenzionati a potenziare le iniziative come quella che vi ha reso protagonisti in questo periodo". Riccardo Basile, responsabile per Assa dei Progetti Sociali, ha ricordato che "i detenuti che in questi mesi escono dalla Casa circondariale di via Sforzesca in permesso premio su base volontaria per partecipare alle Giornate sono otto (sia italiani sia di origine straniera, ndr), con una età media di 37 anni (il più giovane 22 anni, il più anziano 55 anni, uno di 29 anni, uno di 48, gli altri tra i 40 e i 43 anni, ndr). A loro si affiancano i detenuti attivi in Assa in base ai "Cantieri di lavoro" del Comune di Novara, sulla base della Legge Regionale 34/2008, come prevede il Protocollo. Molto spesso le attività propedeutiche e di affinamento dei vari interventi vedono anche la partecipazione dei "cantieristi" appartenenti alla categoria "disoccupati" in carico ai servizi sociali impiegati da Assa sempre nell’ambito dei cantieri di lavoro del Comune (L.R. 34, ndr). Questo a riprova del fatto che si possono fare anche interventi ambiziosi laddove i vari progetti e le competenze si integrano in un’unica filiera e il risultato è dare un servizio di qualità e finito". Soddisfazione è stata espressa dal presidente di Assa Policaro. "I progetti sociali di Assa - ha commentato - stanno dando ottimi risultati e questo grazie alle sinergiche collaborazioni che abbiamo messo in atto con il Comune e gli altri soggetti del Protocollo per l’impiego dei detenuti. Avvalendoci del lavoro volontario dei detenuti ritenuti meritevoli dall’amministrazione carceraria, possiamo contare su forza lavoro gratuita per far fronte alle innumerevoli necessità di decoro urbano. A loro e a tutti i nostri partner nel Protocollo delle Giornate di recupero del patrimonio ambientale va la nostra gratitudine. I concreti risultati che stiamo ottenendo in termini di vantaggi ambientali, ed economici, per l’intera comunità novarese, con il recupero dal degrado di spazi e aree pubbliche o di edilizia sociale, si uniscono all’altro aspetto positivo del progetto che permette la riabilitazione sociale e lavorativa dei detenuti che una volta scontata la pena detentiva, rischierebbero l’esclusione. Quando poi le nostre attività migliorano le strutture scolastiche o, come oggi, rendono fruibili a bambini, giovani, famiglie, e ai novaresi di ogni età uno spazio pubblico tanto ampio, verde e attrezzato siamo ancor più soddisfatti". Milano: all’Ipm Beccaria detenuto dà fuoco alla cella. Nuovo padiglione, slitta l’apertura di Andrea Galli Corriere della Sera, 25 maggio 2017 Ancora tensione e paura al carcere minorile Beccaria. Un detenuto italiano ha dato fuoco alla sua cella: salvato per miracolo da due agenti della polizia penitenziaria. "Volevo fare un po’ di casino" ha spiegato il giovane, che era stato arrestato per episodi di violenza. I sindacati denunciano la gravità della situazione. Il nuovo padiglione che dovrebbe aiutare a contrastare il sovraffollamento, nonostante mille promesse non ha ancora aperto. Le ultime notizie non sono affatto positive: non risulta a norma e necessita di lunghi lavori. Quattro mesi fa il Beccaria era stato al centro di una rivolta. Due settimane di prognosi nel reparto ustionati dell’ospedale di Niguarda e gli è andata di lusso, vittima della sua stessa azione dolosa. L’hanno salvato gli agenti del carcere minorile Beccaria dove il ragazzino, un italiano, detenuto da mesi per episodi di violenza, ha dato fuoco alla cella. Il motivo l’ha spiegato lui: "Volevo fare un po’ di casino". Siamo di nuovo qui a parlare del penitenziario in zona Bisceglie, quattro mesi dopo la rivolta di un branco di 13 carcerati contro un compagno, "colpevole" di essere una spia e "di informare gli "sbirri". Era la metà dello scorso gennaio. In quell’occasione i sindacati della polizia penitenziaria avevano sollevato (anche) il problema-mistero del nuovo padiglione che nei piani dovrebbe accogliere 24 detenuti e consentire una migliore gestione esterna: meno sovraffollamento, più spazi e una struttura che non risente della vecchiaia tra celle invivibili e chiuse, muri ammuffiti, condutture da sistemare. Peccato che, a oggi, il padiglione non sia accessibile, come denuncia il sindacato Sappe. Il motivo: non è completamente a norma e servono interventi che potrebbero durare tutta l’estate e non per forza finire entro l’inizio d’autunno. Sicché è plausibile pensare che le difficili condizioni attuali resteranno tali. Martedì erano le 11 di sera quando tutto è cominciato. Insieme con un compagno (che già è stato trasferito in un altro istituto) il ragazzino ha incendiato suppellettili della cella. Le fiamme si sono subito alzate e sviluppate. Hanno intaccato il vicino centro di prima accoglienza. Se i soccorsi avessero tardato anche di pochi secondi, probabilmente per il "protagonista" non ci sarebbe stato scampo e nessuno può escludere eventuali altri vittime. A maggior ragione, l’azione dei due agenti che sono intervenuti è meritoria. Non è dato sapere se il rogo nella cella sia "nato" per una precisa protesta o, appunto, "soltanto" per un gesto di ribellione e per farsi notare. Il giovane carcerato in questione non è uno dei migliori per condotta del Beccaria. Ha già dato problemi e potrebbe darne ancora nel prossimo futuro, ha dentro una rabbia da sfogare. Non si può parlare del carcere minorile esclusivamente in termini emergenziali e di allarme: sarebbe un atto contro la sua stessa natura, il suo servizio e la sua funzione di rieducare. Lo storico cappellano don Gino Rigoldi, pur nel confermare (in tempi non sospetti) le criticità strutturali e dell’organico, ha più volte insistito sulla necessità, da parte di tutti, di guardare all’obiettivo prioritario: i ragazzi. Devono farlo le istituzioni, dal basso come dall’alto (Comune e Governo), deve farlo l’amministrazione penitenziaria, devono farlo gli operatori del Beccaria i quali, come ripetono dal sindacato Sappe, sono "prigionieri di una situazione assurda e grave, che merita interventi immediati". Eppure un aiuto arriverà dall’esterno. Con l’apertura, in Toscana, di un nuovo carcere minorile al quale destinare, nell’eterno rinvio dell’inaugurazione del padiglione, una parte dei detenuti milanesi. Siena: domani il convegno su "Sistema penitenziario e detenuti stranieri" ilcittadinoonline.it, 25 maggio 2017 Il 26 maggio alle ore 10 in Aula Magna avrà inizio il Convegno Internazionale dedicato a "Sistema penitenziario e detenuti stranieri: problematiche, risorse e prospettive". Nelle due giornate di lavoro saranno presentati i principali risultati del progetto Riuscire, coordinato dalla prof. Antonella Benucci e finanziato all’interno del programma Erasmus, vincitore del Label Europeo 2016. Si darà spazio al confronto di esperti internazionali su come è possibile trasformare il contesto penitenziario europeo da luogo di esclusione e privazione a luogo di acquisizione di competenze e di preparazione al reinserimento sociale. La presenza di detenuti stranieri nelle strutture penitenziarie è in crescita nella maggior parte dei Paesi europei: attualmente oscilla tra il 30 e 40% del totale della popolazione reclusa, ed è questa fascia di detenuti a correre più frequentemente i rischi della radicalizzazione e della marginalizzazione, come testimonieranno direttori di carceri, esperti europei e ricercatori. È opinione diffusa che il detenuto straniero non possa raggiungere l’obiettivo del reinserimento nella società soprattutto a causa dello svantaggio linguistico che impedirebbe un reale immissione in ambiente lavorativo, interno o esterno al carcere. L’esperienza di ricerca dimostra invece che è possibile sfruttare e valorizzare la dimensione interlinguistica e interculturale del contesto penitenziario, trasformandolo in un luogo ricco di risorse. Su questo tema saranno portate esperienze e buone pratiche svolte in Spagna, Francia, Germania, Portogallo, Italia. Sondrio: spazio senza sbarre per i piccoli in visita ai padri detenuti di Sara Baldini La Provincia di Sondrio, 25 maggio 2017 Uno spazio dove le sbarre non si vedranno e la luce calda e i colori delle pareti e dei giochi faranno dimenticare, almeno per il tempo dell’incontro, dove l’incontro stesso si stia svolgendo: in carcere. Si tratta della "stanza genitoriale": qui i detenuti potranno abbracciare i propri figli piccoli, trascorrere qualche ora con loro nel modo più simile a ciò che farebbe un padre a casa propria, in una situazione "normale". Un fumetto o un libro illustrato da sfogliare insieme mentre si fa merenda, una costruzione di mattoncini o le macchinine da disporre in fila, in un ambiente accogliente, intimo, informale. In via Caimi, sede della casa circondariale del capoluogo, le idee non mancano. E soprattutto, quando vengono, si ha la - buona - abitudine di provvedere a realizzarle mettendo in moto una macchina che, con un ormai oliato meccanismo che unisce chi sta dentro e chi sta fuori, ognuno con le proprie competenze e disponibilità, sta mettendo a segno una serie di obiettivi di tutto rispetto. L’ultimo in ordine di tempo è stato anticipato dalla direttrice del carcere Stefania Mussio" nel corso di un’allegra serata che ha visto esibirsi nella palestra del carcere in un diluvio di trascinanti melodie dixieland, nel più ruspante jazz targato New Orleans, la nostranissima Kreole Band. All’abbuffata di ottima musica ha fatto seguito una cena a base di pizza e maccheroni del Pastificio 1908. Laboratorio che, all’interno della Casa circondariale coinvolge alcuni detenuti nella produzione di pasta senza glutine. Così, dopo l’inaugurazione a inizio anno della bella biblioteca, il carcere si prepara a un altro battesimo. "Ci vorranno dei mesi - frena la direttrice - ci stiamo muovendo per reperire i fondi, ma il progetto c’è, nero su bianco o, meglio, su molti colori. Io ho già in mente il risultato finale e soprattutto penso al buon uso che se farà". Trento: "Dipingere il buio. In realtà siamo liberi", al museo detenuti e bimbi insieme di Gabriella Brugnara Corriere del Trentino, 25 maggio 2017 Il percorso "Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere" non si è concluso con la mostra che ha da poco chiuso i battenti al Museo diocesano tridentino, riscuotendo un grande interesse da parte del pubblico e della critica. La riflessione prosegue infatti con "Dipingere il buio. In realtà siamo liberi", l’esposizione che da domani raccoglie gli elaborati realizzati dai detenuti della Casa circondariale di Spini di Gardolo nell’ambito del laboratorio Un viaggio per parole e immagini, promosso dal museo e dagli alunni di due classi della scuola secondaria di primo grado di Vezzano. Si tratta della conclusione di un iter umano e formativo che il Diocesano ha avviato lo scorso febbraio con un gruppo di detenuti della carceri di Spini, condotto dalla direttrice, Domenica Primerano, dall’educatrice museale Valentina Perini, dalla professoressa Riccarda Turrina e dall’artista Michele Parisi. Niente a che vedere con un corso di pittura, l’impegno si è rivolto invece a stimolare nei partecipanti la capacità di elaborare e trasporre in parole e immagini in sentimenti ed emozioni. Il progetto, cresciuto attraverso una serie di incontri a cadenza settimanale, li ha coinvolti nell’analisi partecipata di opere d’arte antica e contemporanea. È il caso, ad esempio, del dipinto La fuga in Egitto (1759 circa) di Francesco Fontebasso, proposto per stabilire un legame con le collezioni museali e permettere al contempo l’affiorare di elementi autobiografici che potevano essere oggetto di una rielaborazione autonoma. Con l’esposizione al pubblico degli esiti del progetto si stabilisce ora un contatto tra i cittadini e le persone detenute, in direzione di superare barriere e pregiudizi. In parallelo, le classi II e III A della scuola secondaria di primo grado di Vezzano, guidate da Turrina e Parisi, hanno affrontato un percorso di analisi, riflessione e rielaborazione di temi inerenti al concetto di carcere, giustizia, pena, libertà, consapevolezza, pregiudizio, perdono. I ragazzi hanno realizzato a loro volta elaborati di diversa tipologia, dove immagini e parole si intrecciano in uno stretto dialogo fatto non solo di emozioni, ma anche di presa di coscienza nei confronti di una realtà spesso sconosciuta o ignorata. Anche i loro lavori saranno esposti in mostra e la documentazione dell’attività scolastica nelle sua varie fasi sarà presentata in un video realizzato da Valentina Degiampietro. Al centro dell’iniziativa si pone l’intento del Diocesano di portare un contributo attivo alla promozione della dignità umana e al riscatto umano e sociale, nella convinzione che la cultura possa rappresentare un’importante prospettiva di recupero per le persone recluse. Parma: apre la sala cinema per i detenuti, progetto voluto dal Garante comunale di Ambra Notari Redattore Sociale, 25 maggio 2017 Un film al mese in lingua originale e con i sottotitoli e due proiezioni, una per i detenuti in alta sicurezza, una per quelli in media. Il progetto è stato voluto dal Garante comunale, in collaborazione con il cinema cittadino Edison d’essai. Ieri la prima proiezione. Il primo film è stato "Fiore" di Claudio Giovannesi, ambientato in un carcere minorile. Il prossimo sarà "Moonlight" di Barry Jankis, che agli ultimi Oscar ha raccolto 3 statuette, storia di un ragazzino in difficoltà in un quartiere di Miami segnato da droga e violenza. Sono questi i primi 2 film proiettati nella sala cinema interna del carcere di Parma: un progetto ideato da Roberto Cavalieri, Garante comunale per i detenuti, e che ha trovato immediata collaborazione sia nella direzione dell’istituto penitenziario, sia nella Fondazione delle arti Solares - che in città gestisce già la sala d’essai Edison - chiamata a curare la programmazione. La sala è stata ricavata nella vecchia sala teatrale, ristrutturata grazie alla Fondazione Cariparma. Per ora si tratta di proiettare lo stesso film 2 volte al mese, una per i detenuti del circuito Alta sicurezza, una per quelli in Media sicurezza. "Quando il garante mi ha contattato - racconta Michele Zanlari, gestore dell’Edison - l’unica condizione che ho posto è stata di non portare il cinema nel carcere per forza come elemento didattico. Sono convinto che ognuno possa goderselo come vuole: chiunque è pubblico. E anche in carcere manteniamo la nostra filosofia d’essai: solo film in lingua sottotitolati". Per avviare il progetto, Zanlari ha incontrato i detenuti delle 2 sezioni e sottoposto un questionario, per capire i gusti e conoscere cosa il cinema rappresenti per loro: "Il panorama è decisamente eterogeneo: ci sono gli stranieri che non hanno mai visto un film in Italia, ci sono i detenuti in carcere da 25 anni che da allora non sono più entrati in sala". Ieri l’esordio con "Fiore". Finita la proiezione, accese le luci, i detenuti ci hanno messo qualche minuto per tornare alla realtà e hanno chiesto di aprire un dibattito, sebbene non fosse previsto. "Hanno molto apprezzato il realismo del film, volevano parlare della vita "dentro". Due ragazzi mi hanno detto che per un periodo sono stati detenuti proprio nel carcere in cui il film è ambientato. Un altro mi ha detto che conosceva la protagonista, Daphne Scoccia, che in "Fiore" interpreta se stessa, perché con lei aveva vissuto nella stessa comunità. È stata un’esperienza molto forte: vedere le sbarre sullo schermo, mentre accanto a te tintinnano le chiavi degli agenti penitenziari non è facile". Prossimo appuntamento, a giugno, "Moonlight", concesso gratuitamente dai distributori, sebbene in Italia sia uscito solo pochi mesi fa. Il film di luglio, invece, sarà "Sing Street" di John Carney, brillante commedia musicale ambientata nella Dublino degli anni Ottanta: "Dopo 2 pellicole impegnative, abbiamo pensato fosse il momento di un’evasione piena". Superata la pausa estiva, da settembre sono già previste nuove proiezioni: un paio di registi hanno chiesto di poter andare direttamente a presentare il proprio film, e alcuni detenuti stranieri hanno suggerito di proiettare pellicole dei loro Paesi d’origine, per farli conoscere a tutti: "Ho l’elenco delle loro nazionalità, mi sembra un’ottima idea. Se continueranno a mostrare tutto questo entusiasmo, vorremmo provare a rendere le proiezioni bisettimanali. Chissà, in futuro potremmo anche pensare di aprire al pubblico esterno". "Prima di questa avventura non conoscevo nulla del carcere - conclude Zanlari. Credevo di trovare diffidenza, ho trovato un’enorme gentilezza sia da parte degli agenti, sia dei detenuti. È un ambiente che comprime molto le persone, riuscendo spesso a farne emergere i lati positivi, che magari, in contesti più ampi, non trovano lo spazio per affiorare. Tutti, a partire dagli studenti, dovrebbero vedere almeno una volta cos’è davvero la realtà carceraria". Avezzano (Aq): esperti di comunicazione insegnano ai detenuti a parlare in pubblico marsicalive.it, 25 maggio 2017 Dal mese di giugno, nella casa circondariale di Avezzano si terrà il corso per "comunicare in pubblico magicamente". Gli ospiti che scontano la pena, insieme allo psicologo di associazione Freedom Cristiano Di Salvatore, si cimenteranno in esercitazioni pratiche per migliorare la capacità di comunicare. "Il corso", commenta la direttrice Anna Angeletti, "è il frutto di una pluriennale collaborazione tra l’area educativa e le risorse formative presenti nel territorio; questa è solo l’ultima di numerose iniziative che stiamo promuovendo all’interno della struttura e non escludiamo di estendere il corso anche al personale di servizio". Lo psicologo afferma: "attraverso il corso, i partecipanti svilupperanno tecniche e strumenti propri del public speaking; al tempo stesso sarà un’ottima occasione per imparare a vivere e comprendere meglio emozioni come ansia, vergogna ecc. Tra gli obiettivi del corso c’è anche quello di poter migliorare la comunicazione efficace all’interno dell’istituto, promuovendo un clima di maggior ascolto e dialogo, partendo dal principio che "alla base di un problema di relazione c’è sempre un problema di comunicazione". Terrorismo. L’allarme vero per l’Italia arriva dalle carceri, non dai migranti di Carmine Gazzanni linkiesta.it, 25 maggio 2017 Nelle prigioni italiane è altissimo l’indice di radicalizzazione. Dal Bataclan a Nizza, dopo ogni attentato sono sempre più i detenuti che prorompono in grida di esultanza. In carcere mancano i ministri di culto musulmani, e si diffonde sempre più una forma di Islam fai da te molto pericolosa. L’ultima relazione sulla sicurezza del Paese presentata da Palazzo Chigi al Parlamento è chiara su un punto: "Continua a destare attenzione il fenomeno della radicalizzazione all’interno degli istituti carcerari italiani", testimoniato d’altronde anche dagli episodi di "esultanza" dopo i tragici attentati degli ultimi mesi, "indice - continuano i nostri servizi segreti nella relazione - di un risentimento potenzialmente in grado di tradursi in propositi ostili alla fine del periodo di reclusione". Basti questo: secondo quanto segnalato dalle strutture carcerarie al ministero della Giustizia, i casi di esultanza sono stati ben 163 dopo la strage del Bataclan (13 novembre 2015), 55 dopo gli attentati a Bruxelles (22 marzo 2016) e altri 55 dopo Nizza (14 luglio 2016). Insomma, il pericolo jihad per l’Italia non arriva solo dall’esterno (specie dalla rotta balcanica), ma anche e soprattutto dall’interno dei nostri istituti penitenziari. Non è un caso che già l’anno scorso anche il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, avesse insistito sull’importanza di un adeguato monitoraggio "della numerosa popolazione carceraria di fede islamica, al fine di individuare possibili forme di proselitismo". Il pericolo, infatti, è più che concreto. Basti riprendere quanto dichiarato dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) del ministero della Giustizia: i soggetti attualmente sottoposti a "specifico monitoraggio" poiché appunto già radicalizzati, sono 165 (nel cui novero rientrano anche i 44 detenuti "ristretti per il reato di terrorismo internazionale), cui si aggiungono altri 76 "attenzionati" e 124 "segnalati". Per un totale, dunque, di 365 soggetti a rischio fondamentalismo. I casi di detenuti nelle carceri italiane che esultano dopo un attentato sono stati ben 163 dopo la strage del Bataclan (13 novembre 2015), 55 dopo gli attentati a Bruxelles (22 marzo 2016) e altri 55 dopo Nizza (14 luglio 2016). Ma la platea potrebbe facilmente allargarsi. Perché, come segnalato ancora dall’antimafia, "la maggioranza dei detenuti, ristretti per reati comuni, sono esposti al rischio di possibili attività di proselitismo". Ed ecco allora la domanda: di quanti detenuti parliamo? I dati aggiornati, raccolti da Antigone nella sua ultima relazione sulla situazione delle carceri italiane (presentata proprio oggi), parla di 29.568 detenuti che si dichiarano cattolici (il 54,7% del totale) e di 6.138 invece che si dichiarano musulmani (l’11,4% del totale). Via via tutte le altre professioni, fino agli ortodossi che sono "solo" 2.263 (il 4,2%). Ma c’è di più. Perché come specifica ancora Antigone, infatti, a questi vanno aggiunti i 14.235 detenuti che hanno preferito non dichiarare la propria fede: "tra questi - sottolinea l’associazione - circa 5mila provengono da paesi tradizionalmente musulmani, il che indica una reticenza a dichiararsi musulmani per evitare lo stigma". Il sistema carcerario italiano manca di ministri di culto islamici, col rischio ovviamente che imam "improvvisati" possano fare facile proselitismo. E arriviamo al punto: il sistema carcerario italiano manca di ministri di culto islamici, col rischio ovviamente che imam "improvvisati" possano fare facile proselitismo. Perché se infatti per legge ogni istituto deve avere (e nei fatti ha) almeno una cappella (se ne contano più di 200 in totale) con sacerdote al seguito (i cappellani, secondo ancora i dati Dap, sono più di 400), il discorso è ben diverso per l’Islam. Ad oggi, infatti, gli imam che possono entrare nelle strutture penitenziarie sono una miseria: 47. Il conto è immediato: parliamo di un ministro ogni 130 praticanti. Se contiamo anche gli altri 5mila detenuti provenienti da Paesi musulmani, un imam ogni 247 praticanti. Ma non è tutto. Perché appare surreale, ad esempio, che siano accreditati ben 494 "anziani" dei Testimoni di Geova, nonostante - secondo gli ultimi dati disponibili - siano solo 31 i fedeli detenuti. Che, dunque, possono disporre ognuno di 16 ministri di culto. Ma non è tutto. Perché al cospetto dei 47 imam, contiamo 77 sacerdoti valdesi, 185 delle "Assemblee di Dio in Italia", 104 della "Chiesa Cristiana Avventista del settimo giorno". Finita qui? Certo che no. Perché sono il doppio (esattamente 81) anche i ministri della "Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni" e 73 quelli invece della "Unione cristiana evangelica battista d’Italia". Insomma, le differenze sono evidenti. E le problematiche che potrebbero nascere (e che in parte già sono nate), pericolose. Terrorismo. Il ministro Minniti annuncia "un nuovo modello di sicurezza" di Gilda Maussier Il Manifesto, 25 maggio 2017 Il ministro dell’Interno promette il rilancio delle forze di polizia davanti alla platea del congresso nazionale del Coisp. Taormina blindata per il vertice del Gruppo dei Sette. Sabato il corteo dei No G7. La reazione del ministro dell’Interno italiano Marco Minniti alla strage di bambini di Manchester - che definisce "angosciante" e "raggelante" - viene esposta davanti alla platea del congresso nazionale del sindacato di polizia Coisp (che si è distinto negli ultimi anni per un attacco frontale alla madre di Federico Aldrovandi e alla sorella di Stefano Cucchi, tanto per inquadrare il contesto). Dopo aver esaminato le particolarità dell’attacco nella Manchester Arena (siamo di fronte, ha detto, ad "un’organizzazione più complessa" di quella dei "lupi solitari" visti in azione a Berlino, Londra, Stoccolma o Parigi; "è stato utilizzato l’esplosivo, e non sappiamo se gli attentatori abbiano agito da soli. Emergono inoltre collegamenti con la Libia"), e il nuovo scenario che si delinea da questa modalità di azione del terrorismo islamico ("multiforme e a prevedibilità zero"), Minniti annuncia un "nuovo modello di sicurezza" italiano che prenda il posto di quello ormai obsoleto, "grosso modo lo stesso da 70 anni". E per farlo non si può "che partire dal rilancio delle forze di polizia nazionali, a partire dalla Polizia di Stato, e rafforzare il rapporto con i sindaci, che deve essere considerato strategico, perché sono loro a conoscere in maniera approfondita il territorio". "Non possiamo consentire a nessuno di rubare il futuro delle nostre società", dice il ministro riferendosi alla "raggelante strage di teenager, di bambini, di quanto c’è di più prezioso nella società". Però l’azione di intelligence - che pure "è una attività non solo demandata ai servizi segreti ma parte integrante del lavoro della Polizia" - non basta, secondo il titolare del Viminale. "Oltre alla modernità c’è bisogno di un efficace controllo del territorio, una strategia antica, ma di fronte alla prevedibilità zero l’unica cosa che funziona davvero è stare fisicamente sul campo". Urge "una nuova legge 121", l’ordinamento sulla pubblica sicurezza del 1981. E d’altronde, ricorda Minniti concludendo, "in Consiglio dei ministri c’è la delega per il riordino delle carriere delle forze di polizia con una posta di un miliardo di euro". Gli agenti ringraziano, ma il problema rimane. Soprattutto impelle il problema della sicurezza a Taormina dove venerdì 26 e sabato 27 maggio si riuniranno i sette capi di Stato e di governo per il vertice del G7. La città è militarizzata: settemila agenti e militari a difesa di una zona rossa già off limits per chiunque non abbia apposito permesso, divieto di navigazione davanti a Taormina e di sorvolo dell’area, un sistema di video sorveglianza sia terrestre che mediante elicotteri e droni, metal detector all’ingresso e all’interno del Palazzo dei Congressi e in tutti gli altri luoghi adibiti alle riunioni delle delegazioni internazionali. Il tutto sarà gestito dalla sala Interforze attivata a Palazzo dei Duchi di Santo Stefano, all’interno della quale "si trova anche un apposito spazio per il Servizio cooperazione internazionale polizia con i rappresentanti di Europol, Interpol, e sei componenti delle delegazioni estere", secondo quanto riferito dalle autorità locali. Naturalmente, super blindati anche gli hotel che ospiteranno i diplomatici. In particolare "Villa Flora", le cui 31 camere e 2 suite saranno a disposizione dello staff di Donald Trump. Manca solo l’aquila addestrata anti-drone, come per il vertice Nato di Bruxelles. Anche se il capo della polizia, Franco Gabrielli, in riferimento al rischio attentati terroristici ha detto: "Il G7? A me preoccupa di più l’ordinario". Eppure, per ordinanza del sindaco Nello Lo Turco, sabato Taormina sarà pressoché isolata, con la chiusura delle stazioni ferroviarie di Giardini Naxos e di Letojanni e la mancanza di collegamenti alternativi con gli autobus. Chiuse anche le scuole. Il motivo? Impedire la partecipazione al corteo dei "No G7" che si terrà nel pomeriggio sul lungomare cittadino di Giardini Naxos e dove sono attesi migliaia di manifestanti. La generazione Bataclan e i giovani terroristi di Massimo Nava Corriere della Sera, 25 maggio 2017 Centinaia di ragazzi sono stati uccisi mentre ascoltavano musica a Parigi, Orlando, Istambul, Manchester. Chi agisce appartiene allo stesso universo culturale, per poi distaccarsene e inneggiare alla morte. Detto che si tratta di "mostri", a mente fredda occorre notare che si tratta di mostri umani, uomini dotati di raziocinio e istruzione, non esistendo in natura animali capaci di tanto orrore: altrimenti si rischia esorcizzare il "laboratorio" politico e religioso che li ha generati. Occorre notare anche che si tratta di mostri giovani, nati e cresciuti nelle stesse città, nello stesso universo mediatico e culturale cui appartengono le vittime, la "generazione Bataclan", centinaia di ragazzi uccisi mentre ascoltavano musica a Parigi, a Orlando, a Istanbul, a Manchester, mentre passeggiavano sul lungomare di Nizza e facevano acquisti di Natale a Berlino. Altrimenti non si capisce la "frattura", la decisione di autoescludersi dal quartiere, dalla famiglia, dal gruppo, per "arruolarsi", spegnere la vita e inneggiare alla morte. Se non si indagano frattura e laboratorio del terrore, l’emotività e la pietà rischiano di sconfinare in un senso di annientamento collettivo che è, al tempo stesso, uno degli obiettivi del terrorismo e la materia di facile consumo per i populismi. Da domani, a Taormina, i grandi della Terra s’interrogheranno sulle possibili risposte del mondo civile. Ma è improbabile che si alzi il velo sul "laboratorio", cioè sulle cause politiche, militari, finanziarie, che hanno prodotto il fenomeno, a partire dalla destabilizzazione del Medio Oriente e dalle guerre "umanitarie" che hanno trasformato Iraq, Libia e Siria e l’Africa subsahariana in polveriere, fino ai rapporti economici - sostanziati anche da grandi forniture di armi - con l’Arabia Saudita e in generale con i regimi sunniti, ossia le oligarchie che dai tempi dell’Afghanistan invaso dall’Armata Rossa, hanno protetto, ispirato, finanziato la guerriglia islamica. Rapporti che si consolidano anche in quel mondo che abita i grandi hotel e i lussuosi quartieri residenziali di Parigi e della City, che investe nelle banche e nelle compagnie europee, che rifiuta una rivoluzione democratica e dei costumi all’interno delle proprie società e che nessun principio di laicità repubblicana o occidentale osa sfiorare. (Salvo poi proibire un burkini in spiaggia). Al tempo stesso, appare complicato che si mettano in atto, in tempi rapidi, strategie di coordinamento fra servizi d’intelligence e polizie dei diversi Paesi europei, colmando disfunzioni e diversità di sistemi operativi, che hanno permesso a molti terroristi di passare da un Paese all’altro, benché a volte segnalati. È ovvio che non esiste il rischio zero, come non è praticabile il controllo assoluto del territorio, ma è possibile fare di più nei confronti di individui che - come dimostrano le inchieste - rivelano un percorso sociale, criminale e d’indottrinamento molto simile. Fare di più significa anche tentare il recupero culturale di giovani che sono facile preda di propaganda ideologica e religiosa nel contesto del quartiere in cui sono nati e cresciuti. La "frattura" militante ed eversiva è l’ultimo stadio della ribellione alla famiglia d’origine, generalmente integrata, dell’antagonismo sociale, dell’abbandono scolastico, dell’uscita dal gruppo di coetanei. "Frattura" difficilmente sanabile se si considerano condizioni e collocazione urbanistica delle periferie di molte metropoli europee. L’esclusione ha il suo rovescio nell’affermarsi di una monocultura che è fatta di linguaggi, usanze, circuiti informativi e simboli religiosi e che può diventare rete di complicità, protezione, arruolamento. Senza falsi buonismi, occorre riconoscere che l’acqua in cui i pesci nuotano è abbondante e senza argini. Il più grande rischio che stiamo correndo, senza fermarci a capire, è tuttavia che i "mostri" generino "mostruosità", ossia l’amplificazione dell’odio religioso, l’ossessione per la sicurezza, la paralisi della nostra quotidianità e, in fin dei conti, la sopravvalutazione del fenomeno stesso, anche rispetto a fenomeni violenti del passato. Sia in termini assoluti - dato che il numero di vittime in Europa è infinitamente minore che nel resto del mondo - sia relativamente ad altri tipi di minacce e rischi che affliggono in misura maggiore la nostra vita, benché spesso ci dimentichiamo anche solo di parlarne. Migranti. Il commissario Onu Filippo Grandi: procedure più veloci per i rifugiati di Fulvio Fulvi Avvenire, 25 maggio 2017 L’italiano a guida dell’Unhcr a Milano: sì a canali legali per l’ingresso, modello Canada. Il profugo viene spesso considerato, oggi in Europa, come un invasore, un pericolo per la propria sicurezza e prosperità. Ma si dimentica che l’accoglienza è un valore fondante della stessa identità del Vecchio Continente. E che lo "straniero" rappresenta, in concreto, una risorsa per la società e le economie dei Paesi dove trova riparo. L’Alto commissario dell’Onu per i rifugiati, Filippo Grandi, parlando ieri a Milano, ha insistito sulla necessità di instaurare un dialogo con chi si ostina a dare risposte nazionaliste all’immenso e multiforme fenomeno dei richiedenti asilo: una posizione di chiusura, quest’ultima, finalizzata a esaudire temporaneamente le proprie irrazionali paure ma che in realtà non tiene conto della realtà. Perché di fronte ci sono delle persone che fuggono da guerre, persecuzioni e carestie e l’accoglienza non è un favore che viene concesso ma un diritto sancito da leggi. Intervenendo al convegno "Accogliere emergenze, promuovere diritti" promosso dal Centro studi della Fondazione Casa della carità, Grandi ha avanzato anche delle proposte per affrontare il dramma che sta sconvolgendo l’Europa. Le priorità sono quelle di "professionalizzare le commissioni territoriali che esaminano le richieste di asilo, velocizzare le procedure di riconoscimento della protezione internazionale, insistere sulle politiche di ricollocamento e investire sui Paesi di transito dei rifugiati". "Un altro punto fondamentale - ha proseguito l’Alto commissario - è l’apertura di canali legali e corridoi umanitari, come avviene in Canada, Paese che per noi rappresenta un modello basato anche sull’iniziativa dei privati. Qui vengono accolti 300mila migranti ogni anno: chi arriva è dichiarato subito "nuovo cittadino canadese" perdendo i requisiti di rifugiato". Secondo Grandi, poi, "occorre insistere sulle politiche di ricollocamento, perché dei 160mila posti approvati dall’Ue nell’estate del 2015 oggi siamo a poco più di 20mila. L’Europa fin qui ha fallito. I ricollocamenti sono una battaglia da continuare, bisogna battersi per quote obbligatorie e sanzioni in caso di rifiuti. L’Italia e l’Europa non sono il Paese e il continente su cui c’è la massima pressione di rifugiati: soffrono di più le nazioni che confinano con quelle in guerra. Non bisogna scaricare ad altri le proprie responsabilità ma investire per condividere l’impegno di accoglienza". Al convegno di Milano è intervenuta anche Emma Bonino: "E fondamentale - ha detto - che insieme all’accoglienza dei migranti ci occupiamo pure della loro integrazione, per evitare che finiscano vittime di sfruttamento: lo strumento principale per questo è il lavoro, il cardine della proposta di legge di iniziativa popolare "Ero Straniero. L’umanità che fa bene", il cui obiettivo è raccogliere le 50mila firme necessarie per la presentazione al Parlamento. La campagna, promossa tra gli altri dalla Fondazione Casa della Carità presieduta da don Virginio Colmegna e dalle Acli, ha lo scopo di superare la legge Bossi-Fini e vincere la sfida dell’immigrazione puntando su accoglienza, lavoro e inclusione. Fondi destinati a combattere la povertà in Africa vengono usati per controllare i migranti di Ludovica Jona* La Stampa, 25 maggio 2017 Il Trust Fund creato dalla Commissione fuori dal controllo del Parlamento europeo è costituito per il 95% da denaro per lo sviluppo ma servirà anche a blindare i confini. Attrezzature militari, formazione di polizia, centri per migranti respinti e sistemi per la raccolta di dati biometrici che garantiranno - in Europa - il riconoscimento del Paese d’origine e quindi più facili espulsioni. Obiettivo: controllare le migrazioni dall’Africa e rafforzare i governi dei Paesi di origine e transito di coloro che vorrebbero attraversare il Mediterraneo. A poco più di un anno dalla sua creazione al vertice europeo de La Valletta, il Trust Fund europeo di Emergenza per l’Africa ha stanziato a questi scopi oltre 600 milioni di euro, quasi il 40% dei progetti approvati. Come ha denunciato il Parlamento europeo dopo la mobilitazione di Ong come Oxfam e Concord, questo fondo - 2,8 miliardi ad oggi - utilizza per fermare i migranti soldi presi dalle riserve europee per la cooperazione internazionale e la lotta contro la povertà. Che rischiano così di svuotarsi. Lo spostamento dei fondi - Uno dei primi atti dell’Agenda europea sulla migrazione è stata la convocazione nell’ottobre 2015 a La Valletta di un vertice euro-africano. In quell’occasione i leader degli Stati europei hanno dato vita al Fondo Fiduciario di Emergenza per l’Africa anche chiamato "Trust Fund", uno strumento fuori dal controllo del Parlamento europeo con l’obiettivo di finanziare con rapidità iniziative per "affrontare le cause profonde delle migrazioni irregolari". Oggi, dei 2,8 miliardi di euro del Trust Fund, quasi il 95 per cento sono stati presi da fondi dedicati alla cooperazione e all’aiuto umanitario - in particolare dal Fondo Europeo di Sviluppo, il principale strumento per la lotta alla povertà dell’Unione - mentre solo 152 milioni sono fondi freschi messi dagli Stati. Il rapporto 2016 del Trust Fund elenca 106 progetti approvati ad oggi per quasi 1,6 miliardi di euro. Li gestiscono principalmente le agenzie pubbliche di cooperazione allo sviluppo dei Paesi europei e organizzazioni internazionali come l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (Oim) ma anche aziende private, come nel caso della società partecipata dal ministero dell’interno francese Civipol, che all’estero si è specializzata nella formazione delle forze dell’ordine. Il rifiuto della comunità di Sant’Egidio - In Mali, Paese il cui sviluppo è talmente legato alle rimesse dei migranti (800 milioni di dollari arrivati nel 2016 solo attraverso i canali ufficiali) da avere un ministero per i maliani all’estero, il Fondo fiduciario ha approvato un progetto da 25 milioni di euro per il consolidamento del registro di stato civile che prevede anche la creazione di un archivio informatico di dati biometrici - ovvero impronte digitali e altre caratteristiche biologiche - "utilizzabile per l’identificazione dei migranti maliani all’estero in situazione irregolare". Cioè per favorire i rimpatri. Lo stesso progetto sarà realizzato in Senegal con 28 milioni di euro. In entrambi i Paesi i fondi saranno gestiti dalla cooperazione belga e dalla società francese Civipol che si occuperà dell’informatizzazione dell’archivio. La comunità di Sant’Egidio - che inizialmente aveva accettato di fare da consulente per la sua expertise in materia di registrazione gratuita delle nascite - ci ha fatto sapere di aver ritirato la sua adesione. Questo poiché l’iniziativa per la creazione di registri di stato civile, presentata per diversi Stati africani, è stata approvata dal Trust Fund solo per il Mali e il Senegal - dove Sant’Egidio non ha sufficiente operatività sul territorio - e non in Burkina Faso dove il programma Bravo della comunità avrebbe bisogno di un nuovo impulso. Non sappiamo perché il progetto sia stato approvato dal Trust Fund in Mali e Senegal e non in Burkina Faso dove Sant’Egidio avrebbe bisogno di soldi proseguire nella sua attività finalizzata alla tutela dei bambini contro abusi come quelli dei matrimoni precoci. Sappiamo però che - a differenza del Burkina Faso - Mali e Senegal sono (insieme a Nigeria, Etiopia e Niger) Paesi considerati prioritari dall’Ue, per la stipula di accordi, i cosiddetti "compact" per favorire il controllo delle migrazioni e i rimpatri. Dimenticare i Paesi più poveri - "Così si rischia di concentrare gli aiuti verso i Paesi geograficamente interessati dalle rotte verso l’Europa dimenticando i Paesi più poveri" afferma Elly Schlein, eurodeputata italiana dell’Alleanza progressista di Socialisti e Democratici. "Io vorrei capire come progetti che sono tutti rivolti alla capacity building e al border management possano ridurre povertà e disuguaglianze, mi sembra che viceversa rischino di accrescerle ulteriormente" aggiunge l’europarlamentare, che guida il gruppo di lavoro "Migranti e rifugiati" nella commissione Sviluppo dell’europarlamento. Dopo la mobilitazione di Ong come Oxfam e Concord, il Parlamento ha criticato la Commissione per aver "sottratto stanziamenti agli obiettivi e ai principi degli atti fondamentali per erogarli attraverso il Trust Fund" denunciando come questo rappresenti "una violazione delle regole finanziarie e comprometta gli esiti delle strategie a lungo termine dell’Unione". In sostanza il Fondo Fiduciario - pur gestendo diversi miliardi di euro di soldi pubblici - non è sottoposto al controllo dell’organo democraticamente eletto dell’Unione. Le accuse del Parlamento vengono rifiutate dalla Commissione. Alle domande che abbiamo rivolto al commissario europeo allo Sviluppo, Neven Mimica, ha risposto il suo portavoce affermando che "l’Unione Europea riconosce un legame tra la sicurezza e lo sviluppo" e che il sostegno ad esso si concretizza in diverse modalità, compresa la formazione di forze dell’ordine e il loro equipaggiamento "con l’esclusione di attrezzatura letale". In riferimento allo spostamento dei fondi obietta: "L’operazione Trust Fund è in linea con le nostre procedure" e rivendica la trasparenza del Trust Fund citando il rapporto annuale che viene pubblicato. Le discrepanze nel rapporto - Gli interventi del Fondo Fiduciario si distinguono in base a quattro priorità: le prime due, ovvero "sviluppo economico" e "resilienza" prevedono azioni riconducibili alla lotta alla povertà come la creazione di posti di lavoro e l’offerta di servizi alle popolazioni in difficoltà, ma gli obiettivi 3 "gestione delle migrazioni" e 4 "governance" si riferiscono a interventi volti favorire il contrasto alle migrazioni irregolari e i rimpatri. Analizzando il Rapporto 2016 del Fondo Fiduciario abbiamo notato che le somme per obiettivi degli importi dei progetti pubblicati nell’allegato non corrispondevano, secondo i nostri calcoli, alle tabelle pubblicate nella prima parte. Sottoponendo questa discrepanza al team del Trust Fund ci è stato risposto che questo avviene perché i fondi destinati a progetti aventi più di un obiettivo sono stati considerati dagli autori del rapporto come interamente corrispondenti al primo obiettivo citato: per questo, nel report, il totale complessivo degli obiettivi 1 e 2 - ovvero quelli riconducibili alla lotta alla povertà - risulta più alto (e quello degli obiettivi 3 e 4 sulla gestione delle migrazioni risulta più basso) rispetto a quanto abbiamo ottenuto noi facendo una ripartizione equa tra gli obiettivi. I progetti del Trust Fund e le nuove rotte migratorie - Philippe Renault, direttore dell’Agenzia francese di cooperazione (Afc) - che in Niger gestisce con Civipol il progetto da 30 milioni di euro "Appoggio alla giustizia, alla sicurezza e alla gestione delle frontiere" - ci tiene a evidenziare ciò che distingue l’operato dell’agenzia che dirige da quello della società privata francese: "Noi lavoriamo al rafforzamento dell’agenzia nigerina per la lotta contro la migrazione irregolare mentre Civipol sostiene la polizia e forze dell’ordine". "A differenza di Civipol - aggiunge - noi mettiamo i fondi a disposizione del governo nigerino attraverso il ministero competente". Il progetto, che destina 20 milioni di euro al governo come "sostegno al budget", sei all’Afc e quattro a Civipol, mira all’applicazione della legge 36/2015 contro il traffico di persone. Questa legge, emanata dal governo del Niger a seguito di pressioni europee, ha determinato negli ultimi mesi da un lato la riduzione delle partenze verso la Libia dalla regione nigerina di Agadez - anche detta la "porta del deserto" per la sua posizione strategica lungo le rotte del Sahara - dall’altro l’affermarsi di percorsi alternativi che passano attraverso il Mali e il Chad. "Le rotte alternative che nascono dopo la chiusura dei passaggi tradizionali evitano i centri urbani e sono quindi più pericolose", aggiunge Olivier Neola, capo di Eucap Sahel Niger la missione della Commissione Europea per assistere e sostenere le forze di sicurezza nel Paese. "Grazie all’esperienza che abbiamo accumulato sul territorio, collaboriamo ai progetti del Trust Fund sul tema della sicurezza", afferma Neola. È avvenuto per il progetto da 41,6 milioni di euro per la creazione di "Gruppi di azione rapida" all’interno delle forze dell’ordine di cinque Paesi del Sahel (Burkina Faso, Mauritanie, Mali, Niger e Chad) gestito dall’agenzia di cooperazione spagnola Fiiapp. Secondo il budget indicativo che è stato pubblicato, 28 milioni di euro sono destinati alle attrezzature delle forze di sicurezza. Eucap Sahel Niger ha inoltre coordinato l’avvio del progetto - finanziato dal Trust Fund con 6 milioni - in cui le forze di polizia francesi e spagnole hanno collaborato per la creazione in Niger di un’équipe di polizia specializzata nel fare indagini sulle reti dell’immigrazione irregolare. Favorire i rimpatri - Intanto le raccomandazioni del Parlamento sulla necessità di non cambiare la finalità di fondi già stanziati sembrano ignorate dalla Commissione, che a settembre ha presentato il progetto di un Fondo Europeo per lo Sviluppo Sostenibile per favorire gli investimenti privati con particolare attenzione ai Paesi con cui c’è interesse a firmare accordi, i cosiddetti "compacts", per facilitare riammissioni e rimpatri. Si tratta di un fondo di garanzia di un miliardo e mezzo gestito dalla Banca Europea degli Investimenti, che riceverebbe un contributo Ue di 750 milioni cash a copertura del rischio. Dei 750 milioni di euro previsti per costituirlo, 400 dovrebbero essere presi, ancora una volta, dal Fondo Europeo di Sviluppo. Così il fondo costituito nel 1957 per favorire l’uscita dalla povertà delle ex colonie, poi diventato il principale strumento europeo per la lotta alla povertà (30,5 miliardi di euro nel periodo 2014-2020) viene sempre più spesso utilizzato per tenere i cittadini di quei Paesi lontani dall’Europa. *Questa inchiesta della giornalista freelance Ludovica Jona è stata finanziata dall’European Journalism Centre (Ejc) attraverso l’Innovation in Development Reporting Grant Programme (journalismgrants.org). Brasile. La folla assalta i ministeri, mobilitato l’esercito di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 25 maggio 2017 In centomila sfilano a Brasilia contro il presidente Temer, finito sotto inchiesta per corruzione. La scelta di affidare l’ordine pubblico all’esercito scatena la violenza: incendiati sette edifici pubblici e la cattedrale. La polizia spara, sette feriti. Il paese sembra sull’orlo del caos, ma il governo resiste. Il poliziotto si piega sulle gambe, ruota il braccio e punta la pistola di taglio verso la folla. Spara due colpi in rapida successione. Poi grida rivolto ai suoi colleghi: "Presto, ritiriamoci". Anche lui retrocede. Senza mai voltarsi indietro. Afferra una lastra di metallo, la usa come scudo. Si protegge dalla pioggia di sassi, bastoni, pietre e bottiglie incendiarie. La gente non si è resa ancora conto di quello che è successo. Solo quando qualcuno inizia a gridare e a chiedere aiuto, molti si accorgono che ci sono due persone ferite a terra. Colpite da proiettili. Veri. Di piombo. Qualcuno chiama i soccorsi, arrivano le prime ambulanze mentre i vigili del fuoco sono già in azione attorno e dentro il ministero dell’Agricoltura dove sono divampati degli incendi. Ma il fuoco ha attecchito anche quello della Sicurezza sociale e altri sette palazzi sono stati devastati. Brasilia, la capitale politica del Brasile, una città disegnata dai più famosi architetti del paese con uno stile che la rende quasi surreale, è stata al centro di una violenta battaglia tra 100 mila manifestanti e 5 mila poliziotti. Ci sono almeno 5 persone colpite da armi da fuoco. Tra questi un ambulante che si trovava nella zona e che non partecipava alla protesta. Un colpo di pistola gli ha attraversato la faccia all’altezza della mascella. Altre 44 risultano ferite, con tagli al volto, alle mani, alle braccia, sul corpo. Otto poliziotti sono stati ricoverati con ferite e contusioni. Il presidente del Brasile ha mobilitato l’esercito: 1500 soldati sono stati chiamati a difesa di tutti gli edifici pubblici e governativi fino al 31 maggio. Una scelta inedita, che ha fatto piombare il Brasile ai tempi della dittatura militare (1964-1985). Il provvedimento è a tempo. Ma Temer ha già detto che lo userà ogni volta che lo riterrà necessario. "Il presidente", sottolinea un comunicato di Planalto, "non esiterà ad esercitare l’autorità che la sua posizione gli consente. Non appena l’ordine sarà restaurato la misura sarà revocata". Incastrato da una registrazione audio nella quale si sente chiaramente che acconsente il pagamento di alcune tangenti, il presidente Michel Temer cerca di resistere ad una pressione sempre più vasta che chiede le sue dimissioni. Il Tribunale Supremo Federale, la massima istanza giuridica che valuta l’azione penale nei confronti delle alte autorità istituzionali, ha deciso di incriminarlo per tre gravi reati: corruzione passiva, intralcio alla giustizia e associazione a delinquere. Temer ha negato il suo coinvolgimento nell’ennesimo episodio di corruzione e ha rifiutato di dimettersi. Anzi: ha chiesto al Tribunale Supremo di avviare tutte le indagini necessarie e ha contestato la registrazione sostenendo che "aveva almeno 70 tagli". Un famoso perito da lui incaricato, assieme allo staff di avvocati che lo assiste, ritiene che la prova a questo punto non ha alcun valore giuridico. Il suo partito (PMDB) e quelli che lo sostengono stanno valutando l’ipotesi di un impeachment (ci sono già 8 richieste ufficiali) e l’avvio di un’elezione indiretta, cioè con il voto del Congresso. La Costituzione prevede, in caso di destituzione, la nomina a Capo dello Stato del presidente della Camera Convocato dai sindacati e dai partiti di opposizione con lo slogan "Fuori Temer, occupiamo Brasilia", il corteo si è snodato per le vie della capitale ed è stato il più imponente che si ricordi dai tempi dell’impeachment del presidente Fernando Collor nel 1992. Una volta giunti davanti allo stadio Mane Garrincha, i manifestanti si sono dispersi. Pochi minuti dopo è arrivata la notizia che Temer aveva deciso di mobilitare l’esercito per le strade. Un folto gruppo di manifestanti si è diretto verso la zona dove sorgono i ministeri e il Congresso. Armati di bastoni e di pietre, il volto coperto, protetti da scudi di metallo e di plexigas hanno raggiunto le sedi istituzionali. Divisi in gruppi sono entrati in alcuni ministeri e hanno devastato gli interni. Sono stati appiccati degli incendi che ben presto hanno attecchito le suppellettili. Anche la cattedrale è andata a fuoco m i danni sono contenuti. La polizia è intervenuta ma ha trovato una dura resistenza. Anche perché, nel frattempo, altre migliaia di persone avevano raggiunto il gruppo di anarchici e di black bloc e hanno iniziato a costruire a lanciare le prime molotov. Gli scontri si sono presto trasformati in una battaglia furibonda. Gli agenti hanno sparato centinaia di candelotti lacrimogeni e presto qualcuno ha tirato fuori le pistole. Oglobo pubblica una foto in cui viene immortalato uno dei poliziotti che spara con la sua pistola. La magistratura ha deciso di avviare sette indagini. Sull’uso delle armi da parte degli agenti e sulle devastazioni. Il clima è tesissimo. Il governo rischia di cadere da un momento all’altro. Resiste solo per far passare le riforme del lavoro e delle pensioni ma può contare su una maggioranza sempre più sfilacciata, su un presidente azzoppato dalla corruzione e da un paese, a stragrande maggioranza, che non lo vuole più. Egitto. Giulio Regeni, sono passati 16 mesi e la verità è ancora lontana di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 maggio 2017 Sedici mesi fa, il 25 gennaio 2016, Giulio Regeni scompariva al Cairo, risucchiato dalla macchina repressiva degli apparati di sicurezza egiziani. La campagna per conoscere la verità sulla sua terribile fine va avanti, mentre si susseguono le voci favorevoli alla "normalizzazione" dei rapporti tra Italia ed Egitto: voci pronte a sacrificare la ricerca della verità, anche se cinicamente ripetono che il ritorno dell’ambasciatore al Cairo quella ricerca la favorirebbe. Come, non lo spiegano. Perché non è quello il loro obiettivo. Si parlerà anche di questo, stasera, nel programma "Carta Bianca" di Rai 3 dedicato a Giulio Regeni. Le indagini al Cairo non fanno segnare passi avanti. Nonostante la reiterata volontà di andare avanti fino a quando non si arriverà alla verità (parola che lì ha evidentemente un significato diverso che a Roma), le autorità egiziane paiono dedicare i loro maggiori sforzi alla persecuzione dei difensori dei diritti umani e delle organizzazioni della società civile. Al Cairo, va avanti l’inchiesta avviata nel 2011 (l’ormai noto caso n. 173) contro le Ong accusate di aver ricevuto finanziamenti dall’estero. Il caso n. 173 ha fin qui determinato: 18 divieti di viaggiare all’estero per altrettanti attivisti per i diritti umani, tra cui lo stesso Zaree; la chiusura del Centro El Nadeem, la principale Ong per le vittime della tortura e della violenza di genere; il congelamento dei conti bancari di molte Ong; una serie di incriminazioni per reati contro la sicurezza per i quali è previsto l’ergastolo (pena che in Egitto è sempre commutata in 25 anni di carcere); l’approvazione di una nuova legge sulle Ong; una campagna diffamatoria di stampa contro attiviste per i diritti delle donne, accusate di "diffondere idee irresponsabili sulla liberazione delle donne"; e, alla fine dello scorso anno, l’arresto di Azza Soliman, fondatrice del Centro di assistenza legale alle donne, ora a piede libero in attesa di processo. Rischia fino a 15 anni per aver denunciato che in Egitto lo stupro è una pratica più che quotidiana. Lo scorso fine settimana è accaduto a Roma un fatto gravissimo: i partecipanti egiziani a una riunione di lavoro, interna e mai pubblicizzata, di Euromed Rights, un’autorevole rete euro-mediterranea per i diritti che riunisce 70 organizzazioni di società civile europee, del Nordafrica e del Medio Oriente, sono stati spiati fin dall’arrivo all’aeroporto di Fiumicino, seguiti nello spostamento all’albergo, fotografati per tutto il tempo della riunione. Il 22 maggio articoli diffamatori sono apparsi su numerosi quotidiani egiziani, accompagnati dalle foto scattate a Roma. Accusano fra l’altro i partecipanti egiziani di aver preso parte a un incontro teso a "pianificare uno stato di caos e di instabilità in Egitto nel prossimo periodo, prima delle elezioni presidenziali". Il 23 maggio uno dei partecipanti alla riunione di Roma, l’avvocato Khaled Ali, è stato arrestato per il pretestuoso motivo di un "gesto osceno con la mano" fatto durante una manifestazione nel mese di gennaio. Rilasciato su cauzione, va a processo il 29 maggio. Rischia un anno di carcere e la rinuncia alla candidatura alle elezioni presidenziali del 2018. Egitto. "Insulto alla decenza", arrestato lo sfidante di al-Sisi alle elezioni di Chiara Cruciati Il Manifesto, 25 maggio 2017 Khaled Ali, avvocato per i diritti umani e fondatore del partito Pane e Libertà, è stato rilasciato dopo 24 ore ma andrà a processo. Il suo caso non è il solo, parte di una campagna preventiva per eliminare le opposizioni dalla corsa. A due giorni dalla rinnovata investitura trumpiana del presidente golpista al-Sisi (incensato a ogni piè sospinto, "un ragazzo fantastico" suole ripetere il presidente Usa), martedì le sbarre di una prigione si sono aperte per Khaled Ali. Avvocato per i diritti umani tra i leader di piazza Tahrir, ex candidato alle elezioni presidenziali del 2012 (vinte dal rappresentante dei Fratelli Musulmani, Morsi, poi deposto), fondatore del partito di sinistra Pane e Libertà, Ali aveva annunciato l’intenzione - ancora non ufficiale - di candidarsi alle presidenziali del prossimo anno, stavolta contro al-Sisi stesso. Insomma, in un uomo solo tutte le possibili minacce all’autoritarismo del Cairo: la rivoluzione di sei anni fa, le rivendicazioni della sinistra e delle organizzazioni per i diritti umani che si battono contro la repressione di Stato e ora anche la sfida alla poltrona presidenziale. Ieri dopo 24 ore di fermo la procura generale ne ha ordinato la scarcerazione dietro pagamento di una cauzione di mille sterline, circa 50 euro, e fissato la prima udienza del processo per il 29 maggio. Rischia due anni e una multa di 5mila euro, oltre ovviamente al divieto a candidarsi. Gli avvocati hanno denunciato l’impossibilità di vedere gli atti di accusa e di esserne quindi all’oscuro. Pare, però, che i motivi dell’arresto risalgano alla lunga battaglia popolare di un anno fa contro la cessione delle isole egiziane di Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita: decisa da al-Sisi durante la visita di re Salman, era stata aspramente contestata dal popolo egiziano che dopo tre anni dal golpe tornava nelle piazze unito contro il governo. Il 16 gennaio scorso la Corte suprema amministrativa ha annullato l’accordo (che si è impegnato fin dall’inizio, presentando insieme ad altri avvocati ricorso contro il "regalo" a Riyadh): in quell’occasione sarebbe stato fotografato mentre faceva un presunto gesto "osceno" mentre veniva portato in spalla dai suoi sostenitori. Lo fa sapere il suo avvocato, Malek Adli, anche lui tenuto prigioniero per mesi lo scorso anno. "È tutto connesso alla sua attività politica e per i diritti umani - ha commentato Adly, membro dello stesso partito - Veniamo puniti per le nostre politiche pulite e, sì, intendiamo candidarci, per questo subiamo questi attacchi". L’accusa, dunque, è "offesa alla pubblica decenza". Ma il suo caso non è unico: nelle ultime settimane 36 persone sono state arrestate in 17 città con accuse varie, tra cui insulti alla presidenza e incitamento alla violenza contro lo Stato via social network. Sono tutti membri di partiti di opposizione (Pane e Libertà, Dostour, il Movimento 6 Aprile, i Socialisti rivoluzionari e il partito Social-democratico). Per le opposizioni non si tratta che di una campagna repressiva preventiva in vista del voto del prossimo anno: fare piazza pulita delle voci contrarie per evitare sfidanti. Congo. La grande fuga dalle prigioni di Armand Djoualeu Città Nuova, 25 maggio 2017 Il grande carcere Makala, il più vasto e sovraffollato della capitale Kinshasa, è stato attaccato la settimana scorsa da un gruppo armato i cui membri rivendicano di essere partigiani di un "guru" incarcerato qualche mese fa. Alcuni membri della setta separatista cristiana Bundu dia Kongo ("Regno del Congo" in kikongo, o BDK) mercoledì 17 maggio hanno attaccato il carcere il cui il loro capo, il parlamentare e profeta autoproclamato Ne Muanda Nsemi, era stato recluso. Secondo quanto annunciato da un portavoce del governo, hanno liberato lui e una cinquantina di altri detenuti. Ma il bilancio sarebbe ancora più grave. Secondo alcune fonti, i detenuti che mancano all’appello a Makala sarebbero 3300 su 8 mila. A tale cifra bisogna aggiungere le donne e i minorenni. "Su 155 detenute, 151 sono evase. E su 302 minori, mercoledì sera non ne rimanevano che 165". I ribelli, armati pesantemente, hanno attaccato Makala alle 3 del mattino. I guardiani non hanno potuto fare nulla, e molti sono rimasti uccisi. Il commando "ha aperto le celle di undici padiglioni della prigione", ci ha confermato u testimone, e bande intere di detenuti si sono subito dati alla fuga. Diversi settori sensibili della prigione sono stati incendiati, come l’ufficio di polizia, quello del direttore, nonché tutti i veicoli parcheggiati all’interno. All’indomani dell’attacco, a Kinshasa regnava l’inquietudine. Tra le migliaia di evasi ci sono infatti autentici criminali, e giovani molto violenti. Di fronte a questa situazione, il portavoce della polizia ha pubblicato un comunicato in cui si affermava, senza grande precisione, che "molte persone pericolose e autori di crimini aberranti si sono volatilizzati nella foresta". Il capo del BDK, fondato negli anni Ottanta, era stato arrestato nel marzo scorso in seguito a violenti scontri tra i suoi sostenitori e le forze di sicurezza. Originario del Congo centrale e deputato di Kinshasa, Ne Muanda Nsemi aveva lanciato via internet un appello all’insurrezione contro il potere di Joseph Kabila, di cui nega la nazionalità congolese. Era stato perseguito insieme ad altri per "offesa contro il Capo dello Stato, incitazione all’odio tribale, provocazione alla disobbedienza civile". Era in attesa del processo. Da qualche mese, numerosi focolai di violenza destabilizzano il Paese. Nel Kasaï, al centro della Repubblica, Kinshasa combatte la ribellione Kamwina Nsapu. Secondo il regime, da settembre almeno 400 persone sarebbero rimaste uccise, di cui 67 tra poliziotti e militari. Bundu Dia Kongo si batte per la restaurazione del regno Kongo, che ha avuto il suo apogeo nel XVI secolo e la cui autorità di estendeva sull’attuale Congo centrale e alcuni territori oggi appartenenti all’Angola, al Congo Brazzaville e al Gabon.