Mio papà è stata una di quelle persone che sembravano irrecuperabili di Suela M., figlia di Dritan Ristretti Orizzonti, 24 maggio 2017 Una riflessione dopo la Giornata di Studi "Nessuno cambia da solo". Nessuno cambia da solo: il primo segno di forza è chiedere aiuto, chi chiede aiuto è perché vuole farcela, e sa di potercela fare, ma in quel momento della sua vita ha bisogno di una spinta da parte di qualcuno. Chiedere aiuto non è essere dei perdenti, ma voler diventare dei vincitori. Non è solo un "devo" farcela, ma è soprattutto un "posso e voglio farcela". Mio papà è stata una di quelle persone che sembravano irrecuperabili, perché, nonostante la sua grande intelligenza, era una persona con un carattere difficile. Ha cambiato molte carceri proprio per questa ragione, ma da quando è a Padova, da quando è entrato nella redazione di Ristretti Orizzonti, è iniziata la sua guerra interiore. Prima di allora, lui si era solo parcheggiato in galera, senza riflettere a ciò che aveva commesso, stava solo aspettando di uscire, un po’ come si aspetta l'autobus. A me come figlia, mi consolava e mi diceva "non ascoltare nessuno quando ti parlano di me, sono tutte bugie, un giorno ti racconterò". E cosi ho fatto. Mio padre, ha parlato della sua storia davanti a me circa cinque anni fa, dopo quindici anni di detenzione, davanti a 700 persone e penso che l'abbia fatto nel miglior modo possibile, perché l'ho interpretata come un "Suela, ascoltami, e ascoltatemi tutti, cosi mia figlia non è tenuta a dare spiegazioni, lo faccio io". Finalmente qualche anno fa ha iniziato ad avere dei permessi. All'inizio delle sue uscite, ero in conflitto con me stessa perché non era come lo avevo immaginato io, era tutto molto difficile, perché era una persona che stava facendo i suoi primi passi fuori dalla galera, dove aveva trascorso 20 anni della sua vita. Vent'anni alternati tra speranza e disperazione. Ha vissuto quasi tutta la mia vita lontano da me, non mi ha potuta crescere, non ha potuto esserci e penso che, come io soffro per il vuoto che ho dentro, sia lo stesso per lui. Oggi posso dire che mio padre ha fatto passi da gigante, posso dire di essere orgogliosa per la persona che è diventata, per il padre che è, e posso finalmente girare a testa alta perché non solo ha pagato, ma ha capito ed è cambiato. Per i detenuti non è facile parlare davanti a tantissime persone, raccontare la propria storia, metterci la faccia e pure quella delle proprie madri e dei figli. I figli che hanno parlato, durante il convegno sono stati tanti, tante donne, come me, donne giovani che hanno avuto un vuoto nell'anima per l'assenza del padre, donne che si sono dovute fare forza e andare avanti. Fa tenerezza vedere queste ragazze che cercano di aiutare i loro papà nel miglior modo che si possa fare, raccontando dell'amore che hanno per loro. La domanda che chiunque si può porre è: come fai a voler bene a tuo padre se non ti ha cresciuto? Francesca Romeo è una delle tante figlie che è cresciuta senza un padre, ma lo descrive come se fosse un eroe, come se fosse il padre migliore del mondo. Fa strano, è vero, ma se andassimo più a fondo e analizzassimo con più attenzione capiremmo che suo padre, anche se è stato assente perché era in galera, può essere una persona che ha tante qualità come genitore, può essere un uomo che con quel poco tempo a disposizione durante i colloqui, e telefonicamente, è riuscito a trasmettere a sua figlia tutto l'amore che ha potuto, ed è per questo che sua figlia dice "si, è vero che ha sbagliato, ma come papà è stato il più bravo del mondo". Ed è sicuramente cosi, perché noi figli non ci ricordiamo di quanti giochi abbiamo ricevuto, ma di quanto amore ci hanno dato i nostri genitori ed è questo che rimane nei nostri cuori e nei nostri ricordi. Il dolore nasce dal fatto che lei il suo papà non solo non ha mai potuto averlo vicino, forse, non potrà nemmeno mai rivederlo fuori dalle sbarre perché ha un ergastolo ostativo. Il papà è la persona che ti dà tutto l'amore che un figlio desidera, l'educazione che ci porteremo dietro per tutta la vita, il senso di protezione di cui ogni figlio ha bisogno, l'uomo che ci rende orgogliosi per tutto quello che fa. Ma che cosa significa vivere tutta la vita privandosi di questo amore, e vivere con un padre in galera? Significa vivere a metà. Vorrei anche esprimere tutta la mia solidarietà a Sara Papalia, e dirle che io mi sono nascosta per vent'anni dall'assumermi la responsabilità di ammettere con le persone a me vicine che mio padre fosse un detenuto, per la paura di essere giudicata, per la paura di essere additata come "la figlia di", per la paura di subire le discriminazioni che ha dovuto subire lei, senza aver commesso nessun reato. Trovo a dir poco disumano, che una ragazza cosi giovane debba essere discriminata, che non si possa creare un futuro, che non possa nemmeno aprirsi un'attività, perché suo padre è in galera. Non basta già il dolore di questa ragazza? Non basta che suo padre stia pagando? Il senso di impotenza, il dolore che si prova non si può descrivere ma voglio pensarla come Fabio Cavalli: "La vita presenta degli ostacoli, che devo superare per arrivare a qualcosa che mi gratifica". ...più che un convegno, è uno scambio di emozioni... Grazie. Al via un progetto europeo contro la radicalizzazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 maggio 2017 Presentato dal ministero della Giustizia. Il fenomeno della radicalizzazione all’interno degli istituti penitenziari è oramai noto da tempo. Tante sono state le iniziative per combattere il proselitismo che avviene all’interno delle carceri dove accade che detenuti reclusi per piccoli reati rischiano di "radicalizzarsi". Il nucleo investigativo della polizia penitenziaria include quattro gruppi di detenuti musulmani ritenuti pericolosi. Oltre a coloro che sono reclusi per reati di terrorismo, ci sono i "leader", ossia criminali comuni che hanno aderito all’ideologia jihadista e nelle celle sono diventati riferimenti carismatici, adeguati per il proselitismo; mentre, fra i criminali comuni, quelli considerati più vulnerabili e disponibili a diventare prede facili per i reclutatori, vengono definiti "follower". Infine c’è la categoria dei "criminal opportunist", ovvero quelli che entrano in contatto con i radicalizzati per offrire loro servizi logistici come i documenti falsi. Nel frattempo, la Commissione europea ha dato il via libera del progetto europeo Train Training (Transfer Radicalisation Approaches in Training) presentato dal ministero della Giustizia e ne coprirà quasi totalmente i costi con un finanziamento di circa 600mila euro. Al progetto, elaborato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, con il coordinamento del gabinetto, hanno aderito come partner l’università Orientale di Napoli, il centro di ricerca universitario sulla criminalità transnazionale (Transcrime), l’università di Padova, l’Isisc - Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali, la scuola superiore della magistratura, il ministero dell’Interno e, a livello internazionale, l’autorità bulgara competente per l’amministrazione penitenziaria e la scuola superiore della magistratura belga. Prevista anche la collaborazione del ministero della Giustizia tunisino e dell’Epta (Network of European Penitentiary Training Academies), in qualità di partner non beneficiari di sovvenzioni. Fra le finalità del progetto, che ha una durata di 24 mesi e coinvolgerà circa 2.800 operatori, il miglioramento della conoscenza della radicalizzazione violenta, dei segnali e dei mezzi di prevenzione e contrasto, sia in Italia che nei paesi partner; l’uso "a regime" di un nuovo protocollo di valutazione del rischio volto alla creazione di un metodo di lavoro comune a tutti i soggetti che, a diversi livelli, intervengono nell’intercettazione, presa in carico e gestione dei soggetti a rischio di radicalizzazione violenta o già radicalizzati, anche attraverso la costruzione di un sistema di scambio delle informazioni utili alla prevenzione e al contrasto del terrorismo e la ricognizione di metodi di lavoro già eventualmente avviati dai paesi partner di progetto; la formazione del personale front-line incentrata sull’apprendimento e l’uso di metodi di counselling e di contro-narrativa. Intanto è ferma da oltre un anno e mezzo il testo di legge proposto dai deputati Stefano Dambruoso (Scelta Civica) e Andrea Manciulli (Pd) che prevede misure volte a prevenire i fenomeni di radicalizzazione e di diffusione dell’estremismo jihadista, nonché a provvedere al recupero umano, sociale, culturale e professionale di soggetti già coinvolti in fenomeni di radicalizzazione. Tali misure si inseriscono nell’ambito delle politiche di contrasto e repressione del terrorismo che sono state oggetto di recenti interventi legislativi a fronte dell’innalzamento della minaccia a livello internazionale. Rispetto alle misure da ultimo introdotte nell’ordinamento italiano, in particolare con il decreto anti terrorismo, le disposizioni contenute nella proposta in esame intendono privilegiare l’attivazione di strategie di prevenzione e di recupero, in linea con le indicazioni emerse anche dall’ Unione europea. La legge è composta da sette articoli. Il primo individua le finalità della proposta di legge nel disciplinare misure, interventi e programmi diretti a prevenire i fenomeni di radicalizzazione e di diffusione dell’estremismo a sfondo jihadista alla base degli eventi terroristici su scala internazionale. Il testo non definisce cosa debba intendersi per "radicalizzazione", implicitamente rinviando al significato comune del termine: la passata risoluzione approvata dal parlamento europeo precisa che tale termine è ormai utilizzato per descrivere "un fenomeno che vede persone abbracciare opinioni, pareri e idee intolleranti suscettibili di portare all’estremismo violento". Il primo articolo della proposta di legge comunque ribadisce che è compito della Repubblica favorire la deradicalizzazione e il recupero umano, sociale, culturale e professionale dei soggetti, coinvolti nei fenomeni di radicalizzazione. La stessa disposizione individua i cittadini italiani o stranieri residenti in Italia quali destinatari delle citate misure di recupero. Il secondo articolo prevede attività di formazione specialistica per gli appartenenti alle Forze di polizia da individuare con decreto del Ministro dell’interno. Tale formazione deve, in particolare, mirare a coadiuvare il personale a riconoscere e a interpretare i segnali di radicalizzazione dell’estremismo jihadista al fine di valutare la necessità di intervenire con conseguenti iniziative. L’articolo 3 della proposta prevede l’istituzione, presso il ministero dell’Interno, di un sistema informativo sui fenomeni di radicalismo jihadista. L’istituzione del sistema è finalizzato sia al recupero sociale dei soggetti esposti ai rischi di radicalizzazione, sia alla tutela della sicurezza pubblica. Il comma 3 della legge stabilisce, a sua volta, che spetta agli organi di pubblica sicurezza, ai comuni e agli uffici scolastici regionali la segnalazione alle questure delle situazioni e dei soggetti che possono essere ricondotti ai fenomeni di radicalizzazione e di diffusione dell’estremismo a sfondo jihadista per l’adozione dei "necessari provvedimenti anche preventivi". Il quarto articolo dispone interventi finalizzati a prevenire episodi di radicalizzazione nell’ambito scolastico. In particolare dispone che l’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’intercultura elabori, entro 6 mesi dalla data di entrata in vigore della legge, linee guida sul dialogo interculturale e interreligioso. L’articolo cinque punta sul lavoro. Prevede interventi nell’ambito delle politiche attive del lavoro per l’inserimento nel mondo del lavoro dei soggetti a rischio, individuati dal sistema informativo sui fenomeni di radicalismo jihadista, disponendo il loro accesso a cooperative sociali e promuovendo percorsi mirati di inserimento. Più nel dettaglio, il testo di legge amplia la nozione di "persone svantaggiate" che possono accedere alle cooperative sociali che svolgono attività finalizzate al loro inserimento lavorativo, comprendendovi anche i soggetti esposti ai rischi di radicalizzazione e di estremismo jihadista individuati dal sistema informativo sui fenomeni di radicalismo jihadista. Il sesto articolo della proposta di legge prevede la realizzazione di un portale informativo sui temi della radicalizzazione e dell’estremismo diretto a diffondere l’informazione e la conoscenza della cultura della convivenza pacifica tra le religioni, le razze e gli orientamenti politici del mondo, nonché il principio dell’uguaglianza di genere. Nell’individuare i temi del portale, la disposizione richiama alcuni articoli della Costituzione, in particolare: l’articolo 3 sul principio di uguaglianza; l’articolo 29 sui diritti della famiglia fondata sul matrimonio; l’articolo 31 sulle misure in favore della famiglia; l’articolo 37 sulla parità tra lavoratrici e lavoratori; l’articolo 51 sulla parità di genere nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. L’articolo sette prevede, con l’aiuto del garante nazionale dei detenuti, l’adozione di un piano nazionale per garantire ai cittadini italiani o stranieri coinvolti nei fenomeni di radicalizzazione jihadista, che siano condannati e dunque debbano scontare una pena in carcere, un trattamento penitenziario che tenda, oltre che alla loro rieducazione, anche alla loro deradicalizzazione. Le sbarre nei sogni d’infanzia. Vite di donne e bimbi reclusi di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 24 maggio 2017 Le loro carceri. L’Università Roma Tre organizza un corso di studi nel braccio femminile di Rebibbia. Nel penitenziario romano Erri De Luca e Piero Pelù hanno presentato il film "Tu non c’eri". Sarebbe bello un giorno avere tempo, tanto tempo, per raccontare le storie, tragiche, assurde, tristi di chi finisce in carcere. Biografie che ci aiuterebbero a comprendere fino in fondo quanto il sistema penale sia selettivo, classista, crudele, cieco. Le storie di donne detenute sono ancora più esemplari, rispetto a quelle dei maschi. Le donne in carcere sono meno del 5% dell’intera popolazione detenuta. In quanto poche, si potrebbe partire da loro nella costruzione di un grande archivio di storie di vita spezzate dalla reclusione. Il carcere femminile è per sua natura meno rude di quello maschile. Le storie che si incontrano non sono però meno tragiche. Vi si trovano donne condannate ingiustamente in quanto ritenute complici di reati infami, mogli di uomini anche loro ristretti in prigione, madri di bambini i quali a volte vivono fuori con i loro nonni altre volte sono dentro nei primi anni di vita reclusi, da innocenti, insieme alle loro mamme. Se si trascorre una settimana in una prigione di storie se ne incrociano tante. Questa opportunità è stata data a me e a trenta studenti dell’Università di Roma Tre iscritti al corso di "prison law clinic", un corso nel quale si studiano casi e si cercano risposte, soltanto a volte legali, più spesso di buon senso. Nel carcere femminile di Rebibbia abbiamo tenuto un intero corso universitario grazie alla disponibilità della direttrice e di operatori che non si sono fatti consumare dal burnout che colpisce chi lavora in luoghi così duri e stressanti e hanno mantenuto intatte motivazioni e passione. Motivazioni e passione che, in quei giorni densi e ricchi, sono stati trasmessi a giovani studenti, anche loro motivati e appassionati. Sperando che un giorno venga bandito un nuovo concorso per direttore penitenziario. Sono vent’anni che non si assume nessuno. A Rebibbia Femminile ci sono 330 donne detenute di cui più della metà straniere. Tutti i giorni gli agenti di polizia penitenziaria ci accoglievano in portineria, prima sorpresi e poi simpaticamente abituati a questo gruppo di ragazze e ragazzi che andavano a studiare in prigione, dotati di sola penna e quaderno, come nei tempi passati, visto che dentro cellulari, tablet e pc non potevano essere portati. La classe era nel reparto detentivo e ogni giorno educatrici, insegnanti, detenute ci hanno raccontato storie vere. Storie di processi finiti male, di detenute che vogliono ritornare nel loro Paese d’origine ma, nonostante tutta la retorica più becera sull’immigrazione, non ce le mandano, di detenute straniere che invece vorrebbero restare in Italia e che probabilmente a fine pena saranno espulse. Pochi giorni prima a Regina Coeli, carcere maschile, davanti agli occhi stupiti e dispiaciuti della stessa direzione un detenuto peruviano, definito detenuto modello, tanto che gli era stato concesso di lavorare all’esterno, con due figli che vivono in Italia, è stato espulso. Aveva prospettive di lavoro concreto una volta espiata la pena. Fuori aveva due figli da mantenere e da amare. Ma la legge è inflessibile. Via dall’Italia. Altro che bel Paese. Altro che pena che deve tendere alla rieducazione. Ora i figli sono in Italia e lui in Perù. È stato così realizzato un capolavoro di umanità. "Ero straniero, l’umanità che fa bene" è una campagna, promossa tra gli altri dalla radicale Emma Bonino e don Virgilio Colmegna, per una legge di iniziativa popolare che vuole cambiare la narrazione sull’immigrazione, modificando le parti peggiori della legge Bossi-Fini. La nostra politica sull’immigrazione, stupida e cattiva, caccia chi vuole restare e trattiene chi se ne vuole andare. Nel carcere femminile di Rebibbia l’atmosfera non è pesante. Chi lo dirige prova a trasmettere calma e serenità. Quando Piero Pelù ed Erri De Luca hanno presentato un cortometraggio tratto dal bellissimo racconto "Tu non c’eri" intorno al rapporto padre-figlio, nel teatro si respirava un’aria libera, normale, non di censura. Le detenute prendevano la parola e dicevano quel che loro pareva, le poliziotte cantavano insieme a Pelù che si accompagnava con la chitarra elettrica di mio figlio Nicola, che l’aveva lasciata scordata. Uno squarcio di vita normale, non finto o artefatto. Di solito ciò in un carcere accade quando dentro non regna la paura. Bisogna sempre diffidare di un istituto dove regna il silenzio perché vuol dire che quella prigione è governata con il terrore. Mentre gli studenti di Roma Tre seguivano il loro corso universitario, le detenute andavano a scuola. Una di loro, di origine rom e non giovanissima, ci ha raccontato in modo entusiasta le mille cose imparate nella loro classe di scuola media. Ci diceva che per la prima volta si trovava dietro un banco di scuola. È questo un carcere modello? Carcere modello è una brutta parola. Il carcere è sempre carcere. Non può che essere sofferenza, essendo inevitabilmente una pena. È privazione non solo della libertà. Ma ha il dovere di non imporre sofferenze inutili, ulteriori, gratuite. Purtroppo in molte carceri d’Italia, invece, si pensa che i custodi siano arbitri della vita dei loro custoditi. Quando capita invece di trovare chi gestisce un carcere secondo ragionevolezza, ispirandosi ai principi di responsabilità e normalità, ci si sorprende. Studiare fa bene. Eppure non è mai stato indagato in Italia il rapporto tra sicurezza e educazione, tra l’istruzione in carcere e il tasso di recidiva. Gli studi statistici sulla recidiva sono pochi e non sempre approfonditi. MI è capitato di incontrare professori universitari, indignati e seccati perché costretti ad andare a fare esami in carcere. Non sempre l’accademia considera le carceri luoghi di insegnamento. A Roma, fortunatamente, invece, ciò avviene. Grazie alla determinazione del prof. Marco Ruotolo, l’Università di Roma Tre ha addirittura organizzato un Open Day presso il carcere romano di Rebibbia (quello maschile questa volta) in modo da illustrare ai detenuti la complessa offerta formativa proposta. Un’offerta che si compone di tanti tasselli. Una offerta alla quale potranno aderire anche le donne, sperando che un giorno si superi lo steccato e possano studiare, maschi e femmine, in una stessa aula. Nella vita normale, d’altronde, ciò accade. Processo penale, le ragioni di Orlando sulla riforma urgente di Ennio Fortuna Il Gazzettino, 24 maggio 2017 Il ministro della giustizia Orlando in un'intervista ad un quotidiano ha detto senza mezzi termini che è necessario e urgente porre la fiducia al disegno di legge sulla riforma del processo penale perché altrimenti esiste il rischio che tutto vada in fumo e sono anni che si discute sul progetto. Effettivamente il rischio è reale e la preoccupazione è fondata. È vero che alla Camera il Pd dispone di un’ampia maggioranza ciò che dovrebbe metterlo al riparo da ogni pericolo, ma è altrettanto vero che il Pd sembra attualmente il solo partito disposto a sostenere il progetto, mentre anche nelle file della maggioranza si aprono dubbi e perplessità. Orlando ha ragione. Se accadesse che anche un solo articolo degli oltre quaranta fosse modificato rispetto al testo approvato dal Senato il progetto dovrebbe di nuovo tornare a Palazzo Madama e con la legislatura ormai in dirittura di arrivo nessuno potrebbe più garantire il successo. In realtà il progetto piace a pochi, soprattutto non piace alle opposizioni e agli avvocati che lo contestano proprio nei punti più importanti: l’inasprimento delle pene per alcuni reati contro il patrimonio e l’allungamento dei termini per la prescrizione. Il ministro Orlando sostiene che il progetto è da sostenere soprattutto perché prevede l’allungamento dei termini di prescrizione, modifica secondo lui indispensabile e improcrastinabile specie se si riflette sul numero dei reati estinti ogni anno per il decorrere dei termini. Non c’è dubbio che le preoccupazioni di Orlando trovino fondamento nella realtà di ogni giorno. Gli avvocati dicono che i termini di prescrizione in Italia sono già ampi e che ogni dilatazione ulteriore avrebbe luogo ai danni della civiltà del diritto, ma si guardano bene dal ricordare e dal commentare il numero spropositato di processi che vanno in fumo in ogni distretto e in Cassazione. Sinceramente l’argomentazione dei legali potrebbe essere fondata in una situazione ideale dell’ordinamento in cui ogni processo venisse celebrato sollecitamente e altrettanto sollecitamente eseguita la sentenza di condanna. Ma non è così, come gli avvocati sanno meglio di chiunque. Le strutture giudiziarie non sono in grado, oggi come oggi, di portare a termine i processi con la sollecitudine indispensabile, e, ulteriore stortura logica nella stortura, il sistema comporta anche, e piuttosto spesso, la necessità di dare la precedenza ai processi per reati meno gravi che si prescrivono prima. La conseguenza, del tutto irrazionale, è che le prescrizioni falcidiano in massa ogni tipo di processo e la situazione rischia di aggravarsi ancora per effetto della inadeguatezza sempre più pesante delle risorse personali e materiali. In realtà l’attuale progetto è frutto di un compromesso al ribasso rispetto a quelli, sostenuti dai magistrati anzitutto, che prevedevano il blocco della prescrizione con la condanna di primo grado, così come accade in diversi ordinamenti. Si è così stati costretti a contentarsi solo di un’aggiunta di tre anni per i processi nella fase dell’impugnazione, verosimilmente insufficiente, ma comunque meglio di niente. Se il progetto cade, tutto torna in bilico e si dovrà riparlarne con la prossima legislatura, e nessuno può dire che cosa accadrà. Analoga e forse ancora più grave è la preoccupazione per le intercettazioni telefoniche per le quali è prevista una delega al governo per la regolamentazione sulla linea delle iniziative adottate dalle maggiori procure. Il punto centrale e anche quello più discusso si riferisce alla divulgazione delle telefonate irrilevanti. In realtà, a termini di Costituzione, tutte le telefonate dovrebbero rimanere riservate, comprese quelle rilevanti e tra indagati. Ma almeno quelle certamente prive di rilievo penale dovrebbero essere tutelate con il massimo rigore. Ma anche quest’aspetto del disegno di legge rischia di cadere nel nulla se non lo si approva prima della fine della legislatura. A volerla dire con assoluta brutalità oggi come oggi si lotta per salvare il salvabile. E spero proprio che il punto di vista di Orlando alla fine prevalga. I problemi della giustizia rimarranno gravi e numerosi, ma almeno potremo dire che la situazione non peggiorerà. Penalisti in sciopero: "il processo non può allungarsi all’infinito" di Tommaso Montesano Libero, 24 maggio 2017 "Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta". La riforma del processo penale arriva nell’Aula di Montecitorio, ma la discussione dura poco: il tempo di dare la parola ai relatori di maggioranza e minoranza. Poi il presidente di turno dell’assemblea, Roberto Giachetti, chiude il confronto. Tutto questo mentre l’Unione delle Camere penali, la sigla che riunisce i circa 10mila avvocati penalisti italiani, dà il via alla nuova agitazione contro il progetto di legge. Da ieri e fino al 25 maggio, i legali si asterranno dalle udienze. Si tratta del quarto pacchetto di scioperi da quando, due mesi fa, è iniziata la mobilitazione contro le modifiche all’esame del Parlamento. E potrebbe non essere finita qui, soprattutto se fosse confermato l’orientamento dell’esecutivo di respingere gli emendamenti alla riforma. Un’azione alla quale i penalisti hanno affiancato la raccolta delle firme per la presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare per l’introduzione della separazione delle carriere. Partita il 4 maggio, l’iniziativa ha ottenuto oltre 21mila sottoscrizioni. L’Ucpi rivendica il successo dell’agitazione, che ha raccolto un’"adesione massiccia", con "centinaia di processi fermi in tutta Italia". L’associazione dei penalisti, presieduta da Beniamino Migliucci, contesta in particolare due aspetti dell’articolato: l’udienza "a distanza, che violerebbe i presupposti di immediatezza e oralità del processo", e "l’allungamento dei tempi della prescrizione. Il processo deve avere una ragionevole - non un’infinita - durata". Due punti che i penalisti vorrebbero modificare nel corso dell’esame del testo alla Camera. Quanto accaduto in prima lettura al Senato, però, quando il 15 marzo la riforma è stata approvata con lo strumento della fiducia, fa temere il peggio agli avvocati. Il timore è che il governo, nonostante le rassicurazioni, possa ricorrere alla fiducia anche a Montecitorio, strozzando così la discussione in Aula. Una posizione che nella maggioranza è condivisa dagli alfaniani di Alternativa popolare, che non vogliono sentir parlare di fiducia. Il disegno di legge, composto da un unico articolo suddiviso in 95 commi, interviene su diversi fronti: dalla prescrizione alle intercettazioni, passando per l’inasprimento delle pene per alcuni reati e la riforma dell’ordinamento penitenziario. Uno dei punti più controversi riguarda la prescrizione dei reati: la riforma prevede alcune ipotesi di sospensione e altre di decorrenza posticipata, destinate ad allungare i tempi. Quanto alle intercettazioni, è prevista una nuova fattispecie penale, punita con la reclusione non superiore a quattro anni, nei confronti di chi diffonde il contenuto di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni telefoniche captate fraudolentemente per danneggiare la reputazione di una persona. Nel testo approvato da Palazzo Madama, poi, è contenuto l’aumento di pena per estorsione aggravata, furto in abitazione, scippo, rapina e scambio elettorale politico-mafioso. Quanto alla riforma dell’ordinamento penitenziario, è prevista una delega al governo per garantire ai detenuti, tra le altre cose, pluralismo e libertà di culto nonché semplificazione delle modalità di accesso ai benefici carcerari per buona condotta. Il governo si arrende alla lentezza dei giudici di Filippo Facci Libero, 24 maggio 2017 La riforma della giustizia penale in discussione in Parlamento non affronta le vere storture del settore Al contrario: l’allungamento dei termini di prescrizione significa accettare il fatto che il sistema non funziona. La fiducia è quella che ormai manca a noi: non è quella che Andrea Orlando vorrebbe porre sul disegno di legge sul processo penale, legge che - su questo Orlando ha ragione - rischierebbe altrimenti d’infilarsi in un ginepraio senza uscita. La legge è finalmente alla Camera dopo anni di trattative e compromessi, e basterebbe niente per farle piovere addosso qualche emendamento che, se approvato, rispedirebbe tutto al Senato e buonanotte ai suonatori: in tal caso non ci sarebbe più tempo prima della fine della legislatura. Chissà se è quello che vuole Matteo Renzi, che è contrario al voto di fiducia nonostante l’importanza (teorica) del contendere: cioè una riforma il sistema penitenziario, un allungamento della prescrizione e una delega al governo in tema di intercettazioni. Ma su questo Renzi ha quasi vaneggiato: "Non vogliamo mettere il bavaglio agli articoli di giornale, ci basta che siano rispettati gli articoli del codice penale". Lo ha scritto nei giorni scorsi: come se non sapesse che quegli articoli di legge non li rispetta nessuno da sempre, e come se non fosse oggetto, proprio lui, della pubblicazione di un’intercettazione che più vietata non si può. Renzi, senza volere, metaforizza la classe politica degli ultimi quindici anni: non vuole passare per quello che mette "il bavaglio" anche se la riforma Orlando, su questo, prevede soltanto che la polizia giudiziaria non trascriva conversazioni irrilevanti e tra persone occasionalmente coinvolte. Un brodino. Questo mentre i Cinque Stelle, coi quali ragionare è perfettamente inutile, riescono a opporsi strenuamente persino a questo. Ma la fiducia è quella che manca a noi - dicevamo - perché in fin dei conti si tratta di scegliere tra due mali: nessuna riforma oppure questa. Questa è alla terza lettura del testo con lo spettacolare risultato di non piacere agli avvocati (che sabato raccoglievano firme alla manifestazione milanese "contro i muri", perché ormai sono extracomunitari anche loro) e tantomeno piace ai magistrati, ma per motivi opposti: gli avvocati pensano che la prescrizione sia troppo lunga, i magistrati che è troppo corta. Quest’ultimi, purtroppo, sanno bene che ai colletti bianchi basterà assoldare dei legali esperti nel prendere tempo (vero) e potranno continuare a replicare che il 70 per cento delle prescrizioni matura durante le indagini preliminari (vero anche questo) e, ancora, che la responsabilità perciò è dei magistrati che se la dormono. Allora i i grillini e i forcaioli daranno la colpa ancora ai politici, o meglio alla legge ex Cirielli che diminuì i termini di prescrizione e aumentò le pene per i recidivi; allora gli avvocati replicheranno che la Cirielli, però, dal 2005 ha fatto passare i prescritti da 210mila a 113mila. Tutto così. Tuto già visto. Intanto un sacco di imputati continueranno a farla franca, un sacco di avvocati conteggeranno laute parcelle, mentre un sacco di magistrati lamenteranno eccessivi carichi di lavoro e faranno selezione (altro che obbligatorietà dell’azione penale) tra i fascicoli che preferiscono, o che risulteranno più mediaticamente spendibili. Saranno sempre loro a decidere quali fascicoli prenderanno la polvere e quali, invece, passeranno in corsia di sorpasso. Il che spiega come mai certi processi corrano come lepri e altri si avviino alla prescrizione a passo di bradipo. In sostanza, va registrato il perpetuarsi di un dato storico-politico: il Partito Democratico per lustri ha finto che i problemi della giustizia fossero il falso in bilancio e il conflitto d’interessi di Berlusconi, difendendo la magistratura più indifendibile pur di non regalare una vittoria all’avversario; poi abbiamo avuto un Renzi che sull’intoccabile Giustizia non voleva grane (al solito) e un Pd che nel programma elettorale non citava neppure il processo penale. Andrea Orlando conosce a sufficienza i problemi della giustizia (il fatto di non essere un tecnico in realtà lo avvantaggia) ma non potrebbe risolverli neppure se sapesse come farlo: responsabilità civile dei magistrati, loro scarsa produttività, intercettazioni, custodia cautelare, la famigerata prescrizione che vedremo poi: sono state solo parole o pannicelli caldi, per ora, e dirlo non è sciatteria. Niente che incida davvero sui reali tempi del giudizio, niente sul bizantino sistema di impugnazioni, sulle farraginosità che bloccano tutto, sugli abomini del sistema carcerario, sulle troppe leggi e irresponsabilità dei magistrati che scoraggiano chiunque voglia investire in Italia; in tutto questo il Pd ha continuato a fare sostanzialmente il pesce in barile. Se passerà questa legge, dunque, passerà come legge sulla prescrizione. L’idea di raddoppiare i tempi di prescrizione (per la corruzione in particolare) resterà come una buffonata d’ispirazione grillina che farà capire come l’obiettivo governativo non fossero i tempi della giustizia nel loro complesso, ma gettare un osso all’opinione pubblica più forcaiola. Non si inciderà in alcun modo sui magistrati che ciondolano per anni tra indagini e udienze preliminari, chiedono proroghe infinite, sbagliano un’iscrizione nel registro degli indagati o parcheggiano un fascicolo nel cassetto per anni. Se anche la prescrizione per tutti i reati fosse decuplicata o addirittura abolita, cambierebbe poco o niente: lo dimostra che laddove la prescrizione non è prevista nei processi civili - abbiamo i processi più lenti di tutti. Si capisce bene, guardando da tribunale a tribunale, che la gestione delle prescrizioni è spesso una faccenda di professionalità mancate: servono manager e invece nominano vecchie cornacchie imbolsite per mera lottizzazione correntizia. Che poi, ovvio, danno la colpa alla politica. L'appello di Spataro: "fermate la riforma che precarizza i giudici onorari" di Ottavia Giustetti La Repubblica, 24 maggio 2017 Il Procuratore di Torino, con altri 84 colleghi chiede di rinunciare ai tagli: "Se passa questa legge possiamo chiudere". Sono 85 i procuratori di tutta Italia che chiedono audizione al Csm, e alle commissioni Giustizia di Camera e Senato, per bloccare l'approvazione del decreto legislativo che intende riformare organicamente il sistema della giustizia affidato ai 5.213 "giudici supplenti" che fanno andare avanti le macchine dei tribunali. "Se passa questa legge noi possiamo chiudere" dice da Torino il Procuratore Armando Spataro. L'idea del Parlamento attraverso questo decreto è di precarizzare ulteriormente queste figure professionali che da molti anni fanno le veci dei magistrati che sono strutturalmente in carenza di organico. "Noi non possiamo assolutamente garantire la presenza di un pubblico ministero in tutti i procedimenti davanti al giudice di pace - dice Spataro - o davanti ai giudici monocratici". La proposta è di tagliare l'impegno di tutti i giudici onorari fino a un impegno massimo di due giorni alla settimana. Senza alcuna prospettiva di stabilizzazione futura. Le procure di Milano, Torino, Udine, Firenze, Barcellona Pozzo di Gotto, Napoli in rappresentanza di 110 procuratori che avevano firmato a febbraio un appello, sono state già ascoltate al ministero della Giustizia. Spataro parla di riforma illogica che non potrà che far precipitare la situazione già critica della lentezza della giustizia. "Nello schema - continua il procuratore torinese - non è prevista la stabilizzazione dei magistrati onorari e non si tiene conto della necessita di provvedere a una retribuzione dignitosa e a un trattamento previdenziale adeguato. Si è scelto di aumentarne il numero, ma con una contestuale riduzione dei compensi e dell'impegno". Lo scorso 12 maggio, a Torino, Spataro e il procuratore generale del Piemonte, Francesco Saluzzo, avevano incontrato i rappresentanti di categoria delle toghe onorarie e alle associazioni Anmo, Federmot, 6 luglio, Unimo, Unagipa, Confederazione dei giudici di pace. "Questi magistrati - dice Spataro - sono lavoratori che hanno diritto ad essere stabilizzati e retribuiti dignitosamente. Molti di loro hanno 45 o 50 anni e mi chiedo come potranno riciclarsi in altri ambiti. Se non potremo impiegarli più di due giorni alla settimana andremo incontro a problemi gravissimi: non potremo coprire i turni di udienza e dovremo provvedere con i sostituti procuratori, i quali, così, dovranno sottrarre tempo alle altre loro incombenze. Ci saranno ripercussioni sui tempi e sull'efficacia della giustizia". "A Torino - afferma Giuseppe Riccaboni, uno dei magistrati della procura di Torino che ne coordina l'impiego - le toghe onorarie sono una risorsa preziosa. Nel corso degli anni si sono specializzati, raggiungendo ottimi livelli. Meritano di più". Il ddl "toghe sporche" torna in Aula e aumenta le pene di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 24 maggio 2017 Il testo approvato in Commissione Giustizia. Procede senza particolari problemi l’iter del disegno di legge n. 2291 "Modifiche al codice penale in materia di reati commessi in riferimento all’attività giudiziaria", presentato lo scorso anno dal senatore Nitto Palma (Fi). Il testo, dopo essere stato approvato all’unanimità in Commissione, relatore il senatore Salvatore Cucca (Pd), è ora atteso in Aula. Il 18 maggio è scaduto il termine per presentare gli emendamenti. Che cosa cambia? Come dice il senatore Palma "questo testo mette ordine in un ambito alquanto delicato quale quello della lotta alla corruzione". In particolar modo "si modificano gli articoli 317, 319- ter, 346 e 346- bis del codice penale, riguardanti, rispettivamente, i reati di concussione, corruzione in atti giudiziari, millantato credito e traffico di influenze illecite, introducendo aggravanti di pena per i casi in cui vengano commessi da magistrati o avvocati". "Ciò si è reso necessario - ha aggiunto Palma per rimarcare il diverso disvalore sociale della condotta dei magistrati e degli avvocati proprio in ragione della posizione giuridiche ricoperta, risultando maggiore l’aspettativa di affidabilità e di liceità delle loro condotte". Va detto, comunque, che l’intervento normativo proposto incide ancora una volta su dei reati, ad esempio la concussione, già oggetto di modifiche prima nel 2012 con la legge Severino e, poi, con la L. 69/ 2015. Sarebbe, quindi, la terza modifica in quattro anni, prevedendo ulteriori aggravanti a fronte di pene già elevatissime. In particolare, la nuova aggravante nell’articolo 317 del codice penale aumenta la pena fino alla metà nel caso in cui i fatti siano commessi in relazione all’esercizio di attività giurisdizionali. L’articolo 317 c. p., come da ultima modifica del 2015, punisce con la reclusione da sei a dodici anni il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità. Riguardo al reato di corruzione in atti giudiziari, l’aggravante (aumento fino alla metà della pena) si applica nel caso in cui i fatti corruttivi siano commessi da un avvocato in relazione all’esercizio di attività forense. L’articolo 319- ter c. p., come modificato dalla legge n. 69 del 2015, disciplina l’ipotesi in cui i fatti di corruzione propria (articolo 319) ed impropria (articolo 318) siano commessi "per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo". Tali fatti sono puniti ai sensi del primo comma dell’articolo 319- ter c. p., con la reclusione da sei a dodici anni. È prevista poi una circostanza aggravante nel caso in cui dal fatto commesso in un processo penale, sia derivata una condanna ingiusta alla reclusione indicata in tre fasce: uguale o inferiore a cinque anni; superiore a cinque anni; ergastolo. Gli aumenti di pena previsti sono due: da sei a quattordici anni, se la condanna ingiustamente inflitta è uguale o inferiore a cinque anni, e da otto a venti anni negli altri casi. Le pene stabilite dall’articolo 319- ter si applicano anche al corruttore, ai sensi dell’articolo 321 c. p. Il reato di corruzione in atti giudiziari è un reato, come specificato nell’articolato, del "magistrato, dell’appartenente al personale amministrativo ausiliario del magistrato, dell’avvocato". Nuova circostanza aggravante del reato di millantato credito, per la quale le pene sono aumentate fino alla metà se i fatti previsti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giurisdizionale. Intervento, infine, anche sul reato di traffico di influenze illecite, con la modifica della circostanza aggravante prevedendo un aumento di pena "fino alla metà" nel caso in cui le condotte di reato siano commesse in relazione all’esercizio di attività giudiziarie. Procure responsabili delle intercettazioni divulgate di Alfredo Mantovano Il Foglio, 24 maggio 2017 Finora ci si è occupati dei giornalisti che divulgano intercettazioni. Ma il vero problema sta nella fonte. Partiamo da tre dati obiettivi. Il primo: a parole pochi negano che la divulgazione di brani, sintesi o trascrizioni integrali di conversazioni intercettate prive di rilievo penale, o addirittura prive di attinenza alle indagini, abbia assunto da decenni connotazioni selvagge. Può capitare che - nonostante le affermazioni di principio-taluno sulla scena politica utilizzi pezzi di intercettazioni, ma il tempo è galantuomo: prima o poi viene il suo turno, si rende conto di quanto fa male, e pretende come gli altri che il sistema cambi. Il secondo dato obiettivo: l'esigenza c'è, ma il testo no. È un po' come la nuova legge elettorale. Nel disegno di legge sul processo penale la riforma delle intercettazioni è contenuta in una delega al governo, con l'indicazione di criteri non particolarmente stringenti. Immaginiamo che diventi legge prima dell'estate (ci vuole molta immaginazione): vuol dire che su un tema così cruciale la definizione del testo vero avverrà a legislatura scaduta, senza una discussione reale, col semplice passaggio per un parere - se ci si riesce - dalle commissioni competenti: un po' poco. Non è detto che l'incertezza dipenda esclusivamente dalla difficoltà di conciliare posizioni antitetiche: se fosse così, sarebbe incoerente col coro unanime di richieste di modifica. Una significativa concausa del blocco è l'obiettiva difficoltà a trovare un punto di equilibrio fra le indagini, l'onorabilità e la privacy, e prima ancora l'altrettanto obiettiva difficoltà a individuare filtri non aggirabili. Vi è un terzo dato. La conversazione intercettata può essere diffusa senza ragione o perché viene passata ai media illegalmente, o perché viene comunque usata a sostegno di provvedimenti giudiziari, per es. una ordinanza di custodia cautelare. In entrambi i casi arriva al giornalista perché il magistrato che ne dispone o la consegna in prima persona, o permette che altri alle sue dipendenze la girino, o la inserisce fra gli atti soggetti a deposito. Il nocciolo della questione non è quindi colpire il giornalista: è come impedire che avvenga la trasmissione degli atti. Finora la discussione ha riguardato il confezionamento di filtri, ma si rischia di finire come per la legittima difesa: qualsiasi rettifica della norma non impedisce né il trauma del processo per chi si è trovato di fronte a un aggressore, né l'arbitrio interpretativo. E se si affrontasse la questione nell'ottica della piena assunzione di responsabilità da parte del capo dell'ufficio giudiziario? Mi spiego. Come tutti sanno, nel 2006 sono intervenute significative modifiche nell'ordinamento giudiziario; una di queste ddl n. 106, rende evidente il tratto funzionalmente gerarchico del procuratore della Repubblica. Costui - dice l'art. 1 c. 2 - "assicura il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell'azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio"; "con l'atto di delega - art. 2 c- 2 - per la trattazione di un procedimento (...) può stabilire i criteri ai quali il delegato deve attenersi nell'esercizio della stessa"; "può determinare - art. 4 - i criteri generali ai quali i magistrati addetti all'ufficio devono attenersi nell'impiego della polizia giudiziaria"; cura - art. 5 - "i rapporti con gli organi di informazione", vigilando su improprie divulgazioni di notizie. Qualche procuratore della Repubblica - pochi, per la verità - ha adottato nel proprio ufficio circolari sulle intercettazioni, per disciplinare, fra l'altro, l'uso dei brogliacci o l'eliminazione delle conversazioni non rilevanti. Queste iniziative non hanno dato risultati del tutto soddisfacenti, ma segnano un punto di inizio, e segnalano che l'assunzione di una responsabilità sul punto è possibile. Il passo successivo potrebbe essere il seguente: poiché ogni quattro anni - e poi dopo due quadrienni ai fini della assunzione di altri incarichi direttivi - il procuratore della Repubblica è sottoposto a una valutazione da parte del Csm, per l'esito positivo di essa si potrebbe rendere esplicito e "pesante", ovviamente con norma di legge, che quell'ufficio non sia stato protagonista di indebite propalazioni. Non è una responsabilità oggettiva, ed è qualcosa di più di una culpa in vigilando, Intanto è un modo per indurre ogni capo di Procura ad adottare chiare direttive sulle intercettazioni (la stessa nuova norma potrebbe prevederlo); se le violazioni ci fossero egualmente sarebbero sintomo di scarsa efficacia dello strumento adottato, con conseguenze per la permanenza a capo di quell'ufficio, ovvero di infedeltà da parte del pm o della polizia giudiziaria: che però a quel punto sarebbe preciso dovere/interesse del procuratore individuare per non pagare al posto di altri. Non è una soluzione infallibile. Ma è lo sforzo di spostare il tiro dalla ricerca di un maggior rigore normativo sulle regole procedurali delle intercettazioni - finora non ha dato risultato, e con i tempi residui della legislatura rischia di non darne più - al rafforzamento del profilo deontologico, con una tipizzazione di comportamenti. Senza entrare nel terreno della libertà di stampa e delle fonti, ma rendendo "la" fonte per eccellenza, per lo meno quanto alla individuazione del titolare dell'ufficio, il soggetto chiamato a esercitare le proprie responsabilità. Antiriciclaggio, sanzioni riviste. Importi proporzionati alla gravità della violazione di Luciano De Angelis Italia Oggi, 24 maggio 2017 In Consiglio dei ministri la versione definitiva del dlgs. Un anno per la fase transitoria. La mancata acquisizione e conservazione dei dati informativi, delle informazioni sul cliente e sul titolare effettivo sarà soggetta a sanzione amministrativa pari a 2,000 euro. In caso di plurime violazioni la sanzione potrà arrivare a 50.000 euro. Abrogazione della sanzione in caso di tardiva segnalazione di operazioni sospette e mancata Sos con sanzione pari a 3.000 euro. Non accolte, invece, le richieste di esclusione dagli obblighi per i componenti dei collegi sindacali delle società industriali e commerciali e quelle relative alla reintroduzione dell'archivio unico. Confermati i 12 mesi di tempo per le misure di attuazione finalizzate alla valutazione e gestione del rischio. Sono alcuni degli aspetti che derivano dalla stesura finale del decreto legislativo in tema di antiriciclaggio, ieri esaminato dal pre-consiglio dei ministri. Sanzioni per adeguata verifica e conservazione. L'aspetto di maggior rilievo rispetto alla bozza anteriore ai pareri delle commissioni riunite giustizia e finanze, attiene le sanzioni. Vengono, infatti, distinte le situazioni attinenti alla mancata acquisizione e verifica dei dati identificativi e delle informazioni sul cliente, sul titolare effettivo, sull'esecutore, sullo scopo e sulla natura del rapporto continuativo o della prestazione professionale, dalle violazioni gravi ripetute e sistematiche. Nel primo caso viene prevista una sanzione di 2.000 (duemila) euro mentre negli altri casi la pena pecuniaria può arrivare a 50.000 euro. Al di fuori delle ipotesi penalmente rilevanti si è ritenuto che la gravità della violazione vada valutata in relazione alla mancanza, all'incompletezza o alla non adeguata diffusione di prassi operative e procedure di controllo interno, alla mancata collaborazione con le autorità di vigilanza, della rilevanza ed evidenza dei motivi del sospetto, anche avuto riguardo al valore dell'operazione e alla loro incoerenza rispetto alle caratteristiche del cliente e del relativo rapporto ed infine alla reiterazione e diffusione dei comportamenti, anche in relazione alle dimensioni, alla complessità organizzativa e all'operatività del soggetto obbligato. Situazioni analoghe, sia in termini di sanzioni che di gravità della violazione, vengono prese a riferimento nel caso di inosservanza degli obblighi di conservazione. Operazioni sospette. Del tutto modificata la sanzionabilità per mancata segnalazione di operazioni sospette. Si passa dall'1 al 40% del valore dell'operazione non segnalata o tardivamente segnalata alla seguente previsione: abrogazione della sanzione per tardive segnalazioni; sanzione amministrativa per omessa segnalazione di operazione sospetta pari a 3.000 euro; sanzioni per violazioni gravi, ripetute, sistematiche o plurime da 30.000 a 300.000 euro. Collegi sindacali. Non accolta la richiesta delle commissioni congiunte della camera che chiedeva di esonerare dagli obblighi antiriciclaggio i soggetti che rivestono la carica di componenti di organi di controllo nei soggetti non obbligati. Il mancato esonero, si legge nella relazione ministeriale, è dovuto al fatto che: le esigenze di razionalizzazione e semplificazione degli adempimenti, previste per i sindaci degli istituti di credito (chiamati solo a comunicare senza ritardo al legale rappresentante operazioni potenzialmente sospette), non sussistono per i professionisti per i componenti degli organi di controllo dei soggetti non obbligati. Norme transitorie. Confermati i 12 mesi di tempo dall'entrata in vigore del decreto per le procedure inerenti la valutazione e gestione del rischio di riciclaggio (di cui all'art. 16, c. 2), nonché per l'istituzione del registro centralizzato dei titolari effettivi presso il registro delle imprese (art. 21 c. 5). Il caso Regeni, "Repubblica" e il sentito dire della repressione di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 24 maggio 2017 Nell’era della post verità i giornalisti preferiscono fare gli "scoop" origliando dietro le quinte piuttosto che assistere a fatti reali. Anche quando si tratta di difendere cause giuste come quella per la verità sul caso Regeni. Mi riferisco all’articolo pubblicato il 23 maggio da Repubblica dal titolo: "I veleni del caso Regeni "Attivisti egiziani spiati al convegno in Italia" a firma Carlo Bonini e Giuliano Foschini. Le intimidazioni da parte di giornalisti filo-regime al Sisi nei confronti di intellettuali egiziani e arabi impegnati per i diritti umani e per conoscere la verità sull’assassinio di Regeni sono avvenute in pubblico e avrebbero potuto essere documentate in diretta dai giornalisti citati se avessero partecipato alla conferenza stampa tenuta venerdì 19 alla stampa estera, alla quale erano stati invitati. Scontro peraltro documentato da il manifesto (20 maggio). Invece evidentemente fa più effetto - per alcuni giornalisti e per lanciare un documentario che sarà trasmesso dalla Rai - il sentito dire che il detto esplicitamente da alcuni intellettuali arabi - come Raouf Moussad (scrittore e commediografo egiziano costretto all’esilio), Massaad Abu Fajr (novellista e militante della rivoluzione di piazza Tahrir) e Jabbar Yasin Hussin (noto poeta e scrittore iracheno in esilio) - accusati esplicitamente in sala di essere pagati dal Qatar, dall’Arabia saudita e dai Fratelli musulmani. Tutti hanno potuto facilmente respingere le accuse per aver già dimostrato ampiamente il loro coraggio e aver scontato anni in carcere: Raouf e Jabbar per essere comunisti e Massaad, più recentemente, per difendere gli obiettivi della rivolta egiziana. "Sono una persona libera e nessuno potrà mai comprarmi, non sono in vendita", ha detto Jabbar Yasin. Bonini e Foschini avrebbero anche saputo che tutti gli intellettuali previsti non erano presenti per diversi motivi e che uno degli invitati non ha avuto il visto dalle autorità italiane. Nonostante le intimidazioni, le minacce, i divieti, questa delegazione ha denunciato la situazione dei diritti umani in Egitto anche al Salone del libro di Torino. Esprimere queste opinioni pubblicamente e non a porte chiuse è molto rischioso, soprattutto se si fa a partire da un caso come quello di Regeni che, secondo i giornalisti filo al Sisi, è una campagna montata dai Fratelli musulmani, tanto più che - dicono loro - la questione è già stata risolta dalle autorità egiziane e italiane! Dirigente sanitario responsabile per la morte del detenuto malato in carcere di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2017 La possibilità, per il detenuto, di fruire di cure mediche appropriate, segna il confine di demarcazione tra compatibilità e incompatibilità delle sue condizioni psico-fisiche con il regime carcerario. Ergo: il presupposto della privazione della libertà personale può passare soltanto per un controllo costante delle condizioni di salute della persona. Non ha dubbi la Cassazione - sentenza 25576 depositata il 23 maggio - nel prendere in esame il caso di un carcerato morto nel 2013, nel carcere di Rebibbia, per insufficienza cardiorespiratoria dovuta a polmonite. Detenuto in isolamento nel reparto G11 del penitenziario romano, l'uomo era risultato sofferente anche di epatite acuta. Omicidio colposo l'imputazione sollevata nei confronti dei medici del reparto e del dirigente preposto ai controlli sanitari. A quest'ultimo, in particolare, si contestava di non aver sottoposto il caso a un check-up più approfondito e costante e di aver limitato la visita medica a un colloquio anamnestico, saltando l'esame generale che si compone di ispezione, palpazione, percussione, auscultazione. Nessuna responsabilità in capo al dirigente, secondo il Gup del Tribunale di Roma, che, interpretando alla lettera l'articolo 11 della legge sull'ordinamento penitenziario, aveva ribadito la stretta correlazione tra visite mediche alla presenza di segni clinici evidenti o alla richiesta del detenuto.. Immediato il ricorso del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, che ha imputato a negligenza l'atteggiamento del personale sanitario. A pesare soprattutto il fatto che - come documentato dal diario clinico - nei giorni antecedenti la morte dell'imputato, egli non sia stato sottoposto ad alcuna visita medica. Un check-up - è convinto il procuratore - avrebbe invece fatto scattare il sospetto di una infezione all'apparato respiratorio e messo in moto una serie di interventi strumentali e di terapie conseguenti. Contro la sentenza ricorrono in Cassazione anche il padre e la figlia del detenuto, citando l'articolo 43 della Raccomandazione del Consiglio d'Europa agli Stati membri, che prescrive particolare attenzione alla salute dei detenuti in isolamento. Favorevole a questi orientamenti la Cassazione, che annulla la sentenza impugnata e rinvia per un nuovo esame al Tribunale di Roma. Nonostante le disposizioni dell'articolo 11 - si legge nella sentenza di ieri - non si può ignorare la previsione di un obbligo di assistenza sanitaria mediante riscontri con cadenza quantomeno mensile, se non settimanale, indipendentemente dalle richieste degli interessati e da attuare in relazione alla peculiarità del caso concreto. Il reato di depistaggio collegato alla funzione di pubblico ufficiale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2017 Corte di cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 17 maggio 2017 n. 24557. il reato di frode in processo penale e depistaggio è proprio del pubblico ufficiale, o dell’incaricato del pubblico servizio; la qualifica deve essere precedente alle indagini e l’attività in rapporto di connessione funzionale con l’accertamento che si presume inquinato; la condotta deve essere finalizzata all’alterazione dei dati, oggetto dell’indagine o del processo penale, da acquisire o dei quali il pubblico ufficiale è venuto a conoscenza nell’esercizio della funzione. Lo precisa la Corte di cassazione nella prima sentenza, la n. 24557 della Sesta sezione, che ha interpretato la nuova figura di reato introdotta nel 2016 con la legge n. 133. Nel caso in esame un vigile urbano era stato messo agli arresti domiciliari con l’accusa di avere istigato dei colleghi a offrire dichiarazioni false per favorirla nell’ambito di un procedimento penale su vicende personali. Il primo interrogativo cui risponde la sentenza è sulla necessità che la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio rappresenti elemento essenziale del reato a prescindere dalla connessione tra questa qualità e l’attività a cui è collegato il reato. La risposta è positiva perché malgrado la mancata specificazione delle ipotesi di reato in rapporto alle quali potrebbe assumere rilievo penale l’attività di false dichiarazioni, "l’elevata previsione sanzionatoria guida nel connettere l’obbligo di dire la verità a un dovere inerente specificamente alla funzione, il cui svolgimento implica una fisiologica convergenza di interessi tra pubblica amministrazione rappresentata e dipendente chiamato a svolgerne le funzioni". In questo senso milita anche il mancato riconoscimento delle cause di non punibilità sulla necessità di essere costretti a salvare sé o altri da un pericolo. A prevalere è cioè il dovere di collaborazione che discende dal rapporto professionale che impone l’esistenza precedente al fatto della qualifica di pubblico ufficiale e il maggiore valore del vincolo funzionale con lo Stato rispetto agli interessi personali. In questa prospettiva viene accolto il ricorso presentato dalla difesa, visto che l’esposizione di dati falsi da parte dei vigili urbani aveva per oggetto fatti che erano stati sì conosciuti in occasione del suo lavoro di vigile urbano, ma non a causa di questa attività. Va tenuto presente poi quanto a possibile "scopertura" di condotte che potrebbero assumere rilevanza penale, ma non essere comprese nel perimetro del nuovo reato, che lo stesso nuovo articolo 375 del Codice penale prevede comunque l’inserimento dell’aggravate del reato comune. In ogni caso, chiarisce ancora la sentenza, in caso di impossibilità di applicazione del depistaggio, potranno soccorrere altri delitti come quello di false comunicazioni al pubblico ministero. Divorzio: carcere per chi non paga l’assegno. Anche se disoccupato quifinanza.it, 24 maggio 2017 Fa discutere una recente sentenza della Corte di Cassazione. Non c’è solo la novità sul tenore di vita a far discutere l’opinione pubblica in tema di divorzio e assegni di mantenimento. Per il disoccupato che omette di versare più volte l’assegno divorzile all’ex coniuge, la possibilità di sostituire la pena detentiva breve in quella pecuniaria è infatti rimessa alla valutazione discrezionale del giudice. Lo ha disposto la Corte di Cassazione, seconda sezione penale, nella sentenza n 25043/2017, respingendo il ricorso di un uomo condannato tra l’altro a due mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 12-sexies della L. n. 898/1970 commesso in danno dell’ex coniuge ossia per omessa corresponsione dell’assegno divorzile. L’imputato aveva fatto ricorso in Cassazione contro la decisione della Corte di Appello di prevedere la pena detentiva in sostituzione di quella pecuniaria adducendo lo stato di disoccupato. Gli Ermellini però hanno chiarito che sta al giudice stabilire, ricorrendo ai criteri di cui all’articolo 133 c.p., se per le modalità del fatto o per la personalità del soggetto coinvolto, l’omesso mantenimento, a prescindere dalla condizione economica e lavorativa, possa essere sanzionato con una pena detentiva breve in sostituzione di quella pecuniaria. Nel caso di specie però, tenendo conto di alcuni elementi (come la richiesta di rito abbreviato), la pena detentiva finale è stata scontata fino ad arrivare ad un mese e dieci giorni (rispetto ai due mesi originariamente previsti). Sequestro amministrativo, per il reato di sottrazione va provato il dolo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 23 maggio 2017 n. 25756. Per il delitto di sottrazione o danneggiamento di beni sottoposti a sequestro amministrativo da parte del proprietario, oltre all'elemento oggettivo dello spostamento fisico, va anche provata la sussistenza del dolo generico, consistente nella "consapevolezza di agire in contrasto con il vincolo gravante sulla cosa". Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 23 maggio 2017 n. 25756, annullando, con rinvio, la sentenza di condanna emessa dalla Corte di appello di Milano per mancanza di accertamento proprio dell'elemento soggettivo. I giudici di secondo grado, invece (fra l'altro, riqualificando il reato dal primo al secondo comma dell'articolo 334 del cp, considerato che l'imputato era anche proprietario della vettura), l'avevano condannato a tre mesi di reclusione e 30mila euro di multa, in quanto "avendo in custodia l'autovettura Audi 80, sottoposta a sequestro amministrativo perché priva di copertura assicurativa, l'avrebbe abbandonata in un parcheggio, anziché custodirla nel luogo indicato dagli agenti della Polizia stradale". Per prima cosa, il ricorrente si era difeso sostenendo che chi circola abusivamente con un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo commette esclusivamente un illecito amministrativo in quanto prevale la norma speciale. Di diverso avviso i giudici di legittimità secondo cui il concorso apparente di norme - tra l'articolo 334 del codice penale e l'articolo 213, comma 4, del codice della strada, con conseguente applicazione al responsabile della sola sanzione amministrativa, "ricorre esclusivamente se la sottrazione del veicolo sottoposto a sequestro è stata realizzata mediante la circolazione", mentre, se è realizzata con "modalità diverse" è configurabile la fattispecie prevista dall'articolo 334 cp. E in questo non veniva contesta la circolazione ma unicamente lo spostamento "senza autorizzazione". La Cassazione ha invece accolto la doglianza circa l'assenza dell'"elemento soggettivo", che la Corte territoriale ha trascurato di prendere in considerazione "limitandosi ad affermare che il reato in questione richiede il semplice dolo generico, non anche il dolo specifico". Tuttavia, prosegue la sentenza, anche l'affermazione della natura generica del dolo "avrebbe dovuto comunque comportare una verifica circa la consapevolezza dell'imputato di disporre del bene ovvero di agire in violazione del vincolo su di esso gravante, condotte finalizzate a compiere atti contrari ai doveri di custodia, al fine, ad esempio, di impedire che sul bene possa esercitarsi l'azione esecutiva". In questo senso, continuano i giudici, il dolo richiesto per la sussistenza del delitto di sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a pignoramento o a sequestro, commesso al solo scopo di favorire il proprietario di esse, è "specifico", mentre quello richiesto per la sussistenza dello stesso delitto commesso dal proprietario della cosa (articolo 334, secondo comma, cp), è "generico" e consiste nella consapevolezza di agire in contrasto con il vincolo gravante sulla cosa. In altri termini, conclude la decisione, "per la punibilità del reato è comunque necessaria la sussistenza della consapevolezza del vincolo giudiziario che grava sulla cosa e la volontà di compiere atti contrari ai doveri di custodia, in modo tale da impedire i controlli sul bene". Abruzzo: Antigone "nelle carceri sovraffollamento, carenze e barriere architettoniche" primadanoi.it, 24 maggio 2017 Mali endemici come il sovraffollamento (per Lanciano, Sulmona e Teramo), edifici senza manutenzione, a ambienti che non rispettano i parametri delle norme sulla sicurezza, barriere architettoniche. E poi ancora cronica carenza di personale penitenziario, inadeguatezza dei fondi per il lavoro dei detenuti e il trattamento rieducativo. È questo lo stato delle carceri abruzzesi come ha raccontato il presidente abruzzese dell’associazione Antigone, Salvatore Braghini, intervenuto nella V Commissione - Salute, Sicurezza sociale, Cultura, Formazione e Lavoro presieduta da Mario Olivieri. C’è il caso eclatante della Casa Lavoro di Vasto, dove a causa di un omesso collaudo tecnico si è da diversi anni in attesa di aprire una sartoria (nuova di zecca) che impegnerebbe oltre 40 internati, lasciati, invece, morire di inedia. Tra quest’ultimi, a Vasto, c’ è un internato di nome Gabriele, che ha voluto lasciare al presidente di Antigone una struggente lettera da portare ai politici e che Braghini ha letto in audizione nel silenzio sgomento dei presenti per far conoscere a tutti quello che l’internato definisce "l’inferno in terra". Il presidente di Antigone ha esposto le problematiche di ordine sanitario: carenza di personale, insufficienza di apparecchiature elettromedicali, un elevato numero di ricoveri in ospedale che comportano oneri per l'amministrazione in termini di personale di scorta, mezzi e sicurezza e il risalente problema comune a tutti gli Istituti delle protesi dentarie, che, non rientrando nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), non sono garantite dalle ASL ed i detenuti devono provvedervi a proprie spese, restando precluse alla quasi totalità della popolazione carceraria (quasi tutta indigente), per cui i detenuti vanno avanti ad anti infiammatori o antibiotici ed a diete, con ulteriori problemi per la salute. Risulta insufficiente l’assistenza psichiatra visto il forte disagio correlato alla detenzione (nel carcere di Pescara ci sono 8 utenti in un’articolazione sanitaria interna al carcere che rischia di replicare il modello dei soppressi ospedali psichiatrici), mentre per i detenuti disabili non ci sono strutture adeguate. Anche questo spiega il perché dei numerosi scioperi della fame, atti di autolesionismo, forme di protesta, violenze e aggressioni tra detenuti e verso la polizia penitenziaria e i suicidi (con l’ennesimo caso avvenuto nel carcere di Teramo nel 2016). Di qui l’appello dell’avvocato Salvatore Braghini di una maggiore attenzione della politica regionale, che potrebbe intervenire in tema di sanità, lavoro e inclusione speciale, come evidenziato in audizione dall’intervento del Presidente Olivieri e dei consiglieri Bracco e Smargiassi. Olivieri ha sollecitato Antigone a predisporre un testo di legge che promuova e disciplini le convenzioni, già esistenti come nel caso di Avezzano e Vasto, tra Comune e Carcere per prevedere dei fondi per il reinserimento sociale dei detenuti attraverso lavori socialmente utili, specialmente per la ripulitura e il decoro degli spazi urbani. Campania: dalla Regione 2 milioni € per interventi a sostegno dei giovani detenuti Il Velino, 24 maggio 2017 La Regione Campania ha destinato risorse pari a 2 milioni di euro per percorsi formativi finalizzati all'inclusione socio-lavorativa dei giovani detenuti al di sotto dei venticinque anni, anche in esecuzione penale esterna, in carico a tutte le strutture campane, individuate di concerto con il Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità, quali gli Istituti Penali minorili della Campania di Nisida, Airola e Santa Maria Capua Vetere. "Abbiamo inteso sostenere, attraverso un accordo di collaborazione con il Ministero della Giustizia - commenta l'Assessore all'Istruzione e Politiche sociali Lucia Fortini - la realizzazione di attività educative finalizzate all’apprendimento di un mestiere unitamente alla promozione e diffusione della cultura del rispetto delle regole per un corretto approccio al lavoro, aiutando i giovani che si trovano in situazione di detenzione a comprenderne i valori fondanti fin dalla più giovane età e a facilitare il loro reinserimento nella realtà socio-lavorativa". Padova: carcere Due Palazzi meno affollato, un detenuto su due è cittadino straniero Corriere del Veneto, 24 maggio 2017 La popolazione carceraria conta 787 detenuti contro una capacità di 614 posti. Nel 2013 erano più di mille. Non solo una struttura sovraffollata. Perché, a fronte di una "capienza regolamentare" di 614 posti, i detenuti presenti sono 787. Ovvero il 21,9% (+173). Ma anche una struttura piena di non italiani. Dall’ultima fotografia del carcere Due Palazzi emerge che i reclusi di nazionalità straniera, che in tutto sono 383, sono quasi la metà. Gli stranieri infatti rappresentano il 48,6% dell’intera popolazione carceraria e non accennano a diminuire. Le statistiche sulla casa circondariale di Padova (destinate a far discutere per la composizione della popolazione carceraria) arrivano in un periodo di bufera sulle coop che lavorano tra le mura del Due Palazzi e sull’ex direttore Salvatore Pirruccio. I dati, aggiornati al 31 dicembre dello scorso anno, si riferiscono sia alla casa circondariale, dove si trovano gli imputati in attesa di giudizio e i condannati a una pena inferiore ai tre anni, che a quella di reclusione, dove si trovano i detenuti per reati gravi. Nella prima, che potrebbe ospitare massimo 173 persone, ne figurano 190, di cui 139 straniere (73,1%). Nell’altra invece, dove ci sarebbe spazio per un massimo di 441 unità, ce ne sono 597, di cui 244 non italiane (40,8%). Nello specifico poi, sempre per quanto riguarda la casa di reclusione, risulta che 222 dei 597 detenuti (37,1%) si trova lì per reati connessi allo spaccio di droga, 148 per reati contro la persona (24,7%), altri 148 per reati contro il patrimonio (24,7%), 24 per reati legati alla prostituzione (4%), 22 per reati collegati alla detenzione di armi (3,6%) e 19 per il reato di associazione mafiosa (3,1%). Per quanto riguarda il sovraffollamento, va comunque evidenziato che, negli ultimi tre anni, la situazione è notevolmente migliorata. Basti infatti ricordare che nel 2011 c’erano ben 493 detenuti (+47,5%) in più del consentito (1.037 anziché 544), che nel 2012 ce n’erano addirittura 582 (+51,6%) in più del consentito (1.126 anziché 544) e che nel 2013 ce n’erano sempre 560 (+51%) in più del consentito (1.098 anziché 538). Di pari passo, però, va detto che la quota di reclusi con nazionalità straniera, analizzando gli ultimi sei anni del Due Palazzi, è rimasta pressoché invariata: 49,2% nel 2011, 49,9% nel 2012, 47,9% nel 2013, 45,4% nel 2014, 49,3% nel 2015 e appunto 48,6% nel 2016. Siamo insomma di fronte a un trend ormai consolidato: nel carcere di Padova, che va ricordato ospita soltanto persone di sesso maschile, circa un detenuto su due non è italiano. Intanto, uscendo dalla struttura tra Altichiero e Ponterotto, va sottolineato come nel 2016 i reati commessi all’ombra del Santo, dando retta ai dati forniti direttamente dal ministero dell’Interno attraverso le questure, siano diminuiti dell’8,7% rispetto all’anno precedente. In particolare, sono calati i furti (-7,4%), le rapine (-17,6%), le estorsioni (-17,3%) e le truffe informatiche (-8,9%). L’unica voce in crescita è invece quella riferita al traffico di sostanze stupefacenti (+8%). Napoli: carcere Poggioreale; va via il direttore Fullone, destinato al provveditorato FanPage.it, 24 maggio 2017 Antonio Fullone, giunto tre anni fa per risolvere le emergenze e mettere ordine al caos degli scandali, oggi promosso a più alto incarico, si propone come provveditore campano. Nella rosa dei candidati al carcere napoletano spunta a sorpresa il nome dell’ex direttrice Teresa Abate, sollevata dall’incarico dopo la visita ispettiva del parlamento europeo e l’inchiesta della Procura sulla "cella zero" arrivata alla stretta finale. Antonio Fullone lascia la direzione del carcere di Poggioreale dopo la recente nomina a dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria. Il Decreto del Presidente della Repubblica emanato il 27 aprile scorso lo promuove a più alto incarico, cioè quello di provveditore regionale, in sede ancora da definire. In attesa della registrazione dell’atto da parte della Corte dei conti, sono già iniziati i colloqui dei candidati provenienti da tutta Italia che potrebbero sostituirlo. Nella rosa dei nomi campani, insieme a Carmen Campi, direttrice a Carinola, e Ciro Proto, vicedirettore a Poggioreale, spunta a sorpresa anche quello di Teresa Abate, che è stata direttrice dell’istituto napoletano fino al 2014, quando, travolta da scandali ed inchieste, venne sollevata dall’incarico, all’indomani della visita ispettiva di una delegazione della Commissione libertà civili del parlamento europeo che rilevò le difficili e inumane condizioni di vita dei reclusi. "Abbiamo visto con i nostri occhi situazioni insostenibili" fu il duro commento dello spagnolo Juan Fernando Lopez Aguilar, a capo della ricognizione europarlamentare. Vincitrice successivamente del ricorso al Tar, prosciolta in sede disciplinare, la Abate tuttavia non è stata più reintegrata nelle sue funzioni di direttrice, ma assegnata all’ufficio del personale e della formazione del provveditorato della Campania. Oggi meraviglia, non poco, tra gli addetti ai lavori e non, la sua, seppur legittima, domanda di candidatura di nuovo a Poggioreale, alimentando i rumor dietro le quinte. Del resto se il Dipartimento minimizzò la procedura di mobilità notificata all’Abate, la sensazione fu quella, invece, di una rimozione che desse netto segnale di cambiamento. Tre anni fa, a luglio 2014, l’arrivo a Napoli di Fullone in un momento estremamente critico a causa di emergenze croniche come il sovraffollamento e dell’intervento della magistratura sui presunti pestaggi nella cosiddetta "cella zero". È datato agosto 2016 l’avviso di conclusione delle indagini inviato dalla Procura di Napoli a ventidue poliziotti penitenziari e un medico. Da lesioni aggravate a violenza privata, da sequestro di persona ad abuso di autorità: i reati ipotizzati per le violenze subite e denunciate dai detenuti tra il 2012 e il 2014. Valutate finora tutte le posizioni delle persone coinvolte, proprio in queste ore negli uffici della Procura si parla di stretta finale dell’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino e affidata ai pm Valentina Rametta e Giuseppina Loreto. Si deciderà se e per quali reati chiedere il rinvio a giudizio di alcuni o di tutti gli indagati. Intanto a Poggioreale si tirano le fila. Tre anni vissuti intensamente in cui Antonio Fullone, 51 anni, con un curriculum che lo ha visto girare negli istituti di tutta Italia, da Lecce a Foggia, Bari, Verona, Perugia fino alla Calabria e alla Sardegna, si è impegnato nel delicato processo di apertura del carcere napoletano alla città, attraverso iniziative-ponte tra dentro e fuori le mura, e si è adoperato per i lavori di restyling dei padiglioni interni al fine di rendere l’obsoleta struttura di inizio Novecento più vicina ai parametri imposti dalla legge e soprattutto suggeriti dalla dignità umana. Conclusasi l’esperienza a Poggioreale, per Fullone adesso potrebbe aprirsi quella di provveditore campano, visto che la poltrona è libera da febbraio, dopo il pensionamento di Tommaso Contestabile, sostituito temporaneamente dal provveditore toscano Giuseppe Martone. Ma entrambi, Fullone e Martone, ne hanno fatto richiesta: il confronto a futuro capo Dap della Campania è ufficialmente aperto. Vuote anche altre tre sedi regionali: Torino, a cui però sarebbe destinato Liberato Guerriero in partenza da Secondigliano, Catanzaro e Bologna. Pisa: dalla siccità alle perdite dei tubi, non c’è pace nel carcere Don Bosco gonews.it, 24 maggio 2017 Sono trascorsi non meno di 15 giorni quando segnalammo l’ennesima disfunzione strutturale al reparto penale del carcere Don Bosco di Pisa, ovvero la rottura di tubi dell’acqua calda che versano ancora oggi. Si, è tutto vero, a distanza di 15 giorni, l’acqua calda continua a scorrere copiosa e non riescono a tamponarla, a questo aggiungiamo anche problemi fognari che rendono la vivibilità al reparto Penale al limite che non si erano mai visti. Soffitti in odor di crollo, fiumi di acqua calda, fogne che scoppiano e sversano, intere zone del penitenziario puntellate da tubi metallici e "last but not least" la muffa, l’umido e l’igiene al minimo sindacale. È questo veniva già segnalato in tempi non sospetti, all’indomani della visita di una delegazione sindacale lo scorso novembre 2016 che realizzava anche un reportage fotografico che fissava impietosamente lo stato dell’arte. Quel sindacato era la Uil Polizia Penitenziaria e il reportage lo trovate nel portale della sigla (polpenuil.it). Durante tutto questo tempo l’Amministrazione, a seguito di numerosi interventi della nostra segreteria ha "partorito" per cosi dire alcune note di risposta, sopralluoghi di tecnici e tante promesse di intervento. È del 9 maggio 2017 la recente nota a firma di Giuseppe Martone, Provveditore della Toscana, che indicava uno stanziamento di un milione di euro per la ristrutturazione del tugurio Don Bosco entro il 2017. Tuttavia preme sottolineare come, sempre la stessa Amministrazione con nota di Febbraio 2017 ne prometteva ben 3,5 milioni di euro, oggi ridotti a solo 1 milione di euro. È bene fino ad oggi solo promesse di ristrutturazione. Tutti questi soldi non li ha visti nessuno, il tempo passa e le disfunzioni strutturali aumentano, il carcere Don Bosco di Pisa, si candida giorno dopo giorno per il crollo. Troppo lunghi i tempi e le varie lungaggini burocratiche della nostra Amministrazione, si rischia a nostro avviso di perdere con il passare del tempo l’importanza e l’urgenza dei lavori non più rinviabili. Questo ci viene confermato giorno dopo giorno dal susseguirsi di eventi come crolli dei soffitti, crepe continue e perdite ed infiltrazioni di acqua ovunque. È, dato che con le promesse non si fanno le ristrutturazioni, i problemi restano, anzi con il passare del tempo aumentano, così come restano i miasmi puzzolenti delle fogne e l’indecenza di un’Amministrazione che come il carcere Don Bosco di Pisa fa acqua da tutte le parti Vicenza: primo processo "a distanza", il testimone parla al giudice via webcam Corriere del Veneto, 24 maggio 2017 "È un risparmio di tempo e di denaro". Il presidente del tribunale di Vicenza, Alberto Rizzo, va dritto al nocciolo della questione. E intanto accende il televisore della stanza al secondo piano del Palazzo di Giustizia. Sullo schermo compare una scrivania che si trova a quaranta chilometri di distanza, in un palazzo del centro storico di Bassano del Grappa. Non è un film: la città degli Alpini, che negli anni scorsi si è vista "scippare" il tribunale a causa della riorganizzazione decisa dal Governo (che ha fatto convergere tutti gli uffici a Vicenza) presto ritroverà - almeno in parte - gli avvocati che un tempo affollavano le udienze. L’idea è frutto di un percorso intrapreso da Rizzo ormai un anno fa, iniziato con la possibilità - offerta alle giudici mamma - di discutere le sentenze da casa, e che pare destinato a rivoluzionare il rapporto tra cittadini e Giustizia: i testimoni dei processi civili non saranno più obbligati a presentarsi "di persona" di fronte al giudice, perché potranno farlo in video-conferenza. Sembra una cosa da poco ma è la prima volta in Italia e permetterà ai cittadini di risparmiarsi la scocciatura di lunghe trasferte, che spesso si traducono in perdita di denaro e di intere giornate di lavoro. Ieri mattina il presidente ha depositato il provvedimento che contiene le disposizioni tecniche e le nuove regole. La sperimentazione è stata fatta con buoni risultati - la scorsa settimana e ora non resta che accendere i computer. Si parte il 29 maggio quando, per dirimere una controversia, è stato chiamato un consulente bassanese che però - e non era mai accaduto prima - non dovrà neppure fare la fatica di raggiungere il capoluogo: potrà ricevere dal giudice l’incarico restando comodamente nella sua città. A Bassano del Grappa, nella sede del giudice di pace, è stata infatti allestita una sala dotata di schermo e webcam. Lì verranno fatti accomodare consulenti e testimoni, accompagnati da un cancelliere e dagli avvocati di parte. Ripresi in volto dalla telecamere, potranno rispondere alle domande dei magistrati di Vicenza che li vedranno comparire sul monitor dell’aula. Immagini e audio viaggeranno su internet, grazie a un sistema protetto e a prova di hacker. In fondo, non è molto diverso da quanto accade nei processi di mafia, quando il pentito di turno viene chiamato a testimoniare in "diretta" da una località segreta. La differenza è che qui si tratta esclusivamente dei procedimenti civili, da sempre il nodo più complesso da risolvere quando si affronta il problema dei tempi biblici della nostra Giustizia. Per capire la portata del cambiamento, basti pensare che Bassano e Comuni limitrofi contano 200mila abitanti per i quali, d’ora in poi, gli avvocati potranno chiedere che siano ascoltati "a distanza". E l’obiettivo è di estendere il servizio anche ad altre zone della provincia. E magari al resto del Veneto. "Il giudice civile collegato dal tribunale di Vicenza - spiega il presidente Alberto Rizzo potrà parlare con i testimoni che si trovano a Bassano ma anche conferire incarichi e assistere al giuramento dei consulenti. Un sistema che renderà più semplice e fluido il rapporto tra cittadini e tribunale". C’è chi la vede come una prova generale in attesa di poter applicare lo stesso sistema anche alle udienze penali: all’orizzonte c’è il maxi-processo alla Popolare di Vicenza, con migliaia di parti civili e decine di testimoni. Impossibile trovare un’aula di tribunale in grado di contenerli tutti. "Molto più comodo - suggeriscono gli avvocati - seguire i lavori in videoconferenza". Lucca: due detenuti faranno lavori utili a Capannori luccaindiretta.it, 24 maggio 2017 Capannori è tra i primi Comuni della Toscana dove i detenuti in fase di reinserimento nella comunità potranno svolgere, a titolo gratuito, lavori socialmente utili. È questa la nuova iniziativa per l’inclusione sociale promossa dall’amministrazione che è stata sancita questa mattina (martedì) dal protocollo tra il Comune di Capannori e la Casa Circondariale di Lucca firmato, rispettivamente, dal sindaco Luca Menesini e dal direttore Francesco Ruello. A partire dalle prossime settimane una persona proveniente dall’istituto di pena lucchese, che già sta seguendo un percorso per l’inserimento sociale, potrà affiancare il personale dell’Ente per lo svolgimento di alcune mansioni nel settore dei lavori pubblici. I dettagli dell’impiego saranno definiti successivamente ma interesseranno la cura e il decoro del territorio: la pulizia delle aree a verde, la manutenzione delle aiuole o piccoli interventi di manutenzione. Dopo una prima fase sperimentale sarà valutato di estendere il progetto a una seconda persona. "Un concreto progetto di inclusione sociale che dà l’opportunità a coloro che hanno sbagliato di offrire un servizio alla comunità - spiega il sindaco Luca Menesini. È con iniziative come questa che l’amministrazione comunale dimostra di credere nell’importanza di aiutare le persone a compiere un percorso di inclusione. Questo progetto ha anche un’importante valenza educativa per i cittadini, perché sarà promossa una cultura alternativa ai luoghi comuni sulla detenzione. Ringrazio il direttore della Casa Circondariale di Lucca per la sensibilità dimostrata su questa tematica ed aver sottoscritto con noi questo protocollo". L’accordo tra il Comune e la Casa Circondariale prevede che l’attività, non retribuita, sarà svolta secondo quanto concordato con gli uffici comunali e secondo i programmi di trattamento della direzione dell’istituto penitenziario. Sarà poi definito un programma per il corretto svolgimento dei lavori, che saranno costantemente seguiti e monitorati. L’impiego massimo previsto è di 30 ore settimanali. Il protocollo ha una durata di un anno ed è rinnovabile per ulteriori due. L’amministrazione comunale ha già promosso progetti per l’inclusione sociale tramite lavori socialmente utili. Fra questi c’è quello che nel 2016 ha interessato una quarantina di giovani richiedenti asilo, che gratuitamente e a titolo di volontariato, hanno svolto attività di pulizia e manutenzioni di luoghi pubblici, come parchi, parcheggi ed aree verdi. Pistoia: "Io, Dante, Rebibbia". La lectio di Albinati ai Dialoghi sull’uomo di Chiara Dino Corriere Fiorentino, 24 maggio 2017 Edoardo Albinati, ospite a Pistoia, parlerà del suo lavoro di prof in carcere "Leggere una terzina è educazione alla legalità: non esiste contenuto senza il rispetto delle regole". Non ha risposte Edoardo Albinati. La sua lectio - a Pistoia sabato 27 in piazza San Bartolomeo durante la tre giorni dei "Dialoghi sull’uomo" al via venerdì 26 - apre piuttosto una domanda: La cultura come riscatto? si legge nel programma. Oltre 20 anni di esperienza da professore di italiano e storia a Rebibbia e la certezza che fare il possibile non esime dal fallimento. "Quello che dirò - spiega - è che riscatto in carcere è una parola che significa altro rispetto al fuori, e cioè la possibilità di cambiare il proprio destino, invertire la tendenza di quel determinismo per cui, se sei figlio di una certa cultura, se sei nato in una certa famiglia e in un certo Paese sei necessariamente portato a delinquere. In questo contesto riuscire a non delinquere più, o a non farlo per necessità, avere dunque consapevolezza delle proprie azioni, è già riscatto. Ma voglio dire, perché l’ho sperimentato, che non è scritto da nessuna parte che questo riscatto la cultura e il nostro lavoro lo portino. La possibilità del fallimento di noi professori, come di tutti gli uomini, in ogni giorno e in ogni faccenda della loro vita, è altissima. Dovremmo ricordarcelo anche se la cultura performativa e del successo di cui siamo parte non prevede l’accettazione dell’insuccesso. Chi, come me, lavora in un luogo deprivato come Rebibbia, deve tenerlo a mente". Non sembri il suo ragionamento volto a gettare la spugna per sposare la filosofia del "tutto ciò che viene è tanto di guadagnato". A scendere nel dettaglio le sue lezioni e i suoi incontri con ragazzi o uomini adulti (italiani e stranieri) suggeriscono riflessioni e suggestioni per nulla scontate. Per esempio, gli abbiamo chiesto cosa insegna e lui ci ha spiegato che sì, segue i programmi ministeriali, (le sue sono classi di un istituto professionale), ma con degli accorgimenti speciali. "In primo luogo devi sapere - spiega - che può succedere in qualsiasi giorno che un tuo allievo sia spostato in un altro carcere, sia impegnato a processo o venga liberato. Dunque ogni lezione, pur seguendo un programma, deve essere conclusa alla fine dell’ora, un unicum insomma". Non basta: "Va ricordato che le carceri sono luoghi profondamente deprivati da ogni punto di vista, ma visivo e uditivo in primo luogo. A Rebibbia si vedono solo mura, sbarre e pezzi di cielo, la bellezza è assente in ogni forma. È stato scientificamente accertato che il primo dei sensi a subire dei danni è la vista. Dunque portare anche la stampa di un’opera d’arte è già dare un’opportunità di migliorare la qualità della sua vita a chi vive lì dentro. A me una volta è stata chiesta una raffigurazione della Resurrezione e ho stampato per loro Piero della Francesca. Un altro giorno ho portato, per appenderlo in classe, un particolare di Ade che rapisce Proserpina del Bernini con le ma- ni che affondano nelle schiena. Ebbene qualcuno l’ha rubata, deve essersela portata in cella. Stesso ragionamento va fatto per l’udito. In carcere si sentono urla o rumori di lucchetti. Solo ascoltare della musica o recitare con loro dei versi ha delle ricadute importanti. Serve quanto meno a rendere migliore il loro stare al mondo anche se per un tempo ridotto". E questo sarebbe già di per sé un grande successo. Come è già di per sé un contributo formativo importante insegnare agli alunni quanto sottintende un sonetto, un teorema o un principio della fisica. Vediamo cosa ha da dire Albinati a questo proposito: "Molti mi chiedono se le mie lezioni e quelle di colleghi che come me fanno il mio stesso lavoro, prevedano l’educazione alla legalità. Ecco a loro posso dire che l’educazione alla legalità come la intendono loro, come un fatto di diritto e di legge, non serve. Ma il fatto stesso di imparare come la composizione di un sonetto prevede l’uso di regole e la necessità di sottostare a una forma definita ha implicazioni molto importanti. È un modo per passare loro che regole e forme non sono disgiunte dalla sostanza e dal contenuto. E dunque per farli confrontare con qualcosa che, o non hanno mai conosciuto, o che hanno sempre sottovalutato". Le terzine dantesche, insomma, come indiretta formazione al rispetto delle regole. La cosa può avere delle ricadute di ogni tipo come diceva Albinati all’inizio della nostra chiacchierata ma è certo che l’impressione in termini emotivi e sensitivi, della lettura di un canto della Commedia come quello di Ugolino - ieri a Rebibbia hanno studiato proprio il XXXIII dell’Inferno - ha un impatto amplificato. "Ahi Pisa, vituperio de le genti... solo la maledizione di un signore del trecento della città su ragazzini di 14 o 15 anni, ma anche su uomini più adulti, risuona in modo molto più forte che nelle scuole "normali". Proprio perché qui non accade nulla di emotivamente rilevante. E la deprivazione è regola". Sassari: dopo il carcere, tra paure e possibilità. Il convegno "Prigione e territorio" di Antonio Meloni La Nuova Sardegna, 24 maggio 2017 Da venerdì esperti a confronto nel convegno "Prigione e territorio" dedicato a reinserimento, detenzione e giustizia. Anni di detenzione per espiare la pena, ma quando arriva il momento di uscire dal carcere c’è sempre il timore del ritorno in società. Da una parte c’è un uomo che ha trascorso tanto tempo in una realtà difficile, dall’altra una comunità spesso impreparata ad accoglierlo e al centro le istituzioni pubbliche da cui dipende il buon esito della sua reintegrazione. Esiste, oggi, un sistema che consenta ai detenuti di prepararsi al ritorno alla normalità? Quali strumenti possono essere usati per facilitare quel percorso? Che tipo di risorse può mettere in campo lo stato per varare quei progetti di recupero? Domande importanti, alle quali tenterà di rispondere un qualificato team di esperti che venerdì e sabato prossimi siederanno attorno a un tavolo per affrontare un tema delicato. Tema al centro dell’importante convegno "Prigione e territorio, percorsi di integrazione dentro e fuori le carceri", che vede insieme Comune, Università e Ordine forense. L’iniziativa, preceduta e seguita da un fitto calendario di eventi collaterali, è stata presentata ieri alla stampa, nella sala conferenze di Palazzo ducale, dal sindaco Nicola Sanna affiancato dal garante per i detenuti Mario Dossoni, Esmeralda Ughi, presidente del consiglio comunale, Zena Orunesu dell’Ordine forense e Emanuele Farris, delegato del rettore per i rapporti con gli istituti di pena. Il fenomeno a cui bisogna far fronte è quello della recidiva se è vero, come ha rimarcato Mario Dossoni, che in Italia il 67 per cento degli ex detenuti tende a rimettersi nei guai, a fronte di valori più bassi, come in Francia, dove la percentuale scende al 43 e in altri paesi europei perfino al 23 per cento. Il lavori del convegno si apriranno venerdì 26 maggio, alle 15.30, nell’aula Segni di viale Mancini, dopo il saluto delle autorità, previsti interventi di Paola Sechi (Università) e Mario Dossoni (Comune), coordina Esmeralda Ughi. Alle 16, introduce i lavori Maria Grazia Piras, assessora regionale all’Industria. Alle 16.15, Vincent De Gaetano, Corte Europea dei Diritti dell’uomo: "Condizioni detentive e Corte Europea dei Diritti dell’uomo". Alle 17, Riccardo De Vito, magistratura di sorveglianza: "Esecuzione della pena e misure alternative", alle 17.30, Patrizia Patrizi (Università): "Per una nuova giustizia di comunità". Alle 18, la tavola rotonda: "Alternative alla carcerazione e impegno delle comunità locali", coordina l’assessora Maria Grazia Piras, partecipano Emiliano Deiana, presidente Anci Sardegna, Rosanna Carta direttrice regionale Uepe (ufficio esecuzione pena), Amalia Cherchi (assessore al Personale del Comune), Gavino Sini, presidente della Camera di commercio, Pierluigi Pinna, presidente Confindustria centro nord Sardegna, Battista Cualbu, presidente Coldiretti Sardegna, e Gavino Soggia presidente territoriale Confcooperative. Si prosegue sabato 27 maggio, nell’aula magna dell’Università, coordina la sessione Emanuele Farris (Università). Alle 9, Antonio Vallini (Università di Firenze): "La formazione universitaria come opportunità di trattamento: l’esperienza dei poli universitari", alle 9.30, Nicola Cirillo, Consiglio nazionale forense: "Il ruolo dell’avvocato nell’esecuzione della pena". Alle 10, Giuseppe Ongaro, (Lavoro & Futuro srl): "Porte aperte al lavoro in carcere", a seguire, alle 10.30, Patrizia Incollu (direttore del carcere): "Il lavoro all’interno del carcere strumento di riabilitazione e reintegrazione sociale". Alle 11, la tavola rotonda: "Esperienze e prospettive di lavoro nell’esecuzione penale esterna", coordina la giornalista Daniela Scano (La Nuova Sardegna), partecipano Agostino Loriga, consorzio Andalas de Amistade; Costantino Spada, cooperativa Baronia verde; Michele Ruiu, rete Fainas, Monica Spanedda, assessora ai Servizi sociali del Comune; Angelino Olmeo, imprenditore; don Gaetano Galia, cappellano del carcere e Ilaria Manca (2M Agricola). La conclusione è affidata a Paola Sechi dell’Università e al garante Mario Dossoni. Chioggia (Ve): "La pena oltre la pena", convegno venerdì in Sala Consiliare chioggianews24.it, 24 maggio 2017 Quando un detenuto esce dal carcere cerca di percorrere strade che non lo riportino in carcere. Quando non le trova, spesso è a causa del marchio che è costretto a portare nella vita a motivo delle proprie colpe ormai scontate. La rieducazione del condannato rappresenta un fondamentale percorso per la riappropriazione della propria dignità sociale per chi abbia scontato una pena. Ed è, nel contempo, un imprescindibile elemento di civiltà per un popolo, utile a favorire il pieno sviluppo della persona. Per contribuire a rendere patrimonio comune della Città di Chioggia la considerazione fondamentale che, a seguito della rieducazione, l’ex detenuto è ormai un cittadino libero, pronto a vivere una nuova vita nella quale sposarsi, avere figli e lavorare, senza avere nel tempo il marchio delle proprie azioni passate, venerdì 26 maggio alle ore 18 nella Sala consiliare del Comune di Chioggia si terrà un incontro pubblico dal titolo "La pena oltre la pena". Sarà così possibile affrontare questo rilevante tema che riguarda il vivere sociale di un popolo con relatori che lo considereranno sotto vari aspetti: amministrativo, educativo, giuridico e del volontariato in carcere con esperienza nel settore. Interverranno: Avv. Patrizia Trapella, assessore ai Servizi sociali del Comune di Chioggia Dott. Matteo Boscolo Anzoletti, assistente nell’Università di Padova Dott. ssa Benedetta Bagatin, educatrice della Cooperativa sociale Titoli minori (Chioggia) Dott. ssa Alessandra Naccari, educatrice della Cooperativa sociale Titoli minori (Chioggia) Prof. Giorgio Ronconi, Gruppo Operatori carcerari Volontari (Padova) Sono stati invitati: Dott.ssa Erika Baldin, consigliere della Regione Veneto Arch. Alessandro Ferro, sindaco del Comune di Chioggia. Napoli: Poggioreale a porte aperte, visite al carcere il 13 giugno Corriere del Mezzogiorno, 24 maggio 2017 Sarà possibile visitare il carcere di Poggioreale, sia pure solo negli spazi non destinati alla detenzione. L’ Unione camere penali italiane, con il proprio Osservatorio carcere, ha proposto all’amministrazione penitenziaria l’iniziativa "Carceri, porte aperte": "Conoscere come si svolge la vita in carcere, quanto realizzato e quanto progettato, ma anche la gestione di situazioni difficili, per carenza di strutture e di personale - si legge in una nota - darà la possibilità all’opinione pubblica di avvicinarsi ad un mondo da sempre sentito estraneo o comunque ignorato. Il Dipartimento ha indicato Napoli-Poggioreale e Verona-Montorio quali istituti dove sperimentare l’iniziativa. Sarà possibile visitare Poggioreale martedì 13 giugno alle 15.30. Le richieste dovranno pervenire entro il 29 maggio a uno dei seguenti indirizzi: cc.poggioreale.napoli giustizia.it; cc.poggioreale.napoli giustiziacert.it. Dovrà essere allegata la copia di un documento d’identità ed eventualmente indicate le motivazioni della richiesta e l’attività lavorativa svolta. La direzione dell’istituto, dopo i controlli di rito, risponderà comunicando l’eventuale benestare alla visita, fino ad un massimo di 40 persone. "Ci auguriamo - ha detto l’avvocato penalista Riccardo Polidoro, che è tra gli organizzatori dell’evento - che vengano a visitare gli istituti di pena anche imprenditori per offrire lavoro ai detenuti, tra l’altro ci sono agevolazioni fiscali molto forti". Per il direttore del carcere, Antonio Fullone, "è una iniziativa che abbiamo accolto subito in maniera positiva: contribuisce a rendere il carcere più trasparente, un luogo della società. Pensare di ricevere e ospitare dei cittadini per noi è molto importante, ci aiuta a costruire l’idea di carcere aperto". Belluno: "Talenti Dentro", i detenuti del carcere di Tolmezzo diventano attori studionord.news, 24 maggio 2017 Il carcere di Alta sicurezza di Tolmezzo diverrà nella mattinata di mercoledì 31 maggio alle 13 il palcoscenico per lo spettacolo "Talenti Dentro", rappresentazione teatrale di "Capriole in Salita", rivisitazione dell’opera di Pino Roveredo. Protagonisti e attori in scena saranno proprio i detenuti di quello stesso Istituto penitenziario i quali, grazie alla supervisione del Garante regionale, hanno avuto la possibilità di lavorare su loro stessi per ritrovare in prima persona la voglia di recupero e di risveglio. Lo stesso Pino Roveredo afferma che "dall’inferno si esce quando si decide che è il momento di vivere, perché solo da dentro può partire la rinascita, perché è dentro che si comincia a morire". Lo scopo è di far conoscere la realtà carceraria e di richiamare l’attenzione su quella che da anni è nel nostro Paese un’emergenza strutturale e sociale ai limiti della sopportabilità e umanità. Terrorismo. Quell’odio verso la vita di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 24 maggio 2017 Colpisce il contrasto tra la crudeltà di chi uccide e l’innocenza delle giovani vittime Dobbiamo vigilare, ma senza perdere il valore della nostra libertà. Quel che più colpisce, nel guardare le fotografie della strage degli innocenti a Manchester, è il contrasto tra le immagini infantili - i palloncini, le chitarre giocattolo, le orecchie da topolino - e la macabra crudeltà del terrorismo islamista. Che attacca senza strategia e anche senza tattica, animato dall’odio per la vita, con il solo fine di uccidere più bambini che può. È un contrasto, questo tra l’innocenza e la crudeltà, che in altri casi è stato additato come la prova della debolezza di un Occidente imbelle di fronte alla spietatezza dei suoi nemici. Invece l’innocenza dei bambini, degli adolescenti, delle mamme di Manchester va rivendicata. Non è un segno di impotenza ma di forza, di amore per la vita non meno irriducibile della ferocia con cui i nostri nemici ci combattono. E l’innocenza la dobbiamo difendere, in tutti i modi in cui può essere difesa: dalla paura, dal ripiegamento su noi stessi; ma in primo luogo dall’attacco degli islamisti. Che colpiscono sempre dove meno ce la aspettiamo. La guardia era alta soprattutto in Francia, dove il processo democratico che si concluderà con le legislative (11 e 18 giugno) finora è proseguito senza condizionamenti, nonostante l’attentato sugli Champs-Elysées. Anche nel Regno Unito si vota, l’8 giugno. Ma sono elezioni scontate, la vittoria dei conservatori non è in discussione, nessuna mossa del terrore potrà cambiarne il verdetto (come fece in Spagna nel 2004 la strage di Madrid). Stavolta il bersaglio degli assassini non era il Parlamento di Westminster, a differenza dello scorso 22 marzo. Erano i fan di una cantante che tanti tra noi adulti non avevano mai sentito nominare, ma è molto amata dai teenager. E l’obiettivo era accreditare uno dei paradigmi del terrore: il parallelismo della sofferenza tra i morti di Manchester e quelli in Siria, in Iraq, in Libia, in Yemen. Uno schema cui una parte dell’opinione pubblica europea, anche non islamica, è sensibile; ma che invece va respinto nel modo più assoluto. Le guerre civili in Medio Oriente e in Africa, accese dalla rivalità religiosa e dalla rivolta contro i vecchi autocrati, continuano anche perché le potenze regionali e quelle mondiali hanno l’ambizione di giocare un ruolo. Ma quale responsabilità possono portare i ragazzi che vanno a un concerto, i genitori che attendono all’ingresso, i famigliari che aspettano da casa telefonate che non verranno? Alzare muri è impossibile e in ogni caso inutile. Il Regno Unito non ha mai aderito agli accordi di Schengen, non ha mai sospeso i controlli alle frontiere, un anno fa ha votato per uscire dall’Europa. Ma non per questo è al riparo. Manchester poi è un centro di reclutamento per gli estremisti islamici (e chiudere due anni fa il consolato italiano, in un’area metropolitana dove vivono 60 mila nostri compatrioti, non è stata una grande idea). Questo però non può essere un alibi per rinunciare al governo dell’immigrazione, al presidio delle frontiere meridionali d’Europa, al controllo della propaganda jihadista su Internet e nelle periferie delle nostre città. Ovviamente la sicurezza è una condizione perduta per sempre. I motivi di allarme possono essere infiniti. Stasera proprio il Manchester United si gioca l’Europa League a Stoccolma. Tra nove giorni a Cardiff c’è la finale di Champions. Il primo luglio a Modena Vasco Rossi terrà il più grande concerto della storia italiana. Dovremo vigilare; però dovremo anche vivere. Attrezzarci per il tempo che ci è dato in sorte, trovare un equilibrio tra le opposte retoriche pacifista e bellicista, considerare l’innocenza un valore, la pavidità e l’indifferenza una colpa. Lo dobbiamo ai bambini di Manchester, ai nostri figli, e a noi stessi. Terrorismo. Uccidere i giovani, perché la jihad infrange il tabù di Alessandro Orsini Il Messaggero, 24 maggio 2017 I terroristi islamici giustificano l'uccisione dei bambini in tre modi principali. Al primo, molto diffuso negli attentati in Palestina, è di tipo militare. In questo caso i terroristi affermano che i bambini di oggi saranno i soldati israeliani di domani. Questa logica di ragionamento è stata riassunta da Ahlam Tamimi. Si tratta della terrorista che organizzò l'attentato contro la pizzeria "Sbarro" di Gerusalemme, il 9 agosto 2001. Morirono 15 civili, tra cui sette bambini e una donna incinta. In una video intervista, Ahlam Tamimi sorride compiaciuta alla notizia di avere causato la morte di così tanti bambini. Perché? I cittadini israeliani sono obbligati al servizio militare. Anche quando tornano alla vita civile, possono essere chiamati alle armi per combattere contro i gruppi palestinesi. Meglio che muoiano prima di indossare la divisa. Il secondo modo di giustificare l'uccisione dei bambini, molto diffuso negli attentati contro le città occidentali come Manchester, è di tipo politico-ideologico. Le società occidentali sono rette da democrazie rappresentative basate sul principio della laicità delle istituzioni ovvero sulla distinzione tra potere politico e potere religioso. Agli occhi dei terroristi islamici, la laicità delle istituzioni, combinata con il principio democratico, è un sacrilegio. Le leggi con cui gli uomini devono governarsi sono state già indicate da Dio e sono contenute nei testi sacri dell'Islam. È dunque sacrilego che gli uomini, raccolti in parlamento, perdano il loro tempo a ragionare sul modo in cui organizzare la vita pubblica e quella privata. L'omosessualità, ad esempio, è un peccato. I parlamentari dovrebbero limitarsi a emanare leggi per punirla. Non è in loro potere stabilire se sia lecita oppure no. Lo stesso discorso vale per la sottomissione della donna all'uomo. I governanti dovrebbero limitarsi a emanare una serie di leggi per impedire l'emancipazione delle donne. I terroristi islamici dicono che i cittadini occidentali, essendo liberi di eleggere i propri governanti, devono assumersi la responsabilità delle loro azioni in politica estera. Se i governanti inglesi bombardano le postazioni dell'Isis in Siria e in Iraq, tutti gli inglesi sono responsabili di quei bombardamenti. Questa logica di ragionamento è contenuta in un documento attribuito a Bin Laden, noto come "lettera agli americani", diffuso il 24 novembre 2002 in lingua inglese. Il brano che segue è uno dei più utili per entrare nell'universo mentale dei terroristi dell'Isis che colpiscono le città come Manchester: "Gli americani sono quelli che pagano le tasse con cui vengono finanziati gli aerei che ci bombardano in Afghanistan". Bin Laden non invitava ad accanirsi contro i bambini occidentali. Tuttavia, metteva in conto che potessero morire in un attentato, come quello del 7 luglio 2005 contro le metropolitane di Londra, ed era attrezzato ideologicamente per giustificare una simile eventualità. Il terzo modo di giustificare l'uccisione dei bambini occidentali è di tipo analogico. L'analogia è un rapporto di somiglianza tra due fatti. Siccome alcuni bombardamenti occidentali hanno provocato la morte accidentale di decine di bambini musulmani, i terroristi islamici ritengono ammissibile che un attentato terroristico possa provocare la morte accidentale dei bambini occidentali. In questo caso, la logica di ragionamento dei terroristi islamici si riassume nella formula: "Se muoiono i bambini musulmani, possono morire anche i bambini occidentali". Allo stato attuale delle nostre conoscenze, non risulta che un'organizzazione terroristica abbia pianificato, in modo strategico, di uccidere i bambini occidentali al posto degli adulti. Ciò che hanno deciso è di colpire i civili occidentali nella loro vita quotidiana. In realtà, la strage di Manchester è stata ispirata dalla prima regola che i kamikaze sono tenuti a imparare: "Gli attentati si conducono in luoghi affollati e senza controlli". I luoghi molto affollati sono i ristoranti, gli aeroporti, le metropolitane, le chiese, i concerti, i cortei pubblici e le vie del centro. La seconda regola dice che è preferibile che i luoghi affollati abbiano anche un valore simbolico. Tuttavia, la prima regola deve prevalere sulla seconda. L'importante è uccidere il maggior numero possibile di occidentali. Tra una chiesa con dieci fedeli e un concerto con mille ragazzi, il kamikaze è tenuto a scegliere il secondo obiettivo. La strage di Manchester si spiega con l'esigenza militare di infliggere il maggior numero di perdite al nemico. Quanto afferma l'Isis, nel suo comunicato di rivendicazione contro i giovani crociati, è una giustificazione a posteriori per farci più paura. Canada. L’erba liberal del Canada di Trudeau di Marco Perduca Il Manifesto, 24 maggio 2017 All’inizio di maggio, l’Assemblea legislativa dello Stato del Vermont ha depenalizzato per i maggiorenni il possesso di marijuana e la coltivazione di due piante. Salvo veti del Governatore repubblicano Phil Scott, la decriminalizzazione entrerà in vigore a metà 2018. La notizia arriva contestualmente alla presentazione in Canada di una proposta del governo per la regolamentazione della produzione, commercio e consumo della cannabis. Dopo otto referendum negli Usa e una decisione presidenziale in Uruguay, anche il legislatore inizia finalmente a legalizzare quelle che Marco Pannella definiva "non droghe". Se non meraviglia che il progressista Vermont abbia legalizzato, meno scontato era che il messaggio di rottura del candidato liberale Justin Trudeau si concretizzasse (anche) nella legalizzazione della cannabis. A smentire chi lo considera un soggetto più attento all’immagine che alla politica, dopo un anno di lavoro, Trudeau ritiene che i maggiorenni possano comprare marijuana per uso ricreativo nei negozi di liquori, o luoghi simili, secondo regole "provinciali" (il Canada è una federazione). Un elemento significativo della proposta è stata la consultazione pubblica attraverso il confronto di competenze, esperienze, dubbi e suggerimenti da parte dei cosiddetti "portatori d’interessi". A capo della commissione Bill Blair, un neo-deputato liberale con un passato nelle forze dell’ordine. La commissione ha coinvolto anche esperti internazionali per capire quali fossero le lezioni da imparare dagli Usa e iniziare a porsi il problema dell’aderenza della nuova normativa ai trattati internazionali, infatti il conflitto con la Convenzione Onu del 1961 resta aperto. Il modello proposto dal governo entrerà in vigore solo nelle province che decideranno di adottarlo, alle amministrazioni locali verrà anche demandata la decisione sulle modalità di distribuzione dei luoghi per l’acquisto dei prodotti, ivi compresa la vendita per posta. Fisse saranno invece la quantità che da maggiorenni si potranno possedere, 30 grammi, mentre il numero delle piante coltivabili è fissato in quattro. Se un minorenne venisse fermato con cinque grammi non sono previste sanzioni. Non saranno consentiti prodotti che mischino la cannabis ad altre sostanze (tè, caffè o sigarette aromatizzate alla marijuana); verranno rafforzati i controlli stradali e, per chi vende a un minorenne, le pene arriveranno a 14 anni. Inizialmente le tasse saranno tenute basse per scoraggiare il mercato nero mentre una proposta di amnistia retroattiva per ora non è rientrata nella versione finale della legge. Gli esperti canadesi calcolano che il mercato legale sottrarrà 7,5 miliardi di dollari dalle tasche del crimine organizzato e che l’indotto sarà superiore ai proventi della vendita dei prodotti. Secondo Deloitte, una società di consulenza finanziaria e investimenti, si tratta di oltre 22,6 miliardi di dollari. Il Canada è già leader mondiale nella preparazione di cannabinoidi medici e le sue multinazionali sono alla continua ricerca di nuove terre da coltivare. L’anno scorso alcuni emissari canadesi avevano visitato l’Italia nella speranza che presto sarebbe arrivata una regolamentazione legale, di recente si sono spostati in Colombia. Dal 2018 quindi, tra i nove stati Usa e il Canada, oltre 100 milioni di persone in Nord America potranno coltivare o comprare cannabis senza incappare in sanzioni. Un altro colpo mortale al proibizionismo. Certo, se dopo il Vermont anche il Parlamento italiano decidesse di portare a termine l’iter per la cannabis legale, sicuramente la reputazione dei politici nostrani ne trarrebbe beneficio, per non parlare della libertà, dell’economia e, diciamocelo, della qualità del fumato. Turchia. L’annientamento professionale nel settore pubblico di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 maggio 2017 Quello che una volta in Turchia era un ambito di lavoro sicuro, il pubblico impiego, si è trasformato nell’ultimo anno in un incubo. Dopo il tentato colpo di stato dello scorso luglio, sono stati licenziati oltre 100.000 impiegati - tra cui medici, agenti di polizia, insegnanti, docenti universitari e soldati - etichettati come "terroristi". Non solo hanno perso il lavoro, ma hanno anche visto la loro vita e la loro carriera professionale fatte a pezzi. In assenza di altri mezzi di sostentamento come la pensione, sono costrette a sacrificare tutti i loro risparmi, a fare affidamento su amici e familiari, a cercare un lavoro irregolare o a contare su piccoli contributi di solidarietà da parte dei sindacati. A molti dei lavoratori licenziati è vietato svolgere privatamente una delle professioni regolamentate dallo stato, come l’insegnamento e l’avvocatura. Allo stesso modo, i poliziotti e i soldati licenziati non possono ottenere impieghi simili nel settore privato. I pochi che possono farlo, come gli operatori sanitari, fanno fatica a trovare un lavoro, soprattutto uno analogo per posizione e salario a quello precedente. Le autorità hanno annullato il passaporto ai lavoratori licenziati, precludendo loro le possibilità di cercare lavoro all’estero e restringendo così ulteriormente le loro opportunità d’impiego. Tutto questo si legge in un rapporto diffuso ieri da Amnesty International, basato su 61 interviste svolte ad Ankara, Diyarbakir e Istanbul. Anche se alcuni dei licenziamenti, come ad esempio quelli dei soldati che hanno preso parte al tentativo di colpo di stato, possono essere giustificati, l’assenza di criteri rigorosi e di prove di singoli comportamenti illeciti getta un’ombra sulle dichiarazioni ufficiali circa la necessità dei licenziamenti per contrastare il terrorismo. Al contrario, le prove a disposizione suggeriscono che dietro alla purga si celino motivi discriminatori e arbitrari. A tutte le persone intervistate da Amnesty International è stata data alcuna spiegazione per il licenziamento, a parte la generica accusa di legami con i gruppi terroristi. Nonostante l’evidente arbitrarietà dei provvedimenti, non esiste alcuna valida procedura d’appello contro i licenziamenti nel pubblico impiego. La commissione incaricata a gennaio di riesaminare i casi manca d’indipendenza e di capacità d’azione efficace e oltretutto non è ancora operativa. Un piccolo numero di lavoratori licenziati ha intrapreso proteste pubbliche e subisce minacce, arresti e maltrattamenti. Nuriye Gülmen, una docente universitaria, e Semih Özakça, un insegnante, in sciopero della fame da 76 giorni, sono stati arrestati nel primo pomeriggio di ieri. Francia. La provocazione di Berger: "alberi di mele al posto del carcere di Lione" di Simona Rivelli ofcs.report, 24 maggio 2017 L’autore recentemente scomparso ispira il dibattito sui diritti dei detenuti. Una riflessione sulle carceri. L’occasione della dismissione del complesso carcerario di San Joseph e Saint Paul a Lione, offrì a John Berger, critico d’arte, scrittore e pittore britannico, l’opportunità di scrivere un testo, "Mentre lei sogna - lettera aperta sulle carceri a Raymond Barre, sindaco di Lione", pubblicato nel 2000 su Le Monde Diplomatique, trasformando, attraverso la poeticità del suo scritto, un evento locale e circoscritto nel tempo, in una riflessione universale e atemporale sulla disumanità delle carceri. La proposta dell’autore, nella lettera, è quella di sostituire i due ettari ricoperti dal carcere con un meleto, i cui alberi, per prosperare, avrebbero bisogno di 6-8 metri di spazio, mentre, come sottolinea Berger a conclusione del suo scritto, le celle del carcere misuravano appena 3×3,36 metri. Il diritto a vivere dignitosamente. La Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha stabilito che il detenuto in celle multiple "deve avere a disposizione come minimo tre metri quadrati di superficie calpestabile, perché in caso contrario la mancanza di spazio vitale è ritenuta talmente grave da dare adito alla forte presunzione di una violazione del carcerato a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti". Molto meno dello spazio di cui ha bisogno un albero per prosperare. Il destino del carcere di Lione. Nel 2010 il complesso carcerario di San Joseph e Saint Paul è stato trasformato in appartamenti, con un ambizioso progetto di riqualificazione e reintegrazione negli spazi urbani circostanti. Lo scritto di Berger per immagini. Il lavoro di Patrizia Bettarelli, che ha illustrato attraverso 13 tavole la lettera di Berger, esposte alla galleria La Nuova Pesa in una mostra appena conclusasi, riporta alla ribalta, a poco più di quattro mesi dalla scomparsa dell’autore, il tema delle carceri, come luogo di sogni e di disperazione. La disperazione dei detenuti. Secondo Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio e docente di Filosofia e Sociologia del Diritto nella Università di Perugia, intervenuto al dibattito organizzato in occasione della mostra, quanto sancito dall’articolo 27 della Costituzione, ovvero che le pene "devono tendere alla rieducazione del condannato", ingenera spesso nelle persone l’idea del carcere come opportunità, facendo perdere così la dimensione della disperazione che lo attraversa. La pena, come dice la parola stessa è sofferenza, e il volerne fare qualcosa di diverso, di rieducativo è un progetto ambizioso. La verità, ha spiegato Anastasia, è che la disperazione si concretizza nell’interruzione dei legami, dei rapporti, dei sentimenti. Insomma stravolge la vita delle persone che, qualche volta, reagiscono con l’autolesionismo o arrivano persino al suicidio (secondo l’Associazione Antigone per i diritti e le garanzie nel sistema penale, nel 2015 sono stati 43). Il futuro delle carceri. A conclusione del suo intervento, ha sottolineato come l’Istituzione carceraria non sia sempre esistita. Risale a 3-400 anni fa e nasce come superamento delle pene corporali. È quindi relativamente recente e l’opera di Berger è uno stimolo a immaginare qualcos’altro, ad avere la libertà di non pensare alle persone in gabbia come unica risposta. La vera sfida nel dibattito carcerario consiste, pertanto, nel ritenere di poter andare oltre, per dare risposte ferme ma dignitose alla necessità di salvaguardare il contratto sociale.