Padova, le accuse al direttore del carcere e il rischio di una caccia alle streghe di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2017 Va di moda in questo periodo prendersela con le associazioni, con le organizzazioni non governative, con i funzionari per bene della pubblica amministrazione. Si respira un brutto clima da caccia alle streghe. Esiste una grande tradizione italiana, unica in Europa, ed è quella dell’associazionismo. La storia delle associazioni in Italia è una storia nobile, ricca, che affonda le proprie radici nella resistenza al fascismo. È una storia che a qualcuno non piace. Esiste un’altra storia, quella della cooperazione e del mutualismo. Anch’essa è una storia importante, che ha consentito a intere generazioni di affrancarsi dai padroni. Non saranno singole inchieste o singole mele marce a infangarla. Resta una grande storia. Va difesa. Esiste infine una generazione di direttori e operatori sociali e di Polizia che hanno consentito all’amministrazione penitenziaria di tenere la barra costituzionale in periodi difficili. Così è accaduto ad esempio durante gli anni in cui a governare le prigioni era un ministro o un sottosegretario leghista. Pochi forse ricordano che nel 1994 sottosegretario alla giustizia era addirittura Borghezio. A Padova pare che l’ex direttore della casa di reclusione Due Palazzi, Salvatore Pirruccio, sia indagato per falso in quanto avrebbe declassificato alcuni detenuti originariamente inseriti nel circuito di alta sicurezza trasferendoli nei circuiti ordinari. La declassificazione è una prerogativa che spetta a chi dirige un carcere. Se un detenuto ha un comportamento che fa pensare a una prospettiva di reintegrazione sociale, se è attivo nella vita penitenziaria, se partecipa alle attività organizzate da associazioni e cooperative, è giusto che torni in un circuito ordinario di detenzione. Non viene scarcerato ma solo rimesso nelle sezioni normali. Sempre galera è. D’altronde ricordiamoci che i circuiti di alta sicurezza non hanno nessun - ma proprio nessuno - avallo normativo. Sono semplicemente una creazione amministrativa. Secondo quanto riportato da alcuni giornali, che l’ex direttore del carcere patavino sarebbe accusato di avere declassificato alcuni detenuti in quanto condizionato da associazioni quali Ristretti Orizzonti o cooperative quali la Giotto. Ristretti Orizzonti è un’esperienza straordinaria di informazione su quanto accade nelle carceri. La sua redazione è nel carcere di Padova. Vi sono occupati alcuni detenuti. Senza Ristretti Orizzonti tutti noi sapremmo assai meno di quel che accade in giro per le carceri italiane. Molto meno dei suicidi che affliggono tragicamente le nostre prigioni e di tutto il resto. Nelle scuole non si parlerebbe di carcere. Non avremmo percorsi di dialogo tra vittime e autori di reato. Tutte meritorie attività organizzate da Ristretti Orizzonti. La Cooperativa Giotto è nota non solo in Italia ma nel mondo perché impiega detenuti in carcere nella produzione di dolci e, in particolare, di panettoni. Il Papa di solito li ordina a Natale. Se quei detenuti non fossero stati declassificati, forse sarebbero stati trasferiti in carceri più dure interrompendo un percorso di risocializzazione avviato. La declassificazione è un atto che non dovrebbe neanche esistere. Tutti i detenuti dovrebbero essere reclusi secondo Costituzione e in regimi equivalenti. Solo il 41-bis ha un avallo legislativo, seppure di dubbia fondatezza. L’Italia deve andare fiera delle proprie esperienze, della propria storia sociale. Noi lo siamo. Nessuna inchiesta o protagonismo mediatico potrà infangarla. Attenzione alle derive orbaniane. Padova, uno "scandalo" che rischia di bloccare la riabilitazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 maggio 2017 È finito sotto inchiesta l’ex direttore del carcere di Padova Salvatore Pirruccio per aver declassato 12 detenuti dall’alta sicurezza al regime comune istituendo la commissione di valutazione a conti già fatti. Ma il direttore ha il potere decisionale per effettuare il declassamento? La riposta è no. Ripercorriamo la vicenda fin dall’inizio. La storia - della quale già se ne occupò il Dubbio a dicembre dell’anno scorso - nasce da un’inchiesta generica della procura di Padova che mise sotto la lente d’ingrandimento le declassificazioni, come se dietro ci fosse qualcosa di anomalo o ambiguo. Un’inchiesta legata a quella del traffico di droga che avveniva all’interno del carcere. Eppure è difficile capire quale sia il legame tra le due cose. Il traffico di droga e di cellulari avviene in molte carceri italiane e indistintamente tra detenzione dura o tenue. L’ultimo caso riguarda l’istituto penitenziario romano di Rebibbia. Ma in quale contesto avvennero le declassificazioni? Nell’aprile del 2015 è stato chiuso il reparto di alta sorveglianza (As3), il regime duro riservato a condannati per reati di tipo associativo (mafia, traffico di droga a livello internazionale, sequestri di persona, reati di terrorismo) per una sorveglianza più stretta rispetto ai "comuni" in quanto inseriti nella criminalità organizzata. È stato un duro colpo per molti di quei detenuti che avevano intrapreso un percorso di cambiamento legato al territorio padovano e, interrompendolo, hanno subito un forte danno; inoltre c’è da ricordare che da qualche anno - proprio all’interno del carcere di Padova - vengono organizzati dalla redazione di Ristretti Orizzonti dei convegni con docenti universitari, giuristi e persone esterne, ai quali intervengono anche detenuti ristretti in sezioni di alta sicurezza. Detenuti che collaborano attivamente sia con la redazione di Ristretti Orizzonti, sia con la cooperativa Giotto considerata un esempio virtuoso anche dall’ex premier Matteo Renzi quando visitò il carcere di Padova. Secondo quanto riportato da alcuni organi della stampa, l’attuale inchiesta che ha puntato i riflettori nei confronti dell’ex direttore Pirruccio, pone sotto accusa anche la coincidenza che tutti i detenuti "salvati" dal trasferimento lavorassero proprio nelle cooperative Giotto e Ristretti Orizzonti. In realtà, Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, raggiunta da Il Dubbio, respinge questa ricostruzione spiegando che nessuno dei 12 declassificati collabora con loro. Anzi, ci sono cinque reclusi in As1 (sezione di alta sorveglianza che attualmente ospita 18 detenuti) che non sono declassificati e partecipano attivamente alla loro attività. Eppure, anche se la ricostruzione fosse stata vera, è difficile cogliere l’eventuale anomalia: vuol dire che il percorso rieducativo funziona e per ovviare all’interruzione dovuto dal trasferimento, alcuni detenuti reclusi in As3, per i quali era stato verificato il raggiungimento di obiettivi risultati di progressione trattamentale come prevede l’ordinamento penitenziario, sono stati declassificati e ristretti assieme agli altri detenuti comuni di media sorveglianza. Inoltre, c’è da dire che il Dap - attraverso il parere della competente Procura Distrettuale Antimafia- non ha accolto tutte le proposte di declassificazioni. Anche perché la declassificazione non la decide il direttore del carcere e la procedura è chiara: prevede che le singole direzioni penitenziarie, d’ufficio o a richiesta di parte, inoltrino alla direzione generale detenuti e trattamento le proposte di fuoriuscita dal circuito di alta sicurezza, corredate dal parere fornito dal gruppo di osservazione e da tutta la documentazione giudiziaria posseduta, nonché le informazioni all’uopo assunte presso organi investigativi qualificati. Ciò significa che la proposta di declassificazione che giunge sul tavolo è comunque completa, compresa la valutazione della commissione. Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e sempre in prima fila per la difesa dei diritti dei detenuti, ha spiegato a Il Dubbio che la declassificazione, in realtà, è stata applicata raramente e ciò lo considera uno sbaglio. "Come prevede l’ordinamento penitenziario - aveva spiegato la direttrice - ogni sei mesi andrebbe svolta una verifica su ogni detenuto recluso nel regime di alta sorveglianza per valutare se abbia raggiunto i requisiti per ricevere una carcerazione più tenue". Quelli che vengono "declassificati" non sono quindi restituiti alla libertà. Il che "non significa regalargli chissà quali privilegi - spiega sempre Favero, significa solo trattarli un po’ più da persone e un po’ meno da merci da scaricare da un carcere all’altro. O pedine da spostare su una scacchiera per rendere più funzionali quei circuiti, nati nell’emergenza e fatti per durare il tempo necessario per superare quella fase e dilatati invece all’infinito come succede per tutte le emergenze nel nostro Paese". Il sospetto da parte della direttrice di Ristretti Orizzonti è che questi "scandali" servano per bloccare determinati percorsi volti alla riabilitazione del detenuto. Recensione di un ergastolano del libro "Cattivi per sempre?" di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 23 maggio 2017 Il carcere in Italia spesso, oltre a non rieducarti, ti ammazza la mente e il cuore e lo fa in silenzio senza che nessuno sappia nulla, perché ci vuole tanto coraggio a scendere all’inferno e parlare, confrontarsi con i maledetti, i cattivi e i colpevoli per sempre. La giornalista Ornella Favero l’ha fatto. E dall’esperienza di questo viaggio ha scritto un bellissimo libro dal titolo: "Cattivi per sempre? Voci dalle carceri: viaggio nei circuiti di Alta Sicurezza" (Editore: Edizioni Gruppo Abele). Se leggerete questo libro, con le testimonianze raccolte da Ornella, scoprirete che gli ergastolani senza scampo passano la loro esistenza ad osservare la loro vita senza farne parte, perché non hanno più giorni davanti che li aspettano. E al mattino si svegliano con le ossa rotte, il cuore a pezzi e l’anima in fondo al mare perché la pena dell’ergastolo ostativo è una condanna senza umanità, ti ruba l’amore, ti mangia il cuore e ti succhia la speranza. Verrete a sapere che esiste una "pena nella pena", perché i gironi infernali del regime del 41 bis e dell’Alta sicurezza dei cattivi per sempre sono spesso dei veri cimiteri che ti fanno sentire che non fai più parte di questo mondo. E con il passare degli anni molti di loro diventeranno dei veri vegetali: né morti né vivi. Forse molti di voi non sanno che non tutte le carceri sono uguali e, secondo il comportamento processuale o il tipo di reato, attraverso criteri molte volte arbitrari, rimessi a una specie di dispotismo delle autorità carcerarie, vengono sbattuti nel girone più basso delle nostre patrie galere. Se leggerete questo non potrete più dire "io non sapevo" perché verrete a conoscere, da una seria giornalista, che i circuiti di Alta Sicurezza sono spesso dei veri luoghi di follia istituzionale, senza orizzonti e senza nessun Dio. Leggendo questo libro scoprirete che nella maggioranza dei casi il carcere, così com’è oggi in Italia, produce solo tanta recidiva, perché una pena crudele e cattiva non fa riflettere sul male commesso. E una sofferenza inutile non fa bene a nessuno, neppure alle vittime dei reati. In fondo ai cattivi per sempre non serve poi molto per migliorarsi, se non un po’ di speranza e amore sociale. Sono convinto, come lo è l’autrice di questo libro, che senza speranza è difficile rimanere umani, perché è difficile migliorare quando capisci che non esisti più e non conti più nulla. Ogni essere umano per migliorare e riflettere sul male che ha commesso ha bisogno di sperare e di essere condannato ad amare ed essere amato, perché solo l’amore sociale ti fa uscire il senso di colpa. Grazie, Ornella, di avere scritto questo libro e di avere dato voce e luce ai "cattivi per sempre" e grazie a chi lo leggerà perché, per migliorare le nostre infernali Patrie Galere, i lettori sono anche più importanti degli scrittori. Riforma del processo penale all’esame in Aula, intanto gli avvocati incrociano le braccia di Marina Crisafi studiocataldi.it, 23 maggio 2017 Bocciati tutti gli emendamenti, il testo approda a Montecitorio. Non si placano le polemiche e gli avvocati proclamano sciopero. Tempi stretti per la riforma del processo penale che da oggi inizia l’esame finale a Montecitorio, dopo l’ok della commissione giustizia della Camera che ha respinto tutti gli emendamenti al ddl. La discussione si incentra quindi sul maxiemendamento, licenziato dal Senato il 15 marzo scorso, che sta suscitando battaglia dentro e fuori il Parlamento. È guerra, infatti, non solo da parte delle opposizioni, che vedono la riforma come troppo blanda e non in grado di risolvere i problemi della giustizia penale, ma anche da parte degli avvocati penalisti che hanno proclamato astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria da oggi sino al 25 maggio per contestare l’impianto complessivo del ddl. Data la situazione, la fiducia annunciata dal Governo sembra vacillare, ma ciò comporterà che anche una piccola modifica farà tornare il testo al Senato rinviando così il semaforo verde alla riforma. Il ddl, composto da un unico articolo, suddiviso in 95 commi, introduce molte novità sia sul piano del diritto sostanziale, prevedendo una nuova causa di estinzione dei reati perseguibili a querela, a seguito di condotte riparatorie, nonché intervenendo sulla disciplina di alcuni reati, inasprendone le pene, sia su quello processuale, con misure che vanno a modificare la disciplina dei riti speciali, delle indagini preliminari e del procedimento di archiviazione, ecc. Ulteriori modifiche riguardano il fronte della prescrizione e delle intercettazioni e la delega dettagliata al Governo riguardo al regime di procedibilità di alcuni reati, alla disciplina delle misure di sicurezza, del casellario giudiziario e alla riforma dell’ordinamento penitenziario. Ecco in pillole le principali novità. Intercettazioni - La riforma delega il Governo ad occuparsi della disciplina delle intercettazioni, con la previsione di una serie di misure utili a garantire la riservatezza dei cittadini, l’uso dei trojan con comando attivato da remoto e l’introduzione di una nuova fattispecie di reato integrata da chi diffonde immagini o conversazioni telefoniche captate in maniera fraudolenta al fine di infangare la reputazione dell’interessato e punita sino a 4 anni. La punibilità, in ogni caso, è esclusa, quando le registrazioni sono prova in un processo o sono utilizzate per difesa o per diritto di cronaca. Il ddl punta anche a risparmiare sul budget necessario per le intercettazioni, riducendolo della metà. Prescrizione - Uno degli aspetti più controversi della riforma penale riguarda la prescrizione dei reati. Vengono previste, in particolare, alcune ipotesi di sospensione e altre di decorrenza posticipata (in caso di alcuni reati in danno di minori a partire dal compimento della maggiore età della vittima). In ogni caso, non è possibile l’aumento oltre la metà del tempo necessario per la prescrizione di reati come corruzione, concussione e peculato. Indagini preliminari - Tra le varie modifiche processuali, merita rilievo la previsione secondo la quale i PM avranno al massimo 3 mesi di tempo (prorogabili per altri 3) a partire dal deposito degli atti delle indagini preliminari per chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato ovvero l’archiviazione. Il mancato rispetto del termine comporta l’avocazione obbligatoria da parte del procuratore generale presso la Corte d’appello. In ogni caso, per i reati di mafia il termine si estende a quindici mesi. Inasprimento pene - Il testo licenziato dal Senato, prevede inoltre l’aumento di pena per alcuni reati, come l’estorsione aggravata, il furto in abitazione, lo scippo, la rapina e lo scambio elettorale politico-mafioso. Estinzione del reato - Sul fronte procedibilità, il ddl delega il Governo a modificare il regime di procedibilità di alcuni reati (prevedendo la querela per i reati contro la persona puniti con pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore nel massimo 4 anni). Il ddl introduce inoltre per i reati procedibili a querela l’estinzione del reato per condotta riparatoria-risarcitoria del responsabile. Sarà il giudice, sentite le parti e la persona offesa, a dichiarare l’estinzione se l’imputato avrà riparato interamente al danno, attraverso la restituzione, il risarcimento ovvero l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Riforma ordinamento penitenziario - Il ddl delega anche la riforma dell’ordinamento penitenziario, al fine di garantire ai detenuti: pluralismo e libertà di culto, semplificazione delle modalità di accesso ai benefici carcerari per buona condotta, miglioramento delle tutele e delle agevolazioni previste per le detenute madri, aumento delle opportunità di lavoro retribuito durante la detenzione, potenziamento dell’assistenza psichiatrica e integrazione dei detenuti stranieri. Abolizione dei manicomi giudiziari - La riforma in cantiere, infine, cancella i manicomi giudiziari e prevede l’introduzione definitiva delle "Rems" (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) per i detenuti che siano affetti da disturbi psichici conclamati. Riforma del processo penale. Con la nuova prescrizione processati a vita pure i pm di Errico Novi Il Dubbio, 23 maggio 2017 L’incrocio micidiale tra ddl penale e legge sulle "toghe sporche". Non è chiaro se il voto unanime dei senatori sul ddl "toghe sporche" sia stato incoraggiato da fatti recenti, come l’indagine sulla presunta cricca di magistrati e professionisti che a Palermo si sarebbero spartiti i beni sequestrati - l’ormai celebre caso Saguto. Può darsi si tratti solo di un modo per dire che in tempi di massimi di pena giocati al rialzo non si può essere teneri con nessuno, tantomeno con i giudici. Fatto sta che il testo prossimo a sbarcare nell’aula di Palazzo Madama arriva a punire i magistrati riconosciuti colpevoli di concussione con l’astronomica sanzione di 18 anni di galera. Uno scherzo del destino vuole che la calendarizzazione di quest’ultima legge quasi coincida con l’ultimo giro del ddl penale, ieri in discussione a Montecitorio: intreccio dall’effetto dirompente, se si pensa che con le nuove norme in tema di prescrizione inserite nella riforma del processo, un giudice "concessore" potrebbe restare a giudizio qualcosa come 27 anni. Più di un quarto di secolo. La coincidenza è davvero istruttiva. Proprio la magistratura aveva chiesto ripetutamente che la prescrizione fosse corretta in senso ancora più stringente, e cioè in modo che dopo la prima condanna il timer stoppasse per sempre, e che quindi le fasi successive, Appello e Cassazione, potessero durare anche in eterno. Su questa stessa posizione sono schierati ovviamente i Cinque Stelle. Ma appunto il potenziale l’incrocio fra il ddl toghe sporche e il ddl penale forse aiuterà persino i grillini a riflettere sulla reale portata delle loro esagerazioni. In ogni caso ieri la Camera si è appena affacciata sulla legge più tormentato della legislatura, la riforma penale appunto. Il tempo per gli interventi della relatrice Donatella Ferranti e di pochi altri deputati. Tra questi l’azzurra Gabriella Giammanco, che ha annunciato un emendamento forzista per proteggere i colloqui tra gli avvocati e i loro assistiti con la "interdizione dell’ascolto" e la "esclusione di ogni filtro volto all’analisi dei relativi contenuti da parte della polizia giudiziaria e del pm". Sarebbe stata la strada da seguire fin dall’inizio. Ma di correzioni alla Camera non se ne parla. L’esame è stato aggiornato "a data successiva", se ne riparlerà dunque dopo il ddl sui parchi e la manovrina: molto probabilmente a metà giugno, quando si sarà già votato per le Amministrative. Vuol dire che a quel punto il Pd e Renzi potrebbero anche dare via libera alla fiducia, con buona pace di ogni possibile correttivo. Nella delega sulle intercettazioni ci sono limiti concepiti per tutelare la privacy sia degli indagati che degli estranei all’indagine: il più significativo è l’obbligo per il pm di assicurarsi che la polizia giudiziaria non osi neppure trascrivere le conversazioni non utili al procedimento e che avrebbero una sola funzione: sputtanare indebitamente gli intercettati. Niente di straordinario, ma come riconoscono sia il presidente dell’Anm Albamonte sia il procuratore di Roma Pignatone, "è almeno un primo passo". Renderlo più deciso, per esempio sul divieto assoluto di ascoltare le conversazioni degli avvocati, sembra ipotesi remota. Se fosse approvato anche un solo emendamento il testo tornerebbe di nuovo al Senato. A quel punto il ddl morirebbe seppellito lì. E quand’anche Palazzo Madama facesse il miracolo di votarlo a tempo di record, difficilmente arriverebbero in tempo i decreti delegati sulle intercettazioni (e sulla riforma penitenziaria). I pur timidi schermi protettivi allo sputtanamento per via giudiziaria evaporerebbero, perché le leggi delega perdono effetto col finire della legislatura. Sarebbe l’ennesima occasione persa. E il segnale che neppure una vicenda folle come quella di Consip basta a svegliare un minimo di decenza. Riforma del processo penale: più facile e frequente l’utilizzo di trojan nelle indagini di Carola Frediani La Stampa, 23 maggio 2017 Nel disegno di legge di riforma del processo penale si apre all’uso di trojan per molti reati. E con poche garanzie. Nella guerra sempre più aperta che si sta consumando sul disegno di legge di riforma del processo penale - che questa settimana approda alla Camera - si è aperto anche un fronte che riguarda i captatori informatici, ovvero i trojan usati nelle indagini. Il provvedimento, fortemente voluto dal ministro della Giustizia Orlando (e su cui a quanto pare non verrà posta la fiducia) prevede anche una delega al governo, da esercitare entro tre mesi, per rivedere le regole sulle intercettazioni. E quindi fornisce dei principi e delle linee direttive per i decreti legislativi che dovranno essere adottati dal governo. Se però sulle intercettazioni il disegno di legge tira il freno del garantismo - prevedendo ad esempio una maggior tutela della riservatezza delle comunicazioni, in particolare quelle riguardanti il rapporto difensori e assistito, o persone occasionalmente coinvolte nel procedimento, o anche quelle non rilevanti a fini penali - sui captatori sembra invece premere sull’acceleratore. Dando il via libera a un’ampia casistica di utilizzo. Il ddl infatti fornisce indicazioni anche sulla disciplina di "intercettazioni di comunicazioni o conversazioni tra presenti mediante immissione di captatori informatici in dispositivi elettronici portatili". Di cosa stiamo parlando? In generale di quei software malevoli (trojan o spyware) installati di nascosto su un pc, smartphone o tablet per spiarne le attività. Ma il riferimento specifico qui è a una loro funzione particolare, quella che permette di attivare il microfono di un dispositivo trasformandolo in una cimice mobile che permetta di captare le conversazioni dell’indagato (intercettazione tra presenti). Per il ddl l’attivazione di questa funzione è ammessa non solo per reati gravi (mafia e terrorismo), ma anche per tutti i reati per cui sono previste le intercettazioni (tra presenti). "Incluse molestie e minacce", commenta a La Stampa l’avvocato Stefano Aterno, che da tempo segue il tema trojan. Una direzione molto diversa rispetto ad altre proposte passate (di cui avevamo parlato qua ), che cercavano di delimitare il perimetro di utilizzo dei captatori. Il testo del ddl inoltre prevede la possibilità di operare sul trojan, avviando la registrazione audio, anche da parte di "personale incaricato" dalla polizia giudiziaria, oltre che dalla stessa. Cosa significa? Vuol dire continuare a far gestire le indagini anche a società private, come avviene oggi. Il provvedimento indica poi un decreto ministeriale che individui dei requisiti tecnici cui dovranno conformarsi i captatori utilizzati. Ma mancano una serie di ulteriori garanzie per assicurare la tracciabilità dei procedimenti e la verifica da parte dei legali. Il ddl non affronta infine alcune funzioni-chiave dei trojan, che non sono usati solo per ascoltare conversazioni, ma anche come mezzo di perquisizione da remoto di un dispositivo. Possono infatti accedere a file, mail, chat, documenti, foto, fare screenshot dello schermo e via dicendo. Se, quanto e come verranno utilizzate queste funzioni? "Alcune di queste oggi sono già usate attraverso il principio giuridico della prova atipica, che fa acqua da tutte le parti", commenta Aterno. "In questo modo il rischio del testo attuale è che si potenzino questi strumenti investigativi senza fare lo stesso con le garanzie difensive". Perplessità sulle linee guida nella disciplina dei trojan arrivano anche da alcune associazioni che si occupano di diritti umani e digitali. Secondo un comunicato e un’analisi diffuse dalla Ong britannica Privacy International e da Cild (Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili) l’attuale proposta non rispetterebbe "gli standard di legalità, necessità e proporzionalità, né stabilisce procedure sufficienti di minimizzazione, vigilanza efficace o salvaguardia da abusi". A questo punto bisognerà vedere se e come il provvedimento verrà modificato attraverso degli emendamenti. Altrimenti, dopo innumerevoli travagli, l’Italia potrebbe infine regolare l’uso dei trojan in modo più permissivo rispetto a una buona parte delle analisi e dei dibattiti sviluppati al riguardo negli ultimi anni. Sabino Cassese le intercettazioni e l’oppio del popolo di Claudio Cerasa Il Foglio, 23 maggio 2017 Un paese ripiegato, che bada alle intercettazioni e non alla sostanza. Intervista a Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale. Professor Cassese, l’Istat ha fotografato, nei giorni scorsi, un’Italia immobile, cristallizzata. Vorrei parlare con lei di quello che una volta si sarebbe detto lo "spirito pubblico", che l’Istat non ha potuto registrare. Bene, parliamo di quel che accade nello spazio pubblico, non in termini astratti, bensì partendo da evidenze empiriche, prendendo le mosse da segnali concreti. Cominciamo, tuttavia, da una valutazione d’insieme. L’Istat ha presentato un paese che cammina, mentre gli altri paesi europei corrono. A me l’Italia pare oggi ripiegata su se stessa e distratta dai veri problemi. Se fosse un corridore, si direbbe che è stanco e deconcentrato. Perché ripiegato su se stesso? La battuta d’arresto del referendum ha avuto il suo risultato, quello di chiudere il quasi trentennio di "una Repubblica da riformare". Ora la sfiducia nelle istituzioni è aumentata: sappiamo che funzionano a scartamento ridotto e temiamo che non si possano più modificare. Perché distratta dai veri problemi? Qui la risposta è più difficile, perché riguarda il rapporto tra opinione pubblica, media e azione di governo. Facciamo un esempio. Uno del maggiori giornalisti, Ferruccio de Bortoli, scrive un libro su più di quarant’anni di esperienza. Nel libro vi sono tre giudizi importanti: "I poteri forti del Paese hanno un corpo gracile" (p. 100); "il paese ha avuto solo raramente poteri forti" (p. 68); "i poteri forti non esistono più. Ne avremmo bisogno" (p. 102). I mezzi di informazione e l’opinione pubblica, invece di soffermarsi su questi giudizi, che costituiscono il messaggio del libro e la sua ragion d’essere, e dovrebbero preoccupare i lettori, pescano una frase riferita a un colloquio di due anni prima. Un colloquio in cui si chiedeva di "valutare una possibile acquisizione" di una banca da parte di un’altra banca, frase restata senza un seguito concreto, e vi costruiscono una discussione. Mi chiedo: che cosa è più importante, quale dei due fatti dovrebbe preoccupare di più? Mi chiedo ancora: perché De Bortoli, che ha diretto alcuni dei maggiori giornali italiani, ha scritto quel libro, per richiamare l’attenzione sulla debolezza del potere pubblico in Italia, oppure per riferire di passaggio il contenuto di un colloquio tra un ministro e un banchiere? O voleva per caso dire che i ministri contano così poco in Italia che, se chiedono a un banchiere di "valutare l’opportunità" di una acquisizione, il banchiere può agevolmente e rapidamente decidere di "lasciar perdere"? Perché ritiene tanto importante questo indizio? Perché è un indizio di una realtà fatta di notizie che portano l’attenzione dell’opinione pubblica su altri problemi, che potrebbero anche essere importanti se fossero forniti con precisione tutti gli elementi di contesto. Le faccio un altro esempio: un settimanale ha intitolato un servizio "l’inchiesta che fa tremare il Consiglio di Stato". Se si comincia a leggere l’articolo, si scopre che si riferisce di una intercettazione in cui gli intercettati avevano avuto una "sentenza negativa", avevano "preso un altro bidone". Il Consiglio di Stato deve tremare o rallegrarsi della sua severità? E delle intercettazioni che pensa? Quelle sono la fonte prima dei pettegolezzi che distolgono dai veri problemi, hanno la funzione di "oppio del popolo". Dovremmo interrogarci su tanti altri e veri problemi: in che condizioni è la scuola? come è gestita la sanità? come procede la pubblica amministrazione e quali danni si stanno facendo sistemando in ruolo nuovamente migliaia di precari senza concorso? che si fa per difendere l’industria italiana dalle "scorrerie", senza tuttavia tradire il nostro impegno europeo? come impedire che riprendano quota i vecchi vizi, alimentati dai sindacati? le diseguaglianze crescenti sono quelle di reddito (per cui conta quello che hai) oppure invece quelle di opportunità (per cui conta quello che puoi)? perché perdono quota i punti di riferimento, le autorità morali, quelle che hanno la capacità di parlare al paese, come, ad esempio, il Presidente della Repubblica? Perché va crescendo tanta acredine nei rapporti tra le forze politiche? In sostanza, lei pensa che si va allargando la distanza tra i fatti e il racconto dei fatti. Sì, al punto tale che qualcuno è giunto a ipotizzare che un governo che volesse gestire il potere indisturbato dovrebbe inventarsi ogni settimana qualche scandalo, al quale tutti possano correre dietro. Così dietro le quinte si può lavorare tranquillamente, mentre sul palcoscenico si azzuffano. Non dirà sul serio. Non credo alla fantapolitica, quindi neanche io credo a questa prospettiva estrema. Ma anche chi governa ha diritto di sperare in qualche "momento di felicità", come quelli che Walter Veltroni, cronista e poeta, muovendosi tra i sentimenti, è riuscito a dipingere con efficacia nel suo ultimo film. Per terminare con una nota positiva, le voglio leggere una lettera di Carlo Cattaneo, del 1847, al viceconsole inglese di Milano: "La cultura e la felicità dei popoli non dipendono tanto dalli spettacolosi mutamenti della politica quanto, dall’azione perenne di certi principi che si trasmettono inosservati in un ordine inferiore di istituzioni", quelli che "sono poco visibili, non scritti, son tramandati per consuetudine, cristallizzati in forma di mentalità diffusa". In Italia, abbiamo un passato che rimane presente, la disseminazione urbana (ancora una volta Cattaneo: "La città come principio ideale delle storie italiane"; insomma, l’Italia delle cento città, Braudel, e l’insigne faiblesse), il surviving without governing. Consiglio di leggere Piero Bevilacqua, "Felicità d’Italia. Paesaggio, arte, musica, cibo", Laterza, per "tirare su il morale". Mafia e magistrati, la svolta di Falcone di Isaia Sales Il Mattino, 23 maggio 2017 Ciò dovrebbe suggerire di essere cauti nell’accreditare una sconfitta definitiva di Cosa Nostra. Siamo di fronte a un suo indubbio ridimensionamento, non alla sua fine. E questo ridimensionamento è cominciato con Giovanni Falcone e con la generazione di magistrati che lo ha affiancato e poi sostituito. Quando morì nel 1954 Calogero Vizzini, il capo della mafia siciliana di quell’epoca, comparve sulla rivista giuridica "Processi" il seguente sconvolgente commento di Giuseppe Guido Lo Schiavo, primo presidente della Corte di Cassazione: "Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi ed ai fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell’ordine. Oggi si fa il nome di un autorevole successore di Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto alla legge dello Stato e al miglioramento sociale della collettività". Che dire di queste affermazioni di uno dei massimi esponenti della magistratura italiana di allora, per di più siciliano’ Intanto che i magistrati sapevano già chi sarebbe stato il successore di Vizzini, cioè Giuseppe Genco Russo, e non vanno ad arrestarlo, anzi lo elogiano ("autorevole successore"), perché non lo considerano un fuorilegge, così come non considerano tale il Vizzini, né tantomeno la mafia siciliana un’associazione a delinquere. Questo articolo non fece scalpore, il magistrato non fu richiamato, il suo parere non contrastato, né si usò verso di lui alcuna misura disciplinare. Il suo scritto fu considerato "normale" perché tale era la percezione che le classi dirigenti della Sicilia e dell’Italia avevano di Cosa nostra. Era l’epoca in cui il procuratore di Caltanissetta, Busuito, seduto al circolo dei civili, si alzava e andava incontro allo stesso Calogero Vizzini, a quell’epoca imputato, per salutarlo con deferenza davanti a tutta la città. Il parere di Lo Schiavo era condiviso da un notevole numero di magistrati che non aveva timore di dichiarare pubblicamente che la mafia non solo non era un problema ma addirittura era una "forza d’ordine", un’organizzazione che collaborava con le forze di sicurezza dello Stato, cioè anche con i magistrati. Significativo il fatto che nel secondo dopoguerra in Sicilia i riferimenti alla mafia sono appena accennati o del tutto rassicuranti nelle prime relazioni dei procuratori generali alle inaugurazioni dell’anno giudiziario. Nel 1965 due membri della commissione parlamentare antimafia, Giovanni Elkan e Mario Assennato, svolsero un’approfondita indagine per verificare la causa dei numerosissimi casi in Sicilia di assoluzione per insufficienza di prove e di archiviazione delle denunce anche di fronte a prove schiaccianti, e misero per iscritto che si trattava di qualcosa di abnorme e di ingiustificato. Nello stesso 1965, Tito Parlatore, procuratore generale della Cassazione, aveva sentenziato (a proposito dell’omicidio del sindacalista Salvatore Carnevale) che la mafia non era materia da tribunali, ma tutt’al più "materia per conferenze". Rileggendo queste posizioni appare del tutto chiaro perché Giovanni Falcone rappresenti una radicale contrapposizione a questa magistratura ancella del potere politico e sostenitrice del valore "d’ordine" della mafia. Con Falcone finisce l’epoca della impunità della mafia che era durata per più di un secolo e mezzo. Già prima di lui alcuni altri magistrati, totalmente isolati, avevano avviato un tentativo di inversione di tendenza (Rocco Chinnici, Giovanni Costa, Cesare Terranova) ma le cose cambieranno radicalmente quando una nuova generazione di magistrati sostituisce quella che in gran parte giustificava la mafia. Il formalismo giuridico è stato nel tempo uno degli strumenti più utilizzati dalla magistratura per smontare i processi i mafiosi. Ciò avveniva soprattutto in Cassazione, grazie anche all’opera del giudice Corrado Carnevale. Il giudizio di Giovanni Falcone su Carnevale era spietato. Perciò si adoperò affinché non fosse sempre lui a giudicare le sentenze che riguardavano i mafiosi. E fu necessario un provvedimento legislativo ad hoc per ottenere la rotazione delle attribuzione in Cassazione nei processi di mafia. Dunque, nella storia delle mafie (e nella storia del loro successo) la giustizia e i suoi palazzi e i suoi uomini non hanno certo giocato un ruolo marginale, anzi. Giuseppe Ayala racconta che un magistrato di Palermo rivolse questa domanda a Giovanni Falcone: "Ma tu sei sicuro che la mafia esiste". Il campo dell’antimafia oggi è monopolizzato dai magistrati. E questo iper-protagonismo dei giudici non è unanimemente considerato come un fatto positivo. Non era affatto così fino alla fine degli anni ‘70 del Novecento. L’inversione di tendenza della magistratura nel campo della lotta alle mafie è un fatto recente, e non sempre acquisito una volta per tutte. Non dimentichiamo che quando Buscetta decise di collaborare disse a Falcone: "Io parlo perché c’è lei; con altri giudici non avrei parlato". A cosa è stata dovuta questa radicale inversione di tendenza che ha rotto con gli equilibri precedenti? È l’ingresso nella magistratura di una nuova leva di magistrati formatisi nella temperie della contestazione studentesca del 1968 a cambiare le cose, rompendo con la tradizione di una professione che si passava di padre in figlio, e soprattutto rompendo con la sudditanza al potere politico. Servire lo Stato non è più servire gli interessi delle classi dirigenti e possidenti. Si forma così la prima generazione di magistrati per i quali la legge non coincide con gli interessi della propria classe sociale, la prima generazione con un senso dello Stato del tutto diverso da quella di prima. Da questo punto di vista si può considerare la scolarizzazione di massa come l’unica vera rivoluzione prodottasi nel Sud in epoca recente. E Giovanni Falcone lo ha dimostrato. Il ricordo di Falcone, parziale riscatto di una storia amara di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 23 maggio 2017 Nella stessa aula del Consiglio superiore della magistratura dove più volte fu chiamato a discolparsi come un imputato, il potere giudiziario al suo più alto livello celebra il "servitore dello Stato" assassinato nella strage di Capaci. Davanti al presidente della Repubblica che lo definisce "un punto di riferimento in Italia e all’estero per chiunque coltivi il valore della legalità e della civiltà della convivenza", si realizza il parziale riscatto di una storia densa di conflitti, trappole e amarezze: nella stessa aula del Consiglio superiore della magistratura dove più volte Giovanni Falcone fu chiamato a discolparsi come un imputato, il potere giudiziario al suo più alto livello celebra il "servitore dello Stato" assassinato 25 anni fa nella strage di Capaci, e le sue doti di imparzialità, indipendenza ed equilibrio. Ma in vita, quando era l’uomo simbolo di un’antimafia già foriera di divisioni e polemiche, andò diversamente. All’indomani della storica vittoria nel maxi-processo a Cosa nostra il Csm gli negò la nomina a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, dove intendeva proseguire un lavoro che invece fu interrotto; poi arrivarono le calunnie del Corvo e le insinuazioni sul fallito attentato all’Addaura, quindi la mancata elezione allo stesso Csm, le accuse di essersi venduto al potere politico e infine il muro per sbarragli la strada verso la neonata Superprocura. Un’ostilità reiterata che solo l’esplosione del 23 maggio 1992 fece cessare. Di tutto questo il Csm di oggi sembra fare ammenda, e offre una sorta di risarcimento postumo al magistrato. La frase più citata di Falcone diventa quella sugli avvisi di garanzia che non possono essere distribuiti "come coltellate", pronunciata quando gli rinfacciarono di tenere nascoste nei cassetti le prove contro i politici collusi, e che oggi torna utile per altre vicende. Altri ricordano le sferzate verso un Csm "verticistico e corporativo, cinghia di trasmissione di decisioni prese altrove", che pure si possono adattare all’attualità. Con il rischio strisciante di nuove strumentalizzazioni che non aiuterebbero la ricostruzione e la memoria di una vicenda su cui è opportuno non smettere interrogarsi. Noi, il giornalismo e la verità sulle stragi di mafia di Mario Calabresi La Repubblica, 23 maggio 2017 Cosa significa ricordare Falcone e Borsellino oggi per noi? Ricordarli significa fare giornalismo. Detta così può significare tutto e niente, può sembrare una formula vuota e stantia. Allora dobbiamo fare un passo indietro e chiederci: cos’è il giornalismo oggi, nel tempo del rumore, delle grida continue, delle tifoserie scatenate? È la capacità di coltivare dubbi, di non fermarsi alla superficie delle cose, all’apparenza, ma di cercare con caparbietà e passione. Nelle vicende di mafia questo è fondamentale. Perché di verità su queste vicende se ne presentano sempre diverse e a volte tutte insieme. Allora la pazienza, la diffidenza e il metodo diventano alleati indispensabili e fondamentali. È la capacità di tenere stretti fili che servono a riannodare i pezzi di una storia, a ricostruire contesti, a illuminare il presente. Fare quel giornalismo significa agire nel presente, raccontare la criminalità organizzata oggi, non girare mai la testa dall’altra parte, comprendere l’evoluzione dei fenomeni mafiosi, le nuove forme che assumono nella società. Significa mettere in conto di navigare controcorrente, esposti ai venti. Significa usare il metodo paziente dell’indagine dei nostri migliori giudici per storie che con la mafia non c’entrano nulla, ma che hanno la stessa necessità di giustizia. Significa dedicare un anno di inchieste a Giulio Regeni perché oggi traccia di verità non vada persa o nascosta. Significa coltivare memoria, in modo non burocratico ma vivo e appassionato, come abbiamo fatto in questi giorni con tutti le declinazioni del nostro Super8: il lungo racconto della vita di Giovanni Falcone, il documentario che potete vedere da questa mattina, i frammenti della storia che abbiamo pubblicato nell’ultima settimana. Le interviste, le ricostruzioni, le analisi e i forum. Materiale prezioso, bussole per orientarsi nella storia d’Italia e non perdersi nell’idea che tutto sia opaco e incomprensibile. La mafia non ha vinto ma non ha perso di Andrea Orlando La Repubblica, 23 maggio 2017 Con il mese di maggio, ricorre il primo degli anniversari delle stragi di mafia del 1992. Le date sono scolpite nel nostro calendario civile e privato, quegli istanti di cui ricordiamo tutto, dove eravamo, cosa stavamo facendo, mentre apprendevamo le terribili notizie. Ora sono venticinque anni, un giubileo alla rovescia. È molto difficile fare un bilancio del tempo trascorso da quell’anno, un vero spartiacque della storia repubblicane. Sono stati anni di mafia e di antimafia, tragici e fecondi, in cui al sacrifico di quegli uomini è seguita una reazione dello Stato e della società, l’innovazione di strumenti di contrasto, tecniche investigative e organizzazione giudiziaria, secondo le intuizioni e il lavoro proprio di Giovanni Falcone, che hanno consentito di assestare colpi decisivi alla criminalità organizzata, ponendo fine allo stragismo mafioso. Ma non si è trattato di un inarrestabile e lineare tracciato di progresso, ci siamo a volte accontentati di verità parziali, se non di vere e proprie menzogne, a causa delle quali più di una persona ha pagato con la galera il delitto compiuto da altri. La verità, tutta la verità su quella stagione, manca ancora. Non dobbiamo smettere di cercarla e dobbiamo continuare a sperare che l’autorità giudiziaria sia in grado di fare luce sui passaggi cruciali, sugli errori, sui momenti più oscuri. La mafia non ha vinto. Ma non ha nemmeno perso. Se, dal maxiprocesso in poi, la repressione si è intensificata e, successivamente, sono stati aggrediti ingenti patrimoni mafiosi, certo il metodo mafioso, di produrre profitto con il disprezzo della legge, la sopraffazione minacciata o esercitata, non si è arrestato. Le mafie hanno dispiegato tutto il loro potenziale corruttivo, accompagnando con una persistente capacità di infiltrare le istituzioni pubbliche e il più ampio tessuto sociale e professionale, estendendo le zone d’ombra e le aree grigie in un contesto di debolezza dei pubblici poteri e della politica. Abbiamo assistito all’esplosione del fenomeno in territori a non tradizionale insediamento delle organizzazioni criminali, a cambiamenti straordinari, non tutti ancora decifrati, che chiamano in causa la globalizzazione dei mercati, la crisi dei corpi intermedi e le difficoltà degli stati nazionali ad adeguare i loro ordinamenti a reti e capitali in costante movimento. L’incapacità di lettura ha generato un’indifferenza involontaria, che si affianca a quella ricercata da parte di pezzi di società e di classe politica. Di fronte a tutto questo, più ancora che i simboli, dobbiamo rilanciare le ragioni della lotta alla mafia, verificare le prospettive con cui la comprendiamo, rielaborare le tipicità sanzionatorie e riuscire ad applicarle con maggiore efficacia a livello nazionale e sovranazionale. È nato da questa convinzione il percorso che abbiamo chiamato Stati Generali della lotta alla criminalità organizzata (sul modello già sperimentato per l’esecuzione penale), che concluderà i suoi lavori prima dell’estate. L’idea è di allargare il campo della riflessione culturale e dell’iniziativa politica ben oltre l’attività istituzionale del Ministero, chiamando un fronte largo di studiosi e operatori, di forze intellettuali, politiche e sociali a confrontarsi su questioni essenziali per la nostra convivenza civile, per il modo d’essere della nostra democrazia, per il modello di sviluppo che vogliamo perseguire. Il lavoro è partito dalle nuove evidenze della consistenza e delle evoluzioni del fenomeno mafioso, per come emergono dalle più recenti analisi empiriche e scientifiche, talvolta non pienamente analizzate dai soggetti istituzionali deputati al monitoraggio. E ci siamo soffermati sui rischi di "vulnerabilità" del sistema, nei diversi ambiti della vita economica, sociale e istituzionale, a causa della mancanza o dell’inadeguatezza di strumenti di prevenzione e di contrasto, o di fonti informative disponibili e trasparenza dei processi, al fine di chiudere le "crepe", i "varchi" che le organizzazioni criminali riescono ad aprire nell’ordinamento o attraverso cui riescono a inserirsi. L’elaborazione e il perfezionamento degli strumenti di contrasto e prevenzione sarà davvero efficace se sapremo guardare ai fenomeni mafiosi con uno sguardo politico-culturale più ampio, se sapremo collocarli in una più generale prospettiva di sviluppo sociale e civile. È un lavoro tanto più necessario se, ripercorrendo a ritroso i venticinque anni che ci separano dal 1992, guardiamo al fronte dell’antimafia. La reazione spontanea dei cittadini, in quelle primavere della società civile, che contribuì a favorire il rinnovato impegno della politica e delle istituzioni sul contrasto alla mafia, si è lentamente trasformata in un inverno di un’antimafia che, purtroppo, è talvolta diventata strumento di potere e affari. Gli scandali che, dalla gestione dei beni confiscati a un certo "professionismo" antimafioso, in Sicilia hanno colpito pezzi del cosiddetto fronte antimafia, ne hanno minato la credibilità, rischiando di indebolire anche le organizzazioni più serie, esposte e impegnate, in un quadro di già strutturale difficoltà delle forme organizzate di lotta alla criminalità organizzata e alle sue evoluzioni. D’altro canto, questi venticinque anni ci consegnano una qualità della vita pubblica e istituzionale che ha conosciuto processi di rinnovamento incompiuto, quando non vere e proprie regressioni, dovute alla scarsa qualità delle classi dirigenti politiche e burocratiche, in assenza di un sistema di partiti in grado di organizzare la vita democratica, selezionare buone classi dirigenti e, ancor più, di condurre battaglie sociali in grado di sradicare, soprattutto tra i giovani, le subculture che alimentano mentalità mafiose. Per combattere la mafia serve un esercito di maestri elementari, diceva lo scrittore. Ed è vero. Ma è vero anche che, fuori dai cancelli delle scuole, o dentro scuole coi cancelli aperti, le nuove generazioni devono poter incontrare una società che si organizza, le forme della cittadinanza attiva in cui esprimere un protagonismo politico e sociale, civile e democratico. La contraffazione scatta se sono lesi interessi pubblici di Bernardo Bruno Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2017 Corte di cassazione - Sentenza 14812/2017. La recente pronuncia n. 14812/2017 della Corte di cassazione interviene in ambito di tutela penale della proprietà intellettuale, tracciando la linea di demarcazione tra i reati di contraffazione e commercio di beni con segni mendaci e quello di usurpazione dei titoli di proprietà industriale. L’autonoma finalità giuridica delle fattispecie ne legittima il differente inquadramento normativo e impone un adeguato orientamento delle strategie di difesa del patrimonio aziendale. Nella prassi, la proprietà industriale trova tutela tipica in istituti di diritto civile mutuati dall’omonimo testo unico. Il disvalore attribuito alla violazione del patrimonio intellettuale, che è una dote prevalente nelle eccellenze industriali che il nostro Paese vanta nel mondo, trova ulteriore censura nel Codice penale, che offre mezzi inibitori specifici, implementando gli strumenti di difesa dei diritti di privativa in un contesto in cui la sola tutela civile rivela, talvolta, carente attitudine a garantire protezione integrale e tempestiva degli interessi aziendali. La sentenza in esame approfondisce quelle condotte illecite che, sino ad oggi, sono state oggetto di divergente inquadramento nella giurisprudenza di merito. Se per un verso è stato da ultimo negato che "la registrazione del marchio non genuino (o comunque che imita quello originale) esonera l’autore dalla responsabilità penale per il reato di cui all’art. 474 c.p.", per l’altro si è sostenuto che la somiglianza di marchi distinti, seppur non confondibili, sia sufficiente ad integrare lo sfruttamento illecito dell’idea originale. Il contributo odierno, offerto dalla Cassazione, si esprime in un’indicazione di metodo tesa a comporre orientamenti di segno opposto e a preservare la certezza del diritto. Nel delineare il corretto inquadramento normativo delle fattispecie di reato i giudici di legittimità valorizzano natura e dimensione degli interessi coinvolti in ciascuna ipotesi criminosa, chiarendo che la fabbricazione e il commercio di beni realizzati con usurpazione di titoli di proprietà industriale "si riferisce tanto all’ipotesi dei prodotti realizzati ad imitazione di quelli protetti dal titolo di privativa e quindi in violazione del medesimo, quanto alla fabbricazione, utilizzazione e vendita di prodotti "originali" da parte di colui che non ne è titolato". I più gravi reati di contraffazione e commercio se ne differenziano per le "dimensione degli interessi coinvolti: pubblici nel primo caso (fede pubblica), privati nel secondo (patrimonio)". L’integrità degli interessi pubblici, tra cui emerge il legittimo affidamento nel mercato, è lesa "tutte le volte in cui la contraffazione (pedissequa riproduzione integrale, in tutta la sua configurazione emblematica e denominativa di marchi o segni distintivi, ovvero riproduzione negli elementi essenziali e caratterizzanti di un prodotto brevettato) o l’alterazione (riproduzione solo parziale, ma tale da ingenerare confusione con marchio originario o segno distintivo o prodotto brevettato) siano tali da ingenerare confusione nei consumatori e nuocere al generale affidamento". Quando manca un pregiudizio pubblico rileva, invece, la tutela sussidiaria dettata dall’articolo 517-ter del Codice penale, la cui precipua finalità resta la salvaguardia del patrimonio privato. L’auspicabile convergenza di orientamenti giurisprudenziali difformi potrà accrescere l’indiscutibile valenza che la tutela penale estende alla proprietà intellettuale, garantendo l’integrazione degli strumenti, anche cautelari, tipici del processo criminale e delle sanzioni introdotte dal Dlgs 231/01, che annovera ipotesi di violazione della proprietà intellettuale tra i reati presupposto da illecito amministrativo. Immobile abusivo, durante il sequestro penale l’ordine di demolizione è invalido di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2017 Consiglio di Stato - Sentenza 17 maggio 2017 n. 2337. La VI Sezione del Consiglio di Stato, contrastando l’indirizzo giurisprudenziale "prevalente", ha affermato che l’ordine di demolizione di un immobile colpito da un sequestro penale "dovrebbe essere ritenuto affetto dal vizio di nullità". E quindi radicalmente inefficace per l’assenza di un elemento essenziale dell’atto, vale a dire la "possibilità giuridica dell’oggetto del comando". In altri termini, afferma la sentenza 2337/2017, "l’ingiunzione che impone un obbligo di facere inesigibile, in quanto rivolto alla demolizione di un immobile che è stato sottratto alla disponibilità del destinatario del comando - il quale, se eseguisse l’ordinanza, commetterebbe il reato di cui all’art. 334 c.p., difetta di una condizione costituiva dell’ordine, e cioè, l’imposizione di un dovere eseguibile". Il Tar Marche invece aveva comminato la sanzione pecuniaria di 20mila euro ad una Srl per non aver ottemperato all’ordinanza di riduzione in pristino, a seguito della realizzazione di opere ritenute abusive, irrogata dal comune di Gabicce Mare, e ciò nonostante l’esistenza di un vincolo sul bene. La società però non si è data per vinta ed ha sostenuto l’inapplicabilità delle sanzioni per l’inottemperanza agli ordini di demolizione di manufatti abusivi nelle ipotesi in cui l’immobile sia sottoposto a sequestro penale. Un ragionamento condiviso da Palazzo Spada che pur "non ignora" l’indirizzo maggioritario per il quale "la pendenza di un sequestro è irrilevante ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione, della sua eseguibilità e, quindi, della validità dei conseguenti provvedimenti sanzionatori". Secondo quella lettura, infatti, "la misura cautelare reale non costituirebbe un impedimento assoluto all’attuazione dell’ingiunzione, in ragione della possibilità, per il destinatario dell’ordine, di ottenere il dissequestro del bene". Per il Collegio però non è configurabile un "dovere di collaborazione del responsabile dell’abuso, ai fini dell’ottenimento del dissequestro e della conseguente attuazione dell’ingiunzione". Riguardando una eventualità "futura, astratta e indipendente dalla volontà dell’interessato", che fra l’altro si risolve nella prescrizione di una iniziativa processuale (l’istanza di dissequestro) che potrebbe contraddire le strategie difensive all’interno del processo penale. Inoltre, argomenta la decisione, la sanzione esige sempre una "colpa" del soggetto che in questo caso non vi sarebbe per via della preclusione ad agire sul bene imposta da un altro provvedimento giudiziario. Infine, sulla base di un principio di equità, "non può esigersi che il cittadino impieghi tempo e risorse economiche per ottenere la restituzione di un bene di sua proprietà, ai soli fini della sua distruzione". Dunque, finché il sequestro perdura, "la demolizione certamente non può eseguirsi". E ciò implica "l’interruzione o, quantomeno, la sospensione del decorso del termine assegnato per demolire", che potrà poi riprendere col venire meno del sequestro stesso, da chiunque provato o indotto. Per queste ragioni il Consiglio ha accolto l’appello della srl ed ha annullato i provvedimenti sanzionatori adottati per l’inottemperanza dell’ordine di demolizione, "invalidamente (e, comunque, inefficacemente) adottato nonostante l’immobile fosse stato già colpito dal sequestro penale disposto dal Gip presso il Tribunale di Pesaro". Testimonianza della persona offesa: dialettica dibattimentale per la valutazione del teste Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2017 Reati attinenti alla sfera sessuale - Testimonianza della persona offesa - Unica fonte di convincimento del giudice - Dialettica dibattimentale imprescindibile - Attendibilità della persona offesa - Necessaria valutazione. In tema di reati contro la persona, ed in particolare per quelli attinenti alla sfera sessuale, occorre procedere ad una attenta valutazione circa l’attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa. Infatti, poiché in tali fattispecie la testimonianza della persona offesa è molto spesso l’unica fonte di convincimento del giudice, è essenziale procedere alla valutazione del teste: tale giudizio, essendo di tipo fattuale e di merito, in quanto attinente al modo di essere della persona escussa, può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale mentre è del tutto precluso in sede di legittimità, in special modo quando il giudice di merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 27 aprile 2017 n. 19956. Reati attinenti alla sfera sessuale - Dichiarazioni della persona offesa - Fondamento della penale responsabilità dell’imputato - Credibilità della persona offesa - Attendibilità del suo racconto. Le dichiarazioni della persona offesa, nei reati attinenti alla sfera sessuale, possono da sole - senza necessità di riscontri estrinseci - essere poste a fondamento del riconoscimento di responsabilità dell’imputato, previa verifica adeguatamente motivata della credibilità soggettiva della persona dichiarante e dell’attendibilità intrinseca della sua narrazione, che deve risultare senza dubbio più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi altro testimone. Peraltro, il giudice deve indicare le emergenze processuali risultate determinanti per il suo convincimento, consentendo così l’individuazione dell’iter logico-giuridico che ha permesso di addivenire alla soluzione proposta. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 27 aprile 2017 n. 19956. Violenza sessuale - Prova penale - Valutazione - Testimonianza - Persona offesa - Idoneità - Fondamento - Accertamento. In tema di valutazione della prova penale, la testimonianza della persona offesa può validamente fondare, anche da sola, il convincimento del giudice, purché intrinsecamente attendibile, sia oggettivamente che soggettivamente, e purché la relativa valutazione sia adeguatamente motivata. Tale principio assume particolare rilievo in tema di reati sessuali, l’accertamento dei quali, nella maggior parte dei casi, si caratterizza per la necessaria valutazione delle opposte versioni rese dall’imputato e dalla parte offesa, atteso che, generalmente, essi sono i soli protagonisti della vicenda e non sussistono, pertanto, riscontri oggettivi o altri elementi idonei ad attribuire maggiore credibilità, dall’esterno, all’una o all’altra versione dei fatti. • Corte d’Appello di Roma, sezione III, sentenza 13 febbraio 2017 n. 458. Reati sessuali - Persona offesa - Testimonianza - Fonte di prova esclusiva - Configurabilità - Sussistenza - Motivazione adeguata - Necessità. A fronte della difesa dell’imputato, diretta a minare l’attendibilità della persona offesa, la Corte d’Appello ha richiamato la giurisprudenza del Supremo Collegio ai sensi della quale, in tema di reati sessuali, ai fini della formazione del libero convincimento del giudice, ben può tenersi conto delle dichiarazioni della parte offesa, la cui testimonianza, ove ritenuta intrinsecamente attendibile, costituisce una vera e propria fonte di prova, sulla quale può essere fondata l’affermazione di colpevolezza dell’imputato anche esclusivamente, purché la relativa valutazione sia adeguatamente motivata. • Corte d’Appello di Roma, sezione III, sentenza 5 maggio 2011 n. 2735. Mezzi di prova - Testimonianza - In genere - Reati sessuali - Dichiarazioni del minore persona offesa - Criteri di valutazione - Decorso del tempo - Rilevanza - Conseguenze. In tema di reati sessuali in danno di minori, la mancata assunzione delle testimonianze delle vittime per il tramite dell’incidente probatorio non comporta, di per sé, l’impossibilità di affermare la positiva attendibilità delle stesse, ma tale valutazione non può non tenere conto delle problematicità connesse alla distanza temporale tra il momento di verificazione dei fatti e quello in cui le persone offese vengono esaminate; con il conseguente onere, per il giudice, di una motivazione rafforzata che dia conto, della inidoneità del distacco temporale ad incidere sull’attendibilità delle dichiarazioni, in particolare precisando se non siano intervenuti fattori esterni di "disturbo", o se questi, ove intervenuti, non si siano comunque dimostrati in grado di alterare il corretto ricordo dei fatti. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 16 luglio 2015 n. 30865. Lombardia: sistema dell’esecuzione penale esterna e della messa alla prova al collasso Ristretti Orizzonti, 23 maggio 2017 Comunicato stampa congiunto delle Organizzazioni Sindacali: "lavoratori in stato di agitazione, necessarie nuove assunzioni". I lavoratori dell’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna (Uiepe) di Milano - Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità (Dgmc) - Ministero della Giustizia, così come quelli di altri territori, nel dichiarare in questi giorni lo stato di agitazione, oggi 22 maggio 2017, in coincidenza con il primo incontro del nuovo Capo del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità con le OO.SS., hanno organizzato un presidio davanti la Prefettura di Milano per denunciare la gravità e l’insostenibilità della situazione in cui quotidianamente si trovano ad operare nell’adempimento dei loro compiti istituzionali. Durante il Presidio l’RSU e le OO.SS territoriali di Milano, Fpcgil, Uil Pa, Cisl Fp, Usb Pi, hanno consegnato al Prefetto di Milano una lettera aperta chiedendo che venga trasmessa al Ministro della Giustizia Andrea Orlando e al neo Capo Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità dott.ssa Gemma Tuccillo. Viene denunciata come la cronica carenza di personale di tutte le figure professionali (assistenti sociali, amministrativi, contabili, ecc. ) e le ulteriori ed impegnative competenze che la normativa negli ultimi anni ha attribuito a tali uffici, abbiano determinato un raddoppio del carico di lavoro che ha raggiunto livelli insostenibile. Secondo le OO.SS. e i lavoratori intervenuti al presidio, purtroppo gli interventi messi in atto dal Ministro, anche attraverso la riorganizzazione del sistema, si sono rivelati del tutto insufficienti e non hanno prodotto alcun mutamento nelle condizioni di lavoro del personale. Anzi la situazione si è talmente aggravata che se non affrontata con urgenza, con un piano di investimenti e di interventi strutturali degli organici, sarà irreversibilmente compromessa la riuscita del percorso di cambiamento in cui il Ministro ha voluto credere e percorrere per avvicinare il sistema dell’esecuzione penale esterna e di probation ai modelli europei più evoluti. Sistema che alcune ricerche hanno dimostrato essere più efficaci in termini di recidiva, sicurezza sociale e costi per la collettività rispetto a chi sconta una pena in carcere. Attualmente presso l’Uiepe di Milano, circa 40 assistenti sociali (part-time, a tempo pieno, esperti a convenzione) gestiscono 5.500 casi di cui circa 3.500 misure alternative (1.700 affidamenti in prova al servizio sociale), misure di sicurezza, sanzioni sostitutive (lavori di pubblica utilità); 1.500 messe alla prova ed istanze pendenti di messa alla prova. Inoltre hanno attualmente in carico circa 500 attività di consulenza e trattamento svolte su richiesta dei Tribunali di sorveglianza e gli Istituti penitenziari. Nel 2016 sono stati eseguiti circa 12.000 procedimenti ed attualmente ogni funzionario di servizio sociale segue una media 160 casi di cui circa 60 sono affidati in prova. In Lombardia gli Uepe di Milano, Pavia, Brescia, Como, Mantova e le sedi distaccate di Varese e Bergamo gestiscono circa 13.500 casi con 94 assistenti sociali (part-time e a tempo pieno). Le OO.SS. Fp Cgil, Cisl Fp, Uil Pa e Usb Pi chiedono che le problematiche e le preoccupazioni dai lavoratori trovino ascolto ma soprattutto che vi sia la volontà di affrontarle strutturalmente prevedendo, così come avvenuto per il settore giudiziario, un importante piano di nuove assunzioni in quanto la situazione di un servizio costituzionalmente rilevante, come quello degli Uepe, non può essere affrontata con soluzioni temporanee e consulenze esterne. Bari: barriere architettoniche per i detenuti del Centro clinico, il 70% è in sedia a rotelle di Eleonora Forenza* eleonoraforenza.it, 23 maggio 2017 Al termine delle iniziative per le giornate di mobilitazione contro il G7 dei ministri dell’Economia e delle Finanze a Bari, ho ritenuto di dover visitare il carcere della mia città. Ho iniziato da qualche mese un percorso di approfondimento sulla condizione carceraria in Italia in collaborazione con l’associazione Yairaiha Onlus, che mi ha portato e mi porterà a visitare istituti di detenzione in giro per l’Italia. Il mio interesse parte da un’iniziativa contro il principio dell’ergastolo ostativo, ovvero la carcerazione a vita senza possibilità di ottenimento di alcun beneficio, che mi portò nell’autunno scorso a presentare un’interrogazione alla Commissione Europea e che continuerà nella direzione dell’affermazione della natura riabilitativa e rieducativa della carcerazione sancita dalla Costituzione. La netta sensazione è che in Italia si sia affermato da tempo un clima di giustizialismo sempre più spinto nell’opinione pubblica, che ha portato a discutere moltissimo dei meccanismi giudiziari che riguardano le indagini ed i procedimenti penali. Pochissimo invece si conosce dei meccanismi di esecuzione della pena, dei diritti dei detenuti e delle detenute e delle loro condizioni, spesso in aperto contrasto con le normative vigenti. Ho deciso quindi di impiegare una parte delle mie energie durante il mio mandato parlamentare per guardare da vicino e portare luce su questo tema. Dico subito che a Bari non ho trovato una situazione positiva. Il carcere dispone di 2 sezioni di Alta Sicurezza e di un Centro clinico per detenuti affetti da patologie che sono riuscita a visitare, oltre a due sezioni di Media Sicurezza. Abbiamo incontrato diverse problematiche. Innanzitutto la presenza di barriere architettoniche per i detenuti del Centro clinico, una parte dei quali è impossibilitata a camminare e si muove in carrozzina. In una generale condizione di carenza di spazi in una struttura che ospita oltre 300 detenuti e si presenta molto vecchia (costruita negli anni 20) ed inadatta ad ospitare tante persone. Insieme a ciò una forte carenza sia di personale medico sia di personale di vigilanza, carenza tale da determinare grandi ritardi per le visite mediche e un numero insufficiente di terapie e fisioterapie cui i detenuti avrebbero diritto. Abbiamo riscontrato la presenza nella sezione clinica di detenuti affetti da patologie e disabilità molto gravi come tumori, leucemie e addirittura corea di Huntington, in condizioni che sembra difficile considerare compatibili con la detenzione in carcere. Il 70% è costretto sulla sedia a rotelle e la prevalenza di questi è in attesa di giudizio da mesi se non addirittura da anni. E su questo ultimo aspetto mi sorta una domanda: può il giustizialismo dilagante annullare le garanzie costituzionali di fronte a persone già sofferenti per le condizioni fisiche e di salute? La presunzione di innocenza non dovrebbe essere garantita a tutti? La carenza di piantoni, inoltre, rende spesso complicate o impossibili per questi detenuti anche le basilari operazioni quotidiane in cella, oltre a limitare fortemente la possibilità di spostarsi e recarsi al passeggio. Ci siamo quindi spostati nelle sezioni di Alta Sicurezza, dove è venuto alla luce il nodo fondamentale che stiamo cercando di mettere in evidenza. Abbiamo infatti riscontrato la pressoché totale assenza di qualsiasi percorso di rieducazione e reinserimento nella società per i detenuti. In Alta Sicurezza ci sono persone accusate di reati gravi, quasi tutti di associazione mafiosa, ma una gran parte di loro si trova in carcere in attesa di giudizio e quindi senza neanche un piano di attività personalizzato. Il tema dell’utilizzo della custodia cautelare in carcere merita di essere approfondito. Le "camere di pernottamento" dell’alta sicurezza, contrariamente ai regolamenti vigenti, sono chiuse, per addotti motivi di sicurezza e carenza di personale vigilante. Si tratta di celle a tutti gli effetti. Tolte le ore di passeggio, i detenuti trascorrono in cella anche 20 ore al giorno. Non c’è incredibilmente una biblioteca né opportunità di studio, non essendo possibile neanche utilizzare un computer per quanto non connesso alla rete internet. Il regime di ostatività in cui molti detenuti si trovano a scontare la pena rende il quadro piuttosto pesante. Non è difficile immaginare che vivendo giornate del tutto prive di attività, le situazioni di tensione siano favorite e vadano a giustificare, poi, in un circolo vizioso, le misure di sicurezza. È del giorno successivo alla nostra visita la notizia di una presunta aggressione ad una guardia carceraria. Abbiamo incontrato 3 detenuti ultraottantenni, anch’essi con gravi patologie e peraltro molto lontani dalle proprie famiglie e a cui vengono negate sia le alternative sia l’avvicinamento. In generale, i detenuti lamentano poi i ritardi e i continui dinieghi di ogni tipo di istanza da parte della magistratura di sorveglianza. Il tema dell’uniformità di giudizio e del rispetto dei diritti dei detenuti da parte della magistratura di sorveglianza è emerso continuamente anche in altri istituti. Particolarità di Bari è che non risulta al momento assegnato alcun magistrato di ruolo per il carcere cittadino, situazione che prolunga ulteriormente i ritardi. In ultimo, abbiamo incontrato i tre detenuti ergastolani presenti nella struttura. Situazione in sé singolare, trattandosi di una casa circondariale che non dovrebbe ospitare detenuti con pene così lunghe. Uno di essi si trova da anni in cella solitaria, seppur non in condizione di isolamento, ma attaccato ad una bombola di ossigeno per diverse patologie ai polmoni. Anche per lui, il regime di ostatività preclude ogni istanza per la detenzione domiciliare o il trasferimento in un centro clinico specializzato. Quello che ho visto non è quanto prescrive l’art.27 della nostra Costituzione per l’istituzione carceraria e ritengo che non si possa tacere quando sono le istituzioni a passare dalla parte del torto. Il nostro impegno politico ed istituzionale sul tema proseguirà. *Deputato al Parlamento Europeo della Lista Tsipras-L’Altra Europa Palermo: nel carcere dell’Ucciardone sarà aperta una lavanderia industriale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 maggio 2017 Già funzionano un pastificio e una sartoria. Nuove realtà lavorative all’interno degli istituti penitenziari. Ora è la volta del carcere palermitano dell’Ucciardone dove presto verrà aperta una lavanderia industriale e un laboratorio per il confezionamento dei detersivi. Si tratta di un accordo siglato dall’istituto penitenziario con due imprese che operano in Sicilia, un’intesa mirata alla realizzazione di insediamenti produttivi all’interno dello stesso carcere. Nella fase di avvio saranno coinvolti circa dieci detenuti-lavoratori, in un progetto di rieducazione che vede proprio nel lavoro un tassello fondamentale. "I locali deputati alla produzione, precedentemente utilizzati come magazzini, sono messi a disposizione in comodato d’uso gratuito dall’Ucciardone", spiega il parlamentare Vincenzo Figuccia di Forza Italia all’assemblea regionale siciliana. "Il percorso intrapreso - aggiunge il forzista - è una vera e propria occasione di riscatto per persone che decidono di cambiare per davvero". Le imprese che hanno sottoscritto l’accordo con l’istituto penitenziario sono la Papalini Spa, azienda marchigiana ma che opera in Sicilia già con 500 dipendenti, e la Intrachimica del ragusano. È intervenuta anche Rita Barbera, direttrice del carcere: "Le attività rientreranno in un progetto di inserimento lavorativo precedentemente avviato dall’Ucciardone, che vede già in funzione negli ambienti dell’istituto un pastificio e una sartoria". E aggiunge: "Con i loro guadagni i detenuti coinvolti nel progetto, debitamente formati, possono sostenere anche le loro famiglie, molte delle quali vivono in condizioni di disagio. Lavoro è sinonimo di dignità, il nostro impegno va in questa direzione". Un lavoro che oltre ad essere sinonimo di dignità, è anche utile ad evitare il più possibile il ritorno in carcere. Studi empirici attestano che la recidiva si abbassa notevolmente per i detenuti che intraprendono tale percorso in carcere. Parliamo, infatti, del 60- 70% di diminuzione di ricadute in comportamenti scorretti dal punto di vista legislativo una volta usciti dal carcere. I dati sono diversi laddove questo percorso di riabilitazione non avviene e la recidiva aumenta vertiginosamente. Anche per questo motivo il carcere diventa una "porta girevole" dove si esce per poi ritornare. Invece, i detenuti che lavorano remunerati con una paga adeguata, hanno una possibilità di attuare un percorso costruttivo e riabilitarsi. La legge 354 del 1975, infatti, dice che il lavoro nelle carceri è uno dei fattori fondamentali per la riabilitazione dei detenuti. Nell’anno 2016 risulta che la percentuale dei detenuti lavoranti non supera il 30 per cento dei reclusi presenti. Ciò significa che ancora c’è tanto da fare. Le realtà lavorative virtuose sono comunque in crescita: basta dare un’occhiata alla vetrina on line messa a disposizione del ministero della Giustizia per conoscere i prodotti dei lavori e dove acquistarli. Fossano (Cn): tre progetti per il reinserimento sociale dei detenuti targatocn.it, 23 maggio 2017 Presentati nel Cnos-Fap, capofila dell’iniziativa che alterna formazione e lavoro. Sono stati presentati nella sede del Cnos-Fap di Fossano i tre progetti, "Manuattenzioni", "Pensolato" e "Museo social club", ideati a favore di detenuti ed ex ristretti, che hanno lo stesso obiettivo: dare a chi ha sbagliato l’opportunità di tornare a vivere nella società impegnandosi per la collettività. Coinvolgono diversi enti e associazioni che insieme hanno creato forza rispondendo a diverse debolezze: quelle di chi si trova a vivere un momento delicato, come il fine pena, e quelle dei beni pubblici, come le scuole, sempre più degradati a causa della carenza di risorse per la manutenzione. "Manuattenzioni" dà la possibilità a 12 detenuti di frequentare un corso di 120 ore di riqualificazione energetica e bioedilizia e di lavorare nel cantiere aperto nella palestra dei Salesiani a Fossano. "È sostenuto da un bando della Compagnia di San Paolo al quale il nostro centro di formazione professionale ha partecipato - ha spiegato Maurizio Giraudo, direttore provinciale del Cnos-Fap - e prevede il rivestimento esterno in sughero, la ritinteggiatura interna e la realizzazione di mosaici decorativi nella palestra che ha 25 anni. Dopo la formazione, i partecipanti otterranno un attestato spendibile nel mondo del lavoro. L’intervento è co-progettato da detenuti e utenti della palestra." "Il contagio emotivo è straordinario - ha sottolineato Monica Mazzucco, presidente di "Culturadalbasso". Si tratta di un progetto innovativo perché costruisce un ponte mettendo la persona al centro e generando valori economici, sociali e culturali." "Una sinergia pubblico-privato - ha detto l’assessore di Fossano Simonetta Bogliotti - che ha fatto arrivare i finanziamenti". Un’opportunità, quella del lavoro, che a Fossano, tra dentro e fuori le mura, hanno solo "52 detenuti su 133 (quelli che, ad oggi, si trovano nella struttura a custodia attenuata)" ha sottolineato la garante comunale, Rosanna Degiovanni. "Pensolato" è il nome della cooperativa agricola sociale, nata il 2 maggio, che "fa uscire i detenuti dal carcere - ha spiegato Nino Mana, direttore Caritas Fossano - facendoli lavorare a contatto con la terra che li rigenera dentro. Ci credono: lo hanno dimostrato impegnandosi volontariamente per un mese, 8 ore al giorno, perché era tempo di seminare ma la cooperativa non era ancora stata costituita ufficialmente per poterli assumere." Infine "Museo social club", sostenuto da Fondazione Crc, che porterà "incroci di storie - ha detto don Derio Olivero del Museo Diocesano: i detenuti racconteranno ai visitatori i quadri, attraverso le storie dei personaggi, degli autori e le loro personali." Alla presentazione hanno partecipato anche gli onorevoli Mino Taricco e Chiara Gribaudo che hanno promesso che cercheranno di portare il ministro della Giustizia a Fossano per conoscere i 3 progetti. Reggio Calabria: il Garante nazionale dei detenuti visita sezione psichiatrica del carcere ildispaccio.it, 23 maggio 2017 In corrispondenza della presenza in Città del Garante Nazionale dei diritti delle persone private o limitate della libertà personale, prof. Mauro Palma, che nella giornata conclusiva del Seminario "Per una nuova Sociologia della Pena" ha tenuto, insieme alla Dirigente Nazionale del Dipartimento di Giustizia Minorile, dott.ssa Isabella Mastropasqua, una lezione magistrale incentrata sugli organismi europei di tutela dei diritti umani, si è dato corso alla visita ispettiva della sezione di "osservazione psichiatrica" del carcere "G. Panzera" di Reggio Calabria. Era stato il Garante comunale reggino, Avv. Agostino Siviglia, ha lanciare l’allarme per le condizioni disumanizzanti di questa speciale sezione detentiva, denunciando formalmente nei giorni scorsi la situazione ai vertici apicali dell’Amministrazione Penitenziaria. I due Garanti, insieme ad alcuni componenti e ad un giovane stagista dell’Ufficio del Garante reggino, a margine del seminario hanno effettuato perciò una visita ispettiva presso la sezione in questione. "Palma ha potuto verificare le degradanti condizione dello stanzone, suddiviso in celle singole, che attualmente ospita tre detenuti in osservazione psichiatrica, mentre uno è stato appena trasferito all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, che per inciso dovrebbe essere chiuso in quanto gli Opg sono stati soppressi e sostituiti per legge dalle Rems, ma questo è un altro argomento che pure dovrà definitivamente risolversi. Ma tornando alla sezione di osservazione psichiatrica del carcere di via S. Pietro, per esser chiari, dobbiamo subito dire che stiamo parlando di una sezione sanitaria, quindi, di un luogo che in teoria dovrebbe essere attrezzato con strumenti medico-ambulatoriali. Dei quali per converso non se ne scorge la minima esistenza. Nulla ricorda neanche lontanamente un reparto sanitario. Uno stanzone, si ribadisce, privo di qualsivoglia strumentazione sanitaria, con celle singole con mobilio e suppellettili in alluminio, pericolosissimi per l’incolumità dei ristretti, per l’incolumità dei pochi agenti di polizia penitenziaria, che devono seguire questi particolari tipi di detenuti, senza peraltro essere stati adeguatamente formati. Due celle, peraltro, sono state devastate, proprio con pezzi di mobilio staccati dalle pareti o dal pavimento, e sono tutt’ora inagibili. Infine una sala della socialità vuota. Non c’è un televisore, un giornale, un libro, niente di niente! Palma ha assicurato che interverrà immediatamente presso il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, dott.ssa Cinzia Calandrino, con la quale si incontrerà a Roma in questa settimana, oltre che con i Dirigenti del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, affinché la sezione venga immediatamente chiusa per essere adeguata alla normativa vigente, ed i ristretti ricollocati in strutture idonee. Non retrocederemo di un millimetro su questa battaglia di civiltà e dignità della persona umana. Pensare, poi, che si tratta di persone con gravi problemi psichiatrici, indigna e fa rabbrividire il pensiero che legge Basaglia dopo aver illuminato di civiltà il nostro Paese possa essere tornare ad essere oscurata dal buio delle coscienze di chi non vede e non se ne cura, perché le mura di un carcere fanno da comodo paravento. Non lo consentiremo. Ne va della nostra coscienza di essere umani, prima che di rappresentanti istituzionali. Continueremo perciò a vigilare, denunciare e riferire, fino a quando la questione non sarà definitivamente risolta. E le voci di questi disperati riassaporino il conforto della speranza" afferma il garante Agostino Siviglia. Parma: 600 detenuti faranno la raccolta differenziata, progetto di Carcere, Comune e Iren La Repubblica, 23 maggio 2017 Prende avvio il progetto pilota della raccolta differenziata all’interno della casa di reclusione di Parma. Il progetto nasce dalla sinergia tra Amministrazione comunale, istituto penitenziario e la multiutility Iren che si occupa dei servizi ambientali a Parma. Attualmente nell’area detentiva del carcere sono collocate benne grandi di colore arancione, aperte, per la raccolta indifferenziata dei rifiuti. La produzione dei rifiuti dell’istituto è infatti notevole e riguarda una popolazione carceraria di circa 600 detenuti, oltre al personale di custodia e al personale ausiliario. Nel prossimo futuro, con l’attivazione della raccolta differenziata, per ciascuno dei tre plessi della struttura Iren provvederà a collocare tre contenitori nei punti di raccolta: benna di colore grigio, aperta, per la raccolta indifferenziata (in sostituzione a quelle arancioni attualmente in uso); tre mini cassoni della volumetria di circa 8 metri cubi, rispettivamente per i rifiuti organici, per la plastica e barattolame, per la carta. I mini cassoni saranno dotati di coperchio apribile a mezzo di leva. In una fase iniziale si partirà con l’attivazione della raccolta differenziata nella casa di reclusione, composta da nove sezioni, una cucina detenuti, un ufficio spesa. Queste nove sezioni saranno tutte dotate di bidoni carrellati di colore blu per la carta, giallo per la plastica e barattolame, marrone per il rifiuto organico. Le 200 celle detentive saranno invece dotate della pattumiera areata per la raccolta del rifiuto organico. La raccolta sarà effettuata dal personale detenuto lavorante, il quale - a mezzo dei bidoni carrellati - provvederà a trasportare i rifiuti differenziati (organico, plastica, carta) dalle sezioni detentive ai punti di raccolta (benne e mini cassoni). La raccolta dei rifiuti residui, sempre a cura dei detenuti lavoranti, avverrà con l’utilizzo di sacchi da conferire nella benna di colore grigio. Iren ha fornito anche i contenitori per la raccolta delle pile esauste, che sono collocati nell’area detentiva e trasportati nell’area esterna in occasione del ritiro. Verrà da subito attivata la raccolta differenziata di carta, plastica, barattolame, organico e rifiuto residuo anche nella Sezione Semilibertà, sita al di fuori dell’area detentiva. Il trasporto dei rifiuti differenziati dalla Sezione Semilibertà al punto di raccolta nell’area esterna sarà effettuata dagli stessi detenuti della sezione. Iren ha fornito inoltre una campana di vetro che è stata collocata nell’area esterna per la raccolta differenziata delle bottiglie e ha provveduto a organizzare un primo incontro informativo per la sensibilizzazione sul tema della raccolta differenziata, tenuto a cura di Eduiren. Si tratta di un percorso che si svilupperà nei prossimi mesi e che sarà definito da Eduiren insieme al personale dell’istituto penitenziario e ai detenuti lavoranti coinvolti nella raccolta. È stato distribuito materiale informativo e depliant esplicativi sia in italiano che in altre lingue (arabo, cinese, francese ed inglese) con indicazioni sulle modalità di differenziazione dei rifiuti. Il direttore della casa di reclusione Carlo Berdini ha lodato l’iniziativa in quanto avvicina il mondo carcerario alla città: "Esistono regole ed esiste un’educazione ambientale che devono essere seguite anche qui: disciplinare la raccolta dei rifiuti ci avvicina alle regole che ci sono "fuori". Abbiamo tutti accolto con entusiasmo questa iniziativa proprio perché riduce le distanze del "dentro-fuori", attuare le stesse regole ci fa sentire parte integrante della città". Il prefetto di Parma Giuseppe Forlani ha evidenziato quanto queste opportunità per i detenuti siano importanti sia a livello educative che formativo: "Formarsi, imparare e specializzarsi in questo campo non può che essere una carta in più da giocarsi una volta fuori nel campo lavorativo". La presenza del Garante regionale detenuti Emilia Romagna Marcelo Marighelli, ha dato all’iniziativa un valore etico molto importante: "Promuovere iniziative che avvicinino la vita detentiva alla vita sociale "fuori dalle mura" permette una migliore percezione della qualità della vita detentiva. La vita dentro deve rispettare la vita fuori. È un’opportunità da non sottovalutare anche per l’aspetto formativo". La polizia penitenziaria rappresentata dal comandante Domenico Gorla sosterrà i detenuti nel percorso in quanto il livello di civiltà passa anche dalla raccolta differenziata: "È una vera sfida non facile da realizzare all’interno di un luogo in cui vige un altissimo livello di sicurezza, ci saranno nuove situazioni da affrontare ad esempio la presenza di mezzi per la raccolta differenziata in cortile, ci stiamo organizzando al meglio per evitare difficoltà e poter far svolgere al meglio il lavoro dei detenuti. Avranno il nostro pieno sostegno". Gian Luca Paglia, direttore servizi Ambientali Emilia Romagna Iren: "Iren affianca il Comune di Parma nello sviluppo di progetti per la città e per trovare soluzioni che possano facilitare e diffondere l’educazione all’ambiente. In regime detentivo a Parma ci sono circa mille persone, un piccolo paese, estendere anche qui la formazione a modelli di raccolta uguali a quelli della città è un percorso necessario e che abbiamo intrapreso con molto piacere". Fossombrone (Pu): detenuti a lezione con gli universitari di Maria Concetta De Simone ifg.uniurb.it, 23 maggio 2017 L’Ateneo di Urbino nella top ten per la "Terza missione". Tra i detenuti del carcere di Fossombrone c’è un padre che durante gli incontri con il figlio parla di storia, di letteratura e di quanto sia difficile imparare l’inglese a una certa età. C’è anche un nonno che non potendo leggere le favole ai nipoti ha deciso di far loro un regalo simbolico ma che ha molto più valore. Vuole dimostrare che è in grado di fare anche qualcosa di positivo così da poter diventare, forse, anche un esempio. Perché non è mai troppo tardi per tornare sui libri e laurearsi. A Fossombrone, da gennaio 2016, l’Università di Urbino ha portato lezioni ed esami. I detenuti possono studiare Giurisprudenza, Informazione media e pubblicità, Scienze dell’educazione, Scienze politiche economiche e del governo, Scienze e tecniche psicologiche, Scienze umanistiche, Sociologia e servizio sociale, direttamente dentro l’Istituto penitenziario. È anche grazie a questa iniziativa che l’Università di Urbino è tra le prime otto d’Italia per le attività di "Terza missione": quella che favorisce l’applicazione diretta, la valorizzazione e l’impiego della conoscenza, contribuendo allo sviluppo sociale, culturale ed economico della società, secondo un’indagine dell’Osservatorio Socialis. Il Polo universitario all’interno della Casa di reclusione è coordinato dalla professoressa Daniela Pajardi, dal prorettore alle attività di Terza missione Fabio Musso e ha come dipartimento di riferimento quello di Studi umanistici (Distum). Sono 12 i detenuti che partecipano al progetto e che vivono questa "realtà gratificante sia dal punto di vista professionale che dal punto di vista personale. Peccato che sia anche poco conosciuta, ma sul sito dell’Università sta per essere inaugurato un blog così da ‘diffonderè in qualche modo quest’esperienza" racconta la stessa Pajardi. Studenti dentro e studenti fuori Per questo progetto, i detenuti hanno l’occasione di incontrare e confrontarsi con gli studenti universitari, gli appuntamenti spesso si sviluppano seguendo alcune tematiche incentrate sullo studio: come si studia, come ci si concentra e come si affrontano gli esami. "Durante gli incontri con gli studenti universitari, i detenuti danno una grande lezione sul piano motivazionale - spiega la Pajardi - ciò che li motiva a intraprendere questo percorso è solo un interesse culturale. Vogliono tenere sveglia la loro mente, la loro curiosità. Molti di loro hanno pene molto lunghe quindi non lo fanno per una prospettiva di lavoro ma per cultura e questo è importante. Per loro è anche un modo per riappropriarsi del tempo. In un carcere il tempo scorre lento, le giornate sono lunghe e vuote, avere una scadenza - come per esempio un appello d’esame - serve a scandirlo e a tenerli impegnati". "Si trasmettevano l’ansia da esame", racconta la professoressa Anna Tonelli, docente di storia contemporanea. Il carcere è l’unica istituzione alla quale non abbiamo alcun accesso. Il fatto di avere un confronto con dei detenuti che studiano aiuta molto, così aiutiamo gli studenti a combattere lo stereotipo nei confronti del carcere: una strategia è sicuramente quella del contatto che deve avvenire tra persone che hanno qualcosa in comune. Non conta più l’età o il vissuto. Anna Tonelli crede molto in questo progetto e nei benefici che può portare, da una parte e dall’altra: "Questi sono studenti che trovano nell’idea del percorso universitario delle motivazioni diverse da quelle di un ventenne. C’è chi lo fa per dimostrare ai familiari di aver sbagliato nella vita ma di avere un’opportunità. Togliersi quell’etichetta di rifiuto umano che la società gli attribuisce". Un’esperienza importante anche per gli stessi professori: "Il rapporto che si crea con noi docenti è intenso e di riconoscenza. Le lezioni nel carcere sono principalmente un momento umano. Si sentono lusingati che il mondo esterno si occupi di loro perché vedono che qualcuno ha fiducia e crede che possano fare qualcosa di diverso nella loro vita che non è l’esperienza detentiva e l’esperienza di deviazione che li ha portati li. E poi… io ho uno studente di quarant’anni che ha fatto un esame di storia contemporanea brillante. Non sentivo da anni una cosa del genere". Airola (Bn): Sappe; nuove proteste nel carcere minorile, appiccato un incendio cronachedellacampania.it, 23 maggio 2017 Ancora problemi nelle carceri della Campania e in particolare di quello minorile di Airola in provincia di Benevento dove la scorsa notte si è sfiorata la tragedia a causa di un incendio. È stato solo grazie al pronto intervento degli agenti della Polizia Penitenziaria che si è evitato il peggio. Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe spiega in una nota l’accaduto: "Colpa e conseguenza della protesta sconsiderata e incomprensibile di alcuni detenuti maggiorenni, tra i quali due dei principali protagonisti della grave rivolta dello scorso 5 settembre sempre nello stesso istituto penale - riferisce ancora Capece - che hanno appiccato un incendio prima nella cella dov’erano ristretti e poi anche in quella dov’erano stati spostati". "Sono stati attimi di autentica tensione, - prosegue il sindacalista - con i detenuti che hanno dato fuoco a tutto quello che vi era all’interno delle celle. Il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari, con grande senso di responsabilità coraggio e professionalità, ha permesso di evitare più gravi conseguenze". Capece stigmatizza, con fermezza, "le gravi e pericolose intemperanze di questi detenuti adulti, ristretti in un carcere minorile a seguito di una modifica alla legge in vigore, modifica legislativa da noi fermamente contestata. Ma allo stesso tempo ci chiediamo come e perché erano ancora ristretti nel carcere minorile di Airola due dei protagonisti della drammatica rivolta dello scorso settembre". Il segretario del Sappe, ricorda, inoltre, che ogni giorno accadono "gravi eventi critici nelle carceri italiane, episodi che vengono incomprensibilmente sottovalutati dall’Amministrazione Penitenziaria". "Ogni 9 giorni - ricorda il sindacalista - un detenuto si uccide in cella mentre ogni 24 ore ci sono in media 23 atti di autolesionismo e 3 suicidi in cella sventati dalle donne e dagli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria. Aggressioni risse, rivolte e incendi sono all’ordine del giorno e i dati sulle presenze in carcere ci dicono che il numero delle presenze di detenuti in carcere è in sensibile aumento. Ed il Corpo di Polizia Penitenziaria, che sta a contatto con i detenuti 24 ore al giorno, ha carenze di organico pari ad oltre 7.000 agenti". Roma: diritto all’affetto, al via tre giorni sulle carceri con il Festival "Evasione possibile" di Cristina Montagnaro Il Messaggero, 23 maggio 2017 Innamorarsi anche dietro le sbarre di un carcere, e vivere un sentimento forte e innocente. È quello che racconta il bel film "Fiore" di Claudio Giovannesi. E parte proprio da qui, approfondendo il diritto all’affettività, insieme alle necessità e alle richieste dalle popolazione carceraria femminile e minorile e alle legislazioni emergenziale, "L’evasione possibile, il carcere, la vita e i diritti". Si tratta della VII edizione del Festival di Storia, che si terrà presso l’università La Sapienza, alla facoltà di Giurisprudenza e al Nuovo Cinema Palazzo, dal 26 al 28 maggio. Ci saranno tre giorni tre giorni di incontri, proiezioni, spettacoli teatrali, esposizioni e concerti. Saranno raccontate le storie della popolazione carceraria e si cercherà di approfondire i loro problemi quotidiani come: l’emarginazione e l’impermeabilità verso l’esterno, la violenza tra custodi e custoditi, l’eterna contraddizione tra le finalità dichiarate di recupero sociale e quelle attuate mediante radicate prassi carcerarie. Nella kermesse un grande spazio sarà dato a chi opera nel settore carcerario come: psicologi, terapisti e pedagogisti che con il loro lavoro danno un’altra possibilità di vita ai reclusi. Tra gli strumenti più utili al cambiamento c’è sicuramente il teatro, che si pone come forte agente di rinnovamento. Uno degli obiettivi del festival - spiegano gli organizzatori - "è quello di cercare di portare alla luce, tra le diverse forme di detenzione che coesistono nel carcere contemporaneo, quei modelli che rispettano i diritti fondamentali della persona umana". Tra gli appuntamenti più importanti del festival che toccano il tema del diritto all’affettività in carcere venerdì 26 maggio alle ore 17 ci sarà una tavola rotonda alla quale parteciperanno: Rita Bernardini, Partito Radicale Transazionale, Sandro Bonvissuto, scrittore, Pasquale Bronzo, ricercatore di procedura penale presso "La Sapienza" e insegna diritto penitenziario, Silvia Talini, Diritto Costituzionale e Valentina Esposito, regista e autrice, ha lavorato per oltre un decennio all’interno della casa circondariale di Roma Rebibbia e nel 2014 fonda Fort Apache Teatro, compagnia di attori detenuti in misura alternativa ed ex detenuti, esterna al carcere. Ci saranno anche alcuni attori detenuti in misura alternativa ed ex detenuti della Compagnia Fort Apache Teatro. Spazio anche alla musica con il concerto di Flavio Giurato e momenti anche di enogastronomia con "Ricette dal carcere", previsto per domenica 28 maggio alle ore 12.00 presso il nuovo cinema palazzo, dove si cimenteranno ai fornelli gli attori ex detenuti della Compagnia Fort Apache Teatro e i cuochi de Il Centro Onlus, Centro Permanente per la Prevenzione alle Tossicodipendenze. Alle 18, sempre di domenica 28 maggio, la giornata sarà dedicata ai minori e alla giustizia ripartiva, in occasione verrà proiettato alle ore 18.00 il film "Fiore" di Claudio Giovannesi. Interverranno anche il regista di Fiore e Daphne Scoccia, attrice protagonista. Nel corso delle tre giornate ci sarà spazio anche all’arte con una mostra fotografica dal titolo "Guardami Fuori Non Guardarmi Dentro" a cura di Il Centro Onlus e un’altra a cura di Danilo Garcia Di Meo dal titolo "Le Donne del Muro Alto". E poi ancora una mostra delle realizzazioni artigianali delle detenute del Carcere Femminile di Rebibbia a Roma. Per maggiori informazioni: "L’evasione possibile, il carcere, la vita i diritti", 26-27-28 maggio 2017 Nuovo Cinema Palazzo, Piazza dei Sanniti 9, biglietto per le proiezioni dei film e concerti 5 euro. Sassari: "Prigione e territorio, percorsi di integrazione", al via una settimana di eventi comune.sassari.it, 23 maggio 2017 L’Università, il Comune e il Consiglio dell’Ordine forense di Sassari lavorano insieme per promuovere dal 22 al 27 maggio una settimana di eventi dedicati alla sensibilizzazione e allo studio sulle pene alternative alla detenzione. Il Convegno "Prigione e territorio". Il momento principale sarà il convegno "Prigione e territorio. Percorsi di integrazione dentro e fuori le carceri" che si svolgerà venerdì 26 dalle 15.30 in aula Segni e sabato 27 maggio dalle 9.00 nell’aula magna centrale dell’Ateneo. L’evento è organizzato in collaborazione con il Tribunale di Sorveglianza di Sassari e la Camera di Commercio di Sassari. Ospite d’eccezione sarà Vincent De Gaetano, giudice della Corte europea dei Diritti dell’Uomo. In una due giorni aperta al pubblico, interverranno i maggiori esperti del settore per favorire una riflessione a più voci sugli aspetti teorici, organizzativi e operativi connessi al tema dell’espiazione della pena con modalità alternative alla detenzione. Esempi virtuosi di reinserimento lavorativo dei detenuti. L’appuntamento si propone anche come momento di lavoro concreto finalizzato all’attuazione di progetti volti al reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti. Per questo ogni giornata prevede una sessione di interventi e una tavola rotonda. "Alternative alla carcerazione e impegno delle comunità locali" è l’argomento della prima, coordinata dall’assessora regionale all’Industria Maria Grazia Piras, in programma per venerdì 26 alle 18.00 e finalizzata a innescare una rete virtuosa di collaborazioni in cui il Ministero della Giustizia, le università, le pubbliche amministrazioni e le imprese lavorano per ottenere ricadute sul territorio con impatto sociale misurabile. "Esperienze e prospettive di lavoro nell’esecuzione penale esterna" (27 maggio ore 11.00, aula magna piazza Università) è il tema della seconda tavola rotonda che sarà moderata dalla giornalista Daniela Scano. Sarà l’occasione per presentare esempi virtuosi di reinserimento lavorativo dei detenuti, come l’esperienza "Lavoro & Futuro srl" che sarà raccontata da Giuseppe Ongaro. Opportunità in Sardegna grazie ai fondi europei. Possibilità concrete sono offerte dalla Regione Autonoma della Sardegna grazie ai fondi Por dell’Unione europea. Gli assessorati alla Sanità e al Lavoro potranno programmare misure in materia di integrazione sociale e di formazione professionale. Eventi collaterali - Dal 22 al 25 maggio il santuario di San Pietro in Silki ospiterà la "Mostra di arte sacra" con opere realizzate dai detenuti della Casa circondariale di Bancali su proposta e con un finanziamento della Caritas Turritana. Sarà visitabile tutti i giorni, dalle 15.30 alle 19.00. La mattina del 27 maggio, durante il convegno, la stessa mostra sarà esposta nello spazio davanti all’aula magna dell’Università di Sassari. "Le metamorfosi nell’esecuzione della pena". Giovedì 25 maggio alle 15.30 in aula Segni, conferenza organizzata dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Sassari intitolata "Le metamorfosi nell’esecuzione della pena", di Marco Pelissero, ordinario di Diritto penale nell’Università di Torino. A seguire, alle 17.30, è prevista la proiezione del film "L’aria salata" (premio Festival Internazionale del Film di Roma 2006, David di Donatello 2007) a cura dell’associazione studentesca Elsa (associazione studenti Giurisprudenza) e Rotaract club Sassari. In conclusione il dibattito. Ai partecipanti saranno assegnati dei Cfu. Un secolo di bonifica umana. Organizzata dal Dipartimento di Agraria, dal parco regionale di Porto Conte e dall’Editore Carlo Delfino, si terrà venerdì 26 maggio alle 11 nell’Aula Magna del Dipartimento di Agraria (viale Italia 39) la presentazione del volume "Un secolo di bonifica umana. Colonie penali e miglioramento fondiario nella Nurra di Alghero (1864-1962)". Interverranno i curatori dell’opera, G. Antonio Farris e Stefano Tedde, e gli autori. Coordina i lavori Antonello Pazzona, direttore del Dipartimento di Agraria. Dall’8 al 24 giugno, inoltre, i locali della ex Biblioteca universitaria in piazza Università ospiteranno l’esposizione fotografica Figuras3Mostre, un’iniziativa dell’associazione Ogros-fotografi associati, sostenuta dalla Fondazione di Sardegna e dal Comune di Sassari, realizzata in collaborazione con l’associazione Sarditudine. Le tre mostre (a cura di Marco Ceraglia, Antonio Mannu e Salvatore Masala) indagano anche il mondo delle carceri. L’inaugurazione si terrà l’8 giugno alle 17 e l’esposizione sarà visitabile dal lunedì al venerdì dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 18.45; il sabato dalle 16 alle 18.45. "Colpevoli", in un libro le storie dei detenuti che vanno "oltre le sbarre" e i pregiudizi di Emiliano Moccia Corriere della Sera, 23 maggio 2017 "Sono molto orgoglioso dei miei figli, sono bravi a scuola e diligenti. Hanno un’anima buona e poi, a differenza di altri bambini che vogliono fare a tutti i costi i grandi, i miei sono proprio bambini. È merito di mia moglie, lei è molto forte e sta facendo grandi sacrifici per tutti. Sapere di averla lasciata sola mi fa sanguinare il cuore, anche per questo sono sicuro che non entrerò più in una galera: piuttosto mangerò pane e acqua, ma qui non ci torno". B. K. ha 39 anni ed è nato in Albania. Giunto in Italia ha conosciuto prima la droga e poi il carcere. Un lungo periodo di detenzione che l’ha reso triste, cupo, pensieroso. Ma il giorno della vigilia di Pasqua è uscito per il suo primo permesso. Fuori dalle mura del penitenziario lo aspettavano la moglie e i bambini, e per la prima volta i suoi occhi si sono illuminati di gioia e ha sorriso. fotocarceDonato, invece, trascorre parte del suo tempo svolgendo l’attività di bibliotecario in carcere. Durante l’isolamento dei primi due mesi di detenzione, infatti, ha scoperto la sua vocazione per la lettura, per il racconto scritto, provando con la forza della parola anche a sanare il rapporto con la sua figura paterna, forse alla base dello sbaglio che gli ha tolto la libertà. Le storie di Donato, Luigi, Matteo e tanti altri, sono un viaggio nel mondo del carcere. In particolare, nell’istituto penitenziario di Foggia. Sono i loro i "colpevoli", quelli che hanno ricevuto una doppia sentenza di condanna: dal Tribunale che ha giudicato i reati che hanno commesso e da una parte di società che non crede nella loro riabilitazione e nella rieducazione. Per questo, alcuni di loro si sono messi in gioco. Ed hanno deciso di aprirsi, di raccontarsi, di mostrare il loro volto più vero, le loro fragilità, le loro paure, ma anche le loro speranze per un futuro diverso, migliore. Il libro "Colpevoli. Vita dietro (e oltre) le sbarre" nasce con queste finalità. Un libro "scritto" nel carcere per andare oltre, per superare le sbarre e arrivare alle radici delle storie, dove i legami familiari si intrecciano con speranze e desideri. Merito della giornalista e volontaria penitenziaria Annalisa Graziano che è entrata nelle storie dei detenuti per restituirle alla comunità, per condividerle, per far riflettere, "per trasmettere l’idea che bisogna sempre dare una seconda possibilità. Perché chi ha commesso dei reati è consapevole di quello che ha fatto, ma una volta saldato il proprio conto con la giustizia merita una seconda possibilità, di potersi reintegrare nella società e poter riabbracciare i propri affetti e la propria famiglia". La scrittura del libro, edito dalle edizioni la meridiana, viene da un percorso lontano fatto di incontri, di chiacchierate, di sensibilità. "Sono entrata per la prima volta in un carcere tre anni fa, per accompagnare un’associazione. Mentre attraversavo i cancelli, avvertivo un lieve senso di smarrimento, quel formicolio alle gambe tipico del salto nel buio. Durò pochi minuti. Nei corridoi delle Sezioni, passo dopo, giorno dopo giorno, scoprii i colori dei dipinti realizzati dai detenuti, le attività dei volontari, i sorrisi degli agenti e delle educatrici, le strette di mano e i saluti dei ragazzi. Una rivelazione per chi è abituato all’indifferenza della strada". Perché il carcere è come una città invisibile che troppe spesso è tagliata fuori dalla comunità, dai percorsi di socializzazione. A Foggia, però, le cose vanno diversamente, anche per merito della direttrice Mariella Affatato che, con l’Area Educativa ed il corpo di Polizia Penitenziaria, ha dato pieno appoggio al progetto di scrittura partecipata che ha poi portato alla stesura del libro e sostiene numerose iniziative di volontariato. "Quella del carcere è una popolazione detenuta che ha voglia di fare, che non vuole oziare in cella, che vuole fare attività, più formazione lavorativa per avere maggiori possibilità di inserimento lavorativo una volta scontata la pena. "Colpevoli" - spiega Graziano - è un viaggio nelle sezioni dell’Istituto Penitenziario foggiano, tra le celle, le aule scolastiche, i passeggi, nella cucina e in tutti i luoghi accessibili. È, soprattutto, la rivelazione delle storie che ci sono dietro i nomi e le foto segnaletiche cui ci hanno abituati la cronaca nera e giudiziaria. Non solo rapinatori, omicidi, ladri e spacciatori, ma anche uomini, padri, figli e mariti con storie che nessuno aveva ancora raccolto". Un viaggio in cui parole come speranza e futuro hanno ancora un senso e segnano un traguardo importante da raggiungere. "La loro speranza è di potersi costruire una vita diversa una volta usciti dal carcere. Un signore di 75 anni condannato all’ergastolo, proprio in questi giorni, sta preparando la richiesta di grazia perché spera ancora di uscire nonostante un fine pena mai. Ha ancora speranza. Così come un ragazzo di 33 anni condannato a 39 anni di carcere, spera, una volta scontata la pena, di poter sposare la sua compagna". Il libro è accompagnato dalla prefazione di don Luigi Ciotti. "Queste pagine - scrive il Presidente di Libera - ci aiutano a ricordare che il carcere non è una terra marginale o un mondo a parte, ma un’eventualità nella storia delle persone. Scaturita certo da scelte sbagliate, di cui è giusto rendere conto, ma anche da opportunità negate, dall’assenza di alternative". L’autrice di "Colpevoli" ha rinunciato ai diritti d’autore: i proventi sosterranno attività nel carcere di Foggia. "Non sarà sempre così", di Luigi Celeste. Il ritorno alla vita dello skin che uccise il padre violento di Gianni Santucci Corriere della Sera, 23 maggio 2017 L’infanzia, il carcere, gli studi. Luigi Celeste ora è un esperto informatico. La sua storia raccontata in un libro, "Non sarà sempre così" (Piemme editore), che l’autore presenta martedì alle 18.30 al Mondadori Megastore di piazza del Duomo. Prima dei tatuaggi da skinhead, del coltello nella tasca dei jeans, delle risse tra neri e rossi nelle strade di Milano; prima dell’omicidio, l’omicidio del padre, febbraio 2008; prima della condanna (9 anni) e i giorni e le notti di studio in carcere, che oggi l’hanno portato a essere un professionista esperto di sicurezza informatica; ecco, prima di tutto questo, nella vita di Luigi Celeste c’è una scena di famiglia. Lui l’ha ricostruita così: "Mia madre grida. La sua voce invade il corridoio... Siedo da solo sul tappeto accanto al mio letto e ho in mano due pupazzi. Ho cinque anni. Mi alzo ed esco dalla stanza... fisso la porta della camera dei miei... il frastuono mi investe... Di fronte a me, la schiena di mio padre. È a cavalcioni sul letto e le sue braccia si muovono al ritmo di colpi secchi che sento crepitare sotto le grida. Vedo il braccio di mia madre di fronte al viso, il suo corpo immobilizzato, il rosso, il rosso sulla maglia, il rosso dappertutto... Grido. Più forte che posso, più forte di lei. Lui si ferma". A tenere insieme i passaggi di tutta questa storia, con la violenza e gli sbagli, c’è una catena pesante di stalking, di "atti persecutori" che per decenni hanno rovinato la vita non solo della madre, ma anche di Luigi e di suo fratello: i figli, che sono vittime spesso poco considerate della violenza sulle donne. "Che ne sarà di lui?" - Ora tutto questo è in un libro (Non sarà sempre così. La mia storia di rinascita e riscatto dietro le sbarre, Piemme editore) che Celeste ha scritto con Sara Loffredi. Nel settembre 2008 la madre di Luigi, Licia, scrisse una lunga lettera al Corriere; non voleva giustificare o assolvere il figlio, ma solo spiegare, raccontare le "torture psicologiche, l’esasperazione, l’estrema disperazione" che avevano pesato sulla sua famiglia, con quell’uomo che si ripresentava a casa con la violenza ogni volta che usciva dal carcere, e negli ultimi tempi era scivolato verso derive paranoiche. La signora Licia, infine, chiedeva: "Mi sento un enorme fardello sulle spalle, mio figlio minore si è sacrificato per liberarci da un incubo che durava da molti anni, ma ora che ne sarà di lui?". Alcuni magistrati hanno considerato con attenzione queste parole, in particolare quello che in Tribunale disse: "Il padre di Celeste ha infierito tanto da vivo. Non facciamo che infierisca anche da morto". Ma la risposta a quella domanda sta soprattutto nel libro appena pubblicato. Colpe ammesse. Piena responsabilità. Ma anche l’orgoglio di aver attraversato il disastro e di stare ancora in piedi, di essere un altro uomo. Celeste ricorda la fatica fisica dei primi anni in carcere. I pesi. Bilancieri fatti coi manici di scopa tenuti insieme dai lacci delle scarpe, per sollevare bottiglie piene di sale. La stessa fatica negli anni seguenti, a Bollate, sui libri di informatica, seguito dall’insegnante Lorenzo Lento della "Cisco academy". L’ansia di avere i permessi per allontanarsi dal penitenziario nei giorni degli esami, come "il 29 marzo 2012, un giovedì. Esco dal carcere... Sono prontissimo, ho superato tutti i laboratori previsti in questo anno e mezzo di studio, altri ne ho inventati per esercitarmi. Ho copiato gli appunti presi su diciassette quaderni, ho tradotto le lezioni in inglese di ogni corso, ho fatto il riassunto del riassunto e sono saltati fuori una decina di fogli che consumo in metrò, mentre andiamo verso piazzale Loreto". Ha superato tutte le certificazioni. Oggi è responsabile della sicurezza delle reti informatiche della multinazionale "K-Flex". Rossi e neri - La storia di Luigi Celeste dice però anche molto su Milano, racconta il pesante rigurgito di violenza politica all’inizio del millennio. Nell’ambiente degli skin entrò attraverso un compagno di calcio: "Era un rampollo della Milano bene, figlio di professionisti; pur lontanissimo da me e dal mio ambiente era sempre pronto a scherzare e mi coinvolgeva nelle sue uscite, diventammo amici". Finì con gli scontri continui, le risse sui Navigli. "Giravamo tutti col coltello a serramanico e per far vedere di averlo lo tenevamo infilato in tasca con la linguetta fuori: era un modo di avvisare, un modo di intimidire. Guardandola oggi, ovviamente, la nostra non era politica. Era paragonabile a una lotta fra bande". Migranti. Sempre più a Sud, Minniti ora vuole i Cie in Niger e in Ciad di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 23 maggio 2017 L’Alto commissario Unhcr Grandi in Libia si dice sconvolto dalle condizioni di detenzione dei migranti. La foto ricordo scattata domenica scorsa al Viminale mostra una "storica" stretta di mano a quattro tra il nostro ministro dell’Interno Marco Minniti e i suoi omologhi di Ciad, Libia e Niger, dopo la firma di una dichiarazione congiunta per istituire una "cabina di regia" comune allo scopo di sigillare i confini a sud e evitare la partenza di migranti verso l’Italia e l’Europa. La dichiarazione impegna l’Italia a "sostenere la costruzione e la gestione, conformemente a standard umanitari internazionali, di centri di accoglienza per migranti irregolari in Niger e in Ciad". Chi controlli la rispondenza di questi centri "di accoglienza" a standard di umanità internazionalmente riconosciuti non è chiaro, né chi li debba gestire e con quali fondi. E neanche è dato sapere in quale modo si intenda "promuovere lo sviluppo di una economia legale alternativa a quella legata ai traffici illeciti in particolare al traffico di esseri umani". Ma i quattro ministri sono immortalati con ampi sorrisi, che dovrebbero migliorare la "sicurezza percepita" a cui tiene tanto il titolare del Viminale. Per chi non si accontenta di sorrisi e annunci, la situazione in Libia e tra una frontiera e l’altra nel Sahara, lungo la rotta dei migranti, è sempre più incandescente. A Zawiya, città costiera dove è florido il business dei barconi, è esplosa ieri un’autobomba. Nel Fezzan il bilancio del truculento assalto della settimana scorsa alla base aerea di Brak al Shati, controllata dalle milizie del generale Haftar, è salito a 141 morti, tra i quali 15 civili. E si scopre - attraverso la Commissione nazionale diritti umani della Libia - che al seguito della Terza Forza, negli squadroni della città stato di Misurata che costituiscono l’ossatura delle milizie fedeli al governo Serraj di Tripoli, quello con cui l’Italia sta stringendo accordi per fermare i migranti, c’erano anche "foreign fighters provenienti dal Ciad e qaedisti delle Brigate di difesa di Bengasi". Serraj, per far vedere di non aver gradito l’assalto che ha violato la tregua con Haftar, ha sospeso il ministro della Difesa Al Barghouthi e il capo della Terza Forza, Jamal al Treiki, ma si tratta di un pro forma che neanche il suo ministro ha preso sul serio, infatti ha continuato a incontrare i capi misuratini per verificare "la presenza di cellule dell’ Isis" sopravvissute all’assedio di Sirte. Gli Usa intendono mantenere una presenza militare in Libia, ha detto il generale Waldhauser, proprio per combattere le cellule dell’Isis che stanno tentando di riorganizzarsi. Intanto l’Alto commissario Onu per i rifugiati Filippo Grandi, per la prima volta in visita ai centri di detenzione per migranti in Libia in queste ore, si è detto "scioccato" dalle condizioni in cui si trovano bambini, donne e uomini "che non dovrebbero sopportare tali difficoltà". Grandi fa presente che oltre ai profughi africani (1,1 milioni) in Libia ci sono 300 mila sfollati interni a causa del conflitto che dal 2011 non è mai finito. Migranti. Minniti: "almeno per i prossimi vent’anni il nostro futuro si gioca in Africa" di Marco Zatterin La Stampa, 23 maggio 2017 La dottrina del ministro degli Interni contro paura e disagio: "Ascoltiamo i cittadini e lavoriamo coi sindaci". "La sicurezza è di sinistra". Marco Minniti è agile nel giocare coi paradigmi del dibattito pubblico per adeguarli alla insidie della Storia che accelera e moltiplica le difficoltà che l’Italia, come il resto dell’Occidente, deve affrontare. I nemici si chiamano "paura e disagio", ed è qui che l’uomo del Viminale tenta di marcare le differenze, per dare un’impronta politica alla visione da ministro la cui missione è tecnica. "Noi riformisti dobbiamo ascoltare chi ha paura - puntualizza il ministro dell’Interno -. I populisti approcciano la paura con l’idea di mantenerla". Per questo, argomenta, la sicurezza è "un intervento sulla quotidianità" e, allo stesso tempo, "un progetto di lunga lena che deve consentire alla grande maggioranza di vivere in libertà". La sicurezza "è più importante per i deboli che non per i ricchi", insiste Minniti. Perché se uno coi soldi ha un problema, se lo risolve da solo, con la guardia privata o blindando la casa. È il manifesto con cui tenta di fissare nuove equilibri, inevitabili in un contesto politico in cui i vecchi partiti stanno affogando nell’assenza di risposte. "Non so se quello che sto facendo funzionerà, ma posso garantirvi che ogni mossa risponde a una strategia più ampia", ha assicurato il responsabile degli Interni, raccontandosi ieri nella sala Rossa del Salone del Libro. Stimolava a guardare lontano, come necessario, nel mondo in cui le tribù assediano la stato nazione. Un nuovo movimento, dice riscrivendo Wim Wenders. Non "falso". Ma "doppio". La dottrina di Minniti ha in effetti due volani. Uno va dal basso verso l’altro, "impone una forte agenda nazionale per rendere credibile quella sovranazionale". È la dimensione internazionale che lo porta ad attirare l’attenzione sull’Africa, dove "nei prossimi vent’anni si giocherà il futuro del Pianeta". Coniuga migranti e politica estera, avverte che occorre dialogare con le fazioni politiche di Tobruk e Tripoli per stabilizzare la Libia, ma che non ci sarà pace dimenticando le tribù. È grazie a loro, ricorda, se si è fatto emergere dal dimenticatoio il confine meridionale libico, a tutti gli effetti "la prima frontiera dell’Europa: occuparsi di questo, vuol dire occuparsi di noi". Le tribù guadagnano peso nella crisi dello stato nazionale che alimenta quella delle istituzioni sovranazionali come Ue e Onu. "Il solo modo di rilanciarle è dar loro più potere - incalza Minniti -. Tuttavia, per avvicinarle ai cittadini si pone la necessità di innestare una forte agenda nazionale". Ovvero il secondo movimento. Quello dall’alto al basso, la spinta necessaria per curare la malattia che colpisce ruolo e funzioni delle classe medie. Il cancro che con le sue fobie sazia le diseguaglianze. "La classe dirigente deve ascoltare la voce del disagio senza girarsi dall’altra parte". Un luogo, una qualunque piazza, "ha bisogno della polizia, ma anche dell’illuminazione, delle politiche sociali, dello sviluppo urbanistico". Soprattutto, recisa Minniti, "ha bisogno che quella piazza sia vissuta". L’Isis lo sa bene, argomenta il ministro. "Produce paura in modo radicale: e se riesce a farci stare in casa ha vinto un pezzo della partita". In circostanze simili, potrebbe rivelarsi facile ma "sbagliatissimo", non separare islamismo e terrorismo. Il secondo movimento forza un "nuovo rapporto col territorio". "Io cerco con insistenza il rapporto coi sindaci: a Milano abbiamo fatto il patto per l’accoglienza diffusa, siglando l’idea di stato nazionale che vive nel rapporto fra centrale e locale, fra Viminale e municipi, indipendentemente dal colore della giunta". L’accoglienza è il perno qualitativo del futuro, ragiona Minniti. "Più diffusa è, meglio è; l’accoglienza con piccoli numeri e non con grandi centri crea più propensione all’integrazione". Proprio la capacità di integrare gli pare il limite della solidarietà. "Chi non si integra è più esposto al fenomeno della radicalizzazione, dunque al terrorismo". Da Charlie Hebdo in poi, "chi ha colpito non era siriano, ma il figlio della mancata integrazione nella nostra società". La morale è che "ogni democrazia che si rispetti accoglie chi ha bisogno in piena trasparenza", fa rispettare le leggi, coopera. E così toglie il terreno di sotto ai piedi delle tribù assassine e quelle della politica. Le quali, prova a predire il ministro, "non potranno mai governare il mondo". Filippo Grandi: "Uno choc i centri profughi in Libia, ora lavoriamo con tutte le fazioni" di Paolo Valentino Corriere della Sera, 23 maggio 2017 L’Alto commissario Onu per i rifugiati: "Non è possibile che bambini, donne e uomini, che hanno già sofferto moltissimo, vivano in quelle condizioni. È vero, sono rimasto scioccato. Nei centri di detenzione libici manca lo spazio, l’igiene, scarseggia il cibo. Hanno urgente bisogno di essere migliorati". Filippo Grandi parla al telefono da Tunisi. L’Alto Commissario dell’Onu per i Rifugiati è appena rientrato da una giornata sul "fronte libico". Ha visitato alcuni dei principali campi, ce ne sono una quarantina in tutto, dove le autorità nordafricane portano rifugiati e migranti, intercettati nelle loro acque territoriali o arrestati nelle città. Eppure i centri sono solo una minima parte del problema. Ci sono più di 1,3 milioni di persone oggi in Libia che necessitano con urgenza assistenza umanitaria. Migranti, rifugiati, ma anche sfollati interni travolti dal collasso dell’ordine pubblico, del sistema sanitario, privi di cibo, acqua e servizi essenziali. "Oggi - spiega Grandi nell’intervista al Corriere - ho capito molto meglio che nei limiti del possibile, stante una situazione politica e militare complicata e altamente instabile, dobbiamo aiutare le autorità libiche, e intendo tutte non solo il governo riconosciuto dalla comunità internazionale, a gestire meglio questi flussi. C’è spazio per farlo". Per far fronte alla crisi in corso, il segretario generale dell’Onu ha annunciato un rientro in forze in Libia. Tutte le agenzie delle Nazioni Unite stanno rispondendo alla chiamata aumentando la loro presenza, in primis l’Alto Commissariato. Come vi state muovendo? Quali difficoltà incontrate? "Non è facile. Abbiamo inviato una missione di colleghi libici una settimana fa nel Sud, ma dopo pochi giorni c’è stato un violento scontro fra milizie. Questa è la realtà in Libia: fino a quando non ci sarà un accordo politico, saremo costretti a lavorare in queste condizioni. Lavoreremo lo stesso, ma con tutti gli ostacoli del caso. La nostra operazione si svolge ovunque abbiamo un margine: a Tripoli e nei dintorni, nell’Est, in Cirenaica e a Bengasi. Ma il punto per noi critico è nell’Ovest, in Tripolitania e nel Fezzan, dove cioè approda il flusso che prende corpo dall’Algeria, dal Niger e che si muove verso nord. Lì possiamo identificare le persone più vulnerabili e bisognose, quelle che meritano protezione internazionale, facilitando l’azione delle autorità". Il modello dell’accordo fra le tribù della frontiera Sud, come quello siglato a Roma con la mediazione dell’Italia, è una strada? "Sono intese importanti perché stabilizzano, dandoci più sicurezza e spazio per lavorare. Ma è importante che vengano stipulati tra i locali. La comunità internazionale dovrebbe applicare questo schema a tutte le parti in conflitto, ma non è così: purtroppo ci sono diversi Stati che appoggiano determinate fazioni, invece di mediare e favorire accordi". Il flusso dei migranti che arrivano via mare in Italia continua. Ci sono state polemiche e scandali. Che fare su quel fronte? "Se stabilizziamo la situazione politica e istituzionale, ci saranno meno attraversamenti. Senza accordi politici, gli sbarchi continueranno. In ogni caso, salvare vite umane deve rimanere una priorità, è fuori discussione. E penso che chi si impegna a farlo debba essere autorizzato a poterlo fare. Certo in modo coordinato, dalla Guardia Costiera e da altri. Certo in maniera da assicurare l’integrità degli interventi e in questo senso condivido in pieno le raccomandazioni della commissione parlamentare. Però occorre riconoscere che le Ong hanno fatto un lavoro fantastico, salvando migliaia di persone. È sbagliatissimo condannarle, cercare di limitarne l’azione e men che meno escluderle. Però non c’è solo la Libia e non c’è solo il mare". Cosa vuol dire? "Che i flussi attraversano una quantità di altri Paesi e occorre una strategia d’insieme. In Niger per esempio si può fare di più, dando loro più risorse. Per non parlare delle cause d’origine, che richiedono investimenti politici e finanziari ben più massicci. L’Europa non è coesa e non agisce in modo strategico. Spero che anche il G7 di Taormina si occuperà di questo nello spirito giusto. Mi preoccupa che come sempre l’accento più forte venga messo su controllo e contenimento. Criteri sacrosanti, ma da soli non in grado di risolvere il problema: occorre anche aggredire le radici delle migrazioni e rafforzare la catena di gestione dei flussi". Ma l’Unione Europea non è neppure in grado di portare a termine il ricollocamento dei rifugiati, decisi quasi due anni fa. "È uno scandalo. Siamo d’accordo con la posizione assunta dal Parlamento europeo e dal commissario Avramopoulos, le istituzioni europee non devono demordere di fronte all’inettitudine dei governi a tradurre in atto un piano minimo, che riguarda appena 10 mila dei 160 mila ricollocamenti decisi nell’agosto 2015. È una mancanza di sensibilità e d’iniziativa politica che lascia senza parole. Applicare quel piano per tempo avrebbe ridimensionato il problema, spezzandolo, facilitandone la gestione e soprattutto cambiando la percezione dell’opinione pubblica, che avrebbe avuto il segnale di un movimento organizzato e non di un’anarchia incontrollata. Noi insistiamo ancora perché sia applicato. Abbiamo visto quest’anno alcune elezioni andare in senso opposto al populismo e questo forse convincerà i governi europei a fare scelte più coraggiose e lungimiranti". Droghe. "Fanno pubblicità alla cannabis terapeutica", farmacie multate di Michele Bocci La Repubblica, 23 maggio 2017 Sanzioni da 8mila euro perché erano su motori di ricerca e siti che indicano ai malati dove trovare la sostanza. "Diamo solo informazioni, facciamo ricorso". Accusate di fare pubblicità online alla cannabis terapeutica e quindi multate per migliaia di euro. Alcune farmacie galeniche italiane sono finite nel mirino del ministero alla Salute perché presenti su alcuni siti dove vengono elencati appunto i luoghi dove con ricetta si può trovare la marijuana. Avrebbero violato la legge del 1990 che regola produzione e vendita degli stupefacenti specificando che è vietata la propaganda pubblicitaria di quelle sostanze quando vengono usate come farmaci. Tra le 6-7 farmacie colpite con sanzioni da 8mila euro c’è la San Carlo di Ferrara, del dottor Paolo Mantovani. "Noi non abbiamo nemmeno un nostro sito personale - spiega il farmacista - Siamo su alcuni siti, come letsweed.com o cercagalenico.it, dove sono elencate farmacie con laboratorio galenico che possono preparare la cannabis. A me quella non sembra pubblicità. Sulla rete sono citati tanti dei prodotti che prepariamo e tra questi, da poco, anche la cannabis". Alcune delle farmacie sanzionate avevano anche un sito proprio, per la verità, che è stato bloccato in attesa di una soluzione della vicenda. Altre hanno ancora il loro spazio web attivo dove si rende conto della vendita della cannabis terapeutica, magari con l’accortezza di specificare che non si sta facendo pubblicità ma solo spiegando come agisce e come va presa la sostanza. "E non ci scordiamo - dice sempre Paolo Mantovani - che le persone non possono venire qui e prendere la sostanza. È necessario avere una ricetta particolare del medico che attesta la presenza di certe patologie. Ma al ministero pensano che solo scrivere online che tra le altre cose prepariamo anche la cannabis ritengono che sia pubblicità indotta. Vedremo, abbiamo già fatto ricorso". Oltre ai siti citati dal farmacista, dove sono elencate farmacie galeniche in base alle sostanze che preparano, ci sono app che aiutano il paziente, ad esempio, qual è il negozio più vicino dove acquistare farmaci a base di morfina. Sempre sotto stretto controllo medico. Probabilmente tutta la materia va rivalutata, altrimenti le sanzioni potrebbero diventare centinaia. "La legge è datata, perché quella del ‘90 si rifa addirittura a una norma del 1934 - spiega ancora Mantovani. Ma desso ci troviamo a un mondo di blog, social network e siti vari che scrivono informazioni. Sono sempre pubblicità? Chiediamo al governo di darci regole più chiare". Anche la presidente di Federfarma Annarosa Racca è a conoscenza delle sanzioni. "Stiamo ancora studiando la situazione - spiega - Certamente quei colleghi non volevano fare pubblicità alla cannabis terapeutica, erano in buona fede. Tutte le farmacie ormai hanno dei siti" Da quando l’Istituto farmaceutico militare di Firenze ha iniziato a produrre la cannabis di Stato, alla fine dell’anno scorso, sono stati una quarantina i chili di sostanza spediti alle farmacie private e pubbliche. La domanda da parte di persone con dolori e problemi provocati dal cancro, dalla sclerosi multipla e da varie malattie neurologiche, è in continuo aumento. E infatti il farmaceutico ha in programma di triplicare la sua produzione. Ma per accedere al farmaco bisogna essere valutati da uno specialista, essere inseriti in un piano terapeutico e avere almeno la ricetta del medico di famiglia. In più le farmacie, come per tutti i farmaci a base di sostanze stupefacenti, devono tenere registri separati dagli altri e comunicare praticamente in tempo reale al ministero e all’Aifa quali sono le vendite. "Il numero delle persone che ci chiamano per avere informazioni sulla cannabis è enorme e non tutti i laboratori galenici sono in grado di preparala e dosarla - racconta un altro farmacista - Che dobbiamo fare, non dirgli niente per non fare pubblicità?" Gb. Test sulla droga prima di entrare nei locali, si passa solo se non c’è rischio overdose di Enrico Franceschini La Repubblica, 23 maggio 2017 Nuova iniziativa britannica. Se non sono "letali" i ragazzi possono entrare e "sballarsi". La salute è più importante della legalità. Ovvero, come evitare una overdose, con l’aiuto delle autorità. Sembra questo il principio che ispira una nuova iniziativa britannica: creare degli spazi appositi all’interno dei festival musicali in cui i giovani possono fare esaminare le droghe che si preparano a prendere per vedere se sono pericolose o letali. Una misura che è già stata adottata al Secret Garden Party, un recente evento musicale nel Cambridgeshire, e che questa estate entrerà in funzione ad altri happenings a Reading e Leeds, in attesa del consenso della polizia per introdurla in una "mezza dozzina o decina di festival musicali in tutto il paese", secondo quanto riporta stamane il quotidiano Independent. Il sistema funziona così: nell’area del festival viene approntata una tenda per testare le droghe. A occuparsi dei controlli è The Loop, un’organizzazione che solitamente effettua test per le indagini della polizia scientifica. Gli addetti potranno così comunicare ai possessori che cosa contiene la droga di cui intendono fare uso e il grado di pericolosità per l’organismo. Quindi il campione utilizzato per il test verrà distrutto. Ma il possessore della droga non viene segnalato alle forze dell’ordine, né viene fatto alcun tentativo di sequestrare il resto delle sostanze in suo possesso. "È un’idea radicale e importante", dice Fiona Measham, direttrice di The Loop, alla Press Association. "La polizia collabora con noi e sta dando la priorità alla salute e sicurezza di chi partecipa ai festival piuttosto che alla persecuzione di eventuali reati". I promotori dell’iniziativa sperano che test analoghi vengano offerti in futuro anche da discoteche e arene di concerti. Lo scopo è evitare le morti da overdose. L’anno scorso un ragazzo di 17 anni ha perso la vita a un festival musicale a Leeds per uso di stupefacenti, altri due adolescenti sono deceduti in circostanze simili al festival T in the Park e una celebre disco di Londra è stata chiusa per sei mesi dalle autorità per la morte di un giovane per overdose. L’adozione dei test su scala nazionale attende un parere positivo da parte del National Police Chiefs Council, l’associazione che riunisce i capi delle polizie di tutta la Gran Bretagna. Egitto. I veleni del caso Regeni: "attivisti egiziani spiati al convegno in Italia" di Carlo Bonini La Repubblica, 23 maggio 2017 I partecipanti al workshop sui diritti umani sono stati seguiti a Roma. E la stampa di regime del Cairo li accusa di cospirazione internazionale. L’omicidio di Giulio Regeni e l’inchiesta che da 15 mesi procede per individuarne gli autori gli autori sembra non abbia insegnato nulla. Per il regime militare egiziano i diritti umani e gli attivisti che si battono per il loro rispetto sono e restano un’ossessione. Al punto da imbarcarsi in una spericolata operazione di disinformazione che ha avuto come teatro Roma. Tra sabato e domenica scorsi, il workshop a porte chiuse organizzato dall’associazione Euromed Rights (l’organizzazione che riunisce 70 sigle tra il Maghreb e il Mashrek impegnate nella promozione dei diritti umani nell’aria mediterranea) è stato oggetto della singolare attenzione di tre non meglio qualificati "giornalisti" egiziani. Tre uomini, per modi e insistenza, più simili ad agenti degli apparati di sicurezza che non a professionisti dell’informazione. Hanno scattato foto. Hanno annotato i nomi dei partecipanti al convegno a porte chiuse. Hanno tentato, senza successo, di ascoltare quanto nel convegno veniva riferito e deciso. E, lunedì, una dozzina di testate giornalistiche egiziane (tutte di area governativa) hanno pubblicato le foto rubate a Roma, dato conto dei nomi di alcuni dei partecipanti al convegno e chiosato quella riunione con parole che suonano dettate dal ministero dell’Interno egiziano: "L’incontro - si legge - era teso a pianificare uno stato di caos e di instabilità in Egitto nel prossimo periodo, prima delle elezioni presidenziali". In realtà, che di cospirativo in quanto accaduto tra sabato e domenica ci sia soltanto il ruolo dei tre fantomatici giornalisti egiziani, lo raccontano a Repubblica due diverse fonti presenti al workshop. Secondo quanto è stato possibile ricostruire, la sera del 19 maggio, venerdì, all’aeroporto di Fiumicino, l’avvocato dei diritti umani egiziano Khaled Ali è stato avvicinato subito dopo la dogana da un uomo che, in lingua araba, e senza qualificarsi con nome e cognome, ha detto di essere un giornalista e di essere lì per accompagnarlo nell’albergo dove si sarebbe dovuto tenere il convegno il giorno successivo. L’avvocato Ali ha tirato dritto. Ha preso un taxi diretto all’hotel Habitat di via Pellegrino Matteucci (quartiere Ostiense) ma non è riuscito a seminare il ficcanaso. Se lo è trovato in quell’albergo che nessuno, tranne i partecipanti al convegno, conoscevano come luogo dell’appuntamento del workshop. E questa volta non da solo. Ad accompagnarlo altri due uomini, uno dei quali con una macchina fotografica che ha cominciato a scattare. I tre non hanno fatto mistero di ciò che cercavano. E con una mossa smaccata si sono presentati alla reception dell’albergo fingendosi prenotati per quella notte. Con un solo scopo: ottenere il diniego del receptionist e a quel punto giocare il vecchio trucco dell’equivoco linguistico nella prenotazione per poter controllare uno a uno i nomi dei cittadini egiziani che avrebbero soggiornato nell’hotel. Riferiscono ancora le due fonti a Repubblica che il 20 mattina le cose non siano andate meglio. I tre hanno bivaccato per l’intera giornata nella hall cercando ripetutamente di entrare nella sala, senza successo, dove il workshop si svolgeva a porte chiuse. Prima di essere definitivamente e bruscamente allontanati da uno dei partecipanti. "Uno di quegli uomini - racconta Raffaella Bolini, presente al convegno - parlava un discreto italiano". Un ulteriore indizio di che mestiere facesse quell’uomo. Del resto, che quanto accaduto a Roma sia stata un’operazione che nulla aveva a che fare con l’informazione ma molto con l’intimidazione con cui in questi 15 mesi il regime ha soffocato ogni voce libera, lo testimoniano i titoli fotocopia dei giornali egiziani di ieri. Che hanno bollato un workshop accademico internazionale per una cospirazione contro il loro paese. Arabia Saudita. Dagli Usa silenzio sui diritti umani, ma armi per miliardi di dollari di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 maggio 2017 La prima visita all’estero del presidente statunitense Donald Trump ha avuto luogo nel paese che ospita alcuni dei maggiori luoghi sacri dell’Islam. Un paese, l’Arabia Saudita, che secondo i principi ispiratori del "Muslim ban", tanto nella forma originaria quanto in quella rivista, avrebbe dovuto far parte dei sette, poi sei, paesi a maggioranza islamica ai cui cittadini era fatto divieto di entrare negli Usa. Ma l’Arabia Saudita è un paese a parte: "moderato" (usiamo le virgolette, dato che le sue leggi condannano a 1000 frustate i dissidenti, consentono la decapitazione di 200 persone l’anno e chiudono in carcere tutti i difensori dei diritti umani), considerato fondamentale nella lotta al terrorismo e nel contenimento della minaccia iraniana e dunque un ottimo mercato per l’industria delle armi statunitense. Infatti, il viaggio del presidente Trump verrà ricordato per uno dei più grandi accordi nella storia della vendita di armi: navi da guerra, missili, veicoli blindati, aerei, munizioni e altro ancora per un valore di 110 miliardi di dollari. Ma l’obiettivo è di arrivare a 350 miliardi entro i prossimi 10 anni. Continuare a inondare di armi un paese che dal marzo 2015 è alla guida di una coalizione militare che compie regolarmente crimini di guerra in Yemen è un atto irresponsabile che equivale a complicità in crimini di diritto internazionale. Una complicità iniziata sotto l’amministrazione Obama, con trasferimenti di armi superiori a tre miliardi di dollari, e che ora diventerà ancora più palese. I familiari delle vittime degli attentati dell’11 settembre 2001 non saranno particolarmente contenti del rafforzamento dei rapporti economici, strategici e di sicurezza tra i due paesi. Lo scorso anno hanno ottenuto dal Congresso, superando il veto del presidente Obama, via libera per citare in giudizio l’Arabia Saudita per la sua sospetta complicità in quei crimini contro l’umanità. Che farà, se un giudice darà loro ragione, il presidente Trump? PS. Negli ultimi due giorni il presidente Trump non ha ovviamente fatto cenno alla situazione dei diritti umani in Arabia Saudita. Invece, ha trovato modo di tranquillizzare il re del Bahrein che potrà continuare a reprimere impunemente la sua popolazione. Israele. Detenuti palestinesi al trentaseiesimo giorno di sciopero della fame La Repubblica, 23 maggio 2017 "La politica decennale di Israele di arrestare i palestinesi di Gaza e privarli di regolari visite dei familiari non è solo crudele, ma anche una violenta violazione del diritto internazionale". È quanto si legge in un documento di Amnesty International, di fronte alla sciopero della fame dei prigionieri, cominciato il 17 aprile scorso. I testimoni. Le testimonianze raccolte dall’organizzazione umanitaria tra i membri delle famiglie dei prigionieri palestinesi detenuti fanno luce sulle sofferenze sopportate dai parenti che, in alcuni casi, sono stati privati per molti anni del diritto di incontrare i loro congiunti detenuti. "La politica di Israele nelle prigioni in Cisgiordania e a nella Striscia di Gaza e all’interno dei confini israeliani è una flagrante violazione della Quarta Convenzione di Ginevra - dice ancora il documento diffuso dell’organizzazione - è illegale e crudele per le conseguenze, che possono essere devastanti, sulle persone imprigionate e per i propri cari", ha detto Magdalena Mughrabi, vicedirettore regionale per il Medio Est e Nord Africa presso Amnesty International. Dietro le sbarre almeno 300 bambini. I palestinesi incarcerati che hanno intrapreso questo lungo sciopero della fame di massa, annunciato dal leader imprigionato Fatah Marwan Barghouthi, avanzano una serie di richieste. Prima fra tutte la fine delle restrizioni di Israele sulle visite e i contatti con i famigliari. Ai detenuti sono vietate le telefonate alle loro famiglie, "per motivi di sicurezza", è la ragione ufficiale. Secondo il Club di prigionieri palestinesi, un’organizzazione non governativa, attualmente sono 6.500 le persone incarcerate, di cui almeno 300 bambini. Cinquecento persone in galera senza processo. La stragrande maggioranza dei detenuti sono uomini, 57 sono donne, di cui 13 ragazze sotto i 18 anni. Tredici di quelli imprigionati sono membri del consiglio legislativo palestinese. Almeno 500 persone sono detenute senza processo in "detenzione amministrativa", una pratica che frena le garanzie richieste dal diritto internazionale per impedire la detenzione arbitraria. Sono almeno 1.000 i prigionieri ai quali è vietato ogni possibile incontro con i famigliari per "motivi di sicurezza" e circa 15-20 detenuti sono attualmente in isolamento, ai quali è interdetto ogni rapporto anche con altri detenuti. Brasile. Raffica di inchieste giudiziarie decapita la classe dirigente di Angela Nocioni Il Dubbio, 23 maggio 2017 Una rivoluzione per via giudiziaria sta mettendo sottosopra il Brasile. Siamo alla vigilia del secondo impeachment presidenziale in dieci mesi. Decapitata la sinistra di governo del Partido dos trabalhadores (Pt), ora tocca alla destra che l’ha sostituita al potere. Tutto ciò avviene mentre l’economia è esangue, i conti di quella che continua a essere la nona potenza economica del pianeta ballano (Pil precipitato del 3,7 % nel 2016) e fanno ballare quelli dell’intera regione. Nella vicina Argentina l’economia nazionale è appesa alle notizie in arrivo da Brasilia. Ansiosissimo, il governo argentino continua a ripetere da giorni che "uno starnuto a San Paolo è una polmonite acuta a Buenos Aires". Il presidente ultraconservatore del Brasile, Michel Temer, rischia la destituzione, già richiesta dall’opposizione e da parte dei suoi ormai ex alleati. La Procura generale della Repubblica lo accusa di ostruzione alla giustizia, corruzione e organizzazione criminale. Lui nega e rifiuta di dimettersi. "O Globo", principale gruppo mediatico brasiliano, ha diffuso mercoledì notte la notizia dell’esistenza di un file audio in cui Temer sembra raccomandare a Joesley Batista, proprietario dell’impresa di export di carne più grande del mondo, la Jsb, accusato di corruzione e reo confesso, di continuare a pagare un lauto mensile all’ex presidente della Camera, Eduardo Cunha, detenuto per corruzione e pedina fondamentale nel complicato processo parlamentare che ha portato l’estate scorsa alla caduta della presidente della Repubblica Dilma Rousseff, del Pt, erede politica di Lula da Silva, destituita perché ritenuta colpevole di una "pedalata fiscale", ossia di aver aggiustato i conti pubblici con un trucco contabile, reato amministrativo e non penale, ma tecnicamente sufficiente a sostenere un impeachment. Nell’audio di Temer si ascolta il re della carne vantarsi col presidente della Repubblica, apparentemente silente, di aver comprato la complicità di un procuratore e di due giudici. La conversazione è stata registrata con un microfono nascosto da Batista che, in cambio della sua collaborazione con gli inquirenti e del pagamento di una multa di 34 milioni di dollari in dieci anni, è stato liberato da ogni addebito e non sarà denunciato. L’accordo sarà considerato nullo se le dichiarazioni dovessero rivelarsi false o le prove manipolate. Intanto l’imprenditore è libero e comincerà a pagare la multa nel giugno del 2018. Nella sua lunga deposizione, disponibile su internet, l’imprenditore sostiene di "non aver mai avuto fiducia nelle istituzioni brasiliane", di aver pagato vari milioni di dollari a Temer e di aver versato, durante i governi di Lula (2003- 2010) e di Dilma (2011- 2016) oltre 150 milioni di dollari in un conto negli Stati Uniti a disposizione dell’ex ministro dell’industria del Pt, Guido Mantega, per finanziare le campagne elettorali. Assicura che Mantega gli disse che Lula e Dilma sapevano. Lula e Dilma negano. Lula - uscito la settimana scorsa trionfante dal primo faccia a faccia col suo nemico numero 1, il giudice di primo grado Sergio Moro, accusato con grande efficacia dialettica dall’ex presidente in veste di imputato di aver imbastito un carnevale mediatico contro di lui senza aver mai avuto in mano uno straccio di prova - è stato il primo a chiedere le dimissioni di Temer. Da mesi tutti i sondaggi lo danno di gran lunga come il candidato favorito per le elezioni del 2018 nonostante la pioggia di accuse contro di lui. Se si andasse subito alle urne, secondo i dati di Datafolha, principale istituto di sondaggi brasiliano, Lula prenderebbe il 30% dei voti al primo turno. Ragione per cui l’attuale maggioranza parlamentare, di destra, cerca di evitare la convocazione di elezioni dirette e sta contrattando una via alternativa prevista dalla Costituzione, le elezioni indirette del presidente. Sarebbero in questo caso i parlamentari, e non gli elettori, a eleggere il nuovo presidente. Il primo nome a circolare, quello su cui sarebbe possibile un accordo, in caso di elezioni indirette, è stato quello dell’ex presidente Fernando Henrique Cardoso, padre fondatore del Psdb, il grande partito dei tucanos, partito di origini socialdemocratiche, tendente a destra, storicamente antagonista del Pt. Cardoso, subito dopo la diffusione dell’audio con la registrazione di Temer, s’è fatto vivo con un messaggio pubblico per il presidente barcollante: "Sarebbe ora che qualcuno si facesse da parte". Appena l’audio dell’incontro tra Temer e il re della carne è stato reso pubblico, il sito di "O Globo", che l’ha lanciato, è andato in tilt per eccesso di traffico. La voce del presidente che sussurra: "Questo me lo devi mantenere, eh", riferendosi apparentemente al detenuto (e per ora silenzioso) Cunha, rimbalza da un telefono all’altro, è diventata base di ritornelli rap e jingle di cellulari. Il file non è passato al vaglio di nessun processo. Nessuna certezza sulla autenticità della registrazione esiste. Secondo il quotidiano la Folha de Sao Paulo, l’audio risulterebbe ampiamente lavorato, avrebbe centinaia di tagli. Fatto sta che tutto il Brasile l’ha già metabolizzato come una prova schiacciante della colpevolezza di Temer. Così come il 16 marzo dell’anno scorso fece il giro del Paese la registrazione di una conversazione tra l’allora presidente in carica Dilma e l’ex presidente Lula mentre, all’apparenza, si stavano accordando sulla nomina di Lula a capo di gabinetto. Nomina che, si diceva, se fosse avvenuta, avrebbe messo Lula al riparo temporaneo dai guai giudiziari. Finora otto ministri del governo Temer, formato da soli maschi bianchi e tenuto in piedi dal voto della "bancada evangelica", il potente partito trasversale degli evangelici, insieme a quello della destra latifondista e quella delle armi (la lobby "Bibbia, vacche e pallottole") se ne sono andati travolti dallo scandalo. La Borsa di San Paolo ha avuto il tonfo più grosso degli ultimi dieci anni. Il real ha perso il 6% del suo valore sul dollaro in un solo giorno. Poiché anche l’ex presidente Lula rischia l’arresto e ha cinque inchieste in corso a suo carico, nel paesaggio terremotato della politica brasiliana sembrava essere rimasto in piedi solo il capo dell’opposizione, il senatore Aecio Neves, l’uomo che per un soffio perse le ultime presidenziali contro Dilma Rousseff. Neves è il leader del Psdb, il partito dell’ex presidente Cardoso. Invece è fuori gioco anche Aecio Neves. La Corte suprema l’ha appena destituito da senatore per una grave faccenda di corruzione. La serie di inchieste in corso sul finanziamento occulto di grandi imprese ai partiti non solo condiziona l’agenda politica, ma inevitabilmente promuove e decapita, quindi seleziona, la classe dirigente. Gli uffici di alcune procure della Repubblica, ma soprattutto le cronache televisive che ne ricostruiscono e spesso ne anticipano con grande enfasi le attività, sono il teatro di una feroce guerra politica e istituzionale. Protagonista assoluta delle inchieste è la "delação premiada", la delazione premiata, una versione brasiliana (con differenze) della nostra normativa sui collaboratori di giustizia. Si tratta di un vero e proprio contratto firmato tra accusato e inquirente, un contratto che ha permesso in quest’ultimo caso al re della carne di dirsi colpevole della corruzione dell’intera classe dirigente brasiliana degli ultimi quindici anni - destra, sinistra e centro, più alcuni giudici - pagata secondo le sue accuse con milioni di dollari per un’enormità di favori illeciti, e di evitare il processo vendendo la testa dei politici da lui accusati in cambio dell’impunità. La norma prevede sostanziosi sconti di pena e, in alcuni casi, la liberazione da ogni pendenza penale. Un bell’incentivo a vuotare il sacco, certo. Ma anche a mentire con intelligenza. A offrire verità verosimili, difficili da ricostruire e quindi da smentire, tenute in piedi da brandelli d’indizi in grado di somigliare a una prova senza esserlo. Molti avvocati brasiliani rifiutano la "delação premiada" come strategia difensiva. Alcuni studi legali hanno già denunciato in una pubblica lettera l’uso diffuso di "metodi da Inquisizione" nelle inchieste in corso. Hanno invitato "con urgenza il potere giudiziario" a "una postura rigorosa di rispetto e di osservanza delle leggi e della Costituzione". La questione è la solita: come si devono usare le dichiarazioni di chi accusa qualcun altro in un’inchiesta? E soprattutto: cosa è legittimo fare per ottenerle? In alcuni casi sono saltate fuori le prove dei fatti contestati, presentate come tali in processi arrivati a sentenza. Ma a tenere in piedi la Mani pulite brasiliana sono le delazioni premiate a tappeto di detenuti in via preventiva che, magicamente, escono dal carcere appena indicano il nome di un presunto corrotto. Che non viene mai trattato come tale, ma finisce sbattuto nelle aperture dei tg come fosse un reo confesso. A osservare il dettaglio delle principali inchieste, a controllare sul calendario i nomi di chi esce e di chi entra in cella, il timore che la prigione preventiva sia usata per forzare la chiusura degli accordi di collaborazione sembra fondato. Nel bel mezzo della guerra in corso anche dentro l’avvocatura brasiliana si è scatenata più di una battaglia. Approfittando del rifiuto di alcuni studi legali di difendere gli imputati che firmano accordi di delazione premiata, per esempio, spuntano come funghi avvocati che si stanno specializzando nella contrattazione con l’accusa, per conto dell’assistito, per accedere ai benefici offerti a chi collabora. Sud Sudan. Tra i profughi in fuga dai massacri etnici "nostri fratelli, ma ci ammazzano" di Lorenzo Simoncelli La Stampa, 23 maggio 2017 A sei anni dall’indipendenza il Paese più giovane del mondo è devastato dal conflitto. A Juba l’unica salvezza è andare nel campo dell’Onu: "Se usciamo rischiamo la vita". Una volta dentro il campo di sfollati della capitale del Sud Sudan, sorvegliato a vista dai caschi blu delle Nazioni Unite, le possibilità di sopravvivenza per Peter, un giovane di 21 anni, aumentano all’istante. Vita o morte sono divise da un lungo perimetro di filo spinato. Da una parte l’impunità delle strade polverose della capitale Juba. Dall’altra un fazzoletto di terra dove vivono 40 mila persone scappate da una guerra civile che dal 2013 a oggi ha causato 100 mila vittime e 3,5 milioni di sfollati (stime Onu). I più fortunati, circa 1,5 milioni, hanno trovato rifugio in Uganda, Etiopia e Kenya; mentre oltre 2 milioni sono ancora prigionieri del proprio Paese, il più giovane del mondo, nato nel 2011 e già in frantumi. L’incubo della guerra - Peter, scappato nel cuore della notte dalla sua casa di Yei, 150 chilometri dalla capitale, da due anni vive barricato in quello che le Nazioni Unite hanno ribattezzato Campo di protezione per i civili. Il primo nella storia delle operazioni di pace Onu, che mai aveva dato mandato ai caschi blu di trasformare un campo di sfollati interni in base militare. Torri di avvistamento, sacchi di sabbia e check point ogni chilometro. A presidiarli si alternano militari nepalesi e cinesi, uomini e donne, parte dei 17 mila soldati di Unmiss, la missione di pace dell’Onu in Sud Sudan. Peter è uno dei pochi coraggiosi che a volte esce dal campo, per respirare l’illusione di una vita normale. Ma dura poco, il tempo di una passeggiata senza inciampare nei picchetti delle tende ammassate all’interno di quella che molti ormai definiscono casa. I soldati governativi del Spla (Sudan People Liberation Army), in mimetica e basco rosso pattugliano le strade al di fuori della base Onu. Fedeli al presidente del Paese Salva Kiir, la maggior parte di loro condivide con il capo di Stato l’etnia d’origine, quella Dinka, maggioritaria in Sud Sudan. E per Peter, di etnia Nuer, la principale tra le minoranze, i rischi aumentano. "Non capisco perché devo vivere rinchiuso qui dentro solo per non essere Dinka, siamo tutti sud-sudanesi" si interroga Peter all’ingresso del campo. Civili nel mirino - Sia le Nazioni Unite che il Center for civilians in conflict hanno pubblicato documenti in cui denunciano le violenze subite dai civili appena fuori dalla struttura: donne stuprate, uomini uccisi. Lo scorso luglio, negli scontri che hanno sancito la fine del fragile accordo di pace del 2015 tra il presidente Kiir e il vicepresidente Machar, di etnia Nuer e ora confinato in Sudafrica, neanche i campi dei civili sotto protezione Onu sono stati risparmiati dai colpi di artiglieria. Terminati i rigidi controlli di sicurezza per evitare che entrino armi all’interno del campo, Peter si dirige verso la sua tenda, fino a pochi mesi fa condivisa con la sorella 18enne, l’unico famigliare superstite e che adesso si è sposata con un ragazzo conosciuto nella capitale. "Quella notte ho ricevuto una telefonata che mi avvisava: l’esercito stava cercando casa per casa gli uomini di etnia Nuer - ricorda l’inizio del suo incubo - sono scappato nella savana, ma era buio totale, non vedevo niente, sentivo solo il fischio dei proiettili sopra la mia testa". "Nella fuga due membri dell’esercito mi hanno fermato. Ho detto che ero un civile, ma avevo paura che riconoscessero il mio accento e che per me fosse finita - spiega Peter - uno era Dinka, l’altro Kakwa (minoranza etnica musulmana, ndr). Quest’ultimo mi ha salvato la vita convincendo l’altro a lasciarmi andare". La tenda dove vive Peter è circondata da altre famiglie scappate dal Nord del Paese, l’area più contesa per la presenza del petrolio, la cui gestione significa il controllo del Paese, dato che il 97% degli introiti nazionali derivano dal greggio. In questa regione, già duramente segnata da oltre 40 anni di guerra con il Sudan, gli scontri tra ribelli e governativi sono ancora più intensi. Un’area paludosa che ha reso più difficile la fuga dei civili. Alcuni si sono nascosti per giorni negli acquitrini mangiando radici e provando a pescare pesci con le mani. Acque infestate da coccodrilli e ippopotami. Un rischio da prendere pur di evitare di cadere in mani nemiche. La carestia - Una guerra che, oltre a vittime e sfollati, sta affamando 5 milioni di persone, metà della popolazione, con almeno 100 mila civili prossimi alla morte per fame (stime Onu). Un conflitto politico che rischia di trasformarsi sempre più in scontro etnico, dove non esiste una linea di demarcazione netta data le decine di etnie che popolano il Sud Sudan. Dove la base si trova a subire il vertice, ma non a comprenderlo e il presente sembra cancellare tradizioni secolari. "Per noi Nuer incidere sei linee orizzontali (gaar) sulla nostra fronte era un simbolo di distinzione - spiega Nhial, un quarantenne vicino di tenda di Peter - ma adesso si è trasformato in una condanna perché siamo facilmente riconoscibili". A rendere ancora più pesante l’aria all’interno del campo di sfollati di Juba, il caldo torrido provocato dai riflessi del sole sui pezzi di lamiera usati per coprire gli squarci delle tende. La stagione delle piogge è in ritardo, decine di bambini aspettano in coda il loro turno per riempire una tanica d’acqua. L’olezzo proveniente dalle latrine a cielo aperto è nauseabondo. "Il sovraffollamento rischia di far esplodere un’epidemia di colera come nel 2016" spiega la dottoressa Sadia Azam, a capo dell’ospedale realizzato dall’organizzazione umanitaria statunitense International Medical Corps all’interno del campo. A pochi isolati di distanza, l’esercito ha ripreso a pattugliare le strade della capitale. Per gli stranieri rimasti, quasi tutti membri di Ong e organizzazioni umanitarie, il coprifuoco è fissato per le 20,30. Le vie di Juba, antitesi delle capitali africane, sono sempre più deserte. Oltre ai boda boda (moto taxi) si vedono le jeep bianche con la scritta delle Nazioni Unite che fanno la spola tra l’aeroporto e i compound blindati. Il carburante è razionato: massimo 20 litri a macchina e l’economia è al collasso. Il pound locale è scambiato 120 a un dollaro e le banche sono quasi prive di valuta straniera. Ong sotto attacco - Appena fuori della capitale, nelle strade impervie che attraversano la savana verdeggiante, si intravedono giovani armati di kalashnikov a difesa del proprio bestiame, preso di mira dalle diverse fazioni in conflitto. Le imboscate di milizie più o meno connesse al contesto politico nazionale sono sempre più frequenti. Servono soldi per armarsi e per mangiare. Spesso a pagare il prezzo più alto sono le Ong. Dal 2013 ad oggi 83 cooperanti sono stati uccisi. Dietro ai disperati tentativi per resuscitare i negoziati di pace non mancano le interferenze degli Stati africani e delle grandi potenze straniere interessate al petrolio, Stati Uniti e Cina in primis. Con l’amministrazione Trump pronta a staccare il supporto al presidente Kiir, aumentando così il rischio di una regionalizzazione del conflitto e di una deriva multietnica da cui sarebbe difficile uscire. Somalia. Tornano i pirati: fame, pesca illegale e meno controlli di Tommaso Carboni La Stampa, 23 maggio 2017 Almeno sei attacchi da inizio marzo. Banditi riforniti di armi e barche per allargare le operazioni. Carestia, pesca illegale, o semplice opportunismo. Quali siano le ragioni è oggetto di dibattito, ma una cosa è certa: i pirati somali sono usciti dal letargo. Almeno sei, negli ultimi due mesi, gli attacchi confermati dalle autorità militari statunitensi. I protagonisti sono sempre gli stessi. Vecchie conoscenze degli esperti di sicurezza, come "Big Mouth" Afweyne Dhibic e "Rabbit" Bakeyle, che hanno assaltato, il primo, un cargo a circa 200 km dalla costa somala, il secondo, una nave da carico che viaggiava vicino allo Yemen, dirottandole verso la loro roccaforte nella regione di Galmudugh, nella Somalia centrale, e ottenendo per entrambe un riscatto. Il colpo che ha destato più clamore però è quello di Jacfar Saciid Cabdulaahi: è lui che a inizio marzo ha annunciato il risveglio dei pirati. Salpato dalla regione autonoma di Puntland, e potendo contare su un paio di dozzine di uomini armati, Cabdulaahi si è impossessato di una grossa petroliera battente bandiera delle isole Comore, partita dal Gibuti e diretta a Mogadiscio. La prima imbarcazione commerciale sequestrata in quelle acque dal 2012; e ora la comunità internazionale deve riaprire un dossier che credeva archiviato. Secondo gli Stati Uniti, come ha riferito recentemente Tom Waldhauser, comandante in capo delle forze Usa in Africa, il ritorno dei pirati è legato a fattori contingenti come la carestia e la siccità che stanno colpendo la Somalia. I nuovi attacchi, aggiunge il militare, non dovrebbero durare a lungo, ed è possibile arginarli ristabilendo quelle misure di sicurezza che hanno contribuito a risolvere la crisi precedente. Nel 2011, con 237 incidenti, l’emergenza pirati raggiunse il suo apice. Bande di ex-pescatori a bordo di motoscafi e gommoni assaltavano qualsiasi imbarcazione capitasse loro a tiro. Si calcola che tra il 2008 e il 2012, i pirati abbiano guadagnato circa 120 milioni di dollari l’anno. Dopo perdite gigantesche, stimate tra i 900 milioni e i 3,3 miliardi di dollari l’anno, l’industria dei trasporti adottò delle contromisure. Alle navi venne imposto di spostarsi più rapidamente e a maggior distanza dalla costa, e di ospitare a bordo guardie armate pronte a far fuoco sugli aggressori. Anche gli organismi internazionali fecero la loro parte. Vennero istituite due missioni per presidiare le acque dell’ Oceano Indiano orientale: una con flotta della NATO, l’altra dell’Unione Europea. Risultato: i pirati si trovarono di fronte tali rischi che nel 2013 tentarono solo 15 attacchi. Ma superata l’emergenza si è fatto l’errore di trascurare di nuovo le difese. A dicembre scorso, le forze navali della Nato se ne sono andate. Restano quelle dell’Unione Europea, almeno fino al 2018, quando si deciderà se prolungare la missione. Anche le navi cargo si tutelano meno, muovendosi più lentamente, vicino alla costa, e spesso senza armi. Come consiglia il generale Waldhauser, irrobustire la sicurezza è la prima cosa da fare. Tuttavia gli esperti avvertono che non è una soluzione di lungo termine, perché non affronta la radice del problema. Che è il sottosviluppo della costa somala, a cui la pesca illegale dà un ampio contributo. Navi straniere, senza rispetto per il divieto di non avvicinarsi oltre 24 chilometri dalla costa, prosciugano le risorse del mare a danno dei piccoli pescatori locali. In teoria, le autorità somale dovrebbero intercettare e arrestare i pirati, come chi pesca illegalmente. Ma la realtà è che il governo centrale non ha sufficienti risorse per pattugliare i mari e far rispettare la legge. In altri casi è la corruzione dei funzionari, spesso quelli delle regioni autonome, ad aggravare il problema. L’anno scorso, per esempio, il governo autonomo di Puntland ha venduto, contravvenendo alle norme federali, licenze di pesca per 10 milioni di dollari a delle società cinesi. In questo clima di illegalità diffusa, e di fronte ad un indebolimento delle misure di sicurezza, i pirati hanno intravisto un’opportunità per tornare a mietere profitti. Imprenditori locali, si legge nell’ultimo rapporto di Oceans Beyond Piracy, hanno investito in nuove armi e motoscafi per attaccare spedizioni internazionali e regionali. Non si tratta quindi di una recrudescenza passeggera: la pirateria è tornata per restare. Ci vorrà del tempo per liberarsene.