Inchiesta sul carcere di Padova. La presa di posizione della CNVG di Alessandro Pedrotti* Ristretti Orizzonti, 22 maggio 2017 Il 19 maggio all’interno della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova si è tenuto il seminario "Nessuno cambia da solo". Oltre 600 persone sono entrate nel carcere patavino per vivere un’esperienza unica. Studenti, famigliari di detenuti, magistrati, scrittori, giornalisti, avvocati, operatori sociali, parlamentari, ma anche vittime di reati insieme agli stessi detenuti… tutti a condividere un obiettivo, quello di riflettere sulle pene, sul carcere, sulla funzione che la Costituzione assegna alle pene stesse. Una riflessione che è entrata in profondità, che non giustifica i reati ma tenta di affrontarne la complessità e di fare chiarezza su come dovrebbero essere le pene per rispettare le norme che la nostra Repubblica si è data. Vivere in un carcere, anche il migliore del mondo, è sempre misurarsi con la privazione della libertà, e con quelle pene aggiuntive che spesso accompagnano le persone detenute, anche se non stanno scritte in nessun codice: la pena degli affetti negati, del lavoro negato, della salute negata. Per il sovraffollamento e per il mancato rispetto delle regole minime della vita detentiva il nostro Paese è stato più volte condannato dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. È importante che un carcere sia aperto, che vi entri la società "civile", che si ragioni di questi temi insieme ai detenuti e non al posto loro? Dovrebbe esserlo, ma non sempre lo è. Nella Casa di reclusione di Padova tutto questo avviene, nel rispetto della legalità e soprattutto nel rispetto della Costituzione, grazie all’impegno di varie associazioni e cooperative e anche grazie al fatto che per anni quel carcere è stato diretto da Salvatore Pirruccio, un galantuomo, un servitore dello stato in grado di gestire un carcere rispettando davvero le norme e umanizzando le condizioni di vita delle persone detenute. Un enunciato banale se vogliamo, ma che in Italia rischia di essere un atto sovversivo. È di questi giorni la notizia apparsa sui quotidiani del Veneto che l’ex direttore del carcere sarebbe sotto indagine e, fra le varie accuse, c’è anche quella di aver favorito i detenuti che lavoravano c/o la coop. Giotto e la redazione di Ristretti Orizzonti. Ecco alcuni stralci dell’articolo uscito di recente sul Corriere del Veneto: "L’accusa, falso in atto pubblico, è già pesante di per sé. Ma la frase scritta dagli ispettori del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) sull’ex direttore del Due Palazzi Salvatore Pirruccio lo è ancora di più: il carcere di Padova, secondo il Dap, era in mano alle cooperative e il ruolo del direttore era subalterno rispetto a quello giocato da Nicola Boscoletto e Ornella Favero, rispettivamente responsabili della cooperativa di pasticceria Giotto e di Ristretti Orizzonti che pubblica la rivista del Due Palazzi". Nicola Boscoletto e Ornella Favero avrebbero quindi, in una "specie" di associazione a delinquere, fatto pressioni indebite sul direttore Pirruccio per ottenerne dei "favori" per le persone detenute impegnate nelle loro attività. Fra le accuse mosse all’ex direttore, quella di aver declassificato dei detenuti di Alta Sicurezza. Non voglio entrare nel merito tecnico delle questioni che sarebbero facilmente smontabili, basti pensare che le declassificazioni vengono decise in sede di DAP (a questo punto perché non sono stati indagati gli alti dirigenti che hanno firmato le declassificazioni?), vorrei qui far capire l’assurdo di alcune accuse mosse. Sembra che il vero obiettivo, neppure molto celato, dietro queste indagini sia proprio lo smantellamento di un sistema carcerario che è tra i pochi in Italia che funziona. Non è un carcere modello, quello di Padova, non un’isola felice, perché sempre di carcere stiamo parlando, ma un carcere dove vi sono opportunità di studio, di lavoro, di crescita culturale, dove i detenuti possono riflettere sui reati commessi, accompagnati da volontari che si impegnano quotidianamente al loro fianco. Un carcere dove gli incontri con gli studenti sono occasione di confronto, di approfondimento, di relazione, e per i detenuti anche di "farsi interpellare dallo sguardo dell’altro", di chi tra i ragazzi o gli insegnanti magari ha subito un furto e non si sente più sicuro in casa propria. Riflessioni che entrano sotto la pelle e permettono un cambiamento, una comprensione di ciò che il reato causa, dell’effetto che può produrre su chi ne è vittima. Ci sembra che l’indagine sull’ex direttore Pirruccio e sul "sistema Padova" si prefigga lo scopo di "colpirne uno per educarne cento". In ballo non ci sono solo la reputazione e l’onestà di Salvatore Pirruccio, Nicola Boscoletto o Ornella Favero. La posta in gioco qui è la dignità delle persone recluse, l’idea che si possa davvero lavorare perché le pene abbiano un senso. Colpire un direttore perché non ve ne siano altri che provino a lavorare in questa direzione, ostinata e contraria. Le battaglie che Nicola Boscoletto e che la nostra presidente Ornella Favero hanno fatto e stanno facendo sono battaglie combattute alla luce del sole. Su questi temi, come presidenza della CNVG, abbiamo discusso con i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria pochi mesi orsono, non per fare "indebite pressioni" ma per garantire che nelle carceri vi sia il rispetto della legalità e della dignità delle persone. Abbiamo affrontato molti temi, tra cui le declassificazioni (a proposito, essendo una brava giornalista Ornella non si fida dei suoi appunti, che sono sempre molto precisi, ma chiede di essere autorizzata a registrare ogni colloquio, quindi di questi colloqui vi è sempre anche la registrazione integrale), l’ampliamento degli orari della attività trattamentali, la possibilità dell’uso di skype per i colloqui con i famigliari. Certamente non solo per il carcere di Padova, ma per tutti i detenuti italiani e per tutte le carceri italiane. Se il DAP declassifica un detenuto non lo fa su "pressione" di qualcuno, lo fa in quanto non sussistono più elementi per mantenere quella persona in un circuito di Alta Sicurezza. È un atto dovuto e non una benevola concessione. A margine di questa presa di posizione trovate uno dei tantissimi articoli scritti da Ornella su questi temi, che mostrano come tutte le battaglie siano sempre state fatte in piena trasparenza, nella legittimità di quanto un volontario dovrebbe sempre fare, cioè non rendersi funzionale ad un sistema ma essere voce indipendente, esterna, che permette a quel sistema di essere migliore. Per aver fatto in modo che Padova divenisse un carcere "costituzionale", l’ex direttore Pirruccio è diventato un bersaglio delle critiche e delle accuse di chi non vuole il cambiamento. Chiunque conosca Ornella Favero e Nicola Boscoletto, così come Pirruccio, sa quanto lavoro hanno fatto per garantire i diritti, il rispetto della dignità, la legalità, perché solo così si può pensare che il carcere garantisca sicurezza sociale riducendo sensibilmente la recidiva, e non sia invece una "scuola di criminalità". La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia è solidale con Salvatore Pirruccio, di cui apprezza da sempre i valori e la coerenza che ha espresso nella sua funzione di direttore e con il presidente della Cooperativa Giotto Nicola Boscoletto, che in questi anni ha costruito una delle realtà cooperativistiche interne al carcere più conosciute d’Italia. Confermiamo la piena fiducia nella nostra presidente Ornella Favero, che apprezziamo e stimiamo. Ornella, in oltre vent’anni di volontariato penitenziario, ha sempre lavorato perché non venisse lesa la dignità e venissero riconosciuti i diritti fondamentali alle persone detenute. Le sue battaglie, fatte anche per ogni singolo detenuto, sono sempre servite per un ragionamento più ampio che andasse a beneficio di tutti. Personalmente ho conosciuto poche persone del valore di Ornella, con cui condivido passioni e obiettivi e da cui imparo ogni giorno che le cose si possono e si devono cambiare, per il benessere e la sicurezza di tutti, e che tutti noi portiamo la responsabilità di ciò che facciamo, ma anche di ciò che non facciamo. *Vicepresidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia -------------------------------------------------- Quello che vorrei chiedere alle Istituzioni, col cuore in mano Ristretti Orizzonti, 24 aprile 2015 - di Ornella Favero direttrice Ristretti Orizzonti Dirigo un giornale complesso, realizzato da detenuti e volontari, e occupandomi da quasi vent’anni di questioni che hanno a che fare con le pene e il carcere credo di essere una persona competente in materia e in grado di fare osservazioni degne di attenzione. Faccio la giornalista, e anche se nessuno mi paga per fare un giornale in carcere ritengo di avere il diritto di fare il mio mestiere da volontaria e di informare su quello che fa la Pubblica Amministrazione nelle carceri, segnalare quello che non funziona, chiedere spiegazioni quando qualcosa non va. Se poi mi dimostrano che mi sono sbagliata, non ho difficoltà ad ammetterlo: se uno fa le cose seriamente, sa di poter fare anche degli errori. Ma quello che non ritengo sia un errore è che io faccio il mio lavoro anche con il cuore, e non perché sono una VOLONTARIA, ma perché non credo che si possa fare nessun lavoro solo con la testa quando si ha a che fare con gli esseri umani, e in questo caso con esseri umani che vivono senza libertà. Quasi vent’anni di galera, vissuti non da persona detenuta certo, ma a stretto contatto con la sofferenza, non mi hanno ancora abituato alla poca umanità di questi luoghi. Qualche mattina fa sono arrivata in carcere per un incontro con una scuola, e mi hanno detto che Giuseppe Zagari, detenuto in Alta Sicurezza, ma anche redattore di Ristretti, non c’era più: trasferito, nonostante il "congelamento" dei trasferimenti operato in questi giorni dall’Amministrazione per "rivedere le posizioni di tutti i detenuti" in vista di una possibile declassificazione dopo le sollecitazioni di tanti, fra cui il nostro giornale. So quello che mi diranno le Istituzioni: che Giuseppe sei anni fa ha tentato una evasione da Palmi e ha pure usato un’arma e sparato alle gambe dei poliziotti, che Giuseppe è indegno di una declassificazione. Può darsi. Io però so anche che, dopo anni di carceri poco a misura d’uomo, da Palmi a Nuoro, Reggio Calabria, Cosenza, Messina, Cagliari, Rebibbia, Poggioreale, Spoleto, Livorno, Voghera e altre ancora..., da quando quasi cinque anni fa Giuseppe è arrivato a Padova è uno dei pochi che ha cominciato a parlare delle sue responsabilità anche in pubblico e davanti a centinaia di studenti, e l’ha fatto con imbarazzo e pudore, dicendo che di fronte a certe domande avrebbe preferito sprofondare per non rispondere, e invece ha risposto, con vergogna, con responsabilità, con onestà. Nella sua richiesta di declassificazione ha scritto: "Per vent’anni non mi ero mai chiesto se le mie azioni fossero sbagliate, anzi perseveravo nel sentirmi più vittima che carnefice, per me la vendetta giustificava le mie azioni (...) Forse lo scrivente non merita di essere declassificato e con tutta sincerità, se non fosse che la sezione deve essere chiusa, non avrei neppure chiesto tale privilegio, non per arroganza, ma per consapevolezza". Mi domando allora in quei vent’anni in cosa è consistita la sua rieducazione? E soprattutto che cosa nelle sezioni di Alta Sicurezza è stato fatto per farlo riflettere e cambiare, prima che arrivasse a Padova? Alle Istituzioni voglio solo fare qualche domanda, e però credo che dovrebbero rispondere, che sia parte delle loro funzioni, del loro ruolo rispondere ai cittadini che chiedono loro come fanno il loro lavoro: - Negli ultimi due o tre anni, su sollecitazione dell’Europa, in Italia si è cominciato a parlare sempre più di frequente di "umanizzazione delle pene". Ma questa vicenda della chiusura delle sezioni di Alta Sicurezza di Padova è lontana da questa "umanizzazione". Qualcuno ha parlato con le persone detenute, ha pensato alle loro famiglie, si è ricordato che chi è trasferito, per esempio, da Padova a Parma parte da un luogo abbastanza umano, da un carcere dove si possono riallacciare i rapporti con le famiglie e essere impegnati in attività significative, per finire di nuovo in un carcere duro e poco "rieducativo"? - Quando un paio di anni fa fu sollevato il piccolo "scandalo" del ministro Cancellieri che aveva in qualche modo "aiutato" una detenuta eccellente, la figlia di Ligresti, molti funzionari del DAP hanno affermato che il Ministro si occupava personalmente di centinaia di detenuti che le venivano segnalati da loro. Noi di Ristretti non ci siamo scandalizzati, né avventati contro un ministro in fondo più capace e competente di altri, abbiamo chiesto però che cominciassero a esserci per tutti quell’umanità e quell’attenzione che c’erano stati per la Ligresti. Allora si parlò addirittura di istituire una linea speciale di ascolto per i famigliari dei detenuti, e di segnalazione di persone detenute in stato di particolare difficoltà. È successo qualcosa? È successo che l’umanità fatica a farsi largo, e invece bisogna che un trattamento più umano riguardi tutti, anche le persone detenute nei circuiti di Alta Sicurezza, che dopo anni di permanenza in queste sezioni possono forse essere non trasferite in carceri decisamente peggiori, ma DECLASSIFICATE. Che poi non significa metterle in libertà, non significa regalargli chissà quali privilegi, significa solo trattarle un po’ più da persone e un po’ meno da merci da scaricare da un carcere all’altro. O pedine da spostare su una scacchiera per rendere più funzionali quei circuiti, nati nell’emergenza e fatti per durare il tempo dell’emergenza, e dilatati invece all’infinito come succede per tutte le emergenze nel nostro Paese. - La figlia di un detenuto in Alta Sicurezza a rischio di essere trasferito a Opera, mi ha chiesto "Ma la declassificazione che cosa ci cambia, a noi famigliari?". Ecco, fatico a spiegare che cosa cambia a Padova, perché bene o male chi sta in Alta Sicurezza non è tagliato fuori dal mondo, ma oggi che stanno smantellando Padova mi viene da dire che è tutto molto chiaro: essere declassificati a detenuti "comuni" significa rischiare meno di essere trasferiti, significa non finire in carceri con circuiti di Alta Sicurezza che sono il deserto, come la maggior parte di queste sezioni, significa poter lavorare fuori dalla sezione, incontrare la società che entra, come le migliaia di studenti con cui la redazione di Ristretti si confronta ogni anno, significa cominciare a perdere quella etichetta di "mafiosi" e basta e a sentirsi persone. Sono cose da poco, potrebbe dire qualche funzionario, ma sono anche cose importanti, e lo testimoniano tanti famigliari disperati di dover seguire i loro cari a Parma, a Sulmona, a Opera, e dover tornare alle vecchie regole delle sezioni solo punitive. - In queste richieste di declassificazione, è giusto e importante anche salvaguardare i percorsi delle persone, che non possono trovare in altre carceri quello che hanno trovato a Padova, perché Padova è un’Alta Sicurezza dove è possibile davvero per le persone crescere, costruire relazioni, uscire dalle logiche del passato. Mi piace allora in tal senso sottolineare l’esperienza di Ristretti Orizzonti, perché si può lavorare e fare teatro senza parlare troppo del proprio passato, ma a Ristretti è impossibile non affrontare il tema della responsabilità e del rapporto con le vittime e non cominciare a prendere le distanze da certi ambienti. - Una domanda su tutte la vorrei fare all’Amministrazione: se vogliamo che le persone si stacchino davvero dalla "cultura" delle associazioni criminali a cui appartenevano, non è che dobbiamo anche tirarle fuori da quelle sezioni, dove uno ha per forza lo status di "delinquente tutto d’un pezzo", e cominciare a vedere queste persone dentro a contesti di relazioni "normali" e dignitose, per quel tanto di normalità e dignità che può e deve esserci in un carcere? Poiché comunque ogni esperienza, anche negativa, ci aiuta a capire e a crescere, vorrei che da questa vicenda si cominciasse tutti insieme a lavorare su questo tema: "Durata della permanenza nei circuiti di Alta Sicurezza, percorsi di rieducazione, declassificazioni". A Ristretti Orizzonti di Angelo Ferrarini* Ristretti Orizzonti, 22 maggio 2017 Sono stato colpito dalla notizia dell’ex direttore Salvatore Pirruccio "indagato per aver favorito alcuni detenuti alleggerendo le loro condizioni di detenzione in carcere" che ha tirato in ballo la direttrice di "Ristretti Orizzonti" e Nicola Boscoletto, dirigente della Coop Giotto. Ne scriveva ieri 20, Renata Polese sul "Corriere del Veneto": "si tratta dell’inchiesta aperta dalla procura di Padova sulla base delle relazioni degli ispettori del Ministero che due anni fa vennero a controllare la situazione nelle celle di Padova. Secondo queste relazioni Pirruccio, su stimolo della Coop e della Favero, avrebbe declassificato lo stato carcerario di alcuni soggetti pericolosi, alleggerendo le loro condizioni detentive, al fine di evitare che venissero trasferiti in altre strutture". Il giorno prima ero al convegno nella palestra della Casa di reclusione Due Palazzi, "Nessuno si salva da solo" del 19.5.2917, e le parole di apertura della Direttrice di Ristretti mi hanno trovato subito d’accordo e le voglio riprendere per aderire a un sostegno di stima per loro, per l’ex direttore, per i suoi interventi di cambiamento e per le attività di Ornella Favero. Lo dico dal mio punto di vista, come guida del corso di "scrittura lettura ascolto" presso Ristretti, e sottoscrivo tutte le parole di Ornella, cui devo la possibilità di tenere un corso all’interno della Redazione: "Accade che anche noi operatori, segnaliamo il buon comportamento delle persone che sono coinvolte nei nostri progetti, e io rifarei tutto quello che ho fatto, può essere che abbia sbagliato, ma chi fa, sbaglia, e noi qui facciamo il possibile per questi uomini che cerchiamo di strappare alla delinquenza, e poi va chiarito che il direttore del carcere non ha alcun potere di modificare lo stato detentivo di nessuno, è il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a firmare la declassificazione, a limite l’ex direttore può aver fatto delle segnalazioni, ma a decidere era il Ministero". Grazie all’interessamento di Ornella e alle misure proposte da Pirruccio il gruppo di scrittura si è arricchito di persone per tanto tempo tenute lontane da possibilità di cultura, di confronto, di comunicazione, di ascolto, di espressione. Nello stesso convegno il regista Fabio Cavalli ha sottolineato che "l’espressione, anche artistica, è favorevole al cambiamento di direzione". "C’è un’etica e un’estetica dell’agire artistico, intellettuale, emotivo". Quindi anche in questo proporre letture e scritture in gruppo facciamo fare un salto, interrompiamo il silenzio e la solitudine della cella, il suo non tempo e non luogo e "invertiamo la direzione", in modo che ci sia anche "una dimensione nuova, una giustificazione finale: quella pubblica". Persone illetterate, sole, sfiduciate, dimenticate che leggono e fanno leggere le loro storie o riflessioni - che spesso finiscono in scritture argomentative per la rivista Ristretti, dove si ritrovano con il loro nome, la loro firma di autori di testi. Cose impensabili prima o altrove! E quindi sono diventato testimone di persone, prima in isolamento o impedite, che grazie a interventi amministrativi "semplici" ("declassificazione" dopo anni di etichettatura relegante) possono ora partecipare, ascoltare, leggere ad alta voce, scrivere. Che chiedono cose impensabili: mi faccia leggere ad alta voce - ho scritto queste cose, me le legge? - ho scritto questo racconto, lo porta al gruppo? E riflettono su questo nuovo stare, in gruppo, a scuola, lettori scrittori, e "scoprono di amare la poesia" (F.C.). Carmelo, dopo anni di pensieri che giravano su se stessi a vuoto, oggi in cella scrive brevi poesie come questa, dopo aver visto un documentario tv sulla montagna: "La montagna sola / chiede compagnia / ad una nuvola di passaggio. / La chiama: -Oh, quanto sei bella! / Vuoi venire a farmi compagnia? / Purtroppo le persone mi calpestano / e mi distruggono, / tu invece mi dai vita / quando ho freddo, / ti sposti e mi fai riscaldare / dal sole, così come / quando ho caldo e sete, / tu attraverso la pioggia / mi rinfreschi e mi disseti. / È bello stare in tua compagnia. /Resta con me, / nuvola graziosa". E per il laboratorio del 27 aprile, Demetrio ha scritto: "Se state guardando questo posto così piccolo e angosciante, la mia cella, significa che la mia anima sta finalmente riposando. Io non sono un profeta. lo adesso, con la mia saggezza che deriva dalla sofferenza, sono la mia salvezza. Dalla cultura io mi sono preso la padronanza di me stesso, per arrivare a scrivere questi concetti che, un tempo lontanissimo, nemmeno me li sognavo. La saggezza ha il potere di assolvere, di perdonare, perché dalla saggezza giusta e con la cultura dell’uomo si intraprende a visualizzare con onestà la rettitudine della vita sul solco della legalità. lo sono l’ombra di quella luce che brilla in senso positivo adesso... per farmi brillare, per far brillare i miei occhi". Grazie a tutti, dico sempre. *Guida al laboratorio di scrittura lettura ascolto di Ristretti Legnini accusa: dietro le fughe di notizie ci sono i pm o la polizia giudiziaria di Liana Milella La Repubblica, 22 maggio 2017 Consip, il vicepresidente del Csm d’accordo con Gratteri: "A volta dai magistrati silenzio-assenso". Chi è l’autore di una fuga di notizie giudiziarie? Il vice presidente del Csm Giovanni Legnini sottoscrive la risposta del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri: "Quando c’è una fuga di notizie esce o dalla procura o dalla polizia giudiziaria". E ancora: "Quando la polizia giudiziaria fa la fuga di notizie c’è quanto meno una sorta di silenzio-assenso da parte della procura, altrimenti tè notizie non escono fuori". Davanti a Giovanni Minali su La7 - li per parlare di Falcone e del libro del Csm che ne desegreta gli atti - Legnini ascolta la frase del procuratore e dice: "Ha ragione Gratteri, non sempre sono d’accordo con lui, ma stavolta sì". Poi, a trasmissione finita, al telefono un po’ stizzito aggiunge: "Ma dov’è la notizia? La mia è una risposta ovvia, non ho scoperto nulla". Ma, nell’avvelenata storia di Consip e della fuga di notizie sulla telefonata tra i Renzi, nulla è scontato. Né automatico, come lasciano intendere le letture di Gratteri e Legnini. Un "teorema" che, sul caso specifico, porterebbe alle seguenti e affrettate conclusioni: poiché la telefonata dei Renzi era nella disponibilità della procura di Napoli, nel caso di specie del pm Henry John Woodcock, e degli investigatori del Noe, o è stato direttamente Woodcock, magari con l’assenso dei suoi capi, il coordinatore delle indagini Filippo Beatrice e il procuratore Nunzio Fragliasso, a passare la telefonata alla stampa, o è stato il Noe a farlo, con il via libera di Woodcock e dei suoi capi. Un "teorema" appunto, smentito da anni di rivelazioni giudiziarie e di inchieste sulle rivelazioni, le quali dimostrano che i fatti non sono affatto così automatici come vogliono dipingerli Gratteri e Legnini. Anche perché, a conoscere gli atti, sono anche altri soggetti, come segretari e cancellieri. Per la cronaca merita ricordare che Gratteri, nel progetto di revisione dei codici, ha ipotizzato il carcere da 2 a 6 anni per il giornalista che pubblica le intercettazioni Legnini ufficializza in tv la decisione del Csm di "non decidere" nulla per ora sulla guerra tra le procure di Napoli e Roma. Non sarà aperta alcuna inchiesta finché saranno in corso le indagini della procura di Roma sui falsi del capitano del Noe Giampaolo Scafarto (una frase attribuita all’imprenditore Romeo, anziché all’ex An Bocchino, su Tiziano Renzi). E finché la procura generale della Cassazione, con il Pg Pasquale Ciccolo, starà indagando su Woodcock per alcune frasi riportate da Repubblica e per le dichiarazioni di Scafarto che lo riguardano. L’idea di Legnini è che solo quando procura di Roma e Pg della Cassazione saranno giunti a una conclusione potrà entrare in scena il Csm. Nel frattempo però qualcosa la dice: "Non posso anticipare il giudizio che dovrà dare il Csm nel caso si dimostrasse il coinvolgimento di uno o più magistrati, ma è certo che falsificare un rapporto di polizia giudiziaria è molto grave". La giustizia dev’essere "giusta" e non assecondare la voglia di vendetta di Vittorio Coletti La Repubblica, 22 maggio 2017 Forse dovrei iniziare questo articolo avvertendo, come si fa in certi video, che potrebbe urtare la sensibilità di qualcuno. Me ne scuso, ma ci sono cose che a volte per onestà intellettuale bisogna dire anche se fanno male. Parto dalla fotografia che campeggiava giovedì sui giornali genovesi della parente di una delle vittime del crollo della torre piloti investita dalla Jolly Nero che si scaglia contro uno dei condannati strattonandolo e dandogli, si legge, dell’assassino. Lasciamo pur stare che ad essere aggredito sarebbe stato, tra i condannati, l’imputato ritenuto dal giudice meno colpevole in quel disastro, il pilota del porto salito su una nave del cui motore, indispensabile a una corretta esecuzione della manovra, ignorava il cattivo funzionamento. Ma partiamo dall’aggressione all’imputato, dell’insulto di "assassino" a uno che, a norma di legge, non è e non sarà tale fino a che una sentenza definitiva non lo avrà inchiodato alla sua eventuale colpa. Com’è possibile un gesto come questo? E come giudicarlo? La risposta alla prima domanda non può purtroppo prescindere dall’attesa di una condanna "esemplare", come era stata definita quella chiesta dalla pubblica accusa, che aveva domandato, tanto per dire, più anni per il comandante della Jolly Nero di quanti ne ha presi Schettino che di persone ne ha fatte morire 32 per sciagurata e comprovata leggerezza. Ora, bene ha fatto il giudice a respingere la suggestione della condanna esemplare. Una pena non deve essere esemplare, ma giusta, commisurata alla gravità della colpa e alla persona cui viene irrogata. Ma, e veniamo alla seconda domanda, cosa si aspettavano i parenti delle vittime? Qui tocchiamo il punto delicato di questo articolo. Può la legge assecondare l’attesa di giustizia delle persone offese da un reato più di quanto non faccia per quella dell’intera collettività che esige equità e misura anche nella condanna, al punto che ha ormai abolito la pena di morte, l’ergastolo e di fatto le altre pene più pesanti? O pensiamo che la giustizia sia una sorta di vendetta, come quella che spinge certi stati americani, che comminano ancora condanne a morte, ad ammettere i parenti delle vittime di un omicidio all’esecuzione del colpevole? Il discorso conduce inevitabilmente al ruolo delle cosiddette parti civili nei processi penali. Forse è il caso di ricordare, come mi ha spiegato il collega di diritto penale comparato, che la costituzione delle parti civili nel processo penale non è ammessa nei paesi di common law, ma è prevista solo dagli ordinamenti continentali. Non è dunque così pacifica. Nel processo in Italia questo ruolo consente di fatto di moltiplicare la voce dell’accusa pubblica (il pm) tante volte quante sono le parti civili. Forse chi si riempie la bocca di "giusto processo" dovrebbe porsi la domanda quanto è giusto un processo in cui la forza dell’accusa è così sproporzionatamente soverchiante quella della difesa e quanto pesa nel giudizio del giudice lo schieramento delle parti civili. Ma non è di diritto processuale, di cui non mi intendo, che voglio parlare qui. Perché dietro il gesto esagitato della signora in tribunale ai danni di un imputato c’è una componente culturale e di costume sconcertante, con la quale bisogna fare i conti per correttezza. Nella rappresentazione comune di una vicenda criminosa i parenti delle vittime hanno inevitabilmente un grosso ruolo. Nell’immaginario giornalistico e comune diventano un po’ i piccoli eroi che si battono contro i grandi colpevoli. E a volte è effettivamente così. Diciamo che lo è quando l’ostinazione dei parenti serve a svelare dietro un incidente un delitto, come era accaduto con la strage di Ustica o, di recente, con l’omicidio Regeni. Ma se si pensa che neppure in casi come questi sarebbe giusto assecondare in tutto e per tutto le attese di punizione dei parenti e che è doveroso appoggiare soprattutto, se non esclusivamente, quelle di verità, la cosa diventa più sconcertante se si ha a che fare con reati visibilmente colposi, involontari, ancorché commessi per gravi negligenze e imperizie, come quello di un automobilista che, siccome telefona guidando, investe e uccide un pedone. In questi casi la rabbia dei parenti, tanto sobillata dai mass media, deve lasciare presto il posto alla composta diagnosi della giustizia. Ma questo non avviene e ci dobbiamo chiedere perché, a quattro anni di distanza dal terribile disastro della Jolly, la parente di una vittima si sia scagliata contro l’ultimo dei condannati con la stessa rabbia che le avremmo forse perdonato a caldo, al momento del disastro. Perché in quattro anni questa signora non è riuscita a dare alla sua attesa di giustizia la misura del ragionamento, del discernimento, dico anche: del rispetto di imputati, che non è neppure ancora detto che siano davvero colpevoli o che lo siano con tale gravità? Perché, rispondo, quella di parente di vittima sta diventando un ruolo pubblico e applaudito che sembra dare a chi lo ricopre diritti speciali a vita, estendendo indefinitamente quella autorizzazione alle escandescenze che le culture antiche concedevano durante i funerali ai congiunti di un defunto. Ma persino la cultura popolare, tolta la più primitiva, quella che pensa non alla giustizia ma alla vendetta per generazioni, invita gli offesi da un reato a gesti non dirò di perdono (quelli sono spesso stucchevoli e comunque sempre e solo individuali) ma di composta reazione, incanalando il loro dolore nelle forme civili di un processo pubblico. E un processo non può ragionare dal punto di vista delle parti offese, ma da quello della società che cerca un punto di equilibrio tra gravità di una colpa e condanna del colpevole. Oggi rischiamo di costruire la mitografia del parente alfiere della giustizia, a cui neanche quattro anni bastano per placare rabbia e rancore, perché la punizione è diventata la sua vocazione e per lui non sarà mai sufficiente nessuna pena, e cercherà sempre altri colpevoli, più gravi colpe e più pesanti condanne. Lo dico con tremore; è come parlare di un malato e di una malattia: occorre molto rispetto; nessuno può dirsene esente. Ma il punto di vista dei parenti delle vittime non coincide con quello di una vera giustizia. Si rischia di esigere non una condanna ma una vendetta, di favorire il clima in cui è maturato il gesto di quel tizio di Vasto che ha ucciso l’investitore della moglie, e di vedere dei crimini dove magari ci sono solo degli incidenti, dei criminali dove ci sono soprattutto degli altri sventurati: com’era il ragazzotto ammazzato che aveva investito la moglie del suo assassino e forse è il pilota del porto strattonato e insultato in tribunale. "Tortura, stravolta la legge". Intervista a Stefano Anastasia di Giacomo Russo Spena Micromega, 22 maggio 2017 "Continueremo ad essere richiamati dall’Onu". Il presidente onorario di Antigone giudica inefficace la legge appena votata in Senato: "La formulazione del reato è inadeguata e contraddittoria rispetto agli standard internazionali, alla prescrizione costituzionale, alle domande di giustizia delle vittime e alle attese dell’opinione pubblica". Decisive le pressioni delle forze di polizia: "Sono una riserva di consenso essenziale per partiti e movimenti che si contendono voti principalmente in nome della sicurezza". "L’approvazione di una legge contro la tortura non può che essere una buona notizia ma...". E i ma sembrano tanti e di una certa rilevanza. Almeno a sentire Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio e dell’Umbria, nonché presidente onorario dell’associazione Antigone. Negli anni sono state organizzate decine di iniziative pubbliche e raccolte migliaia di firme insieme ad altre associazioni ed organismi per quella che è sempre stata considerata una battaglia di civiltà: l’introduzione di una legge sulla tortura nel nostro sistema giudiziario. Adesso restano i mugugni: "Se questa legge dovesse essere approvata definitivamente - afferma Anastasia - continueremmo a essere richiamati dalle Nazioni Unite per l’inadeguatezza della previsione legislativa". Dopo 28 anni, siamo vicini ad una legge che introduce il reato di tortura nel nostro codice penale. Che ne pensa? Non solo sono passati 28 anni dalla ratifica della Convenzione Onu con cui l’Italia si è obbligata a introdurre il reato di tortura nel proprio ordinamento, ma non dobbiamo dimenticare che quest’anno festeggiamo il settantesimo anniversario della Costituzione repubblicana che, all’art. 13, comma 4, stabilisce che "è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà". Si tratta dell’unico obbligo di punire previsto dalla Costituzione, evidentemente motivato dalla storia e dalla sensibilità dei costituenti, che di violenze fisiche e morali sulle persone sottoposte a privazione della libertà ne sapevano - spesso - per esperienza diretta. Ciò detto, e riconosciuta l’importanza del passaggio parlamentare, dobbiamo però dirci che la formulazione del reato è inadeguata e contraddittoria rispetto agli standard internazionali, alla prescrizione costituzionale, alle domande di giustizia delle vittime e alle attese dell’opinione pubblica. Quali sono i punti più controversi della legge appena approvata al Senato e che ora passerà a Montecitorio? Il primo punto di critica non può che essere quella specie di peccato originale da cui è partito impropriamente il dibattito parlamentare: la definizione della tortura come reato comune, eseguibile da chiunque, e non come reato proprio, imputabile esclusivamente al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio. E’ vero che dal punto di vista tecnico il reato comune copre più fatti di quanti non ne copra il reato proprio, e potrebbe essere idoneo a perseguire anche privati che torturassero per qualsivoglia ragione altri cittadini, ma la rottura simbolica rispetto alla Convenzione delle Nazioni unite e al comune senso di giustizia è evidente: la preoccupazione degli organismi internazionali come della opinione pubblica più avvertita è di fugare finanche il pericolo che pubblici ufficiali o incaricati di pubblici servizi abusino della propria funzione per scopi illegittimi e contrari ai fondamenti dello Stato di diritto costituzionale, non certo di perseguire privati cittadini già ampiamente perseguibili a legislazione vigente. Un testo stravolto a Palazzo Madama, tra l’altro... Rotto l’argine simbolico, sono arrivati gli scivolamenti successivi. Su tutti, la pluralità delle condotte necessarie a realizzare il reato di tortura e la qualificazione del trauma psichico con la pelosa aggettivazione di "verificabile", come se in giudizio non dovesse essere accertata ogni cosa. Fino alla surreale previsione che non sia punibile il fatto commesso nell’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti: che significa? Che il nostro ordinamento ammette pratiche di tortura? Se fosse così, andrebbero immediatamente espunte da leggi e prassi perché costituzionalmente illegittime. Se non è così, come penso, che bisogno c’è di prevedere questa causa di non punibilità? Mi sta dicendo che secondo lei il Senato ha approvato una legge sulla tortura internazionalmente impresentabile, in cui la definizione del reato è in evidente contrasto con quanto imposto dalla Convenzione internazionale contro la tortura? Sì, penso che sia proprio così. Penso che dopo decenni di richiami delle Nazioni unite sulla mancanza del reato di tortura nel nostro ordinamento, se questa legge dovesse essere approvata definitivamente, continueremmo a essere richiamati, da allora in poi per l’inadeguatezza della previsione legislativa. Però, come sulla legge sulle unioni civili, è comunque un passo di civiltà. Non trova? Meglio un compromesso di nulla, o no? A mezza bocca si ammette che il problema esiste, ma con l’altra metà lo si nega. Con tutti i suoi limiti, la legge sulle unioni civili ha consentito a centinaia di coppie omosessuali di essere riconosciute dallo Stato e di acquisire diritti. Quanto riuscirà questa proposta, se diventerà legge, a punire e a prevenire le violenze fisiche o morali sulle persone private della libertà lo vedremo. Sta passando un concetto per cui una legge di questo tipo legherebbe le mani alle forze dell’ordine, impedendo di garantire sicurezza ai cittadini ... La sicurezza dei cittadini non si garantisce lasciando mano libera a comportamenti violenti nei confronti delle persone fermate, arrestate o detenute. E non è solo questione di principio, è questione eminentemente concreta: se per garantire la sicurezza ammettiamo pratiche violente di polizia, riduciamo proprio la sicurezza dei cittadini, esposti a ogni abuso da parte delle forze dell’ordine. Si tratta di argomenti inaccettabili, che dovrebbero essere contestati e respinti proprio dagli appartenenti alle forze dell’ordine e dalle loro rappresentanze professionali e istituzionali: in questo modo la già discutibile, e troppo facilmente assolutoria, retorica della mela marcia lascia spazio a una sorta di chiamata in correità della stessa istituzione di polizia e di tutti gli appartenenti alle forze dell’ordine, cosa che - se fossi uno di loro - non accetterei mai. Quindi un’occasione mancata. E secondo lei c’è speranza di migliorare il testo alla Camera? Temo di no: la legislatura sta scivolando verso la fine e, come tutte le legislature morenti, dà il peggio di sé, lasciando spazio solo a iniziative propagandistiche. Viceversa, per correggere questa legge servirebbe onestà intellettuale e il coraggio necessario a combattere atteggiamenti retrivi che si annidano nelle forze dell’ordine e che fanno leva su discutibili sentimenti popolari. Ma nella campagna elettorale di fatto già in corso queste qualità morali appaiono quantomeno accantonate. Se pensiamo al codice penale militare di guerra o alla Magna Carta inglese, in entrambi e in pochissime righe il concetto di tortura e maltrattamento è molto chiaro. Perché da noi invece nel dibattito sul reato di tortura si cerca di introdurre compromessi e mediazioni? Chi ha paura di introdurre una legge così di civiltà? "Chi parla male, pensa male", diceva Michele Apicella, l’alter ego di Nanni Moretti in Palombella Rossa. Le contorsioni linguistiche del Parlamento sono un effetto diretto della mancanza di volontà di riconoscere la tortura per quello che è, di prevenirla e di punirla quando dovesse essere illegittimamente praticata. Qualche tempo fa Luigi Manconi - primo firmatario della proposta, originariamente ispirata alla Convenzione Onu, che ora coerentemente disconosce e non approva - scrisse della paura che il ceto politico ha delle forze di polizia, temendone l’autonomia e l’insubordinazione. Non so se è proprio così, certo è che le forze di polizia - in quanto responsabili della pubblica sicurezza - costituiscono una riserva di consenso essenziale per partiti e movimenti che si contendono voti principalmente in nome della sicurezza. Il procuratore generale ha riconosciuto che il caso Cucchi è stato un caso di tortura. Ma ci sono anche le morti di Uva, Aldrovandi e tante altre. Le famiglie, oggi, quanto sono state abbandonate, e prese in giro, dallo Stato? Ogni caso è un caso a sé e faremmo torto ai non pochi investigatori, pubblici ministeri e giudici che hanno fatto il possibile e l’impossibile per arrivare a un giudizio di responsabilità sui fatti sottoposti alla loro attenzione se dicessimo che lo Stato ha abbandonato o preso in giro tutti. Non è così, ma dobbiamo anche essere consapevoli che indagare e giudicare le responsabilità di appartenenti alle forze di polizia è terribilmente difficile anche per la vicinanza oggettiva che c’è tra gli uni e gli altri, tra investigatori, magistrati e indagati. Dobbiamo esserne consapevoli e dobbiamo ricordarcene. Oggi e quando la legge (qualsiasi legge) sarà approvata resterà il problema di farla applicare, vincendo le resistenze culturali e le vere e proprie connivenze che possono annidarsi anche negli apparati dello Stato. Lo sciopero dei giudici di pace: "pagati la metà di una colf" di Andrea Zambenedetti Corriere del Veneto, 22 maggio 2017 "Vogliono affidarci una parte consistente del sistema giustizia, pagandoci meno di metà di quello che percepisce una colf". Sono arrabbiati i giudici di pace che anche a Treviso hanno deciso di incrociare le braccia. Da questa settimana, per un mese, sono in sciopero contro la riforma del settore che prevede di estendere le loro competenze anche in materia di condominio, fino a 50 mila euro, arrivando quindi, secondo le loro stime, a dover gestire quasi l’80 per cento del primo grado di giudizio. Una riforma che metterebbe il giudice di pace in una posizione centrale per il funzionamento dell’intero ordinamento giudiziario. "Siamo abbandonati a noi stessi. I precari, più precari che esistano - racconta uno di loro che chiede l’anonimato per non rischiare provvedimenti. Non abbiamo diritto a ferie o malattia e il compenso previsto dalla riforma per i nostri nuovi compiti è di 16.140 euro lordi l’anno. Aumentabili tra il 10 e il 30 per cento a discrezione del tribunale in cui si lavora. Il tutto senza contributi alla cassa forense o qualsiasi rimborso spese. Ovviamente siamo già costretti a turni di reperibilità per la gestione delle espulsioni. Noi - incalza - siamo quei giudici che permettono allo Stato di non sborsare un centesimo per le lungaggini di giudizio, proprio perché gestiamo il nostro lavoro con estrema efficienza". I numeri degli organici sono esigui: i giudici di pace sono 43 in tutto il Veneto. Nella Marca lavorano in tre a Treviso, e uno a Conegliano. Una laboriosità che permette loro di mettere mano ad una montagna di questioni diverse ogni giorno. Basta guardare i numeri: lo scorso anno sopra le loro scrivanie sono passati 9.600 fascicoli divisi tra cause e decreti ingiuntivi. A questi si sommano 1.700 procedimenti per reati penali, sfociati in sentenze e archiviazioni. Ma non basta perché sul tavolo dei giudici di pace piombano anche tutte le decisioni in materia di espulsioni. E con la riforma, che assegna loro nuovi ambiti di competenza, il collasso o la paralisi potrebbero non essere delle remote possibilità. "Ci viene affidato un servizio dello Stato - spiega Massimo Zampese, avvocato trevigiano e referente veneto dell’associazione di categoria Unagip - viene previsto l’impiegato amministrativo che ci affianca nella gestione delle pratiche. Vengono previsti i mobili e i mezzi ma il personale giudicante è come se non esistesse. I nostri uffici fanno da scarico delle questioni di quotidianità, alcune anche piccole, ma davvero tantissime. Si tratta praticamente di un pezzo di giurisdizione che è affidata in blocco al nostro ufficio. L’attività del giudice di pace nella concezione originaria doveva affiancare quella dello studio legale, invece è ormai un lavoro vero e proprio che richiede un impegno costante. Tutto senza che siano previste ferie o malattia, e senza che vengano versati contributi. Nonostante lo sciopero continuiamo a garantire comunque un’udienza a settimana". Anche per evitare la paralisi di un sistema giustizia già in crisi. Da Moro a Falcone: dialoghi per sopravvivere di Rosario Tornesello Quotidiano di Puglia, 22 maggio 2017 Il dialogo Moro-Faranda, l’impegno di Montinaro: il coraggio e le idee. Gli occhi, ad esempio. O meglio, lo sguardo. Le storie corrono sui volti. Tracciano profili. Svelano emozioni. E da lì riemergono. Intatte. Il ricordo diventa memoria quando il dolore cede il passo al sentimento. Il tempo è l’incantesimo. E maggio è il mese delle rose e delle spine: splendido e terribile per rimettersi alla prova, rimettersi in cammino. Il calendario affastella le date, eppure ne bastano due per racchiudere molteplici sciagure: il 9 per il terrorismo, il 23 per la mafia. Due settimane riassumono il senso della nostra storia recente. Della nostra storia comune, vissuta a cavallo dei decenni. Incisa sulla pelle e a pelle condivisa. Ma non c’è lenimento. Gli occhi, ad esempio. Per guardarsi e riconoscersi. Aldo Moro fu sequestrato, la sua scorta trucidata, lui stesso poi ammazzato. Nove maggio 1978. Cinquantacinque giorni, infiniti, laceranti. Poi il ritrovamento del corpo, via Caetani, la Dc e il Pci, piazza del Gesù e Botteghe Oscure, l’Italia in ginocchio, grigia, anzi in bianco e nero eccetto la Renault 4 degli assassini, rossa. Mio padre muore ogni giorno, dice Agnese, la figlia, ma muore nel passato: una morte senza addio ti lascia odio, rabbia, come un urlo strozzato in gola. E io a tutto questo ho detto basta per uscire dal ruolo di vittima e riprendermi papà, riprendermi la mia vita e riconsegnare agli altri la loro. Perché anche il rancore si trasmette e io voglio invece che tutto questo finisca. Perdonare non è altruismo, non è afflato umanitario: è tornare alla vita per sé, pienamente, completamente. Ci ho messo 30 anni, però basta. Questo male finisce con me. Punto. Lo sguardo, meglio. Agnese Moro lo incrocia con Adriana Faranda, la "postina" delle Brigate Rosse nel sequestro del padre: arrestata, dissociata, sedici anni di carcere e poi la riemersione. Lenta. Girano l’Italia, parlano di giustizia riparativa. Seminano speranze. Ribaltano l’idea di espiazione. Guido Bertagna, un gesuita, ha messo insieme vittime e carnefici. Almeno ci prova. Difficile, non impossibile: ne fanno parte in settanta, sopravvissuti su fronti opposti a una stagione sciagurata. Esperimento complesso, ne è nato un volume, "Il libro degli incontri", impossibili eppure reali. Eccola, la prova. Ne parlano ovunque ci sia voglia di ascoltare e capire. Ma farlo a Maglie, dove Moro è nato, cento anni fa, è diverso. Eppure accade. Non ho ucciso nessuno ma è lo stesso, dice Adriana. Adriana, certo. Ho commesso azioni mostruose e irrimediabili, spiega, la cui responsabilità resta, piena; ma non sono una ex, sono io. Così come Agnese: non è una vittima, è Agnese. Il senso di questo percorso è attribuirsi la dignità di persone, aggiunge. Esattamente quello che è mancato in quegli anni. Quando si divide il mondo in due parti, una degna e da salvare, l’altra cattiva e da eliminare, si nega l’umanità. Guardarsi. Capirsi. Si cercano, si sfiorano. Si scrutano, sedute una accanto all’altra. La prima volta dissi di no a don Guido, ricorda Agnese: troppo dolore. Ci si affeziona a una identità: io ero la vittima; loro, per me, dei mostri. Percorsi complicati. Bisogna prima conoscersi come individui, poi riconoscersi come uomini. Padre Bertagna ha insistito. L’ha spuntata. Esperienza faticosa. "Come avete potuto fare questo?", chiedevo. "Avete idea di cosa mi avete portato via, chi era mio padre per me?". Loro ascoltavano, disarmati. E ho imparato a disarmarmi anch’io, spazzando via i miei pregiudizi. Poi alza gli occhi oltre le lenti del ricordo, e perciò del dolore, lei vittima non più vittima: mi ha colpito la forza tenace e paziente delle parole buone, aggiunge, ti entrano dentro e ti lavorano giorno dopo giorno. La galera non serve a niente, se non a radicarsi ancor di più nelle proprie idee, nella propria identità deviata. La galera: quanti giorni, mesi e anni, lì dentro. Un punto di svolta, racconta Faranda: io ho trasgredito delle norme, perciò ho accettato la condanna. Ma alla fine anche in questa giustizia, non solo nelle aberrazioni del terrorismo, mancano le persone. Il mio percorso di dissociazione ha trovato la sua compiutezza solo nel momento dell’incontro e del confronto. Avevo vissuto gli anni della ribellione all’università, della lotta armata in clandestinità. Il sequestro Moro è stato l’inizio e la fine di tutto. Sono tornata Adriana nel momento dell’arresto: temevo di essere uccisa e di restare cristallizzata per sempre in un ruolo non più mio. E ho ritrovato mia figlia. La mia vita. Oggi l’unica rivoluzione è nella non violenza. Ed è nell’accoglienza. La memoria incrocia le date. Da una parte il terrorismo; dall’altra la mafia. Ed è già vigilia di un anniversario importante, pesante: 25 anni dalla strage di Capaci, il 23 maggio. Dieci anni prima, 1982, nell’agguato in cui furono uccisi il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie e l’agente di scorta, era morta "la speranza dei palermitani onesti", come fu scritto con rabbia il giorno dopo sul luogo della carneficina. Un cartello e campane a morto. Due lustri di sangue e nel ‘92 salta in aria il simbolo della lotta alla mafia, il giudice Giovanni Falcone. E con lui la moglie Francesca Morvillo e tre poliziotti della scorta: Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. La strategia del terrore dei corleonesi colpirà ancora, poco dopo, il 19 luglio, in via D’Amelio, con l’uccisione del giudice Paolo Borsellino. Ma la speranza non muore. Non muore mai. Brizio Montinaro, il fratello di Antonio, toglie gli occhiali da sole. È in partenza per la Sicilia. Le parole riflesse nello sguardo risuonano nitide. Non c’è filtro. Il 23 maggio ero a Firenze, ricorda. Lì mi ero laureato in Architettura, stavo lavorando a un progetto importantissimo. Seppi tutto dal televisore acceso. Ebbi la forza di chiamare casa, a Calimera, per avvisare di staccare la spina. Mio padre era morto un anno prima. Mia madre non avrebbe retto allo strazio se avesse saputo così di Antonio. Poi non ho capito più nulla. Mamma Carmela se ne è andata nel 2011. Otto figli, due volati via quasi in fasce, gli altri ad affollare casa: Donatina, Luigina, Anna, Brizio, Antonio, Tilde. Papà Gaetano aveva una pescheria in piazza. Baraonda. Antonio aveva un carattere straordinario, racconta il fratello. Un giocherellone, affascinante, gaudente: ha vissuto a mille, i suoi 30 anni ne valgono cento. Battuta sempre pronta: impossibile non innamorarsene. Destini. Antonio era a Bergamo quando fu applicato per la prima volta a Palermo, al maxiprocesso. Folgorato da Falcone, il giudice istruttore. Poi ci ritornò, per sua scelta. Un corso di alta formazione per stare accanto al magistrato. E lì rimarrà, fino alla fine. Brizio riannoda i fili della storia: il giorno della strage, racconta, il caposcorta Peppino Sammarco, il mitico "Indio", era in malattia. Così il comando era passato a lui, Antonio. A casa la moglie, Tina, e i due bimbi piccoli: Gaetano, come il padre, e Giovanni, come Falcone. Con Rocco e Vito precedeva l’auto del magistrato antimafia a bordo della "Quarto Savona 15". All’altezza di Capaci, l’esplosione. Non so come ho fatto ad arrivare a Palermo, volando da Firenze a Roma e da Roma in Sicilia. Non ricordo chi mi accompagnò, chi mi fece passare. Le bare erano allineate: riconobbi Antonio subito, dalle mani. Borsellino era lì. Non staccò neanche un secondo. Destini, appunto. Il dolore, ci arriviamo. Un anno e mezzo per riprendermi, per avere coscienza dell’enormità di quanto accaduto, ricorda Brizio. E da allora un obiettivo: il cambiamento. Le ferite aperte sono lenite solo dal senso che il tempo riesce a dare agli eventi. Dobbiamo fare moltissimo nel piccolo, aggiunge, ciascuno dentro di sé. Quanto al perdono, quello è un capitolo a parte. Il fratello di Antonio ci pensa. Risposta impegnativa. Non sono un credente, dice, ma non nutro rancore verso chi contribuisce a fare piena luce sui fatti, fino a completa verità. C’è ancora molto da chiarire, spiegare, svelare? Temo di sì, riflette. Falcone diceva sempre: "Segui i soldi e troverai la mafia". Io, se posso, aggiungo una postilla: "Segui i soldi e troverai anche l’antimafia di facciata". Ne saremo capaci? "Capaci, l’orrore visto dal Colle" di Marzio Breda Corriere della Sera, 22 maggio 2017 La figlia dell’ex Presidente Scalfaro: agli stranieri spiegò che rischiavamo la guerra civile. È il 30 aprile 1992. Francesco Cossiga spalanca a una pattuglia di cronisti le porte di Lucan House, residenza dell’ambasciatore italiano in Irlanda dov’è ospite. Da pochi giorni ha lasciato il Quirinale, dunque è la sua ultima esternazione. Ormai da ex. Uno sfogo per riassumere il senso del suo biennio da "picconatore", che chiude con una nuova profezia della catastrofe. Enigmatica come ogni profezia: "I capi dei partiti non hanno capito niente di quel che sta per accadere: li prenderanno a sassate per la strada. Vedremo cose terribili". Magari - riflette chi c’era - è un’allusione alle future ricadute dell’inchiesta su Tangentopoli, che già comincia a terremotare la politica. Nessuno, neppure lui, con la sua rivendicata capacità di "antevedere", immagina ciò che qualcuno prepara intanto in Sicilia e che si concretizzerà tre settimane più tardi, imprimendo una svolta drammatica - anche politica - alla storia d’Italia. Tutto succede il 23 maggio, quando, dopo 15 scrutini a vuoto di un Parlamento incapace di unirsi nella scelta del nuovo capo dello Stato, la strage di Capaci annichilisce il giudice Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, con gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo. Un orrore che getta il Paese nell’angoscia. E che, sommato allo shock per il metodo di corruzione e illegalità che l’inchiesta milanese di Mani Pulite sta smascherando, materializza l’idea di un’imminente crisi di sistema. "Coincidenze" alle quali Marianna Scalfaro, rompendo il silenzio che si è sempre imposta, racconta di pensare adesso, mentre torna con la memoria a 25 anni fa. Quando suo padre viene eletto in extremis presidente della Repubblica proprio sulla scia di quell’attentato, "perché la politica doveva scuotersi dall’inerzia e dare all’Italia una prova di reazione e, anzi, perfino di esistenza di vita". Così, eccolo arrivare a Palermo e tornarci un paio di mesi dopo per i funerali di Paolo Borsellino, assassinato assieme alla scorta con un altro massacro, in una surreale staffetta con Giovanni Spadolini, che si era presentato alla camera ardente a palazzo di giustizia (o "dei veleni", com’era da tempo ribattezzato) e poi in chiesa nella veste di "supplente" di un capo dello Stato che ancora non c’era. In entrambi gli appuntamenti vanno in scena quasi delle rivolte di popolo, tra fischi, insulti e un clima d’assedio che sfiora concretamente la violenza. "Papà ci sarebbe andato comunque e senza paura, anche da privato cittadino, perché Falcone e Borsellino li aveva conosciuti bene e li stimava, collaborando con loro all’epoca in cui componevano il pool antimafia e lui era ministro dell’Interno, tra il 1983 e l’87... Quando arrivò la notizia ebbe l’impressione di essere di fronte a veri e propri atti di guerra, studiati per imporre paura e dare un perverso segnale di potenza". Quella che per sette anni è stata la "first miss" sul Colle ricorda il padre seduto alla scrivania, a casa, intento a prendere appunti per il discorso che avrebbe tenuto alla Camera e nel quale "sottolineava l’umanità del magistrato, oltre allo scrupolo professionale e al coraggio che non lo abbandonò mai, nonostante le minacce, le delegittimazioni, la solitudine". E rammenta la messa del cardinal Pappalardo e il suo anatema contro i mafiosi, i pianti e gli svenimenti mentre rimbombavano le note del Dies irae. "Sì, c’era una tensione enorme. E fu grave la decisione degli organizzatori, che avevano impedito alla gente di entrare in chiesa per onorare i morti. Ma non mancarono gli applausi dei palermitani. Le scorte vollero mio padre vicino a loro sull’altare dicendo: il presidente è nostro, lo difendiamo noi". Momenti di grande rabbia, a Palermo e in tutt’Italia, che poteva assumere forme pericolose e ingestibili per le istituzioni. "Certo. E lui, mentre affiancava i giudici - "sono con voi in trincea" - dimostrava di capirne le ragioni così com’era consapevole che era a rischio la stessa tenuta democratica del Paese". Non per nulla, rievoca Marianna Scalfaro, "fece della giustizia uno dei temi fondamentali del suo mandato, sostenendo che quella guerra non si poteva vincerla da soli e che era necessaria unità contro ogni forma di terrorismo". Intende dire che equiparava le bombe di Palermo (e le altre del 1993) alla delegittimazione delle istituzioni provocata da Tangentopoli? "Sì, per diversi aspetti. Mio padre lo ha ripetuto più volte, in quelle settimane: le cosche tentano di fare politica con il tritolo. E si domandava: ma è solo mafia, questa? Ma non ha anche il marchio atroce del terrorismo? Chi ci può essere dietro a un attacco così spietato e clamoroso, a una sfida finalizzata a creare sgomento e presentare lo Stato quasi inutile? Guarda caso il suo messaggio televisivo tramandato dalle cronache per la frase del "non ci sto" si apriva proprio evocando le bombe. Insomma, sono convinta che la Seconda Repubblica abbia cominciato a nascere con Tangentopoli e con Capaci insieme". Non parla di piani di destabilizzazione e di interessi intrecciati e convergenti, la figlia del presidente. Non si avventura in dietrologie né azzarda teoremi. Ma sa quanto la bufera politica che attraversava Milano e Palermo in quei mesi tenesse sotto stress chiunque, a cominciare dal padre, avesse incarichi di responsabilità. Compresi i vertici di un Paese alleato come gli Stati Uniti: basta rileggersi i dispacci riservati alla Casa Bianca in cui l’ambasciata di Roma si dichiarava "worry about a possible coup", preoccupata di un possibile golpe, mettendo fra i fattori di rischio anche le smanie secessioniste della Lega di allora. Perciò non si stupisce nel sentirne parlare oggi: "Quante volte l’ho ascoltato accalorarsi con certi interlocutori - specie stranieri - per metterli in condizione di comprendere la cosiddetta anomalia italiana, spiegando loro che in quel clima si rischiava il sangue per le strade. C’era una intossicante e progressiva destabilizzazione, che poteva sfociare perfino in guerra civile. Del resto, non si sentiva forse parlare di rivoluzione in corso, politica e giudiziaria? Se riconsideriamo tante cose, non mi pare che esagerasse". Ragionando sul periodo terribile cominciato con gli attentati di Palermo, ma anche su quel che accadde dopo (e non solo nel campo politico, arato in profondità da una questione morale che avrebbe fatto tabula rasa dei vecchi partiti), anche un osservatore ruvido come Giovanni Sartori riconobbe a Scalfaro, "Pertini cattolico", il merito d’aver "tenuto insieme la baracca in un frangente assai difficile". Pensieri che un po’ commuovono Marianna. Ricorda soltanto due "suggestioni" che pesarono sul padre. "Giudicò un segno il fatto che, dopo l’uccisione così tragica di un magistrato, il Parlamento avesse puntato subito su un parlamentare magistrato come lui per il Quirinale. Perciò, a riprova che tutto si teneva, volle che il suo ultimo viaggio da presidente, sette anni dopo, fosse a Corleone. Ci arrivammo con largo anticipo e trovammo una piazza ancora deserta. Poi, come per miracolo, ogni angolo si riempì e arrivò una folla immensa, in una straordinaria manifestazione di coraggio. Vedi?, mi disse, lo Stato non è più in ginocchio, se nel nome di due eroi veri come Falcone e Borsellino si affiancano le parti migliori dell’Italia. Si può ancora sperare". Mafia Capitale è una fiction di Massimo Bordin Il Foglio, 22 maggio 2017 Può bastare un Carminati per certificare che la Capitale d’Italia è la nuova Corleone? Tra accuse che cadono, prove che sfumano e rischio flop, ecco cosa farà la procura di Roma per dimostrare (è dura) che il processo del secolo non è solo un film alla Pulp Fiction. Contro inchiesta del Foglio. Il processo "Mafia Capitale" è giunto nella sua fase finale. La pubblica accusa ha tirato le somme, dal suo punto di vista, del dibattimento svoltosi nell’aula bunker del carcere di Rebibbia e sono state somme pesanti in anni di carcere richiesti soprattutto per gli imputati gravati dall’imputazione di associazione a delinquere di stampo mafioso, reato che nel computo della pena richiesta ha un ruolo preponderante rispetto agli altri, numerosi, capi di accusa. Sarà dunque l’articolo 416 bis, inserito nel codice penale nel 1982 con una pena massima che nel corso degli anni è stata più che raddoppiata, la pietra angolare in base alla quale la sentenza del tribunale sarà commentata. Del resto, a imporlo è il titolo stesso con il quale il processo è ormai passato alla storia giudiziaria, attraverso una campagna mediatica tutta centrata sull’impatto della parola mafia in relazione alla vita politica della capitale. Può apparire sorprendente dunque che il procuratore capo Giuseppe Pignatone abbia dichiarato in una recente intervista-forum su Repubblica, dedicata alla strategia antimafia complessivamente intesa, che "l’esperienza giudiziaria di questi anni dimostra che a Roma esiste una questione mafia, ma che, come abbiamo sempre detto, non è il più grave dei suoi problemi". Difficile non considerare una affermazione del genere come una pietra tombale sull’enfasi giornalistica, e populisticamente politica, che ha accompagnato l’intera inchiesta ma è al contempo irragionevole pensare che la procura romana abbia inteso, proprio nel momento in cui sta prendendo la parola la difesa, svalutare la propria indagine. Dire "non è il più grave dei problemi", di per sé non derubrica il processo in "un processetto" - come lo aveva polemicamente definito all’inizio del dibattimento l’avvocato Bruno Giosuè Naso, difensore del principale imputato Massimo Carminati - piuttosto sembra volerne circostanziare l’oggetto, utilizzando una sorta di minimalismo che in realtà contiene una notevole ambizione. Non sarà il più grave, ma certo un qualche problema c’è stato, e non piccolo, se due amministrazioni comunali, di opposto segno politico, sono accusate di essere state infestate da un’organizzazione mafiosa che ne determinava, a suo vantaggio, le scelte in alcuni fra i più importanti capitoli di spesa. Solo in alcuni però, perché l’organizzazione mafiosa sembra essere stata presente nel settore delle politiche sociali per l’immigrazione e nella gestione dei rifiuti ma assente da altri potenzialmente lucrosi settori come la politica edilizia o quella energetica. Per di più era concentrata, secondo l’ipotesi dell’accusa, solo sul comune, appena lambendo, a quel che risulta senza successo, le assai più munite finanze gestite dalla giunta regionale. In parole povere, pur in un quadro di evidente corruzione, il comune di Roma esce dall’inchiesta lontano dai fasti criminali di Palermo all’epoca di Lima e Ciancimino e anche l’organizzazione mafiosa, divisa per bande, che secondo la stampa pervade l’intera città, nel processo non è nemmeno citata. Ci si limita a uno spicchio di Roma nord compreso fra corso Francia e via di Vigna Stelluti, con brevi escursioni nella borgata di Casalotti e nel vicino comune di Sacrofano. Completano il quadro del radicamento territoriale un paio di pestaggi isolati, uno davanti al bar più chic dei Parioli, l’altro nel quartiere Prati. Questo è il quadro che, sostanzialmente, esce dal processo ed è stato magistralmente sintetizzato, secondo i rispettivi punti di vista, sia dal pubblico ministero Giuseppe Cascini, quando nella requisitoria ha descritto il percorso della organizzazione criminale "dai pollici spezzati dietro a un distributore al sindaco della città", sia dal principale accusato, Carminati, quando ha risposto al suo difensore: "Io credevo che mi intercettassero per altre storie, per Finmeccanica. Chi ci pensava che questi s’erano inventati la mafia del benzinaro?". Se l’evocazione della mafia è centrale, sia per la suggestione contenuta nella presentazione giornalistica del processo sia per la pesantezza del capo di imputazione contestato a un gruppo di imputati, lo svolgimento del processo, e la requisitoria hanno ulteriormente chiarito come la procura intenda fondare la sua tesi per qualificare il percorso descritto nella frase di Paolo Ielo appena citata. In estrema sintesi tutto si fonda su tre parole: "Riserva di violenza". C’è naturalmente un aspetto giuridico, ma prima occorre considerare che l’espressione "riserva di violenza", in questo processo, ha una sua ipostasi, si incarna nel principale imputato, Massimo Carminati. Tutto comincia da lui e su di lui si regge tutto il peso dell’imputazione di mafia che poi avvolge altri imputati. È forse utile vedere dunque, a dibattimento concluso e nel momento in cui si tirano le somme, come la storia sia iniziata. Occorre partire da una sera dell’estate 2009 a Roma nord - e dove se no? - a viale Tor di Quinto, vicino a piazza Euclide, tradizionale luogo di appuntamento dei giovani romani di estrema destra, dove nel corso di un controllo di routine i carabinieri fermano tre uomini e una donna. Dai documenti, due di loro risultano ex appartenenti ai Nar con precedenti per rapina. I documenti comunque sono in regola e i quattro vengono lasciati andare. I carabinieri però si insospettiscono quando, mesi dopo, una filiale Unicredit dove lavorava come cassiera la donna identificata con i due ex Nar viene rapinata, e a metà giugno 2010 inviano una nota alla procura in cui ipotizzano un tentativo di ricostruzione di un gruppo di estrema destra autofinanziato con le rapine. Elencano una serie di nomi conosciuti come estremisti fascisti con precedenti per rapina. Nell’elenco c’è Carminati che sta finendo di scontare la pena, in affidamento fuori dal carcere, per il furto al caveau della banca del tribunale romano. La procura affida l’indagine a un reparto del Ros e apre un fascicolo dove si dispongono intercettazioni telefoniche per alcuni citati nell’elenco, ma non per Carminati del quale ci si limita ad acquisire i tabulati telefonici. Torneranno comunque utili. A marzo 2011 il Ros dà conto alla procura che l’ipotesi del gruppo di destra che si riorganizzava per fare rapine non aveva trovato alcun riscontro e a settembre lo ribadisce in un nuovo rapporto nel quale però di fatto propone di mantenere aperta l’indagine sul solo Carminati su una nuova ipotesi di reato. I carabinieri parlano nel rapporto di una loro fonte anonima, un confidente in parole povere, che gli ha raccontato di una organizzazione dedita al riciclaggio e guidata appunto da Carminati, in relazione con due persone, Gianluca Ius e Maurizio Iannilli, implicate in indagini per tangenti relative a Fastweb e ad alcune società partecipate di Finmeccanica. I tre personaggi sono seguiti dal Ros con diversa attenzione, a quanto si capisce dalle informative inviate alla procura. A essere "osservati", cioè pedinati, sono solo Carminati e lannilli e solo per Carminati si chiede che sia sottoposto a intercettazione telefonica. L’oggetto principale dell’indagine sta nella provenienza del denaro fatto girare dai tre. In particolare insospettisce i carabinieri il fatto che la villa di Sacrofano di proprietà di Iannilli risulti abitata in realtà da Carminati, ormai libero anche dall’affidamento, che risulta in possesso di un regolare contratto d’affitto. In sostanza nel periodo che va dalla seconda metà del 2009 all’ottobre 2011 c’è un filo che collega due diverse ipotesi di indagine del Ros, la prima su rapine in banca e terrorismo nero e la seconda su riciclaggio di denaro di provenienza illecita. Il filo, abbastanza esile, è Massimo Carminati. Sembra, ed è abbastanza verosimile, che i carabinieri vogliano capire cosa sta combinando, una volta uscito dal carcere, l’uomo del misterioso furto al caveau del tribunale. Il ruolo della procura, il cui vertice è in quel momento in una delicata fase di transizione, in tutto questo periodo è sostanzialmente passivo. Del resto il materiale investigativo è ancora molto grezzo, anche se a ben vedere il secondo filone d’indagine, più di quello parecchio aleatorio della ricostituzione di un gruppo di rapinatori politici, vede comparire nelle inchieste che allora erano le principali per la procura, quella su Fastweb e quella su Finmeccanica, personaggi, come Gennaro Mokbel, che in qualche modo potrebbero essere messi in relazione proprio con Carminati. Quel filone di indagine resterà inesplorato, eppure, come abbiamo già visto, proprio Carminati ha detto in aula di aver attribuito le attenzioni dei carabinieri all’inchiesta su Finmeccanica piuttosto che a quello che gli viene contestato nel processo. Del resto ad averlo affermato esplicitamente ancora prima di lui era stato, sempre in aula, il suo principale coimputato, Salvatore Buzzi, che aveva raccontato come Carminati gli avesse espresso i propri timori su quelle indagini, aggiungendo che gli aveva anche detto di avere svolto un ruolo come distributore per conto terzi di tangenti nel giro di Finmeccanica, immediatamente smentito da Carminati su quest’ultimo punto. Sta di fatto che nell’ultima parte del 2011 i carabinieri cominciano a seguire e osservare Carminati h24, come dicono loro. Si fissano così i luoghi dove si svolgono i principali fatti dell’indagine, soprattutto la stazione di servizio di corso Francia ormai famosissima. Il distributore è il palcoscenico dell’inchiesta. Carminati lo frequenta quotidianamente insieme al suo amico Riccardo Brugia, altro reduce della lotta armata nera divenuto poi uno dei più bravi rapinatori di banche di tutta Roma, come lo definisce Carminati in una intercettazione. Nel distributore girano soldi, non solo per la benzina e il cambio olio e gomme. Il gestore accetta di cambiare assegni e non si formalizza se sono postdatati. In cambio chiede interessi - sui quali il tribunale dovrà pronunciarsi - non proprio equi e solidali. In caso di ritardo nei pagamenti interviene il giovanotto che i giornali hanno ribattezzato "spezzapollici", anche se lui sostiene di avere un soprannome meno truce. Si tratta di tutti gli episodi con i personaggi già citati, nei quali Carminati non sempre ha un ruolo attivo ma si limita a dare pareri e consigli. Anche su questi fatti deciderà il tribunale e certo l’atteggiamento in aula delle parti lese, la loro reticenza evidente, facilmente spiegabile con la paura, non aiuta la difesa. Qualche atto violento effettivamente si verifica, per di più sotto gli occhi dei carabinieri. C’è la vicenda citata dal pm Giuseppe Cascini nella requisitoria dei "pollici spezzati dietro il distributore". Si tratta di un debitore che ha tirato un po’ troppo la corda. "Vallo a menà dietro al barshop, che qua po’ esse che quelli ce fotografano", suggerisce Carminati che ha capito come il controllo del Ros su di lui si sia fatto più stretto, ma in questo caso lo sottovaluta. Agli atti non ci sono foto ma un filmato, col sonoro che permette qui di usare le virgolette. Al momento di questo episodio, che riguarda uno dei pochi atti di violenza nel fascicolo processuale, e gli altri sono simili, il distributore è già diventato come un set cinematografico. Ma questa storia avviene un po’ più avanti nel tempo e il suo racconto è servito a dare un’idea sulla caratura criminale non eccelsa del sodalizio del distributore. Torniamo al settembre 2011, quando il Ros ottiene dalla procura una delega all’indagine su Carminati con mezzi incisivi. Proprio a settembre c’è un incontro che la pubblica accusa ritiene decisivo per la sua tesi. Avviene all’Eur, ex quartiere residenziale ai cui servizi provvede un ente ad hoc partecipato dal comune. Nel 2011 sindaco di Roma era da tre anni Gianni Alemanno: originariamente, anch’egli viene imputato tre anni dopo di 416 bis, ma nell’inverno dell’anno scorso l’imputazione è stata fatta cadere dal gip, che pure lo ha rinviato a giudizio per finanziamento illecito e corruzione, per cui l’ex sindaco ora si trova a essere giudicato in un processo stralcio. Alemanno, come si intuisce dall’imputazione originariamente proposta dai pm, è una figura molto importante nell’impianto accusatorio rispetto alla questione dell’associazione mafiosa. È lui come sindaco a mettere alla testa dell’Ente Eur Riccardo Mancini, che da giovane era stato un militante del gruppo extraparlamentare di destra Terza Posizione ed era stato in carcere con Carminati. Con Mancini, Alemanno "piazza" un altro camerata di quell’ambiente, Carlo Pucci, che pure Carminati conosce benissimo dagli anni Settanta. Si incontrano a settembre 2011 al bar Palombini, a cento metri dalla sede dell’ente e seduto con loro c’è quello che sarà l’altro principale imputato del processo, Salvatore Buzzi. Politicamente sono male assortiti. Buzzi, capo della più grande cooperativa sociale del Lazio, è comunista di formazione e ora se la fa col Pd, gli altri sono fascisti. Ma tutti hanno una cosa in comune: sono stati in carcere. Carminati viene praticamente imposto a Buzzi come socio alla pari per avere un appalto di manutenzione del verde. Non metterà un euro, ma a Buzzi va bene così. Per la procura sarà quello il momento in cui l’organizzazione fa il salto di qualità. Passano alcuni mesi e i carabinieri del Ros hanno una larga messe di intercettazioni. Carminati si divide fra il distributore e i nuovi contatti che lo portano a occuparsi degli affari della cooperativa di Buzzi. Si accorgono che comunica con Buzzi, Mancini, Pucci e Testa, segretario del consigliere regionale Luca Gramazio, con telefonini che quelli usano solo per parare con lui che glieli ha forniti. Parlano di gare d’appalto e di delibere comunali ed esce fuori uno spaccato molto vivido della vita politico-amministrativa del comune di Roma ai tempi di Alemanno, ma probabilmente anche prima e dopo. La parte relativa alle tangenti è forse quella meno controversa del processo. Buzzi nei suoi interrogatori le ha francamente ammesse, così come i finanziamenti tracciabili, dunque legali fino a prova contraria, e quelli in nero, tutti oggetto di giudizio. La coop 29 Giugno non si limitava a foraggiare quelli del Pd, e anche di Sel, con assunzioni e cene elettorali, ma pagava un po’ tutti, anche gli amici del sindaco. 112012 è comunque l’anno decisivo per il processo. Succedono due cose che non possono non essere messe in relazione. La prima riguarda la procura di Roma, che a marzo finalmente ha un nuovo procuratore capo. Arriva da Palermo, via Reggio Calabria, dove alla guida della procura ha messo a segno diverse operazioni importanti scatenando qualche polemica: Giuseppe Pignatone è un magistrato che tutti ritengono molto competente ma che non tutti amano. È particolarmente inviso al gruppo di magistrati palermitani che hanno all’epoca come punto di riferimento Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato. Non gli perdonano di avere sostenuto l’allora procuratore Pietro Grasso nella gestione del caso Cuffaro. Si chiedeva a gran voce una incriminazione per concorso esterno nei confronti dell’allora governatore ancora in carica, per ottenere il massimo effetto politico possibile. Grasso e Pignatone sostennero l’imputazione di favoreggiamento con aggravante mafiosa, avendo a cuore più il risultato del processo che l’effetto politico dell’imputazione. La sentenza dette loro ragione. Il precedente va tenuto ben presente rispetto a quello che poi è successo a Roma con Mafia Capitale. A settembre 2012, un anno dopo la nota del Ros alla procura che muta l’angolazione investigativa su Carminati, e sei mesi dopo l’arrivo di Pignatone in procura, vagliate le intercettazioni telefoniche, si decide di aumentare la pressione su Carminati. Alle intercettazioni telefoniche si aggiungono quelle ambientali. Si piazzano microspie nella stazione di servizio e nel bar vicino, in via di Vigna Stelluti, si piazza anche una microspia nella macchina che usa, oltre a un gps per seguirne i movimenti, e le fotografie sono sostituite dai filmati. Il raccolto è massiccio. A fine anno c’è la svolta. Tre intercettazioni la caratterizzano, almeno secondo gli inquirenti. Una ambientale al bar nel dicembre 2012. Carminati parla con Fabrizio Testa da un telefono pubblico, poi spiega a Brugia e a un altro che sta con loro la faccenda dei telefonini che fa usare solo per parlare con lui. Dice che bisogna cambiare metodo. Poi c’è un’intercettazione ambientale al bar di via di Vigna Stelluti in cui Carminati espone a Brugia e a un imprenditore, il quale poi sarà accusato di estorsione, la ormai famosa teoria del "mondo di mezzo". Infine c’è una terza intercettazione ambientale, questa volta nella macchina di Carminati, in cui parlando con un imprenditore che poi sarà anche lui imputato gli espone il suo nuovo metodo. Gli parla di Salvatore Buzzi, Fabrizio Testa e Carlo Pucci. Li definisce "una bella squadra". Siamo nel gennaio 2013. Sulla base di queste tre intercettazioni, a metà febbraio il Ros invia una nota in procura nella quale rinnova le richieste di intercettazione, stavolta ai sensi dell’articolo 416 bis. È il momento in cui l’indagine cambia nome da "Catena 2" - "Catena" era quella nata dal controllo documenti dei due ex Nar e della cassiera di banca - a "Mondo di mezzo". Tre inchieste, condotte dagli stessi investigatori con continuità, nelle quali cambiano via via l’oggetto dell’indagine e tutti i protagonisti. Tranne uno, Massimo Carminati. Quello che succede dopo, fino al dicembre 2014 con l’arresto di Carminati, ripreso dalla tv con la regia dei carabinieri, e il nuovo nome dell’inchiesta che solo allora diventa "Mafia Capitale", per il problema che qui si vuole affrontare, è relativamente interessante. L’inchiesta dipana un reticolo di gare truccate, di sovvenzioni dubbie e di autentiche corruzioni. Quando a giugno 2013 ad Alemanno subentra Ignazio Marino, tutto sommato poco cambia. C’è l’ingresso in Consiglio di un Radicale, Riccardo Magi, contro cui Buzzi inveisce nelle intercettazioni con i suoi e poi ci sono i 5 stelle che sparano nel mucchio. La giunta Marino probabilmente sarebbe caduta anche senza quegli arresti. È semmai politicamente rilevante che il procuratore Pignatone, proprio alla vigilia degli arresti, partecipi come ospite a una conferenza del Pd romano praticamente preannunciando l’operazione. La scelta di Pignatone di parlare da quel palco, mentre le volanti sono già in fila in garage per andare a prendere esponenti anche del partito a cui si sta rivolgendo, può essere interpretata in vari modi, nessuno dei quali però coincide con l’immagine che lo aveva preceduto a Roma. Comunque da allora, da quando l’inchiesta cambia nome per la quarta volta, non si è fatto che discutere sul senso dell’imputazione di associazione a delinquere di stampo mafioso a quell’aggregato di imputati. La procura naturalmente è molto decisa sulla sua scelta processuale e la stessa intervista a Repubblica del procuratore Pignatone, e del suo aggiunto con delega alla direzione distrettuale antimafia Michele Prestipino, lo conferma. Ancor più vigorosamente lo ha ribadito del resto l’altro procuratore aggiunto Paolo Ielo nell’aula bunker di Rebibbia nella sua premessa alla requisitoria, poi svolta insieme ai due sostituti Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli. Sia detto fra parentesi, la scelta di far seguire il dibattimento all’aggiunto con delega ai reati finanziari piuttosto che a quello con delega all’antimafia, che è uscito di scena con la conferenza stampa successiva agli arresti, forse è un indizio del modo innovativo col quale la procura intende applicare l’articolo 416 bis. Ielo in ogni caso è stato molto deciso di fronte al tribunale. "Il preteso sgonfiarsi dell’azione giudiziaria è una pura fandonia!", sono state le sue prime parole, per poi proseguire: "Gli imputati di 416 bis sono quasi tutti qui. Non si è sgonfiato il resto di niente!". Notevole, come impatto oratorio, scalfito però da quel "quasi" che finisce comunque per indicare che almeno qualche resto c’è. La caduta dell’imputazione per l’ex sindaco Alemanno, per esempio, non è proprio un dettaglio marginale per l’impianto accusatorio in tema di mafia così come non sono secondari altri dettagli. Negli ultimi mesi la Corte d’appello di Roma ha ridotto le pene per quattro persone condannate per corruzione nell’ambito del processo di Mafia Capitale. Tra queste, anche Emilio Gammuto, collaboratore di Salvatore Buzzi, considerato uno dei capi dell’organizzazione mafiosa, per il quale la Corte d’appello ha escluso l’aggravante mafiosa. A Ostia, la terra dei nuovi padrini, lo scorso settembre la Corte d’appello ha detto che la mafia non esiste e nella sentenza di secondo grado contro il clan Fasciani i giudici hanno trasformato l’associazione mafiosa in semplice associazione a delinquere, riducendo la durata di molte delle condanne inflitte, evidenziando la mancanza di una prova che potesse certificare la presenza della "pervasività mafiosa" nella Corleone di Roma (ricordando che nel caso specifico non è provato "il diffuso clima d’intimidazione proprio del metodo mafioso", che le dichiarazioni del principale pentito del processo sono fragili e "non possono ritenersi riscontrate nel presente procedimento" e che anche se vi sono stati, a Ostia, "singoli atti intimidatori, posti in essere nei confronti di singoli soggetti", ma restano dei singoli atti - usura, estorsione, traffico di sostanze stupefacenti, detenzione e porto di armi, acquisizione di attività economiche in modo occulto - bisogna dire che "l’atteggiamento tenuto dai test escussi nel corso del dibattimento di primo grado non può essere ricondotto in modo univoco a strategie intimidatorie o comunque a uno stato diffuso di soggezione"). Ci sono questi e molti altri dettagli ma mettiamoli per un attimo da parte e vediamo l’aspetto principale che riguarda il merito della imputazione di 416 bis in questo processo. Se la figura di Carminati è il filo conduttore perché incarna la "riserva di violenza" necessaria al sostanziarsi del reato, pur definendolo un personaggio-cerniera, come è stato fatto nella requisitoria, da solo non basterebbe. Occorre, per i pm, che Carminati possa svolgere il suo ruolo di uomo cerniera fra mondi diversi, la sua fama terribile è certo importante, e vedremo fra poco in che modo dal punto di vista dei pubblici ministeri, ma deve interagire con altre realtà diverse, altrimenti resta davvero solo la "mafia del benzinaio" beffardamente definita in aula dal principale imputato. Nella parte in cui hanno esaminato la questione dal punto di vista del diritto i pm sono arrivati per la verità a cautelarsi fino a questa ipotesi estrema. Da parte loro è stato ricordato come un certo numero di sentenze della Cassazione abbia tenuto a chiarire che l’articolo 416 bis può essere applicato anche a piccoli aggregati criminali, capaci di assoggettare un ambiente anche ristretto con una forza intimidatoria che può fare a meno dell’uso delle armi ma limitarsi a minacciarlo. La credibilità della minaccia per chi la subisce sostanzia la forza di intimidazione tipica della mafia. Anche il numero degli aderenti al sodalizio non necessariamente impedisce la qualificazione del reato di mafia. L’accusa ha ricordato al tribunale che per definire il reato associativo il codice si accontenta in fondo di sole tre persone. Alcune sentenze della Cassazione parlano di "piccole mafie" non necessariamente collegate alle grandi e storiche organizzazioni di quel tipo, basta che ne ripropongano il modo di operare sia pure in ambiti ristretti. Più volte, citando sentenze sul reato di associazione mafiosa, l’accusa, nel corso della requisitoria, ha usato l’espressione "soglia minima" riferendosi al suo sicuro raggiungimento per la contestazione a un certo numero di imputati del capo d’accusa più grave. Non c’è dubbio però che per una intestazione così impegnativa come Mafia Capitale, un ragionamento del genere non può bastare. La procura se ne è resa perfettamente conto perché ha inserito due altri temi, oltre la "soglia minima", per giustificare l’impatto politico-mediatico del processo. Da un lato il collegamento di ambiti diversi grazie al quale l’organizzazione processata compie il salto di qualità. Nel corso dell’inchiesta, come abbiamo visto, viene molto valorizzato il cosiddetto mondo di mezzo evocato da Carminati in una stra-pubblicata intercettazione ambientale che i carabinieri sentiti come testimoni chiamavano, un po’ enfaticamente "il documento programmatico". In pratica, il passaggio chiave della mutazione sta, secondo l’accusa, nell’incontro fra Carminati e Buzzi. Il pubblico ministero Cascini presenta la questione al tribunale in questi termini: "C’è una convergenza di interessi e di mezzi fra i due gruppi. Usura e estorsioni l’uno, turbative d’asta e corruzione l’altro. Buzzi mette le sue relazioni con gli amministratori e i funzionari che ha corrotto. Carminati porta la riserva di violenza, immanente alla corruzione, ma anche un suo capitale di relazioni istituzionali con elementi legati al suo passato e ora in auge con Alemanno. I due gruppi mettendosi insieme fanno il salto di qualità". Proprio questo geometrico collage di due funzionalità criminali che si completano sulla base di un determinato avvenimento politico, l’imprevista elezione a sindaco di Alemanno, stride fortemente con le caratteristiche di una organizzazione mafiosa che trova in se stessa, al di là delle contingenze politiche, la sua ragion d’essere. Messe così le cose, sembra trattarsi più di una associazione temporanea di imprese, sia pure illegali, che della nuova mafia della capitale. A coprire questa contraddizione viene evidenziata la caratura criminale di Carminati. La sua "riserva di violenza" viene dilatata in una narrazione multimediale che comprende non solo quotidiani e settimanali ma libri, film, addirittura serie tv. Non si tratta solo di un sostegno all’inchiesta per incanalare su di essa consenso e attenzione ma, e qui c’è una novità che viene evidenziata nella requisitoria, l’utilizzo dell’apparato narrativo non tanto a sostegno della tesi accusatoria in generale quanto come specifico elemento probatorio nei confronti di un singolo imputato. Il ragionamento è di questo tipo: gli articoli, i libri, i film, le serie tv, veritieri o meno che siano su di te, hanno creato un personaggio capace di incutere paura e sudditanza senza nemmeno bisogno di minacciare, determinando così la tipica situazione mafiosa di una intimidazione talmente forte da potersi permettere di essere implicita. Ecco a cosa serve il personaggio Carminati. In un processo dove alla fine, chiamati a deporre davanti al tribunale sono gli stessi carabinieri, e perfino il dottore Cantone, a dire che nelle gare d’appalto hanno trovato molti imbrogli ma nessuna intimidazione, il rovesciamento del circo mediatico come utilità degli imputati e non degli inquirenti è, da parte della procura un azzardo non privo di raffinatezza. Basterà a fare di Roma la nuova Palermo? Competente il Gip sulla messa alla prova proposta con opposizione al decreto di condanna di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 maggio 2017 n. 21324. In caso di richiesta di messa alla prova proposta con l’opposizione al decreto penale di condanna, è competente il giudice per le indagini preliminari, giacché è tale giudice che, avendo ancora la disponibilità del fascicolo, va considerato quale giudice che (ancora) procede. Lo dice la Cassazione con la sentenza della prima sezione penale depositata il 4 maggio scorso n. 21324. In tale evenienza, a norma dell’articolo 464-sexiesdel Cpp, durante la sospensione del procedimento con messa alla prova, sarà appunto il giudice per le indagini preliminari, "con le modalità stabilite per il dibattimento", ad acquisire, a richiesta di parte, le prove non rinviabili e quelle che possono condurre al proscioglimento dell’imputato: l’intenzione del legislatore è infatti quella di consentire che le prove "non rinviabili" raccolte possano essere usate anche dal giudice del dibattimento, in caso di esito infruttuoso della messa alla prova, così come si verifica del resto per le prove raccolte, in sede di incidente probatorio ex articolo 392 del Cpp,sia nel corso delle indagini preliminari, sia - a seguito della sentenza della Corte costituzionale 10 marzo 1994 n. 77 - anche nella fase dell’udienza preliminare. Sulla questione della competenza a decidere - La Cassazione, affrontando la questione della competenza a decidere sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova avanzata in sede di opposizione al decreto penale di condanna, ha preso consapevolmente le distanze dalla sentenza della stessa sezione I, 3 febbraio 2016, conflitto di competenza in proc. Greco, laddove il giudice di legittimità aveva invece ravvisata la competenza del tribunale in composizione monocratica e non quella del giudice per le indagini preliminari. A supporto, per tale decisione, militava, in primo luogo, il disposto dell’articolo 464-sexies del Cpp, secondo cui durante la sospensione del procedimento con messa alla prova il giudice, con le modalità stabilite per il dibattimento, acquisisce, a richiesta di parte, le prove non rinviabili e quelle che possono condurre al proscioglimento dell’imputato: sarebbe del tutto incongruo che, se fosse ritenuto competente, a tale incombente dovesse essere tenuto il giudice per le indagini preliminari, perché questi dovrebbe acquisire delle prove relativamente al giudizio che, in caso di revoca dell’ordinanza di sospensione con messa alla prova, verrebbe poi a essere celebrato, per la restante parte, dal giudice del dibattimento; con ciò venendo a essere introdotta una nuova ipotesi di incidente probatorio non prevista dalla norma. Militava nella stessa direzione, poi, anche il disposto dell’articolo 464-octies, comma 4, del Cpp, in tema di revoca dell’ordinanza di sospensione del processo con messa alla prova, laddove si prevede che, quando l’ordinanza di revoca è divenuta definitiva, il procedimento riprende il suo corso dal momento in cui era rimasto sospeso: ciò che doveva indurre a ritenere, secondo la sentenza Greco, in considerazione del carattere "incidentale" dell’istituto e del conseguimento dell’estinzione del reato solo in caso di esito positivo della messa in prova, che il procedimento debba essere trattato, nel caso di opposizione a decreto penale, innanzi al giudice davanti al quale sarà espletato il giudizio (quindi, quello dibattimentale). Sotto quest’ultimo specifico profilo, al contrario, secondo la sentenza qui riportata, in caso di esito infruttuoso della prova, il processo dovrà invece riprendere dall’emissione da parte del giudice per le indagini preliminari del decreto di giudizio immediato, salvo che siano presentate altre richieste subordinate e queste siano ancora da valutare; e ciò in applicazione del principio di diritto fissato per i casi analoghi, secondo cui, in tema di procedimento per decreto, nell’ipotesi in cui, a seguito di opposizione, l’opponente non chieda il giudizio abbreviato o il patteggiamento, oppure manchi per quest’ultimo il consenso del pubblico ministero, oppure sia rigettata la richiesta di applicazione della pena, perché non ritenuta congrua dal giudice, questi deve procedere al giudizio immediato che costituisce l’esito necessario dell’opposizione quando difettino i presupposti per l’accesso agli altri riti (sezione IV, 16 gennaio 2002, Paglierini). Dichiarazioni sufficienti per stabilire la vera identità della persona indagata di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 20 aprile 2017 n. 19044. L’identificazione dell’indagato a opera della polizia giudiziaria è validamente operata sulla base delle dichiarazioni dallo stesso fornite, perché il ricorso ai rilievi dattiloscopici, fotografici o antropometrici, o ad altri accertamenti, si giustifica soltanto in presenza di elementi di fatto che facciano ritenere la falsità delle indicate dichiarazioni. Così hanno stabilito i giudici penali della Cassazione con la sentenza n. 19044 del 20 aprile scorso. La decisione è in linea con l’orientamento prevalente (tra le altre, sezione V, 5 maggio 2010, Faliti), secondo cui, in sostanza, solo in presenza di concreti elementi che consentano di dubitare della veridicità delle dichiarazioni rese dall’indagato o dall’imputato sulla sua identità, è necessario ricorrere alle procedure oggettive di identificazione fisica disciplinate dall’articolo 349 del Cpp; mentre tale adempimento non è comunque necessario quando le generalità vengano acquisite dall’autorità procedente attraverso tali dichiarazioni che, fino a prova contraria, sono legittime fonti dell’identificazione. La Corte prende così le distanze dall’orientamento minoritario per il quale, invece, le sole dichiarazioni rese dall’indagato o dall’imputato, privo di documenti e non foto-segnalato, alla polizia giudiziaria in ordine alle proprie generalità non sarebbero sufficienti a fondare con sicurezza l’identificazione dello stesso, incombendo in tal caso alla polizia giudiziaria di procedere ai rilievi di cui all’articolo 349, commi 2 e 2-bis, del Cpp. Società pubbliche in house, i danni agli amministratori non può chiederli la Corte dei conti di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2017 Corte di cassazione, Sezioni unite, ordinanza 15 maggio 2017. Una società partecipata pubblica che svolge in house un servizio pubblico in regime di mercato non è soggetta ad azioni da parte della Corte dei conti. Dunque, le richieste di danni ai suoi amministratori devono essere presentate al giudice ordinario. Con questo principio, che potrebbe limitare sensibilmente il ruolo della magistratura contabile, le Sezioni unite civili della Corte di cassazione (ordinanza 11983, depositata ieri) hanno chiuso, in sede di regolamento di giurisdizione, una parte della complessa vicenda delle Ferrovie Sud-Est (Fse), il cui dissesto ha portato a farle rilevare dalle Ferrovie dello Stato e ha fatto aprire azioni contro i precedenti amministratori. L’ordinanza ricostruisce il complesso caso Fse soffermandosi a lungo sull’evoluzione della normativa europea e nazionale sul settore ferroviario. Ma fa considerazioni che potrebbero essere estese ad altri servizi pubblici locali, se non altro perché le norme Ue hanno analogo spirito in molti altri campi. Senza contare il richiamo della sentenza alle "numerose occasioni" in cui le Sezioni unite hanno sottolineato che la "mala gestione" da parte degli organi sociali "di norma non integra il danno erariale, in quanto si risolve in un vulnus gravante in via diretta esclusivamente sul patrimonio della società". Il soggetto pubblico controllante ha solo il danno d’immagine. Questo principio generale è stato derogato in alcuni casi particolari dalla giurisprudenza e dalla normativa. Quest’ultima viene passata in rassegna dalle Sezioni unite per dimostrare che il caso in questione non vi rientra. E non conta il fatto che vi siano stati cospicui contributi pubblici, anche a fondo perduto: secondo le Sezioni unite, la fisionomia dell’impresa ferroviaria, nel diritto Ue, è contrassegnata in modo "univoco e costante" da "indipendenza gestionale" e "apertura al libero mercato e dall’adozione del modello privatistico". Né conta che la società sia stato posto sotto commissariamento, che per le Sezioni unite non è "incompatibile con la configurazione societaria", perché è previsto anche in caso di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Inoltre, ora Fse è nel gruppo Fs, su cui le Sezioni unite avevano già escluso la competenza della Corte dei conti. L’istruzione in carcere, una scuola davvero "buona" di Annarita D’Agostino lametasociale.it, 22 maggio 2017 Dalla fine degli anni 90, il progetto ha portato ad erogare più di mille corsi, ai quali hanno preso parte quasi 18mila detenuti, con il rilascio di oltre 5000 qualificazioni tra titoli di studio e attestati vari. 370 le scuole superiori nelle carceri e 8mila gli studenti che le frequentano. Esiste una scuola davvero "buona", e ne fanno parte 370 sedi e 8mila studenti: sono i numeri del mondo dell’istruzione "parallelo" che opera negli istituti penitenziari italiani. Questa volta è il Sud che batte il Nord: le sedi scolastiche di secondo grado sono 60 in Sicilia, 44 in Campania, 32 nel Lazio, 30 in Emilia Romagna e Lombardia. Seguono le altre regioni. Degli 8.000 detenuti che frequentano i percorsi di istruzione secondaria di secondo grado, più della metà seguono corsi professionali (698 nel settore Industria e artigianato e 3.462 nel settore servizi), oltre tremila quelli di istruzione tecnica (1.838 nel settore economico e 1.261 nel settore tecnologico), 750 seguono i percorsi artistici. Le "superiori in carcere" fanno parte di un progetto educativo e rieducativo partito alla fine degli anni 90 con un’apposita ordinanza del ministro dell’Istruzione, che ha istituto i cosiddetti "Centri Territoriali Permanenti per l’educazione degli adulti" con la finalità di curare, "d’intesa con gli istituti penali, iniziative per lo svolgimento di attività di educazione degli adulti nelle carceri, assicurando in ogni caso l’offerta negli istituti penali minorili". Oggi, i risultati sono positivi: i dati consolidati più recenti risalgono all’anno scolastico 2011/2012 ma certificano che già 5 anni fa sono stati erogati più di mille corsi in totale, frequentati da quasi 18mila detenuti, e sono state rilasciate oltre 5000 qualificazioni tra titoli di studio e attestati vari; "significativa" anche l’attività di istruzione realizzata dal sistema scolastico negli istituti penitenziari attraverso l’attivazione da parte del Miur di quasi 250 scuole carcerarie, con il contributo del sistema di formazione professionale e del terzo settore, e l’autorizzazione di centinaia e centinaia di posti e di cattedre. Nel 2012 l’istruzione in carcere è stata ricondotta con un apposito provvedimento normativo al nuovo sistema di istruzione degli adulti, istituito con il Dpr 263/12, e la gestione amministrativa, organizzativa e didattica delle "scuole carcerarie" è stata affidata ai Cpia (Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti) e alle istituzioni scolastiche di secondo grado. Il ministero dell’istruzione attribuisce all’iniziativa "un valore inestimabile". Valore confermato dall’esperienza di Maria Consolata Franco, da 33 anni insegnante di Italiano, Educazione civica, Storia e Geografia all’Istituto Penale Minorile di Nisida, Napoli, e vincitrice del premio Teacher Prize: "A Nisida - spiega all’agenzia di stampa Adnkronos - ho imparato ad insegnare sperimentando sulla mia pelle tutte le difficoltà di avviare curiosità e interessi culturali nei ragazzi dalle pesanti esperienze di vita, che dalla scuola si sono, o sono stati, allontanati. I ragazzi - aggiunge - in generale non hanno un buon rapporto con la scuola, sono per la maggior parte analfabeti di ritorno e, il problema maggiore è che non hanno nessuna motivazione allo studio. Quasi tutti - evidenzia - sono convinti che la loro vita è quella e quella sarà". "Quello di cui mi sono accorta - sottolinea - è che tutti i ragazzi sono coinvolgibili. Certo - precisa - con tempi diversi, ma un clima sereno e il rispetto dei loro problemi e vissuti fa sì che alla fine qualunque ragazzo sente l’esigenza di dire qualcosa di sé stesso". E, con gli stimoli giusti, di poter dare il proprio contribuito al futuro della comunità. L’Abruzzo dietro le sbarre, viaggio nella disperazione di Pietro Guida Il Centro, 22 maggio 2017 Per Antigone resta cronico il problema infrastrutture. L’appello alla politica: "Non restate a guardare". L’Abruzzo dietro le sbarre è un viaggio tra l’ergastolo ostativo, cioè senza alcun beneficio, dei condannati nel carcere di Sulmona e gli internati di Vasto, spesso malati di mente che andrebbero curati e non tenuti in una casa lavoro e in ambienti inadatti. Sono solo alcuni aspetti che emergono dal rapporto sulle carceri frutto di un anno di osservazioni condotte nei sette istituti penitenziari abruzzesi (Pescara, Chieti, Teramo, Vasto, Lanciano, Avezzano e Sulmona). La ricerca è stata svolta dal presidente dell’associazione Antigone, Salvatore Braghini, insieme a Renzo Lancia, Claudia Sansone e Tommaso Ciancarella, accreditati dal ministero di Giustizia. L’unico istituto che è non è stato visitato è stato quello dell’Aquila in quanto "carcere speciale" in cui vige il regime del 41bis. Sono tanti i problemi radicati nelle strutture: il sovraffollamento, lo stato di inadeguatezza degli edifici, la cronica carenza di personale penitenziario, l’insussistenza dei fondi per il lavoro dei detenuti e il trattamento rieducativo che a volte non va. Una situazione difficile. Che Braghini ha avuto modo di denunciare anche alla Regione nel corso dell’audizione alla V commissione Salute, sicurezza sociale, cultura, formazione e lavoro presieduta da Mario Olivieri. Il presidente di Antigone ha evidenziato come "nel silenzio della politica permangano gravi criticità di cui nessuno si fa carico". Nella maggior parte dei casi gli edifici, di vecchia concezione, hanno bisogno di ristrutturazioni, con alcuni spazi e locali non a norma. Le celle sono quasi sempre molto anguste, ospitano in media due detenuti, con bagni senza privacy in quasi tutti gli istituti detentivi e sono prive di doccia e di acqua calda. Malgrado i casi di sovraffollamento, soprattutto a Sulmona e Lanciano, sono per lo meno rispettati i parametri di tre metri quadrati a detenuto, spazio minimo stabilito dalla Corte Europea nella sentenza Torreggiani. Di contro c’è che negli istituti penitenziari abruzzesi è arrivata la tecnologia. In quasi tutte le case c’è una "sala regia" collegata con un sistema di videosorveglianza interno e particolari supporti tecnologici che sostituiscono compiti tradizionalmente affidati al personale (sistemi di altoparlanti in filodiffusione, porte automatizzate con comando a distanza, uso di telefoni senza fili da parte degli agenti). I servizi sanitari sono ritenuti buoni e non sono state riscontrate attese troppo lunghe con la possibilità di essere sottoposti a visite specialistiche. Le prestazioni odontoiatriche sono invece le più problematiche perché molti interventi non rientrano nei livelli essenziali di assistenza. Sono invece tanti, forse troppi, i casi di autolesionismo con una punta di 82 episodi al Castrogno di Teramo. Così come gli scioperi della fame i quali, secondo l’associazione Antigone, "denotano condizioni di malessere e disagio confermate dalla percentuale delle patologie psichiatriche che richiedono assistenza". Eppure ormai è entrata in tutte le case la cosiddetta "sorveglianza dinamica" che abolisce il controllo diretto e assoluto e si fonda sulla conoscenza del detenuto e sull’autonomia di gestione della sicurezza e del trattamento, anche al fine di ottimizzare le risorse del personale. Infine il regime delle "celle aperte", adottato nelle 7 carceri abruzzesi, compensa l’inadeguatezza degli spazi e la carenza di personale penitenziario. Cagliari: Uil-Pa; troppi detenuti e pochi agenti, carcere di Uta al collasso sardegnaoggi.it, 22 maggio 2017 Le celle non bastano più, nella struttura penitenziaria c’è un problema di sovraffollamento. I detenuti arrivano anche dal resto dell’Italia. Appello degli agenti a deputati e parlamentari sardi. Dopo il suicidio di un detenuto avvenuto nei giorni scorsi, la polizia Penitenziaria salva la vita ad un altro detenuto. Il sovraffollamento, al carcere di Uta, ha raggiunto indici insostenibili, Il dipartimento continua ad inviare detenuti dal resto dell’Italia. "Siamo al collasso, intervengano i deputati ed i senatori sardi", il monito della Uil. A distanza di pochi giorni dal suicidio di un detenuto avvenuto nell’istituto di Uta, continuano gli eventi critici. Un altro detenuto è stato miracolosamente salvato dal tentativo di suicidio tramite impiccamento. Fortunatamente questa volta l’evento non si è concretizzato ma con le attuali condizioni lavorative diventa quasi impossibile monitorare e intervenire prontamente per evitare gesti estremi o eventi critici in generale. Il carcere è nato per garantire condizioni detentive dignitose e per dare la possibilità al personale di polizia Penitenziaria di svolgere il proprio mandato in maniera agevole, il dipartimento lo ha reputato invece come un "contenitore vuoto" da riempire all’inverosimile. "Sono infatti 3 detenuti per ogni cella anziché due, ma si stanno già installando ulteriori letti per contenere addirittura quattro detenuti in ogni camera. Chiediamo l’intervento bipartisan dei deputati e senatori sardi, è una condizione lavorativa impossibile". È il commento del segretario generale della Uil Sardegna, Michele Cireddu, che punta il dito direttamente sui vertici del dipartimento e del provveditorato: "Non era questa organizzazione che avevamo auspicato, una proporzione di 1 agente per 100 detenuti impone delle riflessioni, non è possibile garantire un adeguato controllo delle sezioni detentive, il personale è allo stremo, stiamo parlando dell’Istituto che presenta il maggior numero di eventi critici in Sardegna e, in proporzione al numero di detenuti, della Penisola. Con l’installazione del 4 letto è impossibile garantire un controllo efficace, il personale non deve subire ripercussioni giuridiche a causa di scelte scellerate del dipartimento. Non si può continuare a ignorare la situazione, non vogliamo essere la cassandra della situazione ma è facile prevedere l’implosione prossima dell’istituto". Il 25 maggio prossimo il segretario generale della Uil, Angelo Urso, effettuerà la visita dei luoghi di lavoro dell’istituto per un successivo intervento nei confronti del capo del dipartimento e del ministro. Siracusa: il progetto "Fare con meno" nella casa di reclusione di Augusta blogsicilia.it, 22 maggio 2017 Si è conclusa la fase formativa dell’azione Compostaggio di Comunità del progetto "Fare con meno" nella Casa di Reclusione di Augusta. Un iter di sette incontri, nel corso di quattro mesi, dove l’associazione Rifiuti Zero Sicilia ha illustrato ai corsisti le tecniche e le modalità per procedere ad un corretto trattamento della frazione umida. Sviluppare una conoscenza tecnica adeguata per la gestione delle compostiere e della compostiera di comunità, questa è stata la principale competenza acquisita dai duecento detenuti e trenta dipendenti della Casa di Reclusione. Dopo una prima fase relativa solo al trattamento degli scarti in mensa è iniziato anche il compostaggio dei rifiuti prodotti dai detenuti in cella che gestiranno la parte umida conferendo in una compostiera di comunità (la cui installazione è prevista nel mese di Luglio). Tra gli esiti positivi di questa azione si segnala, oltre al già noto risparmio economico, un vantaggio per i detenuti in termini di spendibilità delle abilità acquisite nel mondo del lavoro. A conclusione della prima fase del percorso, giorno 17 Maggio, si è tenuto, nella Sala Teatro Enzo Maiorca della Casa di Reclusione di Augusta, un incontro tra i rappresentanti delle amministrazioni locali e i partecipanti al corso. Un momento importante è stato la visione del documentario "Loro della munnizza" che racconta la storia dei cenciaioli palermitani, storici "operatori ecologici" nonché professionisti del riciclo di materiali trovati nella spazzatura. Da segnalare in agenda l’appuntamento di carattere internazionale che si terrà venerdì 26 Maggio alle ore 11:00 nel salone Rocco Chinnici del Comune di Augusta. "La strategia Rifiuti Zero: dieci passi verso la sostenibilità" questo il titolo dell’incontro, fortemente voluto dall’assessore Danilo Pulvirenti, durante il quale sarà presente anche Paul Connett, professore emerito di chimica ambientale all’Università St. Lawrence di Canton (New York), attivista ambientale noto per essere uno dei fondatori della strategia Rifiuti Zero. L’incontro è stato organizzato a più mani da Zero Waste Italy, dal Centro di Ricerca Rifiuti Zero di Capannori, dal Comune di Augusta e dal Ministero dell’Ambiente. Conclude l’assessore Pulvirenti: "Sarà un’occasione per far conoscere lo stato di avanzamento del progetto "Fare con Meno" che ha visto l’organizzazione di attività a tutti i livelli, dalla casa circondariale alle scuole di ogni ordine e grado, le parrocchie, i dirigenti comunali, le attività commerciali e le associazioni di volontariato. Si invita tutta la cittadinanza a partecipare". Torino: Salone del libro, dalla Toscana il premio letterario dei detenuti di Marco Ceccarini met.provincia.fi.it, 22 maggio 2017 È stato presentato al Salone del Libro di Torino, allo stand della Regione Toscana, il Premio letterario Casalini, intitolato ad Emanuele Casalini, che fu professore di liceo e preside a Piombino e docente volontario di scrittura e letteratura al carcere di Porto Azzurro, dove fu anche animatore del periodico La Grande Promessa, prima rivista carceraria sorta in Italia. Il Premio letterario Casalini è stato fondato nel 2002, poco dopo la scomparsa del professore, dalla San Vincenzo dè Paoli e dall’Unitre di Porto Azzurro che lo stesso Casalini aveva contribuito a fondare. Nello scorso mese di novembre si è tenuta la sedicesima edizione del Premio, il cui scopo è fornire nuovi incentivi ed inedite occasioni di riabilitazione ed elaborazione delle proprie esperienze e dei propri vissuti a chi si trova a vivere l’esperienza della reclusione. Oggi il Premio letterario Casalini è organizzato, oltre che dall’Unitre di Porto Azzurro, anche dall’Unitre di Volterra in collaborazione con il Salone del Libro e con Presìdi del Libri del Piemonte. La giuria del Premio letterario Casalini è presieduta da Ernesto Ferrero, già direttore del Salone torinese. Nel comitato d’onore figurano, tra gli altri, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi e l’assessore regionale Cristina Grieco. "Nel Premio Casalini, che con consapevole soddisfazione portiamo all’attenzione dell’opinione pubblica, i protagonisti sono i detenuti. Veramente, in questo caso, la cultura vola oltre i confini, come dice lo slogan della nostra Regione a Torino, ed aggiungerei anche oltre i muri del carcere perché le persone possono maturare e crescere, attraverso la scrittura, anche all’interno di una casa di reclusione", ha detto l’assessore Cristina Grieco, che ha le competenze ad Istruzione, formazione e lavoro. "Scrivere non solo aiuta a comunicare ma anche rende meno gravoso il peso della solitudine e della costrizione che una persona vive all’interno del carcere", ha aggiunto Lucia Paperetti, vedova Casalini, che fa parte anche della segreteria organizzativa del Premio. La signora Casalini ha poi sottolineato: "Scrivere apre a un’altra libertà, quella che permette di ritrovare i propri sentimenti ed i propri sogni, esprimerli assieme alle speranze, alla proiezione verso il futuro e verso il miglioramento che nessuno può togliere a nessuno". Nel pomeriggio di ieri, domenica 21 maggio, alla presentazione del Premio letterario Casalini sono intervenuti quattro vincitori delle edizioni precedenti e uno dell’ultima edizione. In tutto, cinque tra detenuti ed ex detenuti. I loro nomi sono Mohammad Arshad, Aral Gabriele, Carmelo Gallico, Vittorio Mantovani e Domenico Strangio. Tre di questi ora sono uomini liberi, mentre due sono ancora detenuti o in regime di semi-libertà e sono stati autorizzati dai loro carceri a partecipare al Salone di Torino. Alcuni di loro si sono presentati accompagnati dai familiari. Il Premio letterario, d’altronde, serve anche questo: a far sì che i familiari, in qualche occasione, possano stare vicini e sentirsi orgogliosi dei congiunti che si trovano a vivere da detenuti l’esperienza del carcere. Locri (Rc): la bellezza del teatro mette a tacere il dolore in carcere di Maria Giovanna Cogliandro larivieraonline.com, 22 maggio 2017 Intervista a Elena Gratteri Presidente di "Politeia-Dentro la Città". A partire dagli anni 80 il teatro in carcere iniziò ad assumere una specificità pedagogica propria: si comprese che l’arte drammatica potesse essere utilizzata per intervenire sugli aspetti relazionali e sull’indagine intorno al Sé del detenuto. Questo perché la pratica del teatro va a incidere sull’immaginario, sulle relazioni psicologiche e sulle interazioni sociali e familiari; è disvelatrice delle memorie dimenticate, una lente tra giusto e ingiusto, tra bene e male. E così sul palcoscenico penitenziario si fa forte l’idea di catarsi che consente di mettere a tacere il dolore attraverso la bellezza dell’oggetto artistico che lo rappresenta. Questo l’associazione "Politeia - Dentro la Città" presieduta da Elena Gratteri lo sa bene e ne sta dando prova attraverso il progetto "Il Planetario", che si avvale della professionalità di Bernardo Migliaccio Spina, che segue i detenuti dal punto di vista tecnico, supportandoli nella stesura della sceneggiatura di uno spettacolo teatrale, di Nicola Procopio, che insegna dizione e lettura espressiva, e di Carmela Salvatore, che coordina i detenuti nell’allestimento della scenografia. Si tratta di due laboratori, che ospitano circa 25 detenuti, impegnati a confezionare un prodotto di qualità, ma con un’attenzione particolare al ruolo pedagogico del teatro. Il progetto è stato accolto con grande favore da Patrizia Delfino, direttrice della Casa circondariale di Locri. "A incoraggiarci verso questa strada che ha portato innanzitutto alla costituzione della nostra associazione è stato il successo registrato con il progetto "Un palcoscenico oltre le sbarre", grazie al quale la compagnia "Stabile Assai" della Casa di reclusione di Rebibbia, l’estate scorsa, si è esibita presso la Corte del Palazzo Comunale di Locri e presso il Teatro romano di Marina di Gioiosa Ionica. L’idea di realizzare queste manifestazioni teatrali è nata dopo l’incontro con Antonio Turco, Presidente Nazionale Aics (Associazione Italiana Cultura e Sport), associazione a cui Politeia è affiliata - dichiara Elena Gratteri. Ho conosciuto Antonio Turco nell’ambito del master in Pedagogia Giuridica dell’Inpef, di cui è docente. In quell’occasione ci ha illustrato i progetti che da anni porta avanti presso la Casa circondariale di Rebibbia. E così, insieme alla mia collega, Maria Teresa Badolisani, vice Presidente di Politeia, è nata l’idea di mettere in scena nella Locride queste opere teatrali nate dietro le sbarre". Il teatro in carcere è un forte strumento di cambiamento per gli attori-detenuti ma va inserito anche all’interno di quel mutamento del mondo carcerario a sostegno della legislazione più avanzata, che persegue l’obiettivo del reinserimento in società di chi vive l’esperienza del carcere. Il teatro costringe l’attore a guardarsi attorno e dentro e a condividere con lo spettatore una tragedia simile a quella reale, ma riscattata dalla poesia. Così, ciò che nella vita è dolore, dalla scena arriva come emozione, e soprattutto è avvertita come purificazione. Ma l’Associazione "Politeia - Dentro la città" non è solo teatro. Lo scorso 11 maggio ha organizzato con il patrocinio del Comune di Locri e del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Locri il Convegno "La Giustizia Riparativa - La comunità un interlocutore eccellente", tenutosi presso la Sala del Consiglio Comunale di Locri. All’incontro sono intervenuti Rodolfo Palermo, Presidente del Tribunale di Locri; Fulvio Accurso, Presidente della Sezione Penale del Tribunale di Locri; Patrizia Delfino, Direttore della Casa Circondariale di Locri; don Nicola Commisso Meleca, Rettore del Seminario vescovile "San Luigi", Diocesi di Locri Gerace; Deborah Cartisano Coordinatrice di Libera Locride; Angela Tibullo, criminologa e mediatrice penale. "L’obiettivo della nostra associzione - conclude Elena Gratteri - è prevenire e combattere gli attentati alla legalità e su questa strada continueremo a impegnarci tenendo sempre a mente la frase di Don Oreste Benzi: l’uomo che ha commesso il reato non è lo stesso uomo che ha scontato la pena". Trani: oltre 1.000 libri donati al carcere, si conclude l’iniziativa del Rotaract Biseglie bisceglieviva.it, 22 maggio 2017 Ai volumi raccolti a Bisceglie si aggiungono quelli raccolti dagli altri club per un totale di 1.500. Si è conclusa con la consegna di 1.046 libri, sia scolastici che di narrativa, la raccolta organizzata dal Rotaract Bisceglie. Sabato 20 Maggio, insieme ai club Rotaract di Andria, Canosa, Molfetta e Trani, i ragazzi del club biscegliese hanno donato alla Casa circondariale di Trani i libri raccolti attraverso il progetto "Sulla scia… delle ali della libertà". Ai volumi raccolti a Bisceglie si sono sommati i libri raccolti dagli altri club per un totale di circa 1500. Il progetto, nato nel 2015, è stato ideato proprio dal Club Rotaract di Bisceglie in collaborazione con il carcere di Trani. In quell’occasione furono donati tre PC. Quest’anno, grazie al contributo dell’avv. Fabrizio Di Terlizzi, nel 2015 presidente di club, oggi coordinatore dei club Rotaract di Puglia e Basilicata, è stato possibile promuovere a livello nazionale il progetto, coinvolgendo tutti i club Rotaract italiani e la maggior parte dei penitenziari presenti sul territorio. "Siamo felicissimi del risultato ottenuto. Le condizioni delle carceri non sono certamente facili. Abbiamo cercato, nel nostro piccolo, di aiutare la popolazione carceraria potenziando il servizio di rieducazione, un mezzo per poter costruire un futuro diverso una volta scontata la pena - queste le parole del presidente Rotaract di Bisceglie Gaetano Lopopolo. Per questo risultato dobbiamo ringraziare tutti i soci del club Rotary ed in particolare il presidente Mauro Pedone, per il sostegno ed il contribuito alla raccolta, l’associazione Libri Nel Borgo Antico, che ci ha permesso di raccogliere libri durante l’ultima manifestazione, i volontari della Biblioteca Don Michele Cafagna, che hanno messo a disposizione numerosi volumi e tutti i cittadini biscegliesi che hanno contribuito all’iniziativa". "Pensami forte", di Zita Dazzi (Lapis Edizioni). Solo l’amore fa i bravi ragazzi di Paolo Foschini Corriere della Sera, 22 maggio 2017 Cuore e lettere, storia di un riscatto. Volendo gliela si può anche dare, la colpa a Dante. Che su quel principio ha costruito l’Inferno intero, ogni dannato un fotogramma e quel fotogramma è la sua vita: il Conte Ugolino è il suo morso e basta, peccato per lui. Ma la verità è che una volta o l’altra ci tocca a tutti, quel morso: commettere o subire un torto e tàc, da quel momento in poi siamo quel torto e basta. Mai capitato? Figuriamoci da ragazzini. Figuriamoci se il torto, o i torti, che abbiamo commesso ci portano in un carcere minorile. Tipo il Beccaria di Milano. Come è successo a Cosimo, 16 anni, dentro e fuori da quando ne aveva 14. Se non vi è mai successo - è normale, alla maggior parte delle persone non è successo - di andare anche solo a visitare un carcere, minorile o meno, potete solo fidarvi di chi vi dice - e credetegli, è vero - che il clima generale in galera non facilita molto la distinzione tra peccato e peccatore. Con buona pace del famoso articolo 27 della Costituzione ("le pene devono tendere alla rieducazione del condannato") la stessa parola "delinquente" è un participio presente che se ci pensate contiene già in sé la condanna eterna a essere il reato che hai commesso. Per carità: magari non dappertutto allo stesso modo, ma le cose stanno cambiando, gli sforzi e i progetti delle istituzioni ci sono, il lavoro di educatori e volontari pure, sarà lunga, ma bisogna crederci, sennò davvero tanto varrebbe buttare la chiave. La vera svolta però passa (quasi) sempre da lì: dall’incontro con una persona. E Cosimo in carcere (ri)trova Valentina. O meglio è lei che (ri)trova lui. Erano a scuola insieme tanti (si fa per dire, quando ne hai sedici) anni prima. Lei viene a sapere che lui è in carcere, Bruno Walpoth (Bressanone, Bolzano, 1959), Nadia (2017, cartone). L’opera sarà esposta nella mostra Material Matters. A Sculpture Show a Pietrasanta (Lucca) dal 18 giugno al 14 luglio (Accesso Galleria) gli scrive. Lo sventurato rispose e forse stavolta non è una sventura. È il nuovo romanzo di Zita Dazzi, "Pensami forte" (Lapis Edizioni). Romanzo epistolare destinato tecnicamente ai ragazzi, ma forte - appunto. La storia poggia su due temi: la devianza giovanile e la capacità di rinascere di due temi importanti per tutti. Il primo è quello della devianza giovanile, attraverso i racconti di Cosimo in cui l’autrice fa confluire mesi di ascolto di ragazzi veri, pazientemente raccolti con l’attenzione che mette da una vita nel suo Il protagonista è nel carcere minorile Beccaria ma sa conquistarsi un futuro lavoro di giornalista per la cronaca milanese di "Repubblica". Il secondo è quello della caduta e del rialzarsi. Che appunto tocca tutti, galeotti e no. Così Cosimo e Valentina un po’ alla volta si scoprono. Facendo una cosa che, nella sua normalità, diventa, per le loro vite o almeno per quel frammento di vita condiviso con noi, una cosa rivoluzionaria: parlano. A don Gino Rigoldi, che del carcere Beccaria è cappellano da quarant’anni, piace citare nella prefazione una frase di Valentina fra tante, laddove dice a Cosimo che "tutti hanno la possibilità di cambiare, anche quelli che fanno i cattivi come te: fanno, infatti, non sono". Ma senza prediche: "Vale bella - le scrive lui - queste lettere stanno diventando una chiacchiera che mi salva l’estate". E forse anche a lei, che tra famiglia in crisi e genitori senza lavoro non ha propriamente una vita in discesa: "Oggi sono triste perché piove anche se è estate e non si può andare all’Idroscalo e nemmeno al laghetto di Rozzano. Posso solo stare a casa a guardare la tv, che non c’è nemmeno niente di bello da vedere". Per fortuna c’è Cosimo. "Ci deve essere un domani dopo il carcere", scrive Giuliano Pisapia nella postfazione. E chissà perché questo libro fa venire in mente un altro prete, monsignor Giovanni Nicolini, anche lui cappellano di carcere, stavolta quello bolognese della Dozza. Al termine di un dibattito di qualche tempo fa, a Bologna, proprio sul tema del cadere e del rialzarsi, incappo’ in una signora che, pensando di ottenere la sua approvazione, gli aveva citato un vecchio proverbio emiliano secondo cui "le disgrazie fanno i bravi ragazzi". Lui a momenti le mangiò la faccia: "Non lo dica mai più. Non sono le disgrazie. È l’amore che fa i bravi ragazzi. Solo l’amore". Galeotti o no. I nuovi lavori servono (anche) contro la povertà di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 22 maggio 2017 Per chi è povero ma può lavorare un eventuale sussidio deve essere accompagnato da politiche attive per aiutare a trovare un lavoro. Lo dice la Commissione europea. Ma proprio su questo fronte l’Italia rivela una storica debolezza. Meno di un mese fa, una Raccomandazione della Commissione europea ha invitato gli Stati membri ad assicurare un reddito minimo adeguato a chiunque non disponga di risorse sufficienti. L’Italia è praticamente l’unico paese a non avere uno schema nazionale di questo genere. Di conseguenza, ha anche uno dei tassi di povertà assoluta (soprattutto minorile) più alti della UE. Visto che adesso "ce lo chiede anche l’Europa", è urgente colmare la lacuna. Di fatto occorre completare il percorso iniziato durante il governo Letta, che nel 2013 avviò la sperimentazione del Sostegno attivo all’inclusione (SIA). Matteo Renzi ha ottenuto dal Parlamento la delega a riformare l’assistenza sociale e a introdurre un Reddito di inclusione (REI) che garantisca su tutto il territorio l’accesso a beni e servizi " necessari a condurre un livello di vita dignitoso". Il Parlamento ha dato il via libera a marzo: un milione e settecentomila persone in condizioni di povertà assoluta potranno così contare su un trasferimento pubblico sotto forma di diritto soggettivo, non come assistenza discrezionale. Troppo poco, sostengono alcuni e in particolare i Cinque Stelle, che hanno formulato una proposta molto più ambiziosa e costosa. Ma il passo avanti c’è stato, e nella giusta direzione: una buona notizia. Sull’efficacia del REI gravano tuttavia le ombre di un "se" e di un "ma". Come precisa la Commissione europea, per chi è povero ma può lavorare il sussidio deve essere accompagnato da incentivi e servizi di inserimento nel mercato del lavoro. Questo tassello è stato difficile da realizzare anche in quei paesi che hanno amministrazioni pubbliche efficienti e preparate. Soprattutto nel Mezzogiorno, i servizi per l’impiego quasi non esistono. Se, da un lato, è inaccettabile che in un paese prospero centinaia di migliaia di bambini crescano in povertà assoluta, dall’altro lato non bisogna sottovalutare il rischio che il REI si limiti a "pagare la povertà" senza promuovere l’auto-sufficienza economica dei beneficiari. Il "ma" riguarda il lavoro. Gli alti tassi di povertà sono primariamente dovuti alla mancanza di occupazione. Non è solo colpa della crisi (e men che meno del Jobs Act, come qualcuno assurdamente suggerisce). Si tratta piuttosto di un problema dalle radici profonde che l’Italia si porta dietro da lungo tempo. Sin dagli anni Sessanta, rispetto alla Francia e alla Germania il nostro tasso di attività è rimasto stabilmente più basso di dieci punti o più: milioni di posti di lavoro in meno, e dunque di redditi. Il divario persiste ancora oggi e persino la Spagna è riuscita a superarci Questi dati smentiscono chi oggi sostiene che "non c’è più lavoro per tutti", che non se ne può creare di nuovo. E che l’unica soluzione sia redistribuire quello che c’è, garantendo un reddito di cittadinanza a tutti. Il mutamento tecnologico e la globalizzazione minacciano, è vero, molte delle produzioni e occupazioni tradizionali. La sfida però è quella di inventarne di nuove, non di rassegnarsi. Il deficit di lavoro è dovuto a colli di bottiglia mai seriamente rimossi: barriere alla concorrenza, una fiscalità punitiva, oneri sociali troppo alti, ostacoli al lavoro femminile e così via. Per fare un solo due esempi, nel settore turistico (in cui dovremmo primeggiare) abbiamo un milione e mezzo di posti di lavoro in meno rispetto alla Francia, e quasi trecentomila in meno nei servizi ad alta intensità di conoscenza e tecnologia. Il potenziale per una maggiore occupazione esiste, ma non siamo capaci di realizzarlo. Accogliamo con favore i piccoli progressi sul fronte del REI e impegnamici a proseguire. Parliamo però anche di lavoro. Se non colmiamo il deficit, come possiamo aspettarci di crescere allo stesso ritmo degli altri paesi? E se non aumentano le occasioni di percepire un reddito dal mercato, come facciamo a sussidiare i milioni di persone che potrebbero, vorrebbero e dovrebbero lavorare? Quando, vent’anni fa, fu sperimentato per un breve periodo il "reddito minimo d’inserimento", in alcuni comuni del Sud fece domanda più della metà dei residenti, per mancanza di alternative. Il modello di sviluppo italiano sta perdendo colpi a una velocità crescente. Oggi si apre a Napoli il primo Festival sullo Sviluppo Sostenibile. Nelle prossime settimane vi saranno decine di eventi e dibattiti. Speriamo che emergano maggiore consapevolezza dei problemi, nonché diagnosi e proposte su come affrontare povertà e mancanza di lavoro: le due sfide si possono risolvere solo insieme. Gioco di azzardo. I figli di giocatori patologici, tragici "effetti collaterali" di Umberto Folena Avvenire, 22 maggio 2017 "Una bambina di 9 anni è stata ricoverata in ospedale per malnutrizione. Se ne sono accorte le maestre a scuola. A casa non le davano da mangiare a sufficienza". "Una bambina di 9 anni è stata ricoverata in ospedale per malnutrizione. Se ne sono accorte le maestre a scuola. A casa non le davano da mangiare a sufficienza. Il motivo? I soldi se ne andavano tutti in azzardo". Daniela Capitanucci, fondatrice di And (Azzardo e nuove dipendenze), racconta questa storia accaduta nel suo Varesotto. Una tra le tante possibili a dimostrazione che a soffrire della piaga dell’azzardo è sì il giocatore, ma anche e soprattutto chi gli sta accanto. "I bambini, specialmente i bambini. Di cui si parla pochissimo". Di cui non si parla affatto... Ma i bambini, vedremo presto quali, sono il primo tra "I danni collaterali del gioco d’azzardo", titolo del Seminario organizzato stamattina da And a Varese (Salone estense, via Sacco 5, ore 9.30). Tre le relatrici e tutte operatrici professionali di And: oltre a Capitanucci, Roberta Smaniotto (presidente) e Anna Colombo. "Purtroppo - spiega Daniela Capitanucci - in genere la comunicazione sull’azzardo si ferma al giocatore. E c’è chi commenta: ‘In fondo ognuno è libero di rovinarsi come gli parè". Sbagliato. "Non è libero affatto. La prima vittima è la sua famiglia, perché tutti siamo in relazione con qualcun altro: relazioni di affetto e di lavoro. E ogni relazione comporta delle responsabilità. Chi rovina se stesso con l’azzardo, danneggia anche molti altri attorno a lui. Parliamo di parenti, ma anche di amici, clienti, datori di lavoro, colleghi. Pazienti, se fai il medico. Studenti, se fai il professore. Eccetera". Tanti subiscono dunque i danni collaterali. Ma i più fragili appartengono a due categorie: figli minori e genitori anziani. Oggi si parla dei primi: "Vivono - spiega Capitanucci - in un clima di perenne incertezza e conflitto. Nelle loro famiglie manca spesso il necessario per vivere, perfino il cibo, come dimostra la vicenda di quella bambina finita in ospedale per malnutrizione. Le liti quotidiane comportano un carico pesante per il figlio che, non potendo contare sugli adulti, deve imparare a badare a se stesso". Si tratta di traumi invisibili la cui constatazione ha spinto le ricercatrici di And a organizzare il seminario di stamattina. Bambini portati dai genitori a giocare d’azzardo con loro. Ma anche bambini figli di gestori che passano molte ore al bar o in tabaccheria e vedono la gente spendere fortune alle macchinette o nei gratta e vinci. "Si chiama gioco d’azzardo passivo: il bambino osserva e ascolta. In inglese si usa l’espressione nearmiss, "quasi vincita": assistere a una vincita si muta in una sorta di imprinting dalle conseguenze imprevedibili". E le soluzioni? "Il seminario serve proprio per un confronto tra i presenti: assistenti sociali, insegnanti, genitori, volontari, semplici cittadini. Un’ipotesi, in casi estremi, potrebbe essere un affido leggero: bambini figli di affetti da Gap (gioco d’azzardo patologico) che passano alcune ore fuori casa, per studiare e stare in un ambiente tranquillo, sottraendoli a un ambiente tossico. Sono bambini feriti". E il congiunto del gambler? "È il primo a dover chiedere aiuto per sé. Il trauma genera ansia, e l’ansia induce ad azioni poco lucide. Al congiunto la prima cosa da dire è: tu, prima ancora di tuo marito o tua moglie, tu hai un problema". Migranti, l’Italia sposta il fronte in Africa di Cristina Nadotti La Repubblica, 22 maggio 2017 Vertice con i ministri dell’Interno di Libia, Niger e Ciad. Cabina di regia a Roma contro il traffico di esseri umani. La strategia: centri di accoglienza nel deserto e guardie di confine addestrate per identificare gli schiavisti. Ora c’è la conferma del ministero dell’Interno. Italia, Libia, Niger e Ciad lavoreranno insieme contro il traffico di esseri umani e l’immigrazione clandestina in uno dei punti cruciali delle rotte migratorie, il confine sud della Libia. L’operazione "Deserto rosso" era stata anticipata mercoledì scorso da Repubblica, ma ieri, dopo il vertice al Viminale presieduto dal ministro dell’Interno Marco Minniti e al quale hanno partecipato i suoi omologhi di Libia, Aref Khoja, di Niger, Mohamed Bazoum, e del Ciad Ahmat Mahamat Bachir, c’è stata la descrizione dell’accordo nei particolari. Roma ha ottenuto dunque la cabina di regia per gestire le operazioni in Africa e verificare periodicamente gli obiettivi dell’accordo. Quattro i punti principali dell’intesa: "Lavorare assieme per contrastare il terrorismo e il traffico di esseri umani, con l’obiettivo di assicurare la sicurezza dei confini; sostenere la formazione ed il rafforzamento delle guardie di frontiera creando una "rete di contatto" tra le forze che controllano i vari confini; sostenere la costruzione di centri di accoglienza in Niger e Ciad; promuovere lo sviluppo di un’economia legale alternativa a quella collegata al traffico di esseri umani". Per sostenere le guardie di frontiera saranno impiegati i militari italiani, tuttavia la missione al momento non è stata annunciata dal ministero della Difesa perché i negoziati sia con i Paesi africani, sia con i partner europei, Francia e Germania su tutti, sono stati portati "avanti soprattutto dall’Interno. Il finanziamento sarà invece a carico degli Esteri, con 200 milioni già stanziati per l’assistenza alle aree interessate dalle rotte dei migranti. Per quanto si parli di promozione dell’economia legale in alternativa ai proventi del traffico di esseri umani, la missione sarà essenzialmente militare. Una squadra specializzata dello Stato Maggiore della Difesa è in Niger da settimane, per studiare le possibili basi, in collaborazione con i militari francesi già presenti nella zona. L’obiettivo principale è infatti di addestrare un corpo di guardie di confine libiche, come previsto dagli accordi siglati a Roma lo scorso 2 aprile tra una sessantina di tribù del Sud, per contrastare jihadisti e trafficanti. Poiché però i governi libici non accettano la presenza di forze straniere, è stato necessario puntare sul Niger e il Ciad per i centri di accoglienza in cui potenziare i controlli di frontiera per identificare gli schiavisti e assistere i migranti. L’incontro di oggi è un passaggio cruciale della strategia voluta da Minniti fin dal suo insediamento al Viminale, per chiudere la rotta migratoria dalla Libia all’Italia. Il ministro dell’Interno vuole rafforzare la guardia costiera libica e per aiutarla a fermare i barconi è prevista entro giugno la consegna di dieci motovedette. Poi si punta a chiudere la rotta del Mediterraneo all’origine, con operazioni di polizia sui cinquemila chilometri di confine che separano appunto la Libia dal Niger e dal Ciad, dove da anni agiscono indisturbate le organizzazioni di trafficanti di esseri umani. In Niger e Ciad centri di accoglienza per i migranti di Grazia Longo La Stampa, 22 maggio 2017 L’accordo con l’Italia firmato a Roma anche dalla Libia. Centri di accoglienza in Niger e Ciad, lo sviluppo di un’economia legale, il potenziamento di una guardia di frontiera e una collaborazione costante per contrastare il terrorismo e il traffico di esseri umani. Intorno a queste quattro priorità - messe nero su bianco in una dichiarazione congiunta - ruota l’accordo raggiunto tra Italia, Libia, Niger e Ciad, ieri pomeriggio, al Viminale. I punti dell’intesa verranno monitorati da una cabina di regia, appositamente istituita a Roma, che opererà con una consultazione periodica. Il vertice tra il ministro dell’Interno Marco Minniti e i suoi omologhi di Libia (Aref Khojia), Ciad (Ahmat Mahamat Bachir) e Niger (Mohamed Bozaum) ribadisce la necessità "di assicurare la sicurezza dei confini". Un importante passo avanti contro l’emergenza migranti perché proprio i 5 mila chilometri di frontiera con Ciad e Niger, a Sud della Libia, costituiscono la porta d’ingresso del 90 per cento di chi cerca la terra promessa in Europa. E la prima volta che i tre ministri dell’interno africani concordano una comune linea d’azione, d’intesa con il titolare del Viminale. Khojia, Bachir e Bozaum "hanno preso atto degli sforzi svolti dall’Italia per realizzare l’intesa tra le tribù del Sud della Libia". Un obiettivo al quale Minniti ha lavorato a lungo, convinto che la pace tra le tribù Tebu, Suleiman e Tuareg, nella regione del Fezzan, sia fondamentale. "Sigillare la frontiera a Sud della Libia - rimarca il ministro - significa sigillare la frontiera a Sud dell’Europa". A questo scopo si provvederà a "sostenere la formazione ed il rafforzamento delle guardie di frontiera attraverso la creazione di una rete di contatto tra le forze di controllo dei confini". Cooperare "congiuntamente nel contrasto al terrorismo ed al traffico di esseri umani" comporterà inoltre anche interventi di natura socio-economica. Si punterà così a favore "la costruzione in Niger e Ciad e la gestione in Libia dei centri di accoglienza per migranti irregolari, conformemente agli standard umanitari internazionali". Ma è altrettanto importante rifondere una società dalle basi e grazie alla pace raggiunta si potrà procedere alla realizzazione di opportunità di sviluppo alternativo ai profitti dei traffici illeciti. Di qui l’obbiettivo di "promuovere lo sviluppo di una economia legale alternativa a quella collegata ai traffici illeciti con particolare riferimento al traffico di esseri umani". Senza dimenticare, tuttavia, la necessità di una stabilizzazione in Libia. "Serve un dialogo tra tutti protagonisti del paese - osserva Minniti - tra Est a Ovest, tra Serraj e Haftar". La "conversione" di Trump in Arabia Saudita di Massimo Introvigne Il Messaggero, 22 maggio 2017 La guerra al terrore non è guerra di religione" e l’Occidente non può pensare di "dare lezioni" all’Islam. Chi lo ha detto? Si trattasse di Papa Francesco o di Barack Obama queste espressioni non farebbero notizia. Ma sono parole di Donald Trump, nel suo primo importante discorso di politica estera, pronunciato ieri in Arabia Saudita. Trump non è Obama. Nonostante i suggerimenti di qualche collaboratore, continua a usare l’espressione "terrorismo islamico", che il suo predecessore evitava accuratamente. "Questa - ha detto Trump-non è una battaglia tra fedi o tra civiltà. È una battaglia tra barbari criminali che cercano di distruggere la vita umana, e le persone oneste di tutte le religioni che cercano di proteggerla. È una battaglia tra il bene e il male. Questo implica affrontare onestamente la crisi dell’estremismo islamico e dei gruppi di terroristi islamici che esso ispira". Non è lo stile di Obama, che all’inizio del suo primo mandato al Cairo aveva affermato che i terroristi non sono islamici, né di Papa Francesco, per cui il terrorismo è un fenomeno puramente politico che non c’entra con la religione. Al contrario per Tru mp c’è un "estremismo islamico" che genera "terrorismo islamico". Ma, se molti terroristi sono musulmani, la maggioranza dei musulmani non sono terroristi, anzi sono "persone oneste" con cui il presidente americano vuole aprire un dialogo. Non è l’irenismo del Papa, ma non sono neppure i toni virulentemente anti-islamici della campagna elettorale. All’islam non "estremista" Trump offre il dialogo, ma non senza condizioni. Ai musulmani che vogliono essere interlocutori degli Stati Uniti Trump chiede di "essere uniti nella condanna contro l’uccisione di innocenti musulmani, l’oppressione delle donne, la persecuzione degli ebrei, il massacro dei cristiani. I leader religiosi devono essere chiari: la barbarie non vi darà alcuna gloria, se scegliete il terrorismo la vostra vita sarà vuota, sarà breve, la vostra anima sarà condannata". Più che a Papa Francesco, Trump assomiglia qui a Benedetto XVI. Anche Papa Ratzinger aveva posto tre condizioni per quel dialogo con l’Islam che pure dichiarava obbligatorio. Primo: condanna senza condizioni del terrorismo, qualunque siano le sue motivazioni e il suo contesto, un modo-senza nominare lo Stato ebraico- di dire che non è sufficiente, come fanno molti leader islamici, dire che il terrorismo non è mai giustificato "tranne quando colpisce Israele". Secondo: basta con la discriminazione delle donne. Trump, sembra di capire, non chiede ai musulmani di rinunciare alle proprie tradizioni, per esempio di abbandonare il velo, ma chiede il rispetto dei diritti elementari delle donne sanciti dalle dichiarazioni universali dei diritti umani e la fine delle discriminazioni. Terzo: deve essere garantita la libertà religiosa alle minoranze. Anche qui, parlando in Arabia Saudita, il presidente americano non chiede agli Stati islamici di rinunciare alla loro identità ma vuole che a cristiani, ebrei e fedeli di altre religioni diverse dall’islam sia garantito non solo il diritto di esistere ma anche quello di predicare la loro fede. Sono richieste impegnative e che appartengono alla tradizione della politica estera americana. È troppo presto per dire che Trump sta imparando a fare il presidente, e c’è certo differenza fra i discorsi scritti e pensati dallo staff della Casa Bianca e le improvvisazioni notturne del presidente su Twitter. Ma le richieste ragionevoli e insieme il rispetto mostrato verso l’Islam sono un dato positivo, che preparano l’incontro con Papa Francesco, spiazzano i piccoli Trump nazionalisti e islamofobi che si aggirano per l’Europa, e favoriscono un dialogo fra le religioni di cui il mondo ha bisogno. Libia. Appello di capo Unhcr a liberazione rifugiati e richiedenti asilo Askanews, 22 maggio 2017 Il capo dell’Alto Commissariato per i rifugiati dell’Onu (Unhcr), Filippo Grandi, ha lanciato oggi un appello a Tripoli alla liberazione dei richiedenti asilo e dei rifugiati detenuti nei centri di detenzione per migranti in Libia. "Spero innanzitutto che i richiedenti asilo e i rifugiati lascino questi centri di detenzione", ha dichiarato Grandi a dei giornalisti al termine di una visita in un centro di detenzione nella capitale libica. Il capo dell’Unhcr ha detto di comprendere le preoccupazioni delle autorità libiche in materia di sicurezza. Ma, ha aggiunto, "altre soluzioni" dovrebbero essere trovate per i migranti provenienti da Paesi in conflitto come i siriani e somali. Intercettati o salvati nel Mediterraneo durante le loro traversate verso l’Europa, migliaia di migranti sono detenuti in una quarantina di centri di detenzione in Libia in condizioni precarie. In una nota pubblicata oggi a Ginevra, l’Unhcr ha assicurato di aver ottenuto la liberazione di più di 800 rifugiati vulnerabili e richiedenti asilo negli ultimi 18 mesi. Citato dal testo, Grandi si è detto "scioccato dalle condizioni difficili nelle quali i rifugiati e i migranti sono detenuti". "I bambini, le donne e gli uomini che hanno già molto sofferto non dovrebbero sopportare queste difficoltà", ha aggiunto. Grandi ha promesso di rafforzare la presenza della sua organizzazione in Libia se le condizioni di sicurezza lo permettono, per fornire assistenza anche alle centinaia di migliaia di sfollati libici all’interno del Paese. Medio Oriente. La corsa dei bambini palestinesi, siriani e libanesi per "crescere insieme" Redattore Sociale, 22 maggio 2017 Mille bambini uniti in nome dello sport con "Vivicittà", la corsa podistica che l’Uisp organizza da 34 anni. Chiusa proprio in Libano l’edizione 2017, dopo 70 prove podistiche, che dal 9 aprile si sono alternate tra città italiane ed estere, anche all’interno delle carceri. Tripoli, in Libano, questa mattina ha battuto le mani per 1000 bambini siriani, palestinesi e libanesi uniti in nome dello sport e per affermare il diritto a crescere insieme. Questa è Vivicittà, la corsa podistica messaggera di valori e di sport che l’Uisp organizza da 34 anni. Uno striscione del traguardo che ha chiuso proprio in Libano l’edizione 2017, dopo 70 prove podistiche che dal 9 aprile si sono alternate tra città italiane ed estere, comprese quelle all’interno delle carceri. Lo raccontano i promotori a commento della corsa di sensibilizzazione, la decima che si corre in Libano, per la prima volta a Tripoli, seconda città del paese. Tripoli si trova a pochi km dal confine siriano e dal 1948 ospita nel suo territorio due grandi campi palestinesi, Beddawi e Nahr Al-Bared. È da questi campi, dalle scuole pubbliche libanesi e dai tanti insediamenti informali deve vivono decine di migliaia di siriani in fuga dalla guerra, che sono arrivati i 1000 e più bambini che oggi hanno corso "per crescere insieme" Hanno vinto tutti, insieme alla città di Tripoli, città negli ultimi anni al centro di grandi tensioni, anche a causa del vicino conflitto siriano. Tante storie si sono intrecciate, come quella di Fatima, preoccupata per gli esami che inizieranno domani, o quella di Akmed che da tre anni vive in una tenda e rimpiange la sua casa di Aleppo o quella di Hassen, nato e cresciuto nei vicoli del campo di Beddawi. Alla fine sono stati tutti premiati con una medaglia e la felicità ha avuto il sopravvento sulla giornata di caldo e sudore. "Tramite lo sport si può crescere ed imparare il rispetto, la competizione e la lealtà, l’integrazione sociale, lo spirito di gruppo e la socializzazione. Questi principi permettono ai ragazzi di crescere e diventare adulti capaci di vivere in una società plurale", ha dichiarato Simona De Martino, primo consigliere dell’ambasciata d’Italia in Libano. "L’Uisp è qui perché questo territorio rappresenta una parte importante del mondo e il nostro piccolo contributo di oggi, qui a Tripoli, è cercare di migliorare il mondo in cui viviamo, facendo correre e stare insieme culture differenti che rappresentano le nuove generazioni di un territorio finalmente in pace", ha dichiarato Carlo Balestri, Uisp. La manifestazione è stata realizzata grazie a Uisp-Unione Italiana Sport Per tutti e all’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo e si è avvalsa della collaborazione di Unrwa-Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi e della municipalità di Tripoli.