La gogna per il dott. Salvatore Pirruccio e per Ristretti Orizzonti la dice lunga sullo stato delle carceri di Giuseppe Mosconi e Francesca Vianello* Ristretti Orizzonti, 21 maggio 2017 Nell’articolo del 17 maggio 2017 pubblicato da ilfattoquotidiano.it a firma di Giuseppe Pietrobelli, si legge che l’ex direttore del carcere di Padova, dott. Salvatore Piruccio, sarebbe "indagato perché avrebbe riservato un trattamento di favore a una dozzina di detenuti, il cui status penitenziario sarebbe stato declassato rispetto al regime di alta sicurezza previsto per coloro che si sono macchiati dei reati più gravi". E a questo si aggiunge d’emblée: "Non c’è pace nel carcere padovano Due Palazzi, da alcuni anni al centro di inchieste per spaccio di droga e traffici di telefoni o video hard da parte dei detenuti. Proprio a seguito di quegli accertamenti giudiziari, adesso si ritrova nell’elenco degli indagati perfino l’ex direttore Salvatore Pirruccio, ma per fatti completamente diversi, anche se portati alla luce da un’ispezione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria motivata dalla scoperta dei primi illeciti". Sebbene dica en passant che si tratta di "fatti completamente diversi", l’articolo alimenta chiaramente l’amalgama fra l’ipotesi di reato di falso che sarebbe attribuita al dott. Pirruccio e altri reati gravi che sarebbero opera di detenuti condannati perché appartenenti a organizzazioni criminali, alludendo implicitamente alla possibilità che siano gli stessi che l’ex-direttore avrebbe declassato a detenuti comuni. È sorprendente che una testata che si dichiara impegnata nella seria e rigorosa informazione scada in banalità propagandistiche, approdando palesemente a una sorta di scoop che alimenta, in una materia comunque complessa e delicata, allarmi, dequalificanti scandalismi, una specie di gogna per il mondo carcerario. Chi ha scritto l’articolo non ha ritenuto utile informarsi di quale fosse l’effettiva realtà dei fatti con nessuna delle moltissime persone che da decenni lavorano perché questo carcere in particolare non sia quella fossa di avvilimento e disumanità che si riscontra in tanti penitenziari italiani ed europei. Il carcere Due Palazzi di Padova è da decenni la sede di una delle più grandi creazioni e attività dei detenuti in Italia, l’associazione Ristretti Orizzonti, che cura un sito ricchissimo di testi e documenti di grande qualità e interesse non solo per i detenuti, ma per tutti coloro che si impegnano sui diversi aspetti del mondo carcerario. E il Due Palazzi è anche il carcere in cui i docenti dell’Università di Padova e una rete di associazioni, tra cui Antigone, da decenni sperimentano un’attività ricca e fruttuosa, che ha contribuito non poco a favorire l’evoluzione umana di questo universo, a beneficio sia dei detenuti che del personale dell’amministrazione penitenziaria. E ancora qui è stato proprio il dott. Pirruccio che ha saputo creare le condizioni per lo sviluppo di uno dei più conosciuti Poli universitari, diventato negli anni un esempio per tutte le altre sedi. Se si fosse chiesto a una qualsiasi delle figure che frequentano il penitenziario padovano, operatori del carcere, accademici, avvocati, magistrati, volontari e tutti coloro che a Padova si impegnano per cercare - in linea con indicazioni ministeriali che restano spesso lettera morta - di "umanizzare" il carcere, di rendere il Due Palazzi un luogo in cui la violazione dei diritti fondamentali non sia all’ordine del giorno e si possa almeno tentare di promuovere la crescita culturale ed esistenziale dei reclusi, si sarebbe immediatamente capito che il dott. Pirruccio vi ha svolto a pieno titolo un ruolo spesso encomiabile. Per tredici anni, fino all’ottobre 2015, ha diretto la Casa di reclusione impegnandosi nel sostenere i percorsi di rieducazione avviati con la collaborazione di detenuti, operatori e accademici attraverso la scuola, corsi professionali o attività di lavoro. È senz’altro in quest’ottica che il dott. Pirruccio ha cercato di evitare il trasferimento di quei detenuti che avevano cominciato tale percorso, sebbene fossero prima condannati al regime penitenziario riservato alla grande criminalità. Proprio ai Due Palazzi per due anni si è tenuta la giornata annuale dei condannati all’"ergastolo ostativo", un’iniziativa riconosciuta come estremamente lodevole da tante persone esperte e altamente qualificate. È evidente che il dott. Pirruccio subisce un attacco reazionario per aver consentito ai detenuti ristretti nelle sezioni dell’Alta Sicurezza spazi di movimento e di partecipazione - peraltro minimi - alle attività di Ristretti Orizzonti, alle scuole, alle attività culturali e ricreative. Nel momento in cui tutta la sezione Alta Sicurezza rischiava di essere trasferita in carceri ben peggiori (come di fatto è avvenuto), l’ex-direttore ha tentato attraverso le declassificazioni di trattenere a Padova quelli per i quali c’era un’effettiva testimonianza di "ravvedimento" e "rieducazione". A fronte di molti direttori passivamente conservatori, il dott. Pirruccio è stato un direttore rigoroso e insieme aperto a scelte illuminate. Tanti hanno potuto osservare la sua onestà e umanità, che lo hanno portato ad assumere in modo misurato e razionale scelte coraggiose e innovative con il fine di restituire un minimo di senso alla pena detentiva. Peraltro, ricordiamo che l’8 luglio 2014, in un’intervista a Padova Oggi, il dott. Pirruccio, commentando l’indagine sugli agenti di polizia penitenziaria imputati di aver fornito a dei detenuti droga e telefonini in cambio di danaro, ebbe a dire: "se colpevoli vanno espulsi". La campagna contro di lui, a un anno dalla pensione, dopo che già era stato trasferito con fittizia promozione al Provveditorato, è un’ennesima vergogna, e la sua solitudine istituzionale la dice lunga sullo stato del sistema penitenziario nel nostro Paese e sull’ostilità nei confronti di qualsiasi serio orientamento riformatore. *Università di Padova Note 1)http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/05/17/padova-lex-direttore-del-carcere-indagato-per-falso-classificava-mafiosi-e-spacciatori-come-detenuti-comuni/3592380/ 2)http://www.padovaoggi.it/cronaca/arresti-guardie-carcere-padova-intervista-direttore-due-palazzi-video.html 3)È possibile leggere l’appello che, già all’epoca della sua "promozione", il 5 ottobre 2015, tutte le realtà operanti nel carcere padovano avevano firmato "contro la decisione del ministero di sollevare dal suo incarico un direttore considerato capace di trasformare Padova in modello": L’appello per il direttore del carcere Salvatore Pirruccio http://mattinopadova.gelocal.it/padova/cronaca/2015/10/05/news/l-appello-per-il-direttore-del-carcere-salvatore-pirruccio-1.12209882 Nessuno si salva da solo, specie in carcere di Don Marco Pozza Il Mattino di Padova, 21 maggio 2017 L’educazione-civica era una delle materie che più mi incuriosivano quando frequentavo il liceo. Era la materia che nell’immaginazione associavo al galateo: come quest’ultimo insegna la giusta maniera di pulirsi la bocca usando il tovagliolo, così l’educazione civica aveva l’arduo compito d’ammaestrare sulla giusta modalità di essere cittadini. Poi - è usanza con le cose che valgono - quella materia venne decapitata nel curriculum dello studente: "Tempo perso, troppo inconcludente, un sapere astratto, tanta teoria e poca pratica". Nessun-boia è mai tenuto a giustificare le decapitazioni: ciò che resta è il sospetto che, visto che l’hanno tolta, fosse una materia valida. Una di quelle cattedre nelle quali pensi di meritare perché hai saputo rispondere alla domanda: "Come si fa a fare scuola?" Per poi scoprire a tue spese che, per non fallire, la domanda era un’altra: "Come essere per poter fare scuola?" Il carcere è il quartiere più sfilacciato in una città. Fosse un treno, la gente che viaggia avrebbe il volto confuso di chi, se solo gli credessimo, coltiva il più grande sogno tra quelli umani: imparare a mettere a fuoco la sua vita, giacché "nessuno si salva da solo". Da queste parti, sotto una colata di ferro e cemento, il verbo "salvarsi" ama viaggiare mano-nella-mano con il verbo "cambiare": nessuno si salva da solo, "nessuno cambia da solo". Quest’ultimo è stato il titolo di uno splendido convegno organizzato dalla rivista "Ristretti Orizzonti" nel carcere di Padova. Per un’intera giornata, la gattabuia disastrosa della galera ha ospitato una lezione di educazione-civica d’altissima quotazione. Ci vuole fegato per viaggiare controvento, ma certi luoghi sono nati apposta per dare-ospitalità proprio a tutto ciò che il mondo rifiuta perché giudicato inutile, anche inconcludente, tempo-sprecato: l’uomo errante ("Uno così non ci serve più. Tenetevelo voi"), le materie che fanno perdere tempo ("Questi discorsi appesantiscono la mattinata"), intere librerie i cui libri destano problemi di giacenza ("Devo svuotare casa. Posso mandarvi un camioncino di libri?"). È per questo, badate bene, che in una città esiste il carcere: quando le discariche sono piene, il macero chiuso-per-ferie, il planning scolastico riempito, tutto ciò che rimane fuori va impacchettato e mandato in carcere. Che, da parte sua, ringrazia e ricicla: nulla si crea qui dentro, ma nemmeno nulla si distrugge. La sfida resta quella di trasformare tutto ciò che arriva, convinti che nel fondo delle cose giace "la freschezza più cara", quella forma di bellezza che non svanisce con il suo tramontare. Dare forma all’incompiuto è bellezza. Una giornata di educazione-civica dentro un carcere è un ossimoro duro da digerire: "Cos’avrà da insegnare quella gente?" Probabilmente nulla di più di quello che già tutti sanno: che la malavita è una vita-mala, andata in malora. C’è bisogno di un’occasione per poterlo dire-bene: comprendere il male senza mai giustificarlo è educazione civica, materia di civiltà, roba da cittadini. È dato incontrovertibile che si viva meglio quando non si sa cosa accade attorno a noi: resta da dimostrare la possibilità di diventare cittadini-completi facendo calare le serrande su alcuni quartieri del nostro vivere. "Nessuno cambia da solo", allora: neanche una città potrà cambiar volto da sola. Non riuscirà a produrre futuro se s’ostina ad usare grammatiche di segregazione: "Da bestie si può diventare uomini, da uomini si può diventare santi. Ma da bestie a santi d’un passo solo non si può diventare" (L. Milani). Era per questo che, una volta, esisteva la nobile materia dell’educazione-civica. Scomparsa, ciò che resta è pensare che ad essere educato debba essere l’altro. Neanch’io, però, cambio da solo. I detenuti a lezione per avere un lavoro di Remo Quadri Corriere Adriatico, 21 maggio 2017 Dai corsi di alfabetizzazione in lingua italiana a quelli di istruzione primaria, dalle medie alle superiori. Sono ben 370 le sedi scolastiche presso gli istituti penitenziari italiani dove poco più di 8mila studenti detenuti sono iscritti alla secondaria di secondo grado. La Regione con il maggior numero di sedi è la Sicilia con 60, seguita dalla Campania con 44, dal Lazio con 32, Emilia Romagna e Lombardia con 30. Venticinque sedi si trovano in Calabria e in Puglia mentre in Toscana se ne contano 24, in Piemonte 22, 13 in Veneto, 12 in Liguria, 9 in Sardegna e Umbria, 8 in Abruzzo, 7 in Basilicata, 6 in Friuli e Marche, 6 in Molise e 1 in Trentino. Degli 8.000 detenuti che frequentano i percorsi di istruzione secondaria di secondo grado, 750 seguono i percorsi dei licei artistici ed oltre tremila quelli dell’istruzione tecnica (1.838 nel settore economico e 1.261 nel settore tecnologico); ma i percorsi che fanno registrare il maggior numero di frequentanti sono quelli dell’istruzione professionale: oltre 4.000 (698 nel settore Industria e artigianato e 3.462 nel settore servizi). La materia dell’istruzione negli istituti penitenziari è attualmente disciplinata da due articoli (41 e 43) del Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario (Dpr 230 del 30 giugno 2000) e dal DPR 263/12 (come disciplinato dal DI 12 marzo 2015) che ha ricondotto la materia al nuovo sistema di istruzione degli adulti, istituito appunto con il DPR medesimo. Per la verità, già sul finire degli anni 90, un’apposita ordinanza dell’allora Ministro dell’Istruzione (OM 455 del 28 luglio 1997), con la quale venivano istituti i Centri Territoriali Permanenti per l’educazione degli adulti, assegnava a quest’ultimi il compito di assumere, "d’intesa con gli istituti penali, iniziative per lo svolgimento di attività di educazione degli adulti nelle carceri, assicurando in ogni caso l’offerta negli istituti penali minorili", ivi compresa quella relativa ai corsi di istruzione. Da allora, l’offerta formativa negli istituti penitenziari è cresciuta, si è consolidata, sviluppata e potenziata; nel solo a.s 2011/2012 - ultimo anno di cui si dispone di dati consolidati in serie storica - sono stati erogati più di mille corsi che hanno visto una frequenza di quasi 18mila detenuti con oltre 5000 qualificazioni rilasciate (tra titoli di studio e attesati vari); una significativa attività di istruzione realizzata dal sistema scolastico negli istituti penitenziari attraverso l’attivazione da parte del Miur di quasi 250 scuole carcerarie e l’autorizzazione di centinaia e centinaia di posti e di cattedre; una significativa attività di istruzione che, in ogni caso, il sistema scolastico ha assicurato anche grazie al contributo del sistema della formazione professionale e del terzo settore. Nell’Ordinanza del Ministero della Pubblica Istruzione, n. 455 del 29 luglio 1997, si affida ai Centri Territoriali Permanenti, d’intesa con gli istituti penitenziari, lo svolgimento di attività di educazione degli adulti nelle carceri e, in particolare, negli istituti penali minorili. Infine, la Direttiva del Ministero della Pubblica Istruzione, n. 22 del 6 febbraio 2001, ribadisce la necessità di realizzare percorsi individuali di alfabetizzazione in quanto strumenti di promozione sociale destinati ai soggetti deboli, tra i quali i detenuti. Infine, come già ricordato, recenti disposizioni hanno ricondotto l’istruzione in carcere al nuovo sistema di istruzione degli adulti, istituito con il Dpr 263/12. A seguito di ciò, la gestione amministrativa, organizzativa e didattica delle "scuole carcerarie" è stata affidata ai Cpia e alle istituzioni scolastiche di secondo grado dove sono incardinati i percorsi di secondo livello. Inoltre, il DI 12 marzo 2015 applicativo del DPR 263/12, ha ribadito il principio in base al quale la programmazione, progettazione e realizzazione dei percorsi di istruzione negli istituti penitenziari deve tener conto della peculiarità degli spazi, dei tempi e dell’utenza carceraria e a tal proposito ha disposto una serie di "misure di sistema" capaci da attivare al fine di assicurare "metodi adeguati alla condizione dei soggetti e soluzioni organizzative coerenti con il principio di individualizzazione del trattamento penitenziario". Quei bambini da far crescere nelle carceri di Agnese Moro La Stampa, 21 maggio 2017 Qualche volta per iniziare a cambiare strutture complesse e un po’ cristallizzate occorre inserire nella dinamica organizzativa un nuovo punto di vista, un nuovo sguardo, capace di mettere in discussione assiomi e certezze. È quanto ha fatto, secondo me, in questi anni l’associazione Bambinisenzasbarre Onlus - bambinisenzasbarre.org - rendendo evidente come, nella dinamica carceraria, vi sia un altro soggetto numericamente consistente, anche se praticamente ignorato dall’Organizzazione: quei 100.000 bambini e ragazzi che ogni anno entrano nelle nostre carceri per visitare i loro genitori. Bambinisenzasbarre ha lavorato a tanti livelli, dentro e fuori gli Istituti penitenziari, per far cogliere l’importanza di tenere conto di questi giovanissimi, delle loro necessità, dei loro bisogni emotivi e relazionali. Grazie all’Associazione sono stati aperti e predisposti luoghi di gioco per le attese, spesso lunghe e penose, prima dell’incontro con il genitore; sono stati coinvolti gli operatori di tutte le professionalità, studiosi e istituzioni che hanno voce in capitolo a tutti i livelli. Da questo lavoro è venuto fuori, qualche anno fa, un documento importante: "Il Protocollo- Carta dei figli di genitori detenuti". È una eccellenza italiana che, lo scorso 19 maggio a Napoli, nel corso della Conferenza annuale paneuropea della organizzazione "Cope - Children of Prisoners Europe" è stato discusso e proposto come base per la politica europea in questo settore. Lia Sacerdote, Presidente di Bambinisenzasbarre Onlus spiega che "è un documento radicale che impegna il sistema penitenziario a trasformare e cambiare la propria cultura consapevole della presenza quotidiana di migliaia di bambini e del ruolo genitoriale del detenuto". Un ruolo che aiuta quella assunzione di responsabilità e quella dimensione affettiva che sono elementi essenziali per il "ritorno indietro" di chi ha commesso degli errori, anche gravi o gravissimi. Il Protocollo prevede il monitoraggio della sua applicazione, con l’aiuto della rete delle ONG sul territorio, e l’organizzazione della formazione del personale. Nella Conferenza sono stati poi presentati i risultati della terza ricerca sulla "gestione" dei bambini in 193 carceri italiane e i cinque migliori progetti europei sul rapporto bambini-carcere. Cose che forniscono orientamenti importanti per fare di più e meglio. Serve più chiarezza sul reato di tortura di Donatella Di Cesare Corriere della Sera, 21 maggio 2017 Abbondano aggettivi e avverbi, mentre il linguaggio, un burocratese fumoso, sembra voler confondere e intorbidare, piuttosto che chiarire. Ecco il disegno di legge sulla tortura che, votato al Senato, passa alla Camera per essere approvato. Frutto di mediazione, di cui va il merito al Ministro Orlando, il testo non può non amareggiare coloro che si sono battuti perché venga riconosciuto il reato di tortura. Amnesty International ha dichiarato che la nuova legge è "distante e incompatibile con la Convenzione internazionale contro la tortura". Che cosa non va? Il nucleo più problematico è una questione di plurali. Nel testo precedente, in cui figurava la formula "reiterazione", si diceva che, affinché ci potesse essere tortura, la violenza doveva essere ripetuta. Ora si parla di "violenze" al plurale. Il che non è poi molto diverso. Non basta divaricare le dita fino a strappare i legamenti, non basta accerchiare una donna e minacciare di violentarla dopo averla insultata, non basta impedire una volta il sonno - occorre replicarlo. E, a proposito della "tortura bianca", quella psicologica, il testo chiede un referto che provi il danno. Inoltre viene resa possibile la prescrizione. Il che è assurdo per un reato grave come la tortura. Il testo va modificato, reso semplice e chiaro. Per rispetto della sofferenza già inflitta nel passato e di quella che potrebbe essere inflitta. Perché non c’è crimine più ignominioso che lo Stato possa commettere contro i propri cittadini. Cioè contro ciascuno di noi. Gli italiani ormai lo sanno e sono in larghissima maggioranza favorevoli all’introduzione del reato. Solo pochi gruppi dell’apparato statale remano contro; le forze dell’ordine che non hanno nulla da temere sono agevolate dall’introduzione del reato. Non vogliamo una legge che ipocritamente si autonega. Ma non vogliamo neppure farne a meno. Il riconoscimento del reato è urgente. Zagrebelsky: "intercettazioni, no ai divieti, il compito del giornalismo è fare la guardia al potere" di Liana Milella La Repubblica, 21 maggio 2017 L’ex giudice della Corte europea: "Il rilievo penale non è un criterio". "La stampa è, come si usa dire, il quarto potere. La separazione dei poteri porta con sé, come ha scritto Repubblica, la separazione dei doveri. E quindi il magistrato cerca le prove, il giornalista pubblica le notizie". Dice così Vladimiro Zagrebelsky, ex giudice della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. La telefonata tra i Renzi padre e figlio ha riaperto lo scontro sulle intercettazioni. Ritiene che andasse pubblicata? "Credo che si debba fare un discorso sui principi. Il magistrato accerta reati, segue le regole del processo, e non si occupa d’altro. Il giornalista fa un mestiere completamente diverso, deve informare l’opinione pubblica su tutto ciò che è importante per la vita democratica. E per questo la Corte di Strasburgo definisce i giornalisti "cani da guardia della democrazia". E i cani da guardia sono li per mordere, qualche volta". Arriviamo alla "separazione dei doveri", il dovere del magistrato di indagare, quello del giornalista d’informare. Pensa che uno di noi debba cercare e pubblicare tutte le notizie che trova, no? "Il giornalista deve pubblicare le notizie che sono di interesse pubblico, non quelle che soddisfano solo la curiosità del pubblico. La distinzione tra penalmente rilevante e penalmente irrilevante per il giornalista, mi si passi il gioco di parole, non ha nessuna rilevanza. La pretesa per cui sarebbero pubblicabili solo le notizie penalmente rilevanti è priva di senso. E non acquista senso ripetendola all’infinito". Forse, anche in stagioni politiche diverse, è utile alla politica tentare di imporla. "Il "potere", qualunque ne sia il colore, cerca di difendersi dai morsi che vengono da un’informazione non condizionata. Si tratta del pendant, sul piano dell’informazione, dell’altra regola che si è affermata in Italia: non solo le notizie, ma anche i fatti che non sono penalmente rilevanti, è come se non esistessero. Fino al punto di pretendere una sentenza penale definitiva per prenderli in considerazione. E tanto meglio se la sentenza non arriva mai". Ammetterà che, in questi giorni, c’è stata una ricerca ossessiva delle fonti. Non si rischia andando avanti così una sorta di attentato alla stampa? "La protezione delle fonti del giornalista è affermata sia dalla giurisprudenza nazionale sia da quella europea, ed è un principio sacrosanto che dimostra come vi sia tensione, e qualche volta contraddizione, tra le esigenze del segreto, e quella di informare l’opinione pubblica. Conflitti simili sono ben noti nei regimi liberali. La libertà di stampa è fondamentale, ma può incontrare limiti, non solo quelli che riguardano la vita privata dei singoli. Anche altri interessi pubblici possono richiedere tutela". Se la camorra è solo elettorale di Roberto Saviano L’Espresso, 21 maggio 2017 Per i politici la criminalità organizzata esiste, ma solo tra un voto e l’altro. Quando le urne si avvicinano sparisce. Da dove iniziare? Intanto da questo: credere che la politica abbia una coerenza che prescinda da personalismi è un’illusione, così come sperare che la presenza sia già promessa è un abbaglio. In Italia ci sono territori in cui esiste una guerra che si combatte ogni giorno, ogni notte e a ogni ora. Vi racconto due storie, due diverse guerre, due resistenze che mettono tristemente a nudo l’incapacità della politica di comprendere quale sia la parte da cui stare e soprattutto che mostra l’incapacità di intraprendere un percorso coerente per ottenere risultati duraturi e non l’effimera notorietà di una stagione o di una occasione. Storie che molti sentiranno lontane, che molti avvertiranno come troppo locali perché ci si possa soffermare per una riflessione, che altri non riusciranno a comprendere fino in fondo perché vivono e hanno sempre vissuto in contesti troppo differenti per sapere che l’arte e l’evasione possono essere qualcosa di profondamente diverso da cultura ed edonismo, per diventare vera e propria resistenza. Solo pochi, pochissimi chilometri separano due realtà diverse tra loro, Casoria e il centro storico di Napoli, ma legate indissolubilmente da un’esigenza che a molti sembrerà assurda: quella di essere, di diventare luoghi di normalità. E normalità significa soprattutto avere le stesse opportunità che esistono altrove e che altrove nessuno mette in discussione. Alla Sanità i napoletani quando escono di casa hanno i sensi allertati perché sanno che è in corso una faida tra clan. Una guerra che è insieme guerra generazionale e lotta, corpo a corpo, vicolo per vicolo, palazzo per palazzo, per ciò che più conta: il predominio sulle piazze di spaccio. E mentre le "stese" continuano, la cittadinanza assiste all’incapacità di creare sinergie e fare squadra. La politica locale, che pure prova a occupare suolo, a sottrarre terreno alla criminalità, entra in contrapposizione con le forze dell’ordine. Queste considerano le "stese" un male minore rispetto alla camorra di qualche tempo fa, apparentemente più potente perché forza imprenditoriale, ma in fondo proprio per questo più prevedibile nelle azioni militari. In tutto questo a me è concesso un ruolo esterno, osservo, studio, intervengo e quando lo faccio immancabilmente mi si dice che esagero, che diffamo, che dovrei trovarmi un lavoro. Talvolta mi si invita a godere delle bellezze della città, ma sarebbe bello che potessimo goderne tutti, soprattutto chi, oggi, alla Sanità, se si attarda la notte può trovarsi sotto una pioggia di proiettili. A dieci chilometri dal centro storico di Napoli c’è Casoria. A Casoria ci sono stato lo scorso novembre quando Antonio Manfredi, direttore del Cam (Contemporary Art Museum of Casoria) ha deciso di dedicarmi una sala. Un gesto irrituale - quello di dedicare una sala a una persona in vita - attraverso cui si sperava di attirare l’attenzione, soprattutto della politica che decide di fondi e finanziamenti. Un gesto attraverso il quale si era pensato di restituire a Casoria quella normalità che altrove è data per scontata. Dove normalità significa che, se esiste un museo che è un gioiello incastonato nel sottoscala di una scuola media, che esiste e resiste da 13 anni, logica e civiltà imporrebbero che il Comune e la Regione lo sostenessero per dare ai cittadini di Casoria quello che meritano, ovvero la possibilità di essere centrali laddove invece regna la marginalità. All’inaugurazione della sala a me dedicata era presente il Sindaco di Casoria; la sua presenza fu promessa di impegno, eppure nel documento di programmazione per il prossimo biennio il Cam non è contemplato e, molto probabilmente, dopo 13 anni, dovrà chiudere i battenti. Se questo dovesse accadere, con il Cam Casoria avrà perso l’unica possibilità di scambio vero che in questi anni gli sia stata concessa. E l’avrà persa perché la politica quando c’è da stringere mani e patti è sempre presente, quando c’è da mantenerli latita. Ma che c’entra il Cam di Casoria con il quartiere Sanità? Ecco cosa: alla Sanità oggi si organizzano eventi, c’è un’occupazione che ha il sapore della resistenza. Oggi questa occupazione è denuncia costante, denuncia delle condizioni di abbandono di un quartiere dove si vive con paura. Peccato che alle prossime elezioni la camorra non esisterà più perché servirà un racconto diverso. Io "invento" la camorra per vendere libri. La politica ne inventa la fine per essere rieletta. Ma poi la camorra a metà mandato torna e la politica la combatte. Quando dovessi scrivere di nuovo di camorra alla Sanità, sono certo che tornerà a essere una mia allucinazione. I boss col 41 bis vanno a casa: così tradiamo la memoria di Falcone di Lirio Abbate L’Espresso, 21 maggio 2017 Le commemorazioni. Gli omaggi. I riti. Eppure, 25 anni dopo, l’insegnamento del giudice viene sempre più spesso dimenticato. I capomafia in carcere duro vengono portati nei loro territori. Dove possono dare ordini. C’è un viavai di persone che non si ferma davanti all’abitazione di un capomafia della ‘ndrangheta. È come una processione. Entrano ed escono dalla casa del boss Salvatore Pesce, a Rosarno, nella piana di Gioia Tauro. Pesce è stato arrestato nell’agosto del 2011 dopo una lunga latitanza. E per via della sua forte leadership criminale sul territorio calabrese è stato sottoposto al 41bis, il carcere duro previsto per contrastare le mafie varato dopo le stragi in cui sono stati uccisi i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Era il 1992 e all’epoca per impedire ai detenuti di comunicare all’esterno ordini e messaggi è stato applicato questo regime. Nonostante ciò, Salvatore "Ciccio" Pesce, accompagnato da una nutrita scorta di agenti della polizia penitenziaria, nei mesi scorsi è tornato a casa, in Calabria, per rivedere la sua famiglia, abbracciare i suoi cari, salutare gli amici e i compari, e lo ha fatto con un permesso speciale che gli è stato accordato dal magistrato di Sorveglianza. E Pesce non è certo il solo mafioso detenuto che di tanto in tanto lascia il carcere di massima sicurezza in cui è sottoposto al 41bis per essere trasportato a casa, con un permesso speciale, a rivedere amici e parenti. Sulla carta è tutto regolare e le ordinanze ben motivate. Ma così si rischia di svuotare il senso di questo provvedimento strategico nell’attività di contrasto ai clan perché consente di privare le organizzazioni mafiose dell’apporto dei loro capi, impedendo le comunicazioni con il resto del clan. Dall’inizio dell’anno i magistrati di Sorveglianza hanno disposto, sulla base di "emergenze" espresse dai detenuti, diciassette permessi. Ognuno di questi viaggi organizzati dallo Stato costa circa ventimila euro alle casse pubbliche. Lo scorso anno sono stati venti i detenuti riportati a casa. Dal 1992, quando è stata introdotta la norma, al 2009, non ne era stato accordato nessuno. Le cose sembrano cambiare. Ciò che è stato ideato, per contrastare le mafie sul sangue delle vittime innocenti, delle stragi del 1992 di Capaci e via D’Amelio - dove sono stati uccisi i magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino e gli agenti di polizia Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro - oggi viene alterato da ordinanze e provvedimenti di qualche magistrato di Sorveglianza, competente per il territorio in cui ricadono gli istituti di pena dove i boss sono detenuti, che accolgono le richieste supportate da motivazioni di "emergenza" familiare. Il capomafia viene portato sul suo territorio anche per poche ore, e in questo modo ha la possibilità di comunicare, riallacciare contatti, suggerire strategie criminali ai suoi fedelissimi e così ogni sforzo per isolare il boss in carcere è vanificato. I direttori degli istituti di pena vedono stravolgere alcuni capisaldi che regolano il duro regime carcerario, come ad esempio lasciar passare, sempre su ordinanza del magistrato di sorveglianza, la corrispondenza fra alcuni detenuti sottoposti al 41 bis. Il mafioso palermitano Leonardo Vitale - è stato dalla polizia penitenziaria e in particolare dal Gruppo operativo mobile - scriveva su autorizzazione del giudice ad altri detenuti al 41 bis appartenenti a Cosa nostra e nel testo della missiva nascondeva un codice con il quale camuffava i messaggi da trasmettere. E mentre il direttore della casa circondariale vuole registrare le telefonate che effettua il detenuto sottoposto allo speciale regime, perché tutto deve essere controllato a questi boss altrimenti non valgono a nulla le misure di isolamento, c’è stato un magistrato di Sorveglianza che ha respinto la richiesta. Il boss, in questo caso, ha potuto effettuare telefonate ai familiari senza essere ascoltato e registrato. E poche settimane fa si sono incontrati in carcere i fratelli Giuseppe e Nino Madonia, sicari palermitani, mafiosi di alto rango coinvolti nei misteri ancora irrisolti di delitti e stragi. Non si vedevano da vent’anni. Paradossalmente, negli ultimi tempi la norma del carcere duro è stata resa dai governi ancora più stretta e rigida. Ma è approfittando proprio di questa rigidità che i detenuti trovano il modo per insinuarsi con continui ricorsi al magistrato di Sorveglianza, provocando crepe al sistema detentivo. Oggi il 41 bis, a distanza di venticinque anni dalle stragi in seguito alle quali è stato adottato, è diventato un tema sul quale si è ampliato il dibattito politico e giuridico. È una norma che da un parte è essenziale nella strategia di contrasto alla criminalità organizzata, dall’altro pone delicati problemi di compatibilità costituzionale e di interpretazione giurisprudenziale, anche se questi sono stati in gran parte risolti nelle loro linee fondamentali. Occorre riflettere e analizzare ciò che afferma il mafioso Vittorio Tutino, detenuto a L’Aquila, parlando con un agente del Gom dopo la visita di un parlamentare. Il boss palermitano, assolto dall’accusa di aver preso parte alla strage di Capaci e attualmente imputato per l’attentato di via D’Amelio, analizza la situazione attuale del contrasto alla mafia e parla per metafora: "Non sono più i tempi che Berta filava", indicando così il periodo passato in cui c’era stato più rigore rispetto ad oggi, aggiungendo che i tempi del duro contrasto stanno per finire. E così mentre il Paese si prepara a ricordare il sacrificio di uomini dello Stato come Falcone e Borsellino e gli agenti di polizia uccisi nelle stragi palermitane venticinque anni fa, i mafiosi stanno a guardare come le cose possono essere rese più semplici per loro in maniera legale. È il caso, ad esempio, di un capo della ‘ndrangheta che è stato a lungo ricercato. Accusato di omicidi e altri gravi reati, alla fine i carabinieri lo hanno arrestato dentro un bunker sotto terra, dove si era rifugiato per diversi mesi. Finito in carcere e sottoposto al 41 bis, poco tempo dopo il detenuto si è fatto visitare da un medico il quale ha poi certificato che il mafioso è claustrofobico e la cella gli provoca problemi di salute. Lo stesso che aveva vissuto a lungo in un bunker. Il certificato medico è stato allegato al ricorso fatto dal detenuto al magistrato di Sorveglianza, evidenziando la sua "incompatibilità" a stare in una stanza chiusa. E il magistrato, supportato dall’attestazione medica, ha ordinato che l’uomo non può avere l’ingresso della cella chiuso da una porta blindata ma da un cancello. E inoltre per il suo trasporto fuori dal carcere deve utilizzare un’ambulanza anziché uno scomodo furgone blindato. Oggi i detenuti sottoposti al 41 bis sono 728. Nelle varie carceri in cui sono distribuiti, sono divisi in "gruppi di socialità" formati da quattro persone: di solito un boss dominante e le cosiddette "dame di compagnia", personaggi di spessore criminale più basso. Da aprile 2014 il boss che viene spostato da un istituto all’altro è seguito dalla sua corte di "dame". La formazione resta sempre la stessa. Negli ultimi tempi però, si sta diffondendo una nuova strategia fra i boss detenuti. È quella di stare da soli. Non vogliono compagnia. Questo atteggiamento lo attuano gli appartenenti ai gruppi camorristici come Paolo Di Lauro, che si rifiuta anche di fare colloqui con i familiari, o Raffaele Cutolo, che invece ama rispondere a tutte le lettere degli "ammiratori" che gli scrivono in carcere. Secondo gli investigatori questo atteggiamento di isolamento protratto per qualche anno potrebbe poi indurre il detenuto a far ricorso al tribunale di Sorveglianza per non essere più sottoposto al 41 bis. Il carcere che i mafiosi vogliono più evitare è quello di Bancali a Sassari. Aperto quasi due anni fa, è stato costruito su misura per i 41 bis e può ospitare novanta detenuti. È amministrato in maniera perfetta. E questa perfezione ai detenuti non piace. Per questo motivo è diventato l’incubo di padrini e gregari, perché di carceri così non se ne erano mai viste in Italia. Non sono certo i tempi di Asinara e Pianosa, ormai solo un ricordo, ma il Bancali ne ha perfezionato la struttura. Tutto è moderno: spazi e celle sono stati riprogettati rispetto ai locali angusti dove all’indomani delle stragi di Capaci e via D’Amelio vennero rinchiusi i "dannati", i primi boss a cui fu applicato il 41 bis. Un provvedimento che per i mafiosi diventò la "condanna delle condanne", spingendo numerose figure di primo piano verso la collaborazione con la giustizia. Ci sono voluti 23 anni per ottenere una struttura come questa creata attorno alla norma più odiata dalle mafie, che hanno sempre posto l’abolizione del regime speciale al vertice della loro "agenda politica". Il carcere di Sassari rappresenta una svolta. In passato le maglie del 41bis si erano lentamente ma inesorabilmente allargate, con episodi clamorosi di boss che dal carcere duro riuscivano a mantenere relazioni con i clan o addirittura a concepire figli. Poi nel 2009 c’è stata la svolta. Un articolo del testo di legge ha riportato rigore nella reclusione: "I detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari". È da questa legge che si è arrivati alla costruzione del padiglione speciale di Bancali. Ma ai boss non piace e per questo presentano centinaia di ricorsi contro ogni cosa, prendendo di mira nelle loro istanze la direzione del carcere che si limita ad applicare le regole. Quelle regole che a venticinque anni dall’uccisione di Falcone e Borsellino qualcuno, a colpi di carte bollate e timbri, tenta di aggirare. Il racconto di Pannella sui muri delle carceri di Massimo Lensi Corriere Fiorentino, 21 maggio 2017 Un anno è trascorso dalla scomparsa di Marco Pannella e nel ricordarlo si è portati a idealizzarne il gesto e la parola, fino a modificare lentamente la storia per renderla più attuale. La rievocazione delle cose passate, va da sé, non è necessariamente il ricordo di come siano state veramente, e nel caso del leader radicale occorre tenerlo più che mai presente. Rielaborare il ricordo riportandolo nella sua dimensione reale, rispettando il senso politico di azioni dipanatesi negli anni; è questo lo scenario della specificità radicale, l’intima necessità di tante iniziative di Pannella. Non è semplice, se si vuole rispettare la diversità formale e irrituale dell’amore di Pannella per la vita istituzionale e civile del nostro Paese. Per onorarne soprattutto il pensiero eterodosso. A Firenze, città che lo ha visto protagonista più volte, il leader radicale è riuscito a lasciare un segno, leggero ma indelebile, inscritto nelle mura delle carceri che testardamente ha voluto varcare. Prima quelle delle Murate, il vecchio istituto penitenziario fiorentino, per sostenere Emma Bonino, Adele Faccio e Gianfranco Spadaccia nella lotta nonviolenta per ottenere una legge sull’interruzione volontaria della gravidanza; poi quelle del nuovo carcere di Sollicciano, con le tante visite ritmate dai colloqui con i detenuti, la polizia penitenziaria, i collaboratori esterni. Visite che avvenivano nelle festività, a Pasqua e a Natale, spesso di notte, per porre l’accento sulla solitudine delle istituzioni e anche su quella di chi in carcere vive o lavora e dalle istituzioni è lasciato solo. L’amore, per Marco, era uno scandalo - diceva - come la libertà. L’amore del leader radicale verso chi era sottratto all’affetto dei cari per scontare una pena, anche giusta, era pervaso dalla consapevolezza che nelle nostre carceri non c’è sbocco, in barba alla Costituzione che prevede pene dignitose finalizzate al reinserimento sociale. Le mura delle carceri fiorentine, così come quelle di tante altre in Italia che Pannella amava visitare, raccontano con molta più verità dei cerimoniali la sua lunga battaglia per la Giustizia e l’amnistia. La riforma della giustizia era, ed è tuttora, auspicata attraverso un provvedimento di amnistia con la precisa cognizione che solo l’amnistia può liberare procure e tribunali da quella marea di procedimenti che rendono inagibile l’amministrazione quotidiana della giustizia e tutto ciò che da essa dipende, dal rispetto dello stato di diritto fino alla ripresa economica. L’amnistia che Pannella chiedeva a gran voce non è un semplice provvedimento di clemenza liquidabile come "buonista", ma una specifica riforma strutturale dell’amministrazione della giustizia nel nostro Paese, che continua a ricevere condanne dalle Corti europee per i cronici ritardi nei processi. Oggi il ricordo di tante nottate passate con Marco Pannella nello squallore dei bracci di Sollicciano torna a confrontarsi con la realtà. Il carcere di Sollicciano, infatti, soffre ancora oggi degli stessi mali del passato: mancano al suo interno un’adeguata politica sanitaria, di concreti percorsi di reinserimento non se ne vede traccia e troppe sono le persone che vi si trovano in una lunga attesa di un giudizio. I tanti direttori del carcere fiorentino che si sono succeduti in questi anni, così come gli agenti e i detenuti, ben si ricordano di questo strano omone con il codino, un po’ "brindellone" come si dice a Firenze, che percorreva sbilenco gli spazi della pena per affermare i diritti degli ultimi. Per tutti loro era ed è ben chiaro il significato della lotta di Marco Pannella per l’amnistia come affermazione di un diritto pro homine per la riforma della giustizia: le disfunzioni della giustizia integrano, infatti, situazioni di assenza di democrazia. L’effettività del riconoscimento di un diritto è un momento essenziale della democrazia. Un principio sacrosanto senza il quale una reale democrazia perde il senso degli obiettivi. La "riserva della Repubblica" Marco Pannella, dovrà essere studiato e commentato ancora a lungo. Si dovrà anche proseguirne l’azione politica, rinnovarne la teoria, trovare il giusto compromesso tra possibilità e probabilità. E nelle giornate della memoria, a Firenze come altrove, il ricordo più veritiero non può che essere nell’impassibile quotidiano di un carcere dove le giornate trascorrano sempre uguali, una dopo l’altra, senza speranza. E Marco Pannella, credetemi, per i detenuti era speranza. Sono tutti presunti innocenti di Anna Masera La Stampa, 21 maggio 2017 Non è solo una questione di codice deontologico, ma anche di grammatica e di buonsenso. "I giornalisti hanno la brutta abitudine di utilizzare il termine "presunto" quando le persone sono sospettate di un reato, pensando cosi di essere deontologicamente corretti, ma non è così". Lo sostiene un esperto di giornalismo giudiziario su The Economist, ricordando che secondo il sistema legale occidentale le persone sono innocenti fino a dimostrazione contraria. Dimostrazione che deve avvenire in tribunale, non per un processo avviato dalla pubblica opinione. Termini come "presunto assassino" o "presunto terrorista" di fianco magari alla foto di qualcuno rischiano di far pensare che effettivamente quella persona sia un assassino o un terrorista anche se non è stato affatto accertato. "È un termine ipocrita, perché equivale a nascondersi dietro una foglia di fico, penso che non andrebbe mai usato" commenta Paolo Colonnello, uno dei cronisti di giudiziaria più esperti a La Stampa. "Per non incorrere nell’accusa di avere pregiudizi si aggiunge "presunto" a ogni sospettato. Ma c’è un’ipotesi d’accusa, non un presunto delitto". È una questione non solo di codice deontologico, ma anche di grammatica e di buonsenso. Dove si sbaglia di più è nei titoli, per la tirannica mancanza di spazio che richiede un linguaggio sintetico: con il risultato di emettere spesso sentenze nei media prima che nei tribunali. Non va bene "presunto omicida", semmai si tratterà di un "sospettato di omicidio". Lo stesso per il terrorismo o per la corruzione. "Il linguaggio giudiziario va studiato, serve competenza, meglio ancora una laurea in giurisprudenza, per imparare a utilizzare la terminologia corretta negli articoli e nei titoli" sostiene Colonnello. "Fin dai tempi di Tangentopoli ho riscontrato la necessità di prestare attenzione all’uso preciso delle parole nella cronaca giudiziaria" racconta. "Il paradosso è che si tende sempre più ad assorbire la cultura televisiva con quel linguaggio da telefilm. A volte addirittura traduciamo in italiano termini - penso anche solo a "procuratore capo" - che sono proprio sbagliati. Dovremmo farcene una ragione". La Giustizia dea femminile contro tutti i poteri maschili di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 21 maggio 2017 In origine non esistevano "professioni giuridiche". Quella che noi chiamiamo "giurisprudenza" non esisteva come entità o funzione autonoma. Un passo determinante verso il diritto come dimensione autonoma della vita sociale è raccontato da Eschilo nella terza parte della saga di Oreste, le Eumenidi, un testo teatrale messo in scena nel 458 a.C.. Vi si racconta la conversione delle Furie o Erinni, forze che avvolgono gli esseri umani e le loro famiglie nella spirale di violenza distruttiva che non si estingue mai e, anzi, si estende di generazione in generazione: conversione in figure benevolenti che giudicano con parole definitive e mettono fine a quella che sarebbe stata, altrimenti, la catena infinita delle vendette. La dea Atena, protettrice della città, fonda l’Areopago, istituzione perenne e luogo protetto dove si celebrano i riti della giustizia ateniese: "Insensibile al denaro, degno di venerazione, rigido d’animo, desto a vegliare i dormienti, presidio del paese: ecco il consesso che istituisco". Oreste, perseguitato per il matricidio, vi trova il giudizio definitivo che mette fine alla vendetta. Eschilo descrive, dunque, l’inizio di un processo d’individuazione della funzione della giustizia. Ma non è ancora il tempo dei giuristi e della loro scienza. Il diritto, la giurisprudenza e i giuristi vengono dopo, da Roma. Roma li ha creati e creandoli ha cercato di farne un mondo a parte, con suoi rituali esclusivi, la sua scienza e la coscienza di ceto dei suoi adepti: insomma, ne ha fatto una professione. Come addetti a una professione che oggi definiamo "liberale", nel senso della sovrana neutralità e superiorità spirituale rispetto alle bassure della vita, ci identifichiamo volentieri con Themis, la dea garante dell’ordine universale che abbraccia tanto gli dei quanto gli uomini o, più spesso, con Dike, sua figlia, la dea garante dell’ordine divino incarnato nelle istituzioni umane. Dike è raffigurata come vergine saggia, figlia del pudore, nemica della menzogna (Platone, Leggi), pensosa e bella in tutti i sensi. Che i giuristi si considerino adepti di quella divinità, cioè della giustizia ch’essa rappresenta, è forse un atto d’orgoglio ma non è una arbitraria sostituzione o identificazione: tra il diritto e la giustizia c’è un legame intimo, essenziale. Potremmo concepire una sentenza o a una memoria difensiva che non si richiamassero a una qualche concezione della giustizia? Il diritto, insomma, tende a identificarsi con la giustizia e la giustizia, a sua volta, vuole rappresentarsi per mezzo d’una immagine intramontabile: quella giovane donna che si presenta di solito con gli occhi bendati perché "non guarda in faccia nessuno", con in una mano la bilancia, come segno d’imparzialità, e con l’altra che brandisce la spada, simbolo della separazione del giusto dall’ingiusto o forse anche della protezione ch’essa offre a chiunque le si rivolge per scampare ai prepotenti. Innanzitutto, colpisce che la giustizia appartenga al mondo femminile. La politica, luogo del potere, è stata per secoli pensata come dominio prevalentemente maschile. Il Leviatano, l’animale marino scelto da Thomas Hobbes come simbolo del potere sovrano, è rappresentato da una figura imponente che brandisce spada e scettro, i cui elementi semplici sono piccolissimi lillipuziani che, insieme, concorrono a formare il corpo di quell’immane "uomo in grande". In Il buon Governo di Ambrogio Lorenzetti a Siena, per fare soltanto un altro esempio, sulla destra campeggia la figura del principe governante e, sulla sinistra, la figura della giustizia. Ancora una volta troviamo l’identificazione del potere con il sesso maschile e l’identificazione del diritto e della giustizia con quello femminile. La separazione dei sessi nell’iconografia politica è rigorosa. D’altro canto, non risultano uomini bendati, con bilancia e spada, e anche in altre culture troviamo sempre figure di donne, come la dea egiziana della giustizia cosmica, Ma’at. La troviamo perfino nella cultura atzeca, dove la giustizia è rappresentata dalla donna-serpente, collocata subito sotto il re imperatore. La giustizia, nell’immaginazione sociale è dunque dominio femminile, ma la sua "amministrazione" lungo i secoli e dappertutto è stata riservata agli uomini. Come possiamo considerare questa contraddizione? Forse qui possiamo già cogliere un’ambiguità e un primo segno d’ipocrisia. Non di giustizia si tratta realmente, ma di potere (maschile) dissimulato. Perché la dissimulazione? Forse perché ogni società ha bisogno di confidare in una sfera di relazioni scevre dal potere, cioè dalla legge del più forte. Forse l’archetipo è la vergine dea armata del mito, Pallade Atena. Si deve, tuttavia, fare attenzione agli attributi di quella fanciulla. Ai loro significati immediati - la spada che divide i torti e le ragioni, una volta che la bilancia li ha pesati, e la benda che assicura l’imparzialità tanto della pesa che della divisione - se ne possono accostare altri meno scontati che inducono a pensieri meno consolanti. La spada, infatti, fa pensare anche ad Alessandro Magno che, non riuscendo a sciogliere il nodo da cui sarebbe dipesa la conquista dell’Asia minore - il nodo di Gordio - lo taglia brutalmente. Altro che le sottigliezze del diritto e l’intrico dei suoi argomenti da dipanare: qui, la spada è un atto di forza che rappresenta l’arroganza di chi non ha tempo da perdere e vuole procedere sulla sua strada. Potrebbe però anche essere rovesciata in simbolo difensivo. Ma potrebbe interpretarsi anche nel senso della pretesa arrogante d’essere riconosciuta come una forza che svolge un compito di natura sovrumana, quasi divina, a somiglianza dell’Arcangelo Michele che impugna la spada in nome di Dio per annientare Satana. Infine, ricordando l’Atena nell’Areopago, potrebbe anche trattarsi dell’arma che protegge il reo dalla furia vendicatrice della folla che punta a entrare nel tribunale per fare giustizia sommaria. La dea bendata tiene nell’altra mano la bilancia. Un primo elemento di riflessione è che non si tratta della stadera, cioè dello strumento a un piatto solo. La giustizia non si avvale di questo strumento di pesatura che darebbe un responso, per così dire, assoluto alla domanda: quanto pesa? Il responso della bilancia, invece, è relativo: la domanda alla quale risponde è: quali ragioni pesano più o meno delle altre, non essendo escluso il caso che si equivalgano. In ogni caso, la bilancia ci dice, realisticamente, che la giustizia possibile nelle aule dei tribunali sta in un rapporto concreto, non in una verità astratta. In più: dice che anche il piatto della bilancia che pesa meno dell’altro, ciò non di meno, può avere ragioni dalla sua parte: non sufficienti a vincere la causa ma, non per questo indegne d’essere considerate da una "giustizia giusta". La differenza può stare anche solo nell’inezia d’una piuma, come nella figura della dea Ma’at. La pesa è l’atto finale di un percorso guidato dalla virtù dell’equilibrio. Si può allora dire che il giudice è un equilibrista? Forse sì. Di sicuro, però, è colui che, volterrianamente, fa suo il motto écraser l’infâme, dove l’infamia è il pregiudizio e il fanatismo, fosse pure il fanatismo della giustizia. Roma: morto di polmonite a Rebibbia, si riaprono le indagini di Giulio De Santis Corriere della Sera, 21 maggio 2017 Si riapre il caso del detenuto Danilo Orlandi, morto in carcere a 32 anni dopo aver contratto la polmonite. Il funzionario dell’istituto di pena era stato scagionato dal gup "per insussistenza del fatto", ma la Suprema Corte ha accolto il ricorso della procura. L’ex direttore sanitario di Rebibbia, Luciano Aloise, rischia il processo per la morte di un detenuto, Danilo Orlandi, 32 anni, deceduto in carcere il 1 giugno del 2013 dopo essersi ammalato di polmonite. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della procura che aveva impugnato il proscioglimento del medico, deciso dal gup Giulia Proto al termine dell’udienza preliminare. La formula utilizzata dal magistrato era "insussistenza del fatto". Nella stessa udienza il gup aveva anche pronunciato sentenza di assoluzione nei confronti di due medici, Rosaria Bruni e Marco Ciccarelli, per cui il pm aveva chiesto la condanna con il rito abbreviato a sei mesi di reclusione per omicidio colposo. Il difensore: "Opportunità di fare chiarezza" - La sentenza per i camici bianchi è diventata definitiva in quanto il pm non l’ha impugnata, al contrario di quanto fatto per l’ordinanza di proscioglimento. Una scelta sposata dalla Suprema Corte che ha ritenuto valide le ragioni addotte dal pm Mario Ardigo. Gli inquirenti hanno spiegato agli ermellini che è necessario processare il funzionario del carcere perché, quando Orlandi si ammalò, l’allora direttore sanitario non avrebbe disposto i controlli indispensabili a curare il detenuto durante la degenza: tesi ritenuta fondata dalla Cassazione. Ora il fascicolo torna al pm. L’uomo stava finendo di scontare una condanna definitiva a sei mesi di carcere per resistenza a pubblico ufficiale e ormai mancavano poche settimane al termine della detenzione. "Siamo soddisfatti di aver ottenuto una seconda opportunità per chiarire cosa è accaduto in quei terribili giorni - dice l’avvocato Stefano Maccioni che assiste la famiglia Orlandi come parte civile -. Il provvedimento degli ermellini è a favore dell’accertamento della verità". "Visite saltuarie" - Era la fine di maggio del 2013 quando il detenuto cominciò ad avvertire i sintomi dell’influenza: febbre alta, pallore, tachicardia. Malanni che avrebbero dovuto essere letti con maggiore attenzione, secondo l’accusa, perché avrebbero chiarito come Orlandi aveva contratto una polmonite. Tuttavia - sempre secondo Ardigò - l’indagato si limitò a organizzare visite saltuarie senza prescrivere esami approfonditi che avrebbero potuto svelare la gravità delle condizioni di salute del paziente. Orlandi, infatti, fu visitato sporadicamente attraverso colloqui durante l’ultima settimana in cui si trovava in isolamento per problemi disciplinari. Uno stato di emarginazione che, di fatto, impedì ai sanitari di accorgersi di quanto stava accadendo. Orlandi fu trovato morto la mattina de 1 giugno nella sua cella. Firenze: Sollicciano al Papa "facci sognare" di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 21 maggio 2017 Due lettere: dai detenuti e dal direttore: "Santità, dopo Barbiana venga anche da noi". I detenuti di Sollicciano scrivono a Papa Francesco: "Santità, dopo la visita a Barbiana, indirizzi i suoi passi anche verso il nostro carcere. Venga tra noi e ci benedica". Un invito esplicito e pieno di speranza, firmato da oltre 500 reclusi e dal cappellano don Vincenzo Russo, per chiedere al Pontefice di visitare il penitenziario il prossimo 20 giugno, quando Bergoglio sarà in Mugello per pregare sulla tomba di don Milani. "Venga tra noi", chiedono i reclusi nella lettera spedita giovedì alla segreteria del Vaticano. E nel frattempo, augurandosi una risposta positiva hanno deciso di praticare un simbolico digiuno di preghiera a staffetta affinché "il Signore guidi i passi del Pontefice fino a noi". La lettera è nata all’indomani dell’annuncio del viaggio del Papa in Mugello. "Il primo impulso sarebbe stato quello di volerla accompagnare, ma non è possibile per noi". Poi l’invito: "Non trasformi questa visita in una visita museale, dopo Barbiana venga nel nostro carcere, il luogo dell’emarginazione più dura. Abbiamo bisogno di comprensione, di sostegno, di stimoli per superare gli ostacoli. Abbiamo bisogno di presenze come la Sua, perché sa regalare emozioni e speranze anche a distanza, ma dal vivo sarebbe tutta un’altra storia". È stato don Vincenzo Russo a raccogliere il sogno degli oltre 500 detenuti: "Queste persone si sentono dimenticate da tutti - ha spiegato il sacerdote - Vedono soltanto in Francesco qualcuno capace di considerarli umani. E quando hanno saputo del viaggio a Barbiana, il desiderio è nato spontaneo". Un sogno che, secondo don Russo, sarebbe tecnicamente possibile: "Potremmo mettere a disposizione il campo di calcio del penitenziario per l’atterraggio dell’elicottero del Papa. Con un po’ di buona volontà, il sogno potrebbe diventare realtà". Anche la direzione di Sollicciano ha rilanciato l’invito dei detenuti, facendo seguire alla loro lettera una seconda missiva firmata dal direttore Carlo Berdini, secondo cui la visita del Pontefice potrebbe essere di buon auspicio anche per i tanti agenti penitenziari. Più volte, tra le righe accorate della lettera, i detenuti sottolineano i disagi vissuti: "Il carcere di Sollicciano è un centro d’accoglienza per quegli scarti sociali tanto cari a Lei, Santità. Vivere qua dentro è davvero duro e pesante, rari sono i momenti in cui è possibile alzare lo sguardo e sentirsi cittadini, persone con dignità e diritti, momenti che potrebbe invece regalarci una Sua visita". Secondo i detenuti e don Russo, "il modo migliore per ricordare don Milani - come scritto nella lettera - è nella capacità di trovare connessioni tra la sua storia e il presente, nel far rivivere la sua scuola di vita anche fra noi, i più poveri, gli emarginati di oggi, i dimenticati da tutti ma non da Lei. Desideriamo che Lei, Santità, ci sia maestro di vita, di cuore, di speranza anche solo per un breve momento". L’invito è lanciato. Torino: "Oltre il confine delle sbarre", il teatro in carcere al Salone del Libro di Giorgia Gariboldi futura.news, 21 maggio 2017 "Il teatro ha il potere di andare oltre il pregiudizio e lo stereotipo, di ridare dignità a persone a cui il carcere impedisce di rimettersi in gioco e di rivedere una parte di sé". Sono le parole di Grazia Isoardi, regista dell’associazione "Voci Erranti", che dal 2002 dirige il laboratorio teatrale del carcere di Saluzzo. Il confine, tema scelto per la trentesima edizione del Salone del Libro, è anche quello delle sbarre, simbolo di reclusione e allontanamento dalla società. "Il carcere italiano non è adeguato all’articolo 27 della Costituzione" lamenta Bruno Mellano, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte. Troppo spesso i principi di umanità della pena e rieducazione del condannato vengono ignorati. Una situazione che nel 2009 ha portato l’Italia a essere condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione del "divieto di trattamenti inumani e degradanti". "C’è l’esigenza di una esecuzione penale e una carcerazione diverse" dice Mellano. Una questione complessa, che i laboratori teatrali non hanno la pretesa di risolvere ma quantomeno di affrontare. "Il teatro", spiega,"è il bandolo di una matassa intricata e certe volte drammatica: la questione dei suicidi in carcere è nota, tra i detenuti ma anche tra gli agenti della Polizia Penitenziaria, il Corpo di Stato con la più alta percentuale di suicidi". Dalla prima esperienza di detenuti-attori, il 5 luglio 1982, con uno spettacolo nato a Rebibbia, i laboratori teatrali in carcere si sono moltiplicati. Oggi sono oltre cento le compagnie che lavorano nei 191 istituti penitenziari italiani e che operano per trasformare iniziative accolte dalle amministrazioni carcerarie come passatempo in strumento di recupero. "Chi fa teatro in carcere torna a delinquere molto più difficilmente" osserva Valeria Ottolenghi, membro del Coordinamento nazionale Teatro e carcere, "gli spazi e i tempi speciali di questo luogo si traducono in esiti altrettanto speciali. E sempre più di qualità". Il regista Mimmo Sorrentino ha portato le detenute in regime di alta sicurezza della Casa di reclusione di Vigevano sul palco del Teatro Stabile di Torino con lo spettacolo "L’infanzia dell’alta sicurezza". "Quelli del carcere non sono teatri stabili, sono instabilissimi" ironizza. Le difficoltà infatti ci sono, come nota anche Grazia Isoardi: "Si tratta di attivare un laboratorio teatrale in una struttura dove anche l’architettura è punitiva, i tempi sono fermi, le persone cambiano per i trasferimenti e il personale non vede di buon occhio il progetto". I laboratori teatrali in carcere vanno nella direzione delle misure alternative, favorendo il reinserimento sociale del detenuto. "Non solo attori" precisa Isoardi "ci sono tante maestranze. Persone che imparano un mestiere spendibile all’esterno". Il teatro dunque può aiutare a superare il confine tra esterno e interno, ricordando che "parlare di carcere è parlare di società, non di qualcosa di estraneo", puntualizza il direttore della Casa di Reclusione di Saluzzo, Giorgio Leggieri. Un lavoro di innesto tra fuori e dentro di cui tutti beneficiano. In primo luogo i detenuti. Alle donne di Vigevano impegnate al Teatro Stabile, il magistrato di sorveglianza ha concesso un permesso di "necessità con scorta". Una decisione significativa, che definisce la cultura necessaria e rimuove gli ostacoli a tale necessità. Poi il teatro, che in questo modo smette di essere autoreferenziale per "abitare la città". Ma anche, e soprattutto, l’intera società. "In quanto cittadini" conclude Grazia Isoardi "dobbiamo tenere presente che c’è un dopo, che la pena finisce e i detenuti escono dal carcere. Pensare al come farli uscire è fondamentale: una persona privata della sua dignità sarà più arrabbiata di prima". Napoli: "L’uomo e il legno", il lavoro come riscatto sociale di Alessandra Certomà unimondo.org, 21 maggio 2017 La cooperativa sociale "L’uomo e il legno" nasce a Napoli nel 1995 - nel quartiere di Scampia- e opera da vent’anni in tutto il comprensorio napoletano. Oggi ha aperto altre sedi, ed è attiva grazie alla collaborazione con circa 40 enti, tra Napoli e provincia, fino a Benevento e Avellino. Il diritto alla dignità per tutti, l’inserimento lavorativo e sociale e l’inclusione di persone svantaggiate sono gli obiettivi fondamentali della cooperativa. Nello specifico "L’uomo e il legno" si impegna in percorsi concreti di recupero professionale e sociale a favore di ex tossicodipendenti, detenuti, e non solo. La cooperativa sociale "L’uomo e il legno" dimostra che con impegno e dedizione, anche in zone difficili, si possono attivare esperienze significative di riscatto e di lotta sociale. "Abbiamo fortemente creduto nella possibilità che tutti siano in possesso delle risorse per superare momenti di particolare difficoltà attraverso l’inserimento in un contesto professionale e attento alla persona", si legge dal sito della cooperativa. Oggi la Cooperativa ha allargato i suoi interessi iniziali: allo studio di nuove tecniche di lavorazione del legno e al restauro e alla conservazione di oggetti d’arte, affianca programmi educativi per minori; fornisce percorsi di recupero per giovani a rischio; lavora con i migranti e i diversamente abili così da favorire una maggiore sensibilità culturale nel territorio. La coop. è particolarmente attiva nel mondo scolastico. Organizza, infatti, vari corsi di formazione e qualificazione professionale e la Regione Campania l’ha riconosciuta come Ente di Formazione accreditato. Il progetto TrasformAzioni rientra in questo ambito: sedie, banchi abbandonati e arredi scolastici danneggiati sono recuperati e donati agli istituti scolastici che ne hanno bisogno. Banca Etica ha dato un importante sostegno alle attività della cooperativa: "una banca non al servizio del denaro, ma che contribuisce ad aiutare gli ultimi", chiarisce il presidente della coop. Vincenzo Vanacore. La storia che lega la cooperativa a Banca Etica risale al 2000, anno in cui è diventata cliente, ed è proseguita nel 2007 quando è entrata a far parte del circuito dei soci. "L’uomo e il legno ha da subito trovato in Banca Etica un partner con il quale condividere principi come trasparenza, partecipazione, equità e soprattutto attenzione alle conseguenze non economiche delle azioni economiche", continua il presidente. La Banca ha immediatamente riconosciuto il valore delle iniziative proposte dalla cooperativa incoraggiandone lo sviluppo, "al di là delle garanzie materiali, Banca Etica ci ha sempre ascoltato e ha creduto nei nostri progetti di sviluppo territoriale". Da qui l’adesione della cooperativa al network di Banca Etica "Soci In rete" con varie proposte commerciali e prodotti realizzati nell’ambito dei suoi progetti: "grazie al portale abbiamo potuto diffondere una parte dei prodotti della falegnameria, ceramica e liuteria artigianale". Ultima in ordine di tempo è poi l’iniziativa campoAperto, un’impresa agricola sorta all’interno del carcere di Secondigliano che dà un lavoro regolarmente retribuito ai detenuti e si occupa della produzione e distribuzione di prodotti campani. Ancora una volta Banca Etica è andata in aiuto alla cooperativa, grazie alla piattaforma dei soci di Banca Etica su Produzioni dal basso è possibile sostenere, infatti, in un’ottica di reward crowdfunding il progetto grazie a donazioni volontarie e libere. Napoli: bambini alla prova del carcere, conferenza internazionale al Maschio Angioino di Gigi Rubino ed Elio Guerriero 2duerighe.com, 21 maggio 2017 Centomila in Italia, 800 mila in Europa. Sono le cifre impressionanti dei bambini senza sbarre, condannati senza crimine, figli di genitori detenuti, che sono costretti a vivere uno spaccato della loro vita in carcere. Di questo increscioso dramma sociale se ne parlato in una Conferenza internazionale dal titolo: " Figli di genitori detenuti" che si è tenuta nella Sala Baroni del Maschio Angioino, a Napoli. All’incontro hanno partecipato il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, Elena Coccia, presidente Osservatorio permanente Centro storico di Napoli Sito Unesco, Lucy Gampell, presidente Children of Prisoners Europe (Cope), Antonio Tajani, presidente del Parlamento Europeo, Andrea Orlando, Ministro della Giustizia, esponenti di vari Tribunali nel mondo, le direzioni dei carceri di Opera - (Milano), e Secondigliano (Napoli), Lia Sacerdote, analista e filosofa, presidente dell’Associazione "Bambini senza sbarre Onlus" Gabriele Frasca, scrittore, poeta filosofo napoletano e il cantautore Maldestro, ospite dell’evento, insieme ad altre autorità. L’impatto del bambino nel luogo carcere è potenzialmente drammatico. Il fanciullo, costretto a seguire il papà o la mamma in carcere perde subito i suoi diritti. Paura, solitudine, presto lo colpiscono di fronte ad un luogo ibrido e sconosciuto come il carcere, in cui la vita non è vita. Ecco quindi che il bambino è costretto a cambiare sistemi di vita, che non corrispondono alle sue esigenze. Importante quindi non abbandonarlo, stargli vicino, capire realmente la sua esigenza e non negargli il diritto di "essere davvero bambino". Nella conferenza, si sono discussi vari punti del problema. Prima tra tutti i sistemi migliori e di supporto per i ragazzi che hanno genitori dietro le sbarre a 360 gradi, non dimenticando i lori diritti e la loro crescita psicoaffettiva che incide sulla responsabilizzazione dei genitori e quindi sulla riduzione della recidiva, della criminalità inter-generazionale e sui costi sociali. Il bambino per poter vivere al meglio la propria esistenza - è stato detto in conferenza - ha bisogno di un luogo non solo stabile, ma anche bello, dove il bello non è un luogo ridonante, ma un luogo curato. Fondamentali per lui diventano anche l’accoglienza, l’accettazione, l’orientamento e il ricordo dei luoghi, dove si ricostruiscono le scene. L’impatto del bambino verso le proprie cose non deve avvenire certamente in modo drammatico, ma ha bisogno di strumenti di relazione validi integrati all’interno del carcere, poco distante dai loro genitori, per fare il modo che questi, quando vada via dal carcere, lasci il segno con la sua fantasia. Roma: domani il convegno "Garantire la giustizia", corretta e giusta integrazione per la sicurezza mm-com.it, 21 maggio 2017 Lunedì 22 maggio, presso la Sala G. Mechelli del Consiglio Regionale del Lazio, si svolgerà l’incontro "Garantire la giustizia", corretta e giusta integrazione per la sicurezza. Il convegno è stato organizzato dal Forum Nazionale dei Giovani in collaborazione con l’associazione Gruppo Idee. I lavori inizieranno alle 15 e termineranno alle 19 con l’obiettivo di favorire l’acquisizione di un sistema detentivo più inclusivo. Verrà proposto un impianto riabilitativo per i detenuti che dia la reale possibilità di reintegrarsi nella società e di affrontarla. Nel convegno si esporrà la necessità di adottare una formula di riabilitazione che non punti alla formazione del detenuto modello, ma a quella di un cittadino modello. L’incontro comincerà con gli interventi di Giuseppe E. Cangemi (Presidente della Commissione di Vigilanza sul Pluralismo dell’Informazione Regione Lazio), Massimiliano Smeriglio (Vice Presidente della Giunta Regione Lazio), Flavia Cerquoni (Coordinatrice "Gruppo carceri" del Forum Nazionale dei Giovani), Marta Bonafoni (membro della Commissione regionale per il controllo sulla Criminalità organizzata e le infiltrazioni mafiose), Giancarlo Righini (Capogruppo regionale Fratelli d’Italia), Luigi Iorio (Legislativo Forum Nazionale dei Giovani), Zarina Chiarenza (Presidente Gruppo Idee), Rosella Santoro (Direttrice della Casa Circondariale di Rebibbia), Fabio Pierangeli (Professore della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università Tor Vergata di Roma), Silvana Sergi (Direttrice della Casa Circondariale di Regina Coeli), Emilio Minunzio (Vice Presidente nazionale ASI), Katia Anedda (Presidente onlus "Prigionieri del silenzio"). Alle 16.30 avrà luogo il dibattito coordinato dal Dott. Bruno Vespa in cui interverrà tra gli altri Cosimo Maria Ferri, Sottosegretario di Stato alla Giustizia. Insieme a lui Santi Consolo (Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), Laura Alessandrelli (Magistrato di Sorveglianza di Roma), Stefano Anastasia (Garante dei Detenuti del Lazio), Mario Baccini (Presidente Ente Nazionale per il Microcredito) e Maria Cristina Pisani (Presidente Forum Nazionale dei Giovani). Milano: oltre le mura, poesie dal carcere di Roberta Pasetti vulcanostatale.it, 21 maggio 2017 A distanza di una settimana dall’incontro tenutosi in occasione del Festival Internazionale della Poesia al Mudec, si terrà questa sera la Poetry Slam di "Poesie in carcere", "una sfida all’ultimo verso, un duello all’arma della poesia, una competizione letteraria democratica con il trionfo del voto popolare". L’iniziativa è organizzata dal Laboratorio di lettura e scrittura creativa del carcere di Opera, che si prodiga da oltre 20 anni per ricordare alle persone detenute - i volontari, durante il festival, hanno insistito su questa definizione - che la dimensione umana permane anche in assenza della libertà, per far scoprir loro che la bellezza può essere trovata ovunque. Con l’incontro di sabato 13 i volontari del laboratorio hanno portato oltre le mura del carcere la voce delle persone recluse e, leggendo le loro poesie al pubblico, si sono fatti mediatori di sentimenti che nessuno può conoscere meglio. Le poesie hanno un’alta qualità artistica ed un’efficacia sorprendente: sebbene ne siano state lette molte il pubblico continuava ad essere avido di nuovi versi e mai stanco di scoprire quella realtà. Successivamente è intervenuto anche un ex detenuto, che aveva partecipato in prima persona all’iniziativa volontaria. Del suo discorso colpiva, innanzitutto, l’esattezza del lessico, la lucidità del ragionamento grazie al quale è riuscito a trasmettere ogni sua idea ed ogni sentimento: proprio questo intervento ha permesso di capire appieno l’enorme utilità del laboratorio, che va oltre l’incentivazione alla creatività. Il lavoro dei volontari riesce, infatti, dove le istituzioni non arrivano: attraverso la cultura e l’arte vengono riabilitati non solo gli individui, ma le loro capacità assopite. È stato fatto notare che, ben prima dell’esperienza del carcere, queste persone avevano perso la speranza e l’amore di sé, sentendosi abbandonati dalla comunità. Molti di loro, come sottolineato dai volontari, entrano in carcere senza una cultura decente, vittime di una situazione difficile e troppo spesso ignorata, nascosta. La stessa situazione di disagio è stata accusata dall’ospite, che l’ha vissuta in prima persona, ma lui stesso si fa testimone anche del percorso incentivato dal laboratorio: un percorso di crescita intellettuale che ha permesso il reinserimento nella società. Il laboratorio non è terapeutico solo per coloro che usciranno dal carcere, ma anche per chi dovrà scontare l’ergastolo. A questo proposito è stata letta la poesia di un ergastolano: si comprende così come l’iniziativa dei volontari possa permettere, anche a chi sa che non uscirà dalle mura del carcere, di trovare un mondo interiore ed equilibrato, ove rifugiarsi per sopportare la reclusione e, da questa riflessione, creare arte. L’educazione artistico-letteraria, il supporto umano donato alle persone detenute, lo scambio di esperienze e la disponibilità a comprendersi vicendevolmente fa del Laboratorio di lettura e scrittura creativa uno strumento per offrire una visione di un angolo di mondo, qual è il carcere, a chi non ne ha idea; per reinserire le persone detenute nella società civile - talvolta anche solo grazie ai loro versi e pensieri pubblicati nelle antologie - e per avvicinarli ad una più profonda e personale concezione di giustizia, vicina alla ?a???a?a??a greca: la concezione del bene connessa all’azione dell’uomo con cui si sostiene che vi sia una complementarità tra "bello" e "buono": ciò che è bello non può non essere buono e ciò che è buono è necessariamente bello. In 100 mila alla parata per i migranti. Un mondo è già qui di Luca Fazio Il Manifesto, 21 maggio 2017 Insieme senza muri. Con la giornata per l’accoglienza, fortemente voluta dall’assessore Piefrancesco Majorino, e sostenuta dal sindaco Beppe Sala, si materializza il corteo antirazzista più imponente che ci sia mai stato in Italia. Un successo clamoroso che ha dato voce a chi con diverse sfumature chiede a questo governo politiche immigratorie inclusive e non discriminatorie come la legge Minniti-Orlando. Siamo contenti? Contentissimi. Ma consapevoli. Che non ci si può godere in eterno un pomeriggio come questo trascorso in una delle piazze più accoglienti d’Europa. Torneremo nella dura realtà, ma domani. Oggi siamo stati travolti, organizzatori compresi, da una delle più grandi manifestazioni degli ultimi anni. La parata per l’accoglienza è sfuggita di mano, a tutti. Meno male. Passerà alla storia come il corteo antirazzista più imponente che ci sia mai stato in Italia, anche perché si è materializzato come per incanto in uno dei momenti peggiori della storia recente. I numeri contano: sono circa100 mila persone, vere. Chilometri di storie diverse, unite da uno stesso sentimento, magari confuso ma sincero. Milano-Barcellona 1-1. E così Milano - e speriamo che davvero sia sempre in anticipo sui tempi - da ieri potrebbe cominciare a raccontarsi come una città "top player" dell’accoglienza. Direbbe così il sindaco manager Beppe Sala, uno dei protagonisti assoluti di questo 20 maggio che somiglia a un 25 aprile di quelli meglio riusciti. Sembra l’unico politico, lui che politico non è, consapevole che - sommessamente - "il tema dell’immigrazione riguarderà le nostre vite per i prossimi decenni e io voglio essere un costruttore di ponti non di muri". E ancora: "Di fronte al tema epocale delle migrazioni non si può girarsi dall’altra parte, vi prometto che non lo farò. Lavoro ogni giorno per costruire una grande Milano, ma questo non avrebbe senso se si perdesse l’anima solidaristica della città, io cercherò di fare Milano grande ma senza dimenticare la solidarietà". Vedremo nei fatti se saprà onorare questo suo indiscutibile successo. Anche il presidente del Senato, Pietro Grasso - "chi nasce e studia qui è italiano" - si è lasciato andare sul palco in piazza del Cannone che fino a sera ha raccolto i pensieri di chi ha voluto testimoniare la propria presenza (con Radio Popolare che trasmetteva il tutto facendo gli onori di casa). Emma Bonino ha guardato avanti: "Milano oggi esprime quello che sarà il futuro del paese, piaccia o non piaccia". Il 20 maggio è anche una liberazione per tutti. Da un incubo che per anni ha paralizzato e continua a demoralizzare la parte migliore della società: è la paura di dichiararsi e fare politica definendosi antirazzisti, anche alzando la voce. Invece, forse, si può fare anche se per essere convincenti bisognerà lavorare duro, aggiornarsi e sporcarsi le mani. Compitino per la sinistra: erano tutti a Milano i leader del nuovo frastagliato corso (Mdp compreso). La voce per esempio l’ha alzata l’assessore Piefrancesco Majorino (giù il cappello, please) quando ha urlato contro Matteo Salvini e le sue "infamie" dette per insultare le persone che hanno raccolto il suo invito ad esserci, ognuno con la sua specificità e non senza qualche asprezza dichiarata. Sono schegge di un vortice impossibile da mettere a fuoco con un’occhiata. Lasciamo perdere il "variopinto" ed il "colore". La musica, ça va sans dire, ma non basta per dare l’idea. Ecco: il vero motivo per cui è andata alla grande è la presenza dei cittadini stranieri, mai visti così tanti tutti insieme. Non erano invitati, sono protagonisti a casa loro. Un mondo è già qui. Speriamo che un documentarista abbia raccontato la complessità delle moltitudini che si sono palesate con le loro storie drammatiche o già risolte, in t-shirt pettoruta o in costume tradizionale come all’apertura delle Olimpiadi. C’erano tutti. Ucraini, cinesi (nella loro compostezza marziale), cingalesi, salvadoregni, messicani, senegalesi, e profughi, persone non illegali che stanno aspettando di sapere se l’Italia vorrà farne dei cittadini o nuovi prigionieri da rispedire da qualche parte. Forse a morire. Tanto per tornare sul tema dell’accoglienza, che dopo una giornata come questa sarebbe bene non declinare in maniera approssimativa per lavarsi la coscienza senza tenere conto che le leggi approvate dal governo fanno carta straccia proprio di tutto quanto è stato detto ieri a Milano. Nuove prigioni, legislazione su base razziale, espulsioni di massa e respingimenti in Libia concordati con milizie da addestrare. Chiedono altro i centomila. La contrarietà alla legge Minniti-Orlando è stata espressa in forme diverse lungo chilometri di percorso. Con cartelli, sventolando lembi di coperte termiche oro e argento, quelle che avvolgono i corpi dei migranti sopravvissuti. Guardarsi attorno e cogliere questo comune sentire non significa voler semplificare il dato politico. Il nodo rimane quello. Ognuno lo ha ribadito a modo suo. Tutte le associazioni cattoliche la pensano così e hanno dato prova di una grande capacità di mobilitazione (un leader credibile loro ce l’hanno). Tutte le associazioni laiche che si occupano di immigrazione hanno voluto esserci e potrebbero tenere seminari sui danni che provocherà la legge del Pd. I ragazzi dei centri sociali, quelli della piattaforma "Nessuna persona è illegale", lo hanno urlato in faccia ai pochi esponenti del partito che ieri hanno preso coraggio e si sono rintanati nel primo spezzone del corteo. Chi con la guardia del corpo e chi un po’ meno al sicuro protetto da una gabbietta comica costruita dai City Angel per attutire le contestazioni. Sono stati presi a male parole ma niente di che, l’unico striscione del Pd che ha preso aria era un simpatico fake che ha guastato il colpo d’occhio alle prime file ingessate: "Pd, peggior destra" (niente di eversivo, solo centri sociali che citano Saviano…). A proposito, sinceri applausi all’assessore extraterrestre del Pd Pierfrancesco Majorino. Ci ha creduto fin dall’inizio. Adesso? È già ora di rimettere i piedi per terra. Ieri sono sbarcati 358 migranti a Trapani, 560 a Vibo Marina e 734 ad Augusta. Business dei migranti, la denuncia: "Chi ha coperto Mr Misericordia?" di Giovanni Tizian L’Espresso, 21 maggio 2017 Enza Bruno Bossio è la deputata del Pd che da anni segnala le irregolarità nella gestione del centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto. Ma ha sempre trovato un muro di silenzio davanti a lei. "Ora si indaghi sulle complicità", dice a L’Espresso, che domenica pubblicherà un’inchiesta su Leonardo Sacco e i suoi rapporti politico-istituzionali. Enza Bruno Bossio è la deputata del partito democratico che aveva intuito quanto fosse marcio il sistema Misericordia gestito da Leonardo Sacco, il ras dell’accoglienza che per dieci anni ha gestito il centro di accoglienza per migranti a Isola Capo Rizzuto, secondo per capienza solo a quello di Mineo, in Sicilia. Un sistema che a partire dal 2007 ha portato nelle casse di Sacco & Co oltre 100 milioni di euro. Lunedì scorso, però, Mr Misericordia è stato arrestato dai carabinieri del Ros con l’accusa di associazione mafiosa. È, sostengono gli inquirenti dell’antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri, l’imprenditore attraverso cui la cosca Arena di Isola Capo Rizzuto ha messo le mani sul business del secolo. Su Sacco, tuttavia, esistevano già da tempo sospetti di contiguità con la ‘ndrangheta, ma questo non gli ha impedito di continuare a prendere gli appalti e di ricevere in regime di emergenza la gestione del centro, anzi dei centri, perché a partire dal 2014 il suo gruppo della Misericordia di Isola è entrato nel centro di Lampedusa, una vetrina internazionale. Come è stato possibile? Chi lo ha coperto? Bruno Bossio, la parlamentare del Pd che siede anche in Commissione antimafia, conosce molto bene la sua terra di origine, la Calabria, e per questo sa leggere più di altri certe dinamiche che avvengono in quel territorio. Dopo le prime interrogazioni parlamentari presentate è diventata il bersaglio di Mr Misericordia, tanto da guadagnarsi una querela per diffamazione dopo averlo definito il "Buzzi dè noantri". Era il 2015, e la deputata non sbagliava a sospettare di quell’imprenditore diventato ricchissimo con l’accoglienza. Ora insieme al suo collega Ernesto Magorno, anche lui membro della commissione antimafia, ha chiesto alla presidente Rosy Bindi di proseguire nell’indagine sul sistema Misericordia messo in piedi da Sacco e dal parroco, anche lui finito in manette, fondatore della sezione locale di Isola Capo Rizzuto. Un lavoro d’inchiesta quello sulla gestione del Cara avviato già da Rosi Bindi nel corso delle missioni in Calabria della commissione, e che ora proseguirà con maggiore intensità. "È necessario capire una volta per tutte ciò che non ha funzionato nei livelli di controllo", spiega Bruno Bossio a L’Espresso. "Anche quando era stato pubblicato l’ultimo bando, avevo fatto notare che sarebbe stato un errore perseverare con la Misericordia, sulla quale c’erano già forti sospetti di vicinanza alla ‘ndrangheta" aggiunge. Ma nessuno diede ascolto alla parlamentare calabrese, anzi. "Dopo una mia interrogazione nel 2015, la Misericordia nazionale, che ha sede a Firenze, si allarmò tantissimo tanto da chiedere informazioni su di me. Mi sentivo isolata". Enza Bruno Bossio, poi, aggiunge, un particolare: "Come commissione antimafia riuscimmo a ottenere un documento in cui emergeva la vicinanza di Sacco al clan, ma il prefetto di Crotone ci rispose che a loro non risultava. Lo stesso Morcone, alla mia domanda sul catering gestito da una società legata alla cosca, mi rispose riproponendo il documento della prefettura in cui si attestava che non c’erano opacità sulle aziende, poi, invece, coinvolte nella retata di lunedì scorso". Perché la prefettura non ha colto i segnali di cui parla Bruno Bossio? "Sarà nostro compito verificarlo, oltre che della magistratura. Ma sarà utile capire anche come mai la Misericordia nazionale ha permesso tutto ciò, non può tirarsi fuori dalla vicenda giustificando il fatto che è solo una questione locale, perché grazie a Sacco hanno vinto a Lampedusa e incassato una parte di soldi". In effetti, Bruno Bossio non sbaglia a sottolineare il guadagno della confraternita nazionale. È lo stesso presidente Roberto Trucchi a spiegare il meccanismo ai pm: "Sulle somme pervenute dalla Prefettura di Crotone, la Confederazione Nazionale tratteneva il 5 per cento, che veniva ulteriormente ripartito alla territoriale Federazione Regionale e Provinciale. Quindi la Confederazione Nazionale tratteneva il 2 per cento, la regionale (Calabria), di cui il presidente è Leonardo Sacco, il 2 per cento, e il coordinamento zonale (Crotone), di cui è coordinatore don Edoardo Scordio l’1 per cento". E il prefetto Mario Morcone, per molto tempo al vertice dell’Immigrazione del Viminale(oggi capo di gabinetto del ministro dell’Interno Marco Minniti)? "Con lui ho parlato spesso, ma nella sua audizione in commissione era stato molto chiaro: nessuna irregolarità. Ha sempre sostenuto che le decisioni spettano alla prefettura e che non è possibile intervenire sulla autonomia di scelta dei singoli uffici. Fino ad oggi, dunque, si è preferito non vedere, non sentire e non parlare". riflette la deputata, che aggiunge: "L’indagine della Procura di Catanzaro ha, prima di tutto, abbattuto un impenetrabile muro di omertà che per lunghi anni ha consentito al sistema messo in piedi attraverso ‘le Misericordiè di consolidarsi e divenire pervasivo". Insomma, con chiunque parlasse la parlamentare trovava "dei muri". Ecco perché spera che "l’indagine dell’antimafia serva a capire il perché per dieci anni la Misericordia di Sacco ha agito indisturbata". Un vero e proprio sistema. Un sistema perfetto, lo definisce Bruno Bossio: "Composto da una triade, fatta da chiesa, misericordia e mafia, con la copertura di alcuni pezzi delle amministrazioni locali". Per la deputata Sacco ha avuto le coperture giuste, e chiede "ai magistrati di andare fino in fondo". Tuttavia pone un problema più generale: "Penso che il modello dei Cara e dei Cie in sé sia potenzialmente criminogeno, perché genera numeri ingovernabili e volumi d’affari ingestibili. È il modello che genera il business, non l’accoglienza. Il modello alternativo è quello degli Sprar, cioè un accoglienza diffusa sul territorio". Esattamente all’opposto del decreto Minnit da poco approvato, "io, infatti, non l’ho votato". Nell’Astigiano 200 profughi e il paese prepara la rivolta di Lodovico Poletto La Stampa, 21 maggio 2017 A Castello di Annone si insinua la paura tra i 2.000 abitanti. "Convivenza impossibile". Ma i rifugiati: chiediamo solo lavoro. Il signor Sergio Grana, con i suoi 74 anni d’età, può permettersi d’infischiarsene delle polemiche e delle discussioni di paese: "Perché anch’io ho fatto l’emigrante: tre anni in Australia a Sydney a fare il falegname. Poi sono tornato qui perché non potevo starmene lontano dalla mia famiglia". E se cerca analogie con quei 120 ragazzi africani piovuti qualche giorno fa in questo paese, che non ha neanche 2 mila anime, ne potrebbe trovare a decine. Ma non lo fa e preferisce ascoltare le voci - e sono la maggioranza - di chi protesta e ha paura dei ragazzi dell’hub aperto a meno di due chilometri dal centro e che accoglierà - a pieno regime - duecento e rotti migranti in attesa di esser destinati altrove. "Li han messi laggiù alla Polveriera" dicono. "E l’altra sera ce ne saranno stati cinquanta o sessanta sul marciapiedi e sulla strada che venivano in paese. Sono tutti giovani, hanno vestiti firmati e telefonini così grossi che neanche ti stanno in tasca" racconta il Mino che, alle quattro del pomeriggio, al circolo "Amici", discute con la Nadia - la barista - di quella che ormai in paese "è un’emergenza". E del fatto che "la Polveriera" come chiamavano la base logistica dell’Aeronautica - abbandonata da dieci anni nell’ottica della razionalizzazione dei costi - rischia di diventare polveriera di tensioni. E tutto per colpa di una convivenza che, dicono, sarà tutt’altro che facile". Per i sospetti e per le diffidenze. Prendiamo la storia dei furti all’emporio che è a due passi dalla piazza dove troneggiano municipio e la banca di Asti: "In pochi giorni i ladri sono andati già due volte. Tutta questa gente nuova non porterà niente di buono". Intanto va subito detto che gli autori non sono i profughi. "Sono stati degli zingari o dei rom. In un caso li ho visti scappare" tronca ogni polemica Elio Ottaviano, il proprietario. Insomma: i migranti non c’entrano, né i 120 appena arrivati né i 57 che da mesi sono ospiti di una cooperativa. "Quelli sono bravi ragazzi. Ma non fanno nulla se non giocare a calcio o a cricket. Il problema vero è che lo Stato che non offre alternative a queste persone ed è una follia" insiste Ottaviano. Le sue sono più o meno le stesse cose che, in un inglese molto africano, sentenzia Ektor, 29 anni, origini liberiane: "Dove posso trovare un lavoro?" Che vorresti fare Ektor? "Qualunque cosa". Ma tra queste colline illuminate da un sole estivo, non è che i posti di lavoro abbondino. C’è la terra, certo, ci sono le vigne, ci sono i trattori con gli aratri a dieci lame che sfilano sulla statale per Asti. C’è sempre gente che fatica nei campi, ma un lavoro vero non si trova. "Tutto vero, ma se si somma ogni cosa c’è da aver paura: prima o poi qualche guaio salta fuori" sentenzia la Nadia da dietro il bancone del circolo. Insiste: "Le mie amiche mamme hanno paura a mandare in giro le loro figlie la sera. Castello è un posto dove fino a ieri si dormiva con le chiavi infilate nella porta dall’esterno". Su Facebook intanto la polemica divampa: "Mio marito ed io siamo pronti a vendere casa e magazzino e andare via" scrive Laura. "Io sono disposta a dargli un po’ della mia terra perché coltivino un’orto, almeno fanno qualcosa" continua. Su, nelle frazioni più isolate non c’è gran voglia di parlare. Al bar Castello la barista non commenta l’altro avvenimento del giorno: un marocchino ubriaco che dava fastidio ai clienti. Il sindaco Walter Valfrè nei giorni scorsi aveva smorzato sul nascere le polemiche: "Castello d’Annone è un paese che accoglie: le polemiche riguardano poche persone". Non è bastato.Perché la diffidenza è più che una sensazione: "Sono vestiti come dei principi, chi li paga?". "Meglio i senegalesi dei maghrebini o degli iraniani: ne ho visto uno con un ghigno terribile". "C’è da stare attenti". Hiufen la signora che gestisce il caffè di fronte al bar Castello è cinese e vive qui da otto anni: "Paura io? Ma dai, sono bravi ragazzi. È difficile per loro". Sergio Grana annuisce: "Ma io riparto: voglio tornare ancora in Australia. Sono stato anch’io un emigrante. Ah cari miei, è difficile lasciare casa". Alla Triennale i migranti a rischio cosmesi di Gabriele Guercio Il Manifesto, 21 maggio 2017 "La terra inquieta" curata da Massimiliano Gioni e la personale di Christopher Williams. Sulla Siria come sui campi profughi, la mostra di Gioni sembra alimentare la mentalità che vorrebbe denunciare. A contrasto, la personale di Williams favorisce l’esercizio critico della vista a fronte del compulsivo consumo di immagini. Nell’ultima sala de La Terra Inquieta, la mostra curata da Massimiliano Gioni alla Triennale, è visibile Static (2009) di Steve McQueen. Il film riprende la Statua della Libertà al centro della baia di Manhattan. È ingegnoso proiettarlo al termine di un percorso espositivo che evoca i problemi della migrazione e della sconcertante realtà dei profughi. Considerato in seno a La Terra Inquieta, Static invita a riflettere che, dopo il 9/11, gli Usa smettono di fungere da luogo di espatrio e accoglienza. Si incrinano gli ideali liberisti di imprenditorialità e autoaffermazione, libero scambio e profitto, trasferimento e riconversione di energie umane su scala planetaria. Invece della coesistenza di etnie, comunità e culture, il mondo registra ulteriori conflitti, abusi e riviviscenze imperialiste che vedono il risorgente suprematismo bianco opporsi alla diversità islamista. Ma Static fa venire in mente anche altro: la Statua è simbolo di un intendimento della vita umana al quale, benché in declino, ci si è ormai abituati, e che, in mancanza di alternative, ha ancora presa su buona parte dei terrestri. Tanto che potrebbe rispuntare lì dove meno ce lo si aspetta: nelle sale de La Terra Inquieta, dove opere di autori più o meno celebri (da Hatoum, Pinot Gallizio e Schütte a Bouchra Khalili e Hamid Sulaiman) attestano speranze, manchevolezze e crisi associate alla cosiddetta globalizzazione. Quell’intendimento origina ingiustizie e diseguaglianze perché avalla l’accumulazione del capitale, il suo fondarsi tanto sulla produzione quanto sul rendere registrabile e commercializzabile quel che non lo è ancora. Come si pone La Terra Inquieta a riguardo? Nell’esporre la contraddizione irrisolta dei migranti, apre una breccia nelle coscienze o offre un alibi di rispettabilità e correttezza politica a quanti si ritrovano comodamente d’accordo con il messaggio dichiarato della mostra? Difficile rispondere. Si è però stimolati a riflettere sulle dinamiche del vedere ammissibili nell’ambito museale e nell’arte contemporanea. Ai fini dell’esercizio, è utile salire al secondo piano della Triennale, dove è allestita la personale del californiano Christopher Williams, a cura di Pia Bolognesi e Giulio Bursi. Anche qui ci si confronta con i temi della globalizzazione. Non si vedono terre e mari segnati dal passaggio degli esuli, bensì foto di cose, frutti, animali e persone ordinarie. Si evidenziano i mondi della tecnologia e della natura che, con il loro sbilanciamento, destabilizzano il pianeta e i suoi abitanti. A ciascuna foto si accompagna una didascalia che con minuzia descrive i contenuti dell’immagine. Ma questa esaustività non placa, anzi stimola, la curiosità di chi guarda, il quale può ritrovarsi interdetto dal perché mai le insegne luminose di una lavanderia o una coppia di spighe di grano meritino l’attenzione dell’artista. Già dalla prima sala, Williams enuncia la propria vocazione introspettiva: una foto rappresenta il tipo di parete mobile realizzata in un’esibizione precedente, a Bonn, e simile a quella che fronteggia i visitatori a Milano. La nuova parete contiene una fascia rossa anziché verde. C’è un richiamo a Milano dove, secondo Williams, il rosso è "inevitabile": ricorre dalla rivista "Il Politecnico" alle sedie della Triennale. A ribadirlo è Study in Red (2009), esposta nelle immediate vicinanze di un estintore rosso. Mostra un piede inclinato mentre una mano alza (o abbassa) un calzino rosso. Qualità e resa visiva sono tali che l’occhio discerne quel che comunemente rimuove o non sintetizza. Abbandonati gli abituali modi di percezione e cognizione, ci si interroga su quel che in verità si coglie di un altro-da-sé. In analogia con la nozione di sostenibilità ambientale, si può parlare di una "sostenibilità visiva" che Williams promuove per elicitare l’esercizio critico della facoltà della vista che, congiunta al cervello, deve districarsi nell’habitat psicofisico di un pianeta appiattito dal compulsivo commercio di immagini uniformi e spurie. Questo appello all’espansione della consapevolezza visiva collide con il tipo di sguardi sollecitati da La Terra Inquieta. È interessante confrontare tra loro le due mostre, tenendo conto che la personale riflette la poetica di un artista laddove nella collettiva l’insieme approntato dal curatore è più rilevante delle singole opere, suggestive o meno che siano. Mentre le foto di Williams forzano a riconoscere la complessità dei mondi in cui si vive, la collettiva di Gioni sembra concepita per facilitare il compito del pubblico. Non solo tratta un tema di grande risonanza - la questione dei migranti è da tempo all’ordine del giorno dei media di ogni tipo -, ma è composta così da ricordare costantemente ai visitatori perché sono lì. Una mappa di Boetti: buonumore Sala dopo sala, una carrellata di immagini evoca una gamma di situazioni pressanti quali il conflitto in Siria, lo stato di emergenza di Lampedusa, la vita nei campi profughi, la figura del nomade e dell’apolide. L’allestimento di per sé genera significati e stati d’animo: dalle luci alla distribuzione delle opere lungo le pareti, nelle stanze o in sale di proiezione, esso concorre a ribadire il contenuto manifesto (speranze, ansia etc.). Ma il tutto talvolta si sfalda e, come in un lapsus, lascia trapelare un impulso cosmetico. Per esempio, una stanza al pianterreno offre una orchestrazione di disegno, scultura, video, foto, stampe, dove l’effetto estetico si direbbe sovravanzi il significato. E ancora: chi entra al secondo piano incontra una coloratissima mappa di Boetti che pare messa lì a suscitare il buon umore. E il maquillage sfiora il ludico nella sala seguente, luminosissima, dove luccicano biglie di vetro e superfici dorate e lo stesso barcone pare un coup de théâtre. Entrambe le mostre vorrebbero dar conto dell’irrappresentabile. Williams esorta a smascherare mediazioni e camuffamenti: niente è scontato. La Terra Inquieta condensa il dramma e il packaging; l’innegabilità di un mondo lacerato e l’impeccabilità dell’allestimento. Non è chiaro se ridefinisca lo stato delle cose o lo perpetui esibendo un compendio di immagini e racconti che, anziché sfuggire al consumo e alla facile fruizione, si aggiunge al già noto. Naturalmente, La Terra Inquieta ipotizza che l’arte rappresenti i migranti senza assoggettarli alla spettacolarizzazione e al giornalismo sensazionalistico. Ma l’ipotesi forse eccede in buona fede. Nel Novecento cadono i distinguo tra oggetti artistici e ordinari, arte e denaro, realtà e finzione. Si ignora da decenni che cosa legittimi la pratica artistica (cultura? gusto? industria del lusso?). Sarebbe perciò fuorviante supporre un’indipendenza dell’arte che audacemente propugna il progetto di una Terra in comune. E poi si è certi del potere delle immagini dell’arte? Non sono piuttosto irriducibili o mancanti rispetto ai referenti che pur evocano? Riesce l’arte a dire la verità fuori da quel regime di saperi, creatività e intrattenimento che è il mercato e dentro il quale essa è oggetto e strumento? Sono alcuni dubbi sollevati da Williams. Attenuandoli, la collettiva di Gioni può inavvertitamente compiacere il narcisismo di quei visitatori vogliosi di stare al posto giusto, schierati con gli oppressi assieme all’arte. Il comfort e il marketing Inquieta, insomma, che una mostra i cui intenti dichiarati sono altri possa dispensare comfort e alimentare la mentalità che vorrebbe denunciare. Purtroppo non è detto che l’arte unisca al di là delle fratture del mondo. La condivisione è per lo più precaria, causata dalle mura protettive di musei e gallerie nonché dalla indole disciplinata degli habitué di quei luoghi. La Terra Inquieta rischia di trasformare in ulteriore oggetto di voyeurismo, pubblicità e profitto una complessità umana e artistica resistente alle agevoli dicotomie di buoni e cattivi, vittime e colpevoli. Si finirebbe col rafforzare non solo l’ideologia del marketing, della quale i migranti sono fra i tanti effetti, ma quel principio di realtà condivisa di cui si serve il potere per creare assuefazione e sudditanza. Talvolta, l’arte (moderna e non) prova a squarciare il velo di questa illusione totalizzante, ma raramente l’impresa riesce. Quando avviene lo si chiarisce meglio in seguito, o giudicando un’opera nella sua autosufficienza. Non è escluso quindi che qualcosa di simile si verifichi per alcuni dei lavori ospiti de La Terra Inquieta. A quel punto, fuori da contesti frastornanti ed estetizzanti, i loro valori nuovi appariranno irrevocabili. Gay sì, ma non in casa mia: la piaga dell’omofobia in Italia e nel mondo di Giulia Torlone L’Espresso, 21 maggio 2017 L’immagine di un mondo frammentato, con un’Italia ancora intollerante verso la comunità Lgbti e all’oscuro dei propri diritti in tema di discriminazioni. È quanto emerge dal nuovo rapporto di Ilga, l’associazione internazionale che riunisce più di quattrocento gruppi queer in tutto il mondo. Se i tuoi vicini di casa fossero omosessuali? E se tua figlia s’innamorasse della sua migliore amica? A che punto siamo, in Europa e nel mondo, nell’accettazione dell’amore e del desiderio tra persone dello stesso sesso? Il rapporto svolto da Ilga (The International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association), Riwi e Logo ci mostra un campione significativo di come le società dei cinque continenti si rapportano al mondo Lgbti. La lotta all’omofobia non si combatte solo a colpi di leggi dello Stato; la percezione e il conseguente atteggiamento che si ha nei confronti della minoranza arcobaleno è una questione culturale e di educazione alla diversità. E sul tema delle discriminazione in base all’orientamento sessuale, l’immagine che l’ILGA ci restituisce non è delle migliori. Africa e Asia sono ancora lontane dall’accettazione di pari diritti e dignità dei cittadini omosessuali e l’Europa si presenta a più velocità, con l’Est ancora ancorato su posizioni omofobe e l’Italia che fatica a mettersi al passo con la media europea. Il sondaggio ha visto protagoniste 96.331 persone intervistate in 54 Stati differenti, sparsi in tutto il globo, selezionati per la rappresentatività nel loro continente. La ricerca, pubblicata a ottobre 2016, si è sviluppata tra dicembre 2015 e gennaio dello scorso anno. L’Africa, il continente più omofobo - Dati alla mano, il continente meno tollerante e quindi più discriminatorio nei confronti della comunità Lgbti resta l’Africa, complice anche una politica che fa della discriminazione e, in alcuni casi, della persecuzione degli omosessuali il proprio baluardo. Alla domanda se conoscessero almeno una persona gay, lesbica o bisessuale solamente il 29 per cento ha risposto affermativamente. Sintomo di una costante paura della discriminazione, che fa sì che gli omosessuali spesso tengano nascosto il proprio orientamento sessuale. Fa da eco anche l’Asia, dove la percentuale arriva solamente al 32 per cento, doppiata invece da America e Oceania dove si arriva ad un 61 per cento. L’Europa invece resta al 50, con sostanziali differenze tra un Paese e l’altro. Gay è ok, ma non in casa mia - Stando a quanto riportato dal sondaggio, avere vicini di casa omosessuali non rappresenta un ostacolo nella maggior parte dei casi, con percentuali che certamente variano; diventa un problema quando c’è la possibilità che nostro figlio faccia coming out. In Italia infatti il 46 per cento degli intervistati dichiara che, alla notizia di avere un figlio innamorato di una persona dello stesso sesso ne sarebbe ‘abbastanza sconvolto’, a fronte di una media europea del 31 per cento. E se un bimbo si vestisse come una bambina ed avesse atteggiamenti femminili? In Italia lo troverebbe accettabile il 37 per cento del campione intervistato, che diventa un 41 per cento se fosse una figlia a voler vestirsi da maschietto. Ad un anno dall’approvazione della legge Cirinnà, da molti considerata una legge "monca" dopo lo stralcio della cosiddetta stepchild adoption (l’adozione del figlio del partner), è indicativo come l’Italia sia ancora spaccata a metà. Il 72 per cento degli intervistati in Italia dichiara che i cittadini Lgbt dovrebbero godere degli stessi diritti dei cittadini eterosessuali, guadagnando un punto percentuale in più rispetto alla media europea. Quando però si tratta del matrimonio, che consentirebbe la vera uguaglianza tra le unioni eterosessuali e omosex, solo il 35 per cento si trova d’accordo. Un testa a testa con il sì, al di sotto della media del nostro continente e degli Stati Uniti, così come dell’Oceania. Omosessualità e bullismo - Non stupisce il fatto che gran parte degli europei, e gli italiani in particolare, non vedano più l’omosessualità come un crimine da perseguire. Culturalmente distanti dall’Africa e l’Asia dove le percentuali che indicano l’essere gay come un’infrazione da punire diventano importanti, il mondo occidentale vede invece il bullismo come il vero problema. Il 55 per cento degli italiani dichiara di percepire come un problema importante gli atti di violenza fisica e verbale verso gli appartenenti alla comunità LGBTI, distaccandosi dalla media europea di ben nove punti percentuali. Questo dato è suscettibile a una doppia lettura: da un lato può farci ben sperare che il nostro Paese abbia intrapreso la strada della consapevolezza che la discriminazione c’è e va punita. Dall’altro canto una percentuale così alta rispetto alla media del nostro continente mette in luce che il bullismo verso gli omosessuali è ancora forte in Italia, complice anche la mancanza di una legge specifica che combatta la violenza con l’aggravante della discriminazione sull’orientamento sessuale. Ci spetta un triste primato: alla domanda "negli ultimi 12 mesi, sei stato discriminato in base al tuo orientamento sessuale?" ben il 6 per cento tra persone omosessuali e transessuali rispondono in maniera affermativa. A fronte di un’ Europa in cui solo il 2 per cento si sente discriminato per il suo orientamento sessuale, la cifra del nostro Paese appare enorme e ci fa guadagnare il fondo della classifica a pari merito con la Repubblica Slovacca. La discriminazione subita dal mondo LGBTI si muove di pari passo alla mancanza di consapevolezza in materia di diritti. Chi subisce violenza verbale o fisica in base al proprio orientamento sessuale non conosce quali siano i propri diritti per difendersi in merito. L’ennesimo posto basso della classifica che l’Italia guadagna, con un 58 per cento di concittadini che dichiarano di esserne all’oscuro. Omosessualità tra lavoro e vita privata - Avere colleghi omosessuali non mette a proprio agio i nostri concittadini. Su una scala da 1 a 10, gli intervistati che si sentirebbero ‘moderatamente a proprio agio’ è il 69 per cento, mentre la media europea è al 72. La percentuale scende al 64 se l’ipotetico collega di lavoro fosse un o una transessuale. Due uomini che si tengono per mano o che si baciano in pubblico desta ancora scandalo. In Europa il 49 per cento dichiara di sentirsi a proprio agio di fronte ad una coppia omosessuale maschile, in Italia la percentuale si riduce al 42, ponendoci nella parte bassa della classifica dei Paesi del vecchio continente. Iraq. Nel Tribunale del terrorismo: così vengono processati gli ex miliziani di Daesh di Marta Bellingreri L’Espresso, 21 maggio 2017 Nella cittadina assiro-cristiana di Hamdaniyya, chiamata dai suoi abitanti Qaraqosh, a trenta chilometri a sud di Mosul, una grande casa appartenente a una famiglia musulmana è stata temporaneamente adibita a Tribunale del Terrorismo. Fino al giorno della liberazione, alla fine di ottobre, la stessa casa, era occupata dai combattenti stranieri dell’Isis. Ogni giorno, adesso, vi si recano centinaia di persone. Innanzitutto sono le vittime dei crimini dell’Isis che vengono a sporgere denunce per le loro case, macchine, vite bruciate: figli spariti, arrestati, uccisi. Poi, bendati e legati, arrivano accompagnati - e strattonati - dalle forze irachene, anche i prigionieri, ovvero i membri dell’organizzazione terroristica criminale che sotto forma di Califfato islamico ha commesso tutti i tipi di atrocità. Vittime e carnefici di fronte ai giudici di Mosul. "Hai giurato fedeltà al califfo?" chiede il giudice all’imputato. "Sì, signore" risponde Ismail H., trent’anni. "Che lavoro facevi prima di lavorare per Daesh?". "L’operaio. Mi sono arruolato per pagare un’operazione a mia sorella". "Sai quante persone sono morte a Mosul in questi anni? Non era meglio sacrificare tua sorella che fare morire diecimila persone nella tu città?". "Sì, signore". Le domande si susseguono, una dietro l’altra, ma l’interrogatorio si basa solo sulle loro confessioni. "Il 75 per cento ammette di essere colpevole, ma pochi elencano crimini e battaglie. A sentir loro, erano tutti cuochi del Califfato o facevano i vigili urbani", ci dice spazientito il giudice. Per lui e i suoi colleghi non è facile il compito: hanno tutti subito minacce di morte nel 2014 prima di lasciare Mosul e ben quindici sono stati assassinati. Oggi si ritrovano ad interrogare gli uomini catturati durante i mesi di battaglia e che servivano l’Isis. "Ti sei pentito?", chiede il magistrato a un altro imputato. "Sì, mi sono arreso". "Non hai più nessuna relazione con Daesh". "No, nessuna, mi sono consegnato all’esercito iracheno pochi giorni fa". "Perché ne hai fatto parte?". "Distribuivano acqua gratuitamente solo a chi si arruolava". "E se ti metto in libertà, torni con Daesh?". "No", "Se domani sarai libero torni al-Ayman a combattere?". "No". Il giudice scuote la testa: "Dichiarano tutti di essersi pentiti e arresi, ma se gli slegassimo le mani, ci sgozzerebbero". Alla destra del magistrato, un aiutante scrive parola per parola le dichiarazioni del prigioniero, dettate in arabo standard dal giudice stesso. Alla sinistra invece, un avvocato difensore pagato dallo Stato resta silenzioso e annoiato. Durante l’intera settimana di interrogatori seguiti, nessun avvocato ha rivolto la parola al suo assistito né commentato le parole del giudice. La condanna spetterà alla Corte criminale di Baghdad e secondo la legge irachena sul terrorismo del 2005 si partirà da quindici anni di reclusione, per passare all’ergastolo e alla pena di morte nei casi più gravi. Nella stanza accanto, molte meno parole di fronte al giudice: gli abitanti di Mosul, vittime per due anni e mezzo dell’occupazione dell’Isis, portano foto, carte d’identità e provano a chiedere un compenso allo stato iracheno per la distruzione subita. Molti sanno che non vedranno neanche un dinaro, ma ci provano lo stesso. Del resto la priorità adesso è sconfiggere lo Stato Islamico. Nella speranza che nel frattempo nessuno voglia farsi giustizia da solo.