Padova. Indagine sul carcere. Favero: "Rifarei tutto, Pirruccio va difeso" di Roberta Polese Corriere Veneto, 20 maggio 2017 Ristretti Orizzonti difende l’ex direttore sotto inchiesta. "L’ex direttore del Due Palazzi di Padova era un uomo dello Stato che ha dato un contributo ineguagliabile alla rieducazione e al reinserimento dei carcerati". Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti rivista del carcere da almeno 20 anni, difende a spada tratta Salvatore Pirruccio, che ha guidato il Due Palazzi fino a qualche mese fa, ora indagato per aver favorito alcuni detenuti alleggerendo le loro condizioni di detenzione in carcere. Il "palcoscenico" in cui Favero si esprime è quello della palestra dell’istituto di pena patavino, dove ieri centinaia di persone e detenuti hanno partecipato al convegno "Nessuno di salva da solo", che ha coinvolto giornalisti (presente Gad Lerner), sociologi, attori, registi e scrittori, per spiegare l’importanza delle attività lavorative artistiche nelle carceri. Favero, insieme a Nicola Boscoletto che dirige la coop Giotto, è stata tirata in ballo dall’inchiesta aperta dalla procura di Padova sulla base delle relazioni degli ispettori del Ministero che due anni fa vennero a controllare la situazione nelle celle di Padova. Secondo queste relazioni Pirruccio, su stimolo della coop e della Favero, avrebbe declassificato lo stato carcerario di alcuni soggetti pericolosi, alleggerendo le loro condizioni detentive, al fine di evitare che venissero trasferiti in altre strutture. "Accade che anche noi operatori segnaliamo il buon comportamento delle persone che sono coinvolte nei nostri progetti - spiega Favero - e io rifarei tutto quello che ho fatto, può essere che abbia sbagliato, ma chi fa, sbaglia, e noi qui facciamo il possibile per questi uomini che cerchiamo di strappare alla delinquenza - afferma - e poi va chiarito che il direttore del carcere non ha alcun potere di modificare lo stato detentivo di nessuno, è il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a firmare la declassificazione, a limite l’ex direttore al limite può aver fatto delle segnalazioni, ma a decidere era il Ministero". Ieri al convegno hanno parlato alcuni carcerati, che hanno ribadito la loro solidarietà a Pirruccio. "È stato l’unico ad aver letto il mio fascicolo per intero e a dirmi che c’era una speranza di uscire dal circolo vizioso in cui mi ero infilato - ha detto Luigi, detenuto di 32 anni, alla platea che lo ascoltava - inaccettabile che venga gettato fango su di lui". Padova. "Inchiesta sul carcere, troppe menzogne" di Silvia Quaranta Il Mattino di Padova, 20 maggio 2017 "Qualcuno mi ha chiesto di parlare e allora lo faccio": Ornella Favero. energico direttore della rivista Ristretti Orizzonti, risponde alle accuse che si sono abbattute in questi giorni sulla Casa di Reclusione di Padova, e in particolare sull’ex direttore Salvatore Pirruccio. "Al centro della giornata di oggi", ha detto ieri mattina, alla palestra del Due Palazzi, aprendo una giornata di studio dedicata all’educazione, "c’è il tema del cambiamento, e chi lavora qui sa che il cambiamento è dovuto a tanti fattori. Prima di tutto, bisogna essere "adulti credibili", io penso di esserlo. Non lo è, invece, chi ha montato questa polemica, costruendo sulle menzogne una macchina del fango. Queste persone non sono adulti credibili". L’inchiesta riguarda atti grazie ai quali dodici reclusi dal regime di alta sicurezza sarebbero stati "declassati" a quello proprio dei detenuti comuni, senza rispettare la procedura. "Affermazioni molto imprecise", replica Favero, "perché un direttore non declassa i detenuti, non può farlo. Le accuse su cui si basa l’inchiesta, poi, sono in netta contraddizione con alcune dichiarazioni di Roberto Piscitello, magistrato a capo della Direzione Generale Detenuti. Se le notizie escono dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, devono mettersi d’accordo". Quanto al regime di alta sicurezza, "il 41 bis è intoccabile" dice il direttore di Ristretti Orizzonti "ma lì dentro ci sono persone di novant’anni. Meritano ancora quel regime? Forse bisognerebbe iniziare a ragionare sul cambiamento. Noi ci lavoriamo: devono cambiare le persone detenute, ma devono cambiare anche le istituzioni. Il cambiamento ci deve riguardare tutti". Fp Cgil: agitazione lavoratori esecuzione penale esterna e minorile Adnkronos, 20 maggio 2017 Al via lo stato di agitazione dei lavoratori dell’esecuzione penale esterna e minorile, con giornata di mobilitazione in tutti i territori in programma lunedì 22 maggio. Ad annunciarlo è la Fp Cgil Nazionale denunciando "il rischio collasso di un sistema per evitare il quale c’è bisogno urgente di nuove assunzioni". Da tempo, sottolinea il segretario nazionale della Funzione Pubblica Cgil, Salvatore Chiaramonte, "segnaliamo le gravissime difficoltà in cui operano le lavoratrici e i lavoratori del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità, anche a seguito degli interventi normativi che hanno raddoppiato i carichi di lavoro lasciando immutati gli organici". Gli interventi messi in campo sino ad oggi si sono rivelati "del tutto insufficienti e non hanno prodotto alcun mutamento nelle condizioni di lavoro del personale. Sin dal primo giorno - osserva Chiaramonte - abbiamo condiviso l’impianto complessivo del progetto di riforma che creava un Dipartimento della Probation avvisando però che, senza adeguati interventi strutturali sugli organici e in assenza di progettualità, tale riforma sarebbe fallita e le conseguenze ricadute sulle spalle dei lavoratori. Purtroppo ciò si sta verificando e ad oggi le condizioni sono diventate insostenibili". A sostegno di questa tesi la Fp Cgil ha lanciato lo scorso 10 maggio da Milano una campagna dal titolo #fuoriametà che mette al centro dell’attenzione ‘L’altra pena, oltre le murà. Un’iniziativa, spiega Chiaramonte, "per mettere in evidenza l’importanza delle pena svolta fuori dalle mura che non è una pena minore né tanto meno simulata ma solo un diverso strumento, più aderente al mandato costituzionale che riduce i costi per la collettività". Per attuare questo mandato però, secondo il dirigente sindacale, "ci vogliono risorse e progettualità: il nuovo Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità deve essere implementato e i lavoratori messi in condizioni di svolgere il proprio mandato. Sino ad oggi non ci sono state risposte dalla politica, né dal punto di vista progettuale né da quello economico e per questo abbiamo dichiarato lo stato di agitazione del personale". Per queste ragioni il prossimo 22 maggio, in concomitanza con il primo incontro con il nuovo Capo Dipartimento, "ci saranno presidi, assemblee e volantinaggi, per sostenere la richiesta che la Fp Cgil farà durante l’incontro, ovvero che chi dirige il Dipartimento si faccia portavoce con il Ministro della Giustizia Andrea Orlando delle ragioni della protesta, con particolare riferimento alle gravi carenze di organico". Secondo Chiaramonte "per dar seguito alla importante discussione avviata con gli Stati Generali della esecuzione penale occorre mantenere gli impegni e reperire le risorse necessarie alle nuove assunzioni: la situazione non può più essere affrontata con soluzioni tampone e consulenze esterne che portano alla progressiva esternalizzaizone di un servizio costituzionalmente rilevante", conclude. Il caso intercettazioni la legge finisce in coda a manovra e Rosatellum di Goffredo De Marchis La Repubblica, 20 maggio 2017 Per Paolo Gentiloni ci sono altre priorità: la settimana del G7 di Taormina e l’arrivo in aula alla Camera della manovra correttiva. Per Matteo Renzi si può rinviare la decisione più avanti: "Ma la riforma arriva a Montecitorio domani? No. E allora di che parliamo?". Morale: Andrea Orlando deve ancora stare sul filo prima di sapere se la riforma del processo penale, che contiene anche le nuove norme sulle intercettazioni, vedrà finalmente la luce e attraverso le vie brevi, ovvero le uniche sicure: il voto di fiducia. Il ministro della Giustizia aspetta, ma vede i movimenti lenti del suo governo e del segretario del suo partito. Sa che gli equilibri della maggioranza possono ulteriormente cambiare nelle prossime settimane. Tanto da mettere ancora più a rischio il suo testo. Però ha un alleato, e non di poco conto. Sergio Mattarella sta "sollecitando", in silenzio come al solito, la rapida approvazione della riforma. Lo sa anche Ettore Rosato, capogruppo del Pd alla Camera, che infatti lavora per arrivare alla fiducia. Ma il Pd teme lo scontro. Consiglia al Guardasigilli di non alimentare lo scontro. Di non alimentare il muro contro muro con il partito di Alfano. Di non irritare Maurizio Lupi. Perché i voti di Alternativa popolare vanno spesi bene anche per la legge elettorale. Dunque, la legge sul processo penale è destinata ad arrivare in aula oltre metà giugno. Dopo la manovra correttiva il cui esame comincia il 29 maggio e dovrebbe concludersi entro il 3. Il 5 poi tocca alla riforma elettorale, con il Rosatellum sponsorizzato dai dem. Rosato ha chiesto, per accelerare i tempi, di non chiudere Montecitorio la settimane prima delle amministrative (11 giugno), in deroga a una prassi che vede il Parlamento sbarrato nelle vigilie elettorali. In questo momento dunque la riforma della giustizia è sacrificabile in nome delle alleanze, dei giochi di sponda sulla modifica dell’Italicum. Eppure c’è una spinta a varare la legge sul penale. Viene dal Quirinale ed è interesse del governo Gentiloni. Il premier ha necessità di portare a casa delle riforme che consolidino il suo ruolo. Invece quel tipo di percorso è fermo, ad esempio con il ddl Concorrenza fermo al Senato. Un fallimento sulla riforma della giustizia non farebbe bene alla salute dell’esecutivo. Gentiloni e Orlando ne hanno parlato. Di comune accordo, hanno escluso di introdurre di nuovo il tema in consiglio dei ministri. L’autorizzazione alla questione di fiducia è già venuta, non c’è bisogno di un ulteriore passaggio. Lo strumento è pronto, ma il premier non intende affrontare un braccio di ferro in questo momento. Al ministro ha fatto presente le scadenze di questi giorni: Donald Trump a Roma mercoledì, il vertice della Nato giovedì, il G7 venerdì e sabato. La prossima settimana, bisogna concentrarsi sulla manovrina, un passaggio fondamentale per mantenere gli impegni con la commissione e non semplice se una parte della maggioranza, gli scissionisti di Mdp, minacciano voti contrari sui voucher. Aprire anche il fronte con Alfano esporrebbe la correzione dei conti a possibili incidenti. Orlando non ha problemi sui tempi, a patto che si arrivi al risultato finale. Non si farà "silenziare" dal suo partito, cerca garanzie per una soluzione e cerca di convincere tutti che la sua "è una riforma da difendere". È del Pd, è nata nel governo Renzi, può essere un successo del governo Gentiloni. Ma che andrà tutto liscio al momento è una scommessa rischiosa, tutta da giocare. Processo penale, voto più lontano. E i renziani frenano Orlando Corriere della Sera, 20 maggio 2017 Non c’è pace per la legge che riforma il processo penale. Il provvedimento, terreno di scontro per i democratici perché contiene una delega a modificare il regime delle intercettazioni, non sarà messo ai voti prima di metà giugno. Tra lunedì e martedì il ddl sbarcherà in aula alla Camera per la discussione generale, ma poi sarà scalzato da altri provvedimenti: banche, legge sullo jihadismo, manovrina, legge elettorale. Il calendario dei lavori è pieno zeppo e un posto in cima alla lista per il provvedimento che tanto sta a cuore al Guardasigilli potrebbe non trovarsi. Andrea Orlando vuole la fiducia. Maurizio Lupi di Ap minaccia barricate. E Renzi, per non litigare con Alfano, frena. Al Nazareno non nascondono il fastidio per il "braccio di ferro" sulla fiducia e, sottovoce, invitano Orlando a placarsi. Sperando di stoppare le polemiche, il capogruppo Ettore Rosato lo dice in chiaro: "Ho già rassicurato il ministro Orlando, che sulla Giustizia alla Camera non avrà problemi. Si fidi del suo partito e sia pronto con i decreti attuativi, che completeranno una riforma molto importante". Processo penale. Orlando insiste: serve la fiducia. Ma Renzi e Alfano non la vogliono di Andrea Colombo Il Manifesto, 20 maggio 2017 Lunedì arriva in aula, a Montecitorio, il ddl sul processo penale. Le nuove norme sulle intercettazioni ne fanno parte ma erano sino a pochi giorni fa un capitolo relativamente secondario. C’è l’autorizzazione all’uso dei virus informatici per captare le conversazioni a distanza, sono specificati più dettagliatamente i compiti del pm nella conservazione delle intercettazioni e soprattutto c’è la delega al governo per intervenire con una riforma ben più incisiva. Il testo originario fissava in un anno il limite entro il quale esercitare la delega. La commissione Giustizia della Camera lo ha drasticamente abbassato a tre mesi. Il guardasigilli Andrea Orlando chiede che la legge sia approvata con il voto di fiducia. In caso contrario qualche modifica arriverebbe di certo. Il provvedimento dovrebbe di conseguenza tornare al Senato, col rischio di impantanarsi. Matteo Renzi non concorda. I centristi sono contrarissimi, perché vogliono modifiche del passaggio sulla prescrizione, e il segretario del Pd preferisce evitare i ferri corti in un momento tanto delicato sul versante legge elettorale. Solerte il capo dei deputati dem Ettore Rosato assicura che "non c’è bisogno" della fiducia ma il ministro della giustizia insiste. Una decisione ancora non è stata presa né lo sarà sino a martedì, quando inizierà la discussione generale. Solo a quel punto, non essendo necessaria l’autorizzazione del consiglio dei ministri, già concessa per il l voto al Senato, si capirà chi l’ha spuntata tra Orlando e Angelino Alfano, spalleggiato da Renzi. Va da sé che il capitolo intercettazioni è tornato a essere rilevantissimo dopo "lo scandalo" della telefonata tra Tiziano e Matteo Renzi, che spiega anche l’accelerazione dei tempi della delega decisi dalla commissione. Renzi e Orfini martellano invocando "il rispetto della legge". Il guardasigilli finge di accodarsi con una lunga intervista a Repubblica, nella quale usa in realtà toni ben diversi da quelli del presidente pasdaran del partito, Matteo Orfini. La cui querelle con l’ex capo dello Stato è stata nel frattempo chiusa da un Giorgio Napolitano più che mai sprezzante: "Su questa storiella ognuno può valutare le risposte date". Anche Orlando tuona contro l’intercettazione "che non doveva stare sul giornale perché non ha alcuna rilevanza penale, quindi non doveva stare neppure tra gli atti processuali", mentre glissa, chissà perché, sulla ben più grave violazione del diritto costituita dalla pubblicazione di una telefonata intercettata tra Tiziano Renzi e il suo legale. Ma in realtà usa l’argomentazione soprattutto per forzare la mano a Renzi sulla fiducia: "Se si vuole risolvere il problema si approvi subito la legge". Per il resto, infatti, Orlando non segue affatto i vertici del partito nella campagna isterica allestita dopo il fattaccio. Episodio "gravissimo" certo, ma di qui a parlare di attentato alla democrazia, come fa Orfini, ce ne passa: "Le parole andrebbero pesate di più. Se si hanno elementi per parlare di una regia unica bisogna investire le istituzioni e chiamare il popolo a una mobilitazione. Sennò si cade nel complottismo, un genere di cui di solito hanno fatto storicamente abuso le destre populiste". A differenza dei due Mattei, Orlando prende di mira la fonte più che i media: "Chi si trova una conversazione del genere tra le mani è difficile che dica no. Il problema è evitare le fughe". Invece sulla possibilità di inviare gli ispettori a Napoli, da dove è probabilmente partita la famigerata intercettazione, è più minaccioso: "È molto probabile che gli accertamenti preliminari porteranno alle fasi successive". C’è da scommettere che quando si tratterà di tradurre in norme la delega sulle intercettazioni, le tensioni tra il Nazareno e via Arenula non mancheranno. Quel tic tac tra voto e giustizia di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 20 maggio 2017 Quanto peseranno le denunce, gli arresti, gli avvisi di garanzia che giorno dopo giorno sgocciolano sulla campagna elettorale a tre settimane dal voto dell’11 giugno? A chi tocca la prossima tegola giudiziaria? Una volta giurava di essere in grado di prevedere gli infausti eventi (e di scongiurarli con prodigiosi talismani) il trapanese "Mago Luigi". Denunciato per truffa, si è dato alla politica. Candidando a Erice la moglie Cettina. Le tormentatissime "comunali" siciliane, che interessano un terzo dell’elettorato isolano tra cui due città importanti come Palermo e Trapani, restano dunque appese a quella domanda: quanto peseranno le denunce, gli arresti, gli avvisi di garanzia che giorno dopo giorno sgocciolano sulla campagna elettorale a tre settimane dal voto dell’11 giugno? "Noi non ci occupiamo di politica, facciamo indagini e processi", ha detto il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi rispondendo alle scontate polemiche sui tempi dei passaggi giudiziari, "Possono esserci delle coincidenze temporali casuali, ma parlare di giustizia ad orologeria è affrettato e ingeneroso". Sarà senz’altro così, tanto più in un paese che storicamente trabocca di scadenze elettorali. Ma certo lo sgocciolio assorda. Riassumiamo gli ultimi mesi? A metà gennaio finisce nel tritacarne Fabrizio Ferrandelli, il vincitore delle primarie democratiche palermitane nel 2012 che stavolta è il candidato della destra. Ad aprile ecco la richiesta di rinvio a giudizio per 14 grillini, tra i quali tre parlamentari inquisiti per le firme (false) raccolte per le stesse comunali precedenti. Giovedì scorso tocca al barone Antonio D’Alì, senatore, aspirante sindaco di centrodestra a Trapani, azzoppato dalla richiesta di obbligo di soggiorno in quanto "socialmente pericoloso". Ieri mattina, l’arresto del suo principale avversario alle Comunali, il deputato regionale e già sindaco di Trapani Girolamo Fazio, per (presunte) mazzette su contributi riguardanti il trasporto marittimo. Ieri pomeriggio, infine, la notizia dell’avviso di garanzia a Rosario Crocetta, citato 19 volte negli atti dell’inchiesta su Fazio e sull’armatore Ettore Morace, lui pure agli arresti per corruzione, padrone del Trapani Calcio e della Liberty Lines, recentemente premiata dal governatore con una "speciale attestazione di merito come azienda di eccellenza". Non bastassero, ecco i contorni. Come le indagini, ancora per corruzione, sulla sottosegretaria al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, la palermitana Simona Vicari, che avrebbe ricevuto in dono, per un "piacerino" (un emendamento che riduceva l’Iva sui trasporti marittimi dal 10 al 4%) un Rolex d’oro. O le tossine sparsi dentro il M5S con l’audio su Facebook di un dialogo malevolo su Ugo Forello, animatore di Addiopizzo e candidato pentastellato nel capoluogo. Niente di nuovo, per una politica siciliana da sempre avvelenata dalla corruzione, dal clientelismo, dalle lettere anonime, dai ricatti più infidi. Ma i nuovi nuvoloni giudiziari vanno a rendere ancora più cupo un cielo già fosco. Peccato. Perché ancora una volta, come spesso è accaduto in passato, il voto siciliano può fornire alcune indicazioni sul cammino che potrebbe imboccare l’Italia. Come andrà a finire? Mah… Se i sondaggi per le "regionali" previste per il 5 novembre danno in netto vantaggio il movimento di Grillo che qua e la è accreditato addirittura del 38%, non è scontato che queste comunali che chiamano al voto 1.663.686 abitanti possano andare così favorevolmente. Per la prima volta, però, i grillini non si presentano a macchia di leopardo ma con candidati loro in tutti e 37 i Comuni principali. Sfonderanno? A sinistra può darsi. La maggioranza che guida la Regione "nella formula che comprende Pd, Ap (alfaniani più centristi di D’ Alia) e Pdr di Cardinale", come nota sul Giornale di Sicilia Giacinto Pipitone, "non va unita in nessuno dei grossi centri chiamati al voto". Peggio: qua e là la spaccatura non è solo politica ma personale. E marcata da rancori intestini così profondi e callosi da sfociare in candidature contrapposte e a volte nella rinuncia al simbolo. Rancori che, dopo anni di fratture e sfoghi d’odio, restano anche a destra (come appunto a Trapani dove sono o erano l’un contro l’altro armati Antonio D’Alì e Girolamo Fazio) ma sono stati quasi ovunque superati, stavolta, dal tentativo di metter su delle liste unitarie per tornare infine a vincere dopo una serie di sconfitte. Dice tutto il caso di Palermo, dove appoggiano Fabrizio Ferrandelli perfino quelli che lo conoscono da quando era un bellicoso dipietrista che esaltava l’attuale avversario, Leoluca Orlando ("il primo e unico sindaco di cui Palermo non debba vergognarsi") e faceva lo sciopero della fame contro il suo miglior alleato di oggi, quel Totò Cuffaro che riconosce come un prezioso consigliere e additava ieri come "limitrofo alla mafia". Misteri siciliani. Dove il rovesciamento delle alleanze, la rottura di amicizie che parevano granitiche, lo scambio di "spagnolesche cortesie" con nemici acerrimi convenuti a nuove collaborazioni, fanno parte di una storia antica. Storia che, da sempre, ha visto la partecipazione più o meno discreta di quelli che anche negli ultimi giorni sono stati, volenti o nolenti come dice Francesco Lo Voi, tra i principali protagonisti. I magistrati. I quali, a occhio e croce, potrebbero avere qualcos’altro da dire… Tutelare la privacy? I giustizialisti alzano un muro contro il ddl di Errico Novi Il Dubbio, 20 maggio 2017 Da M5S e giornali no alle nuove norme sulle intercettazioni. "Insieme con le nuove regole sui tempi delle indagini, la delega sugli ascolti è il punto del ddl penale che più convince noi di ap", dice il centrista Marotta in vista del dibattito alla Camera. Lo scontro sulla giustizia si consuma su vari fronti. L’inchiesta Consip e il suo corollario di intercettazioni sbattute in prima pagina è un aspetto. L’altro conflitto importante si gioca in Parlamento, sulla delega relativa proprio agli "ascolti" che è inserita nella riforma del processo. Con l’inizio dell’esame nell’aula di Montecitorio, previsto per lunedì, si capirà se il veto posto da Renzi sulla fiducia è invalicabile o se sul ddl penale arriverà la "blindatura" chiesta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. Discussione generale subito al via, con la relazione affidata alla presidente della commissione Giustizia Donatella Ferranti. Un magistrato. Più precisamente un pubblico ministero. Ferranti è anche la più diretta testimone dei rischi che preoccupano il Segretario Pd: la settimana scorsa, proprio mentre la commissione da lei presieduta concludeva i lavori sulla riforma penale, quaranta tra deputati e senatori Cinque Stelle capitanati da Roberto Fico si sono prodotti in un rumoroso sit-in davanti all’auletta dov’era in corso la riunione. Cartelli con slogan che mettevano all’indice diversi punti della legge: i più vistosi e numerosi lanciavano l’allarme sul presunto "bavaglio alla stampa libera". Si riferivano, ovviamente, alla delega sulle intercettazioni. Alla batteria di fuoco già testata dai grillini si aggiunge ora parte della grande stampa, con il direttore di Repubblica Mario Calabresi che nel fondo di ieri torna a issare uno storico vessillo della sua testata: il no ad ogni limite nel pubblicare le cosiddette "bobine". Accusa scontata: ddl su misura per Consip - Nascono qui le preoccupazioni di Renzi. Che teme una plateale e ancora più clamorosa offensiva grillina nell’aula di Montecitorio. Si spiega così il no dell’ex premier alla questione di fiducia. Che peraltro non sarebbe neppure necessario autorizzare, perché alla "blindatura" era già stato dato via libera alcune settimane fa in vista del voto a Palazzo Madama: quella decisione resta efficace anche per l’esame nell’altro ramo del Parlamento. Non a caso nella riunione del Consiglio dei ministri di ieri non se n’è neppure parlato. Toccare ora le intercettazioni appare, agli occhi di Matteo Renzi, terribilmente rischioso. Non ci so- no dubbi sul fatto che i Cinque Stelle e non solo loro gli rinfaccerebbero di aver assicurato una corsia preferenziale alla riforma proprio per contrastare altre future imbarazzanti intercettazioni. Ma proprio le norme sull’utilizzo degli "ascolti" è uno dei punti più ampiamente condivisi nel sistema giustizia. La stessa Anm, come spiegato ieri dal presidente Eugenio Albamonte a La Stampa, considera un "principio sacrosanto" la tutela della privacy per le persone estranee all’indagine. Non sono contrarie a quelle norme le Camere penali. Che però ieri hanno giudicato inadeguata perché troppo "tortuosa" la via della legge delega. Proprio nella settimana in cui il ddl sarà in Aula, i penalisti si asterranno di nuovo dalle udienze, con una manifestazione organizzata lunedì presso il Tribunale di Roma a cui interverrà anche il responsabile Giustizia del Pd David Ermini. L’Ucpi contesta i passaggi su prescrizione e processo a distanza, ma condivide quello sull’avocazione obbligatoria. Scelta difficile per gli alfaniani - Non troppo lontano dalla linea dell’avvocatura penale è l’atteggiamento di Alternativa popolare. Spiega il capogruppo degli alfaniani in commissione Giustizia, Nino Marotta: "Sulle intercettazioni si deve concretizzare un equilibrio tra esigenze d’indagine, diritto alla privacy e diritto di cronaca: e il divieto di trascrivere le conversazioni che violano la privacy senza fornire elementi utili al procedimento è un aspetto assolutamente condivisibile di quel testo". Ap invece ha provato a cambiare la prescrizione con emendamenti già respinti in commissione Giustizia: "Li riproporremo in Aula, insieme con quelli sul processo in videoconferenza per i detenuti. Prima condurremo la battaglia", spiega Marotta, "poi, anche in base all’esito, decideremo se votare contro il provvedimento nel suo insieme. Certo, se le nostre modifiche non fossero accolte ci troveremmo a scegliere se far passare una riforma con aspetti positivi e altri assolutamente non condivisibili oppure rimandarla al Senato, consapevoli che difficilmente si arriverebbe al sì definitivo entro fine legislatura. Di mezzo ci sono l’estate la sessione di bilancio". Se dovesse scegliere personalmente, Marotta sarebbe in difficoltà: "Con quella riforma si fa un passo avanti sulle intercettazioni. E, soprattutto, sulla durata delle indagini: alle norme più stringenti sull’obbligo di iscrivere immediatamente l’indagato nell’apposito registro, si aggiunge quella sull’avocazione obbligatoria in caso di inerzia del pm. Quest’ultima novità introdotta con il ddl", argomenta il deputato di Ap, "evita che gli indagati possano restare per anni sospesi in attesa dell’udienza preliminare, e che vedano intanto distrutta la loro vita. E se proprio vogliamo dirla tutta, restringere chiaramente il tempo della fase delle indagini è assai più importante che anticipare di uno o due anni la prescrizione del reato". Considerazione che, come altre, segnala un giudizio per molti versi positivo. Ma con l’aria che tira per via di Consip, ogni discorso cade. E ancora una volta, rispetto al merito delle riforme, rischia di prevalere semplicemente il rumore di fondo dei forcaioli. La cena garantista del giglio magico: "stop alla repubblica dei giudici" di Francesca Schianchi La Stampa, 20 maggio 2017 E Lotti si preoccupa: "Sono qui per caso. Mi state registrando?". "Se io avessi fatto con un mio collaboratore quello che ha fatto Woodcock con Scafarto, credo che sarei già in India". L’orchestrina suona, i camerieri distribuiscono ai tavoli il dolce di cioccolato fondente: Stefano Graziano, consigliere regionale Pd messo alla gogna l’anno scorso per un avviso di garanzia conclusosi con l’archiviazione, si intrattiene con il sottosegretario Gennaro Migliore. Il tema della cena, di questa "Notte della giustizia" nelle eleganti Serre Torrigiani a Firenze, è chiaro: no a una "repubblica giudiziaria", no a una "giustizia politicizzata", come ripete l’organizzatrice Annalisa Chirico, presidente della fondazione iper-garantista "Fino a prova contraria". "C’è una gigantesca questione democratica", dice dal palco alludendo al caso delle intercettazioni tra Renzi e il padre, e tra il padre e l’avvocato. Applausi in sala. Seduto ai grandi tavoli rotondi c’è il giglio magico renziano quasi per intero. Al tavolo d’onore, il braccio destro di Renzi, il ministro Luca Lotti, chiacchiera fitto con la presidente della Corte d’Appello di Firenze, Margherita Cassano, il membro del Csm Claudio Galoppi, il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti; poco più in là, ci sono amici dell’ex premier della prima ora, da Simona Bonafè a David Ermini, da Ernesto Carbone a Francesco Bonifazi, da Marco Carrai all’avvocato Alberto Bianchi, presidente della fondazione renziana Open. "Stasera mancavano solo Renzi e il Papa", scherza alla fine il sindaco di Firenze, Dario Nardella. Una serata contro la "giustizia politicizzata" in tempi di polemiche sulle intercettazioni sembra un programma politico. O quantomeno una coincidenza significativa. "Ma no, è una cena decisa da mesi... Il fatto è che avvengono così spesso in Italia casi gravi come la pubblicazione di quegli ascolti, che la coincidenza è facile ci sia", sospira Migliore. Il ministro Lotti, coinvolto nel caso Consip per una presunta rivelazione di segreto d’ufficio, arriva per ultimo: "Sono qui per caso, perché mi hanno invitato - minimizza il significato della sua presenza - Intercettazioni? Non dirò una parola, se vuole le racconto dell’iniziativa che ho fatto oggi sul terremoto. Ma sta registrando?", si preoccupa mentre raggiunge il suo tavolo. Cittadini e magistrati, di chi sono i tribunali di Francesco Petrelli* Il Manifesto, 20 maggio 2017 Non tutti sanno che nel suo progetto originario, risalente agli anni ‘60, la pavimentazione del Tribunale di Roma, uffici, aule e corridoi, era interamente costituta da "sampietrini", i cubetti di porfido caratteristici delle strade e delle piazze romane. Una scelta, questa, discutibile sotto il profilo pratico ed estetico, ma dotata di una straordinaria potenza evocativa: il luogo della giustizia non è un luogo "separato" dalla città, ma ne rappresenta l’inevitabile continuazione. Le strade della città entrano all’interno del tribunale che appartiene dunque a tutti i cittadini e non è dominio incontrastato di una magistratura separata e autocratica. Nel tempo la ragion pratica ha prevalso sulla bella metafora del "foro" aperto alla città e anonimi pavimenti hanno sostituito i sampietrini. Da allora la distanza fra la Giustizia e il Paese si è fatta sempre più grande, procedendo di pari passo con l’idea che i tribunali fossero dei "giudici", che i palazzi di giustizia fossero i luoghi nei quali i pubblici ministeri esercitavano il loro potere. Difficile non pensare a questo percorso, non solo simbolico, che l’idea stessa di giustizia ha disegnato negli ultimi decenni, quando apprendiamo del diniego opposto da alcuni importanti magistrati alla richiesta di poter raccogliere firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere fra magistratura inquirente e giudicante. A Firenze, in particolare, la presidente della corte di appello e il procuratore generale hanno giustificato la mancata autorizzazione con non meglio precisate ragioni di sicurezza. Ed è difficile immaginare quale pericolo possano costituire un cancelliere dello stesso tribunale, intento ad effettuare l’autentica delle firme di pacifici cittadini, considerato che questi esercitano il loro più naturali diritti politici e quelli la più tipica delle loro funzioni. Nei nostri Tribunali vi sono banche, uffici postali, cartolerie edicole e librerie, si raggiungono accordi e si firmano contratti, ma non si sottoscrivono leggi che vogliono distinguere le carriere di quel giudice e di quel procuratore generale. È bizzarro riflettere sulla circostanza che l’iter di raccolta delle firme ha inizio con il deposito formale del testo della legge di riforma di iniziativa popolare proprio all’interno del "Tribunale supremo", in un’aula della Corte di Cassazione, raccogliendo le firme dei promotori, mentre ai cittadini dovrebbe essere preclusa la possibilità di promuovere tale iniziativa in una normale aula di Tribunale. In ogni altro luogo ma non lì. Resta la sensazione che questa proposta di legge che non fa altro che realizzare un articolo della Costituzione rimasto inattuato, e avvicina il sistema giudiziario italiano a quello degli altri paesi europei cui è del tutto ignota quella "colleganza" fra giudici e pubblici ministeri, in fondo scopra un nervo sensibile dell’ordine giudiziario di questo Paese, da troppo tempo adagiato sull’idea che la giustizia sia una cosa propria della magistratura, una cosa da somministrare paternalisticamente a ignari cittadini, fissata su cardini di potere inamovibili, fondata su principi che le leggi umane non devono e non possono mutare. *Segretario Unione camere penali italiane Riforma del processo penale, se fallisce è meglio per tutti di Giovanni Verde Il Mattino, 20 maggio 2017 Il ministro Orlando, verosimilmente pungolato dalle critiche che gli sono piovute addosso in questi giorni, ha reso una lunga intervista, nel corso della quale ha chiarito la strategia della sua azione. Da tre anni, con il suo staff, lavora alla riforma della legge sul processo penale e spera che sia approvata così come è, perché in caso contrario si corre il rischio che non si faccia nulla (tanto, aggiunge l’onorevole Ferrante, alle imperfezioni si potrà rimediare in appresso). Non tocco gli altri aspetti della riforma. Oggi si parla soprattutto, e ancora una volta, di intercettazioni e di diffusione delle intercettazioni. Il testo di legge elaborato dal Ministero mira ad impedire o, comunque, a contenere la diffusione delle intercettazioni, soprattutto nella fase delle indagini o in occasione della richiesta di misure cautelari. I pubblici ministeri devono essere accorti nell’evitare che, nella documentazione allegata alle richieste, non finiscano dati sensibili non pertinenti o irrilevanti. Insomma, per il ministro, che nell’intervista difende la proposta, il problema non sta nelle intercettazioni, ma nel fatto che persone malvage le fanno trapelare e giornalisti avidi di "scoop" le diffondono. Tanto ciò è vero che il nuovo testo incrementa la possibilità di intercettazioni, semplificandone le condizioni quando sono ipotizzati reati contro la pubblica amministrazione, e ammette senza limiti l’uso del "troyan" quando si indaga su delitti di mafia e di terrorismo. Il ministro richiama i giornalisti a un maggiore impegno sul piano deontologico, quale si conviene a chi è espressione di un potere non istituzionale, ma non meno rilevante sul piano sociale, quale indubbiamente è la stampa. Se le notizie non hanno alcuna rilevanza penale - egli dice - non dovrebbero stare sul giornale. È un’affermazione che lascia perplessi e che trova smentita in infinite sentenze, le quali hanno sempre ritenuto che l’interesse del cittadino alla conoscenza dei fatti non è limitato ai reati, ma è assai più ampio. Di conseguenza, quando la notizia riguarda una persona nota (sia essa un politico, un attore, uno sportivo ecc.), il giornalista è legittimato a farla conoscere e il cittadino ha interesse ad essere informato per il solo fatto che si tratta di una persona nota. In particolare, se la notizia riguarda un uomo politico, ciascuno di noi ha interesse a conoscere di che pasta egli sia fatto, perché gli affidiamo la nostra rappresentanza nelle sedi istituzionali. E spesso, a tal fine, più che la notizia di eventuali reati da lui commessi, ha importanza conoscere quali siano i suoi legami, le sue propensioni, le sue pulsioni, in una parola, la sua maniera di intendere la vita. Il ministro vuole essere ottimista, ma in cuor suo non lo è. Infatti, riconosce che il problema sta nel limitare le fughe di notizie (egli stesso esclude che impedirle del tutto è impossibile) e che si tratta di un problema complicato. Diciamolo con franchezza: non è un problema complicato, è un problema praticamente irresolubile. La filiera che passa dalle intercettazioni, all’ascolto, alla trascrizione, al controllo della trascrizione, alla elaborazione da parte della polizia giudiziaria delegata, al trasferimento nell’ufficio giudiziario, alla utilizzazione dei dati in fasi anteriori all’inizio del processo vero e proprio (con una serie di passaggi che coinvolgono un numero indeterminato di persone, spesso soggetti privati - anche se affidatari di un servizio pubblico, dal momento che alcuni servizi sono dati in appalto) è troppo lunga e complessa perché, nel suo percorso, non si aprano falle (là dove non si tratti di fughe volute o pilotate, come lascia sospettare il fatto che ad avere le notizie riservate sono troppo spesso determinate testate di giornale e altrettanto determinati giornalisti). A riprova sta il fatto che, a mia memoria, le indagini per fuga di notizie normalmente si concludono con un nulla di fatto. Di più. Siamo o siamo diventati un popolo di "guardoni", coltiviamo sempre di più una curiosità morbosa e malevola che fa la fortuna dei tanti Savonarola che prolificano nel paese. In questo clima è illusorio pretendere che i giornalisti applichino il "self restraint". Il problema non è, insomma, la diffusione; il problema sono le registrazioni. Ho più volte scritto che l’attuale disciplina delle intercettazioni rappresenta un ragionevole compromesso tra le esigenze di sicurezza sociale e di lotta al crimine e la tutela della riservatezza di ciascuno di noi. Il problema è che i limiti posti dalla legge non sono rispettati e, prima ancora, sta nel fatto che il limite principale dipende dalla discrezionalità del magistrato. La legge, infatti, stabilisce che non per tutti i reati è possibile disporre intercettazioni e rapporta i periodi di tempo nei quali l’intercettazione è consentita alla gravità dei reati. Ma questi ultimi, nella fase delle indagini, sono soltanto ipotizzati e saranno confermati all’esito del dibattimento. È sufficiente, allora, indagare per un reato grave (l’espediente più frequente è quello di ipotizzare l’associazione per delinquere, che per sua natura non dovrebbe mai essere posto a fondamento dell’indagine, costituendone lo sviluppo successivo o finale) anche in relazione a reati minori (quale potrebbe essere una frode sportiva: è accaduto) per rendere possibile l’intercettazione. La legge stabilisce che quest’ultima è lo strumento "indispensabile" per la prosecuzione della indagine quando vi sono "gravi indizi di reato". Oggi è adoperata per andare alla ricerca di prove di reato e, nelle intercettazioni a strascico, è utilizzata per avere notizie di reato. Il codice stabilisce che le prove acquisite illegittimamente non sono utilizzabili. Ma quando l’intercettazione dà prova della commissione di un reato, chi di noi si assumerebbe la responsabilità di assolvere il colpevole perché la registrazione non è utilizzabile? E se l’intercettazione riguardasse un imputato noto, soprattutto se si trattasse di un politico affermato, chi di noi ne pretenderebbe l’assoluzione e, se lo facesse, chi non penserebbe che si è trattato di un intervento di favore su cui inscenare una campagna speculativa? Avviene in tal modo che il legislatore, mettendo mano alle intercettazioni, addirittura, come ho detto, le renda più facili in alcune circostanze (che molto dipendono da valutazioni discrezionali dei pubblici ministeri). Siamo, insomma, in un circolo vizioso dal quale non potremo mai uscire fin quando il processo penale sarà usato come arma di lotta politica. Comprendo il ministro, ma oso sperare in tempi migliori, nei quali si possa discutere di giustizia senza l’afflizione di un giustizialismo di maniera e talora odiosamente strumentale. Per ora, se il suo disegno di legge dovesse abortire, non ne farei un dramma. Anzi. Palermo: carcere Pagliarelli, dopo le denunce dei Radicali il Dap chiede chiarimenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 maggio 2017 "In caso di rilevanza delle specifiche problematiche, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria predispone che siano eseguite le soluzioni". Dopo la denuncia de Il Dubbio, riportando i risultati della visita della delegazione del Partito Radicale coordinata dall’esponente radicale Rita Bernardini, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha chiesto alle direzioni del carcere siciliano del Pagliarelli e di Augusta di fargli pervenire gli elementi utili in ordine alla criticità evidenziate. Grazie al lavoro del militante radicale Gianmarco Ciccarelli che ha riportato meticolosamente le varie criticità riscontrate, nei due istituti penitenziari siciliani sono emerse diverse problematicità così riassunte: da anni i detenuti del carcere Pagliarelli non possono lavarsi tutti i giorni: le docce sono previste 3 volte a settimana e nelle celle ci sono bagni (microscopici, fatiscenti e senza aerazione) dove non è disponibile l’acqua calda; la magistratura di sorveglianza non svolgerebbe il suo ruolo assegnatole dall’Ordinamento penitenziario sia riguardo al trattamento individualizzato dei detenuti, sia nella verifica e attenzione delle condizioni di detenzioni; in entrambi le visite, i radicali hanno potuto constatare che durante il giro si risolvono seduta stante piccoli problemi che per i detenuti sono molto importanti e quindi bisognerebbe pretendere - come prevede l’ordinamento penitenziario - che ogni due settimane questi giri cella siano effettuati dal direttore e educatori. Diversi sono i casi della mala applicazione dell’assistenza sanitaria. C’è il caso, ad esempio, di un di un detenuto di quasi 70 anni che mostra il suo piede gonfio ed edematoso a causa del diabete. Aveva riferito alla delegazione radicale che il piede sta facendo cancrena e rischia l’amputazione. "Ho già firmato la richiesta per essere ricoverato - aveva denunciato il detenuto - ma ancora niente, non mi chiamano; ho un dolore pazzesco, cammino con gli antidolorifici in tasca; vi prego di aiutarmi, vorrei essere ricoverato prima che mi taglino la gamba". Bologna: il Garante regionale dei detenuti "Ipm Pratello promosso, gli ospiti sono pochi" La Repubblica, 20 maggio 2017 "Gli ambienti sono adeguati, l’organizzazione delle attività è buona, i collegamenti con l’esterno sono soddisfacenti e c’è una giusta attenzione alle relazioni con i familiari dei ragazzi detenuti". Sono le parole di Marcello Marighelli, garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna dopo la visita al carcere minorile di via del Pratello a Bologna. A comunicare la valutazione di Marighelli è stata la garante regionale dell’infanzia e dell’adolescenza, Clede Maria Garavini, che ha sottolineato la possibilità di miglioramento del carcere di via del Pratello dopo la fine dei lavori nel cortile della struttura. Inoltre, Garavini ha spiegato che per il numero limitato degli ospiti (22) è possibile intervenire in maniera appropriata su ogni fascia d’età dei detenuti, che va dai 14 ai 25 anni. Tuttavia, la garante dell’infanzia e dell’adolescenza chiede di predisporre, insieme alle Ausl di Bologna, dei programmi educativi per diminuire il rischio di suicidi o atti di autolesionismo all’interno. Bologna: "Sos Pratello", mancano mediatori linguistici al carcere minorile Dire, 20 maggio 2017 Anche se "i lavori sulla copertura dell’edificio sono finiti, e a luglio dovrebbero terminare anche quelli nell’area esterna, e in generale la situazione dell’Istituto è buona", nel carcere minorile del Pratello di Bologna spunta un nuovo problema, quello "dell’assenza, da un mese e mezzo, del servizio di mediazione linguistica, a causa del cambio d’appalto per la gestione del servizio", passato dalla cooperativa Amiss Senlima a Eurostreet. A segnalare il problema è la dirigente del Centro per la giustizia minorile dell’Emilia-Romagna Silvia Mei, che intervenendo durante una seduta di commissione in Comune sottolinea la necessità "di un ripristino del servizio in tempi rapidi, perché la maggior parte dei ragazzi detenuti, circa l’80%, sono stranieri", e di questi la maggioranza, aggiunge il funzionario del carcere Biagio Di Foggia, "è di religione islamica". Un dettaglio non da poco, prosegue Di Foggia, "perché il 26 maggio inizia il Ramadan, e ci sono 12 ragazzi su 22 detenuti che intendono farlo". Per ora, spiega il funzionario, "si sta cercando di rimediare ai possibili disagi con l’aiuto del cappellano del carcere, e abbiamo anche chiesto alla comunità islamica di segnalarci, se possibile, una persona che potrebbe svolgere un ruolo di mediazione linguistica e culturale". Il problema potrebbe però risolversi in tempi brevissimi, perché il Comune, e in particolare l’assessore alle Pari opportunità Susanna Zaccaria, presente in commissione, si è impegnato a ripristinare immediatamente il servizio "coinvolgendo, sul tema della mediazione linguistica, l’assessore al Welfare Luca Rizzo Nervo". Varese: i detenuti potranno di nuovo vedere la televisione di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 20 maggio 2017 Grazie alla protesta delle settimane scorse, il Provveditorato stanzia 9.000 euro per tv e antenne. Per i 70 reclusi nell’istituto lombardo si tratta dell’unico strumento che consente loro di rimanere in contatto con il mondo esterno, viste le pochissime attività trattamentali. I detenuti del carcere di Varese potranno tornare a vedere la televisione. Il Provveditorato regionale per le carceri della Lombardia ha stanziato questa settimana 9000 euro per l’acquisto dei televisori e per il rifacimento dell’impianto dell’antenna televisiva. Come riportato dal Dubbio la scorsa settimana, nel carcere di Varese l’offerta televisiva per chi è ristretto in cella è alquanto limitata. Sono visibili solo Raidue e Raitre in quanto, dal mese di aprile, la centralina del decoder che gestisce l’intero impianto è andata in avaria, con conseguente oscuramento dei restanti canali. Canali, ovviamente, in chiaro. Quindi le reti Mediaset e La7. Per sensibilizzare l’opinione pubblica e le autorità competenti, i detenuti avevano iniziato due volte al giorno la "battitura", la forma di protesta tipica di chi è ristretto, attuata battendo le pentole contro le grate delle celle. La televisione non è uno passatempo superfluo per i 70 detenuti attualmente reclusi a Varese ma l’unico strumento che consente loro di rimanere in contatto con il mondo esterno. Il carcere di Varese presenta molte criticità. Sono ridotte al minimo le attività trattamentali, praticamente solo alcuni corsi di alfabetizzazione per stranieri. E sono limitatissimi gli spazi dove trascorrere le poche ore d’aria: per la stragrande maggioranza del tempo i detenuti sono in cella o nel corridoio. Venerdì passato, una delegazione composta, fra l’altro, dal Consigliere regionale Mario Mantovani (Fi), presidente della Commissione carceri lombarda, si è recata al carcere di Varese per verificare l’effettiva situazione dopo che, la sera precedente, una "vigorosa" battitura aveva richiesto l’intervento anche di diverse pattuglie dei Carabinieri allertate da alcuni cittadini residente nei pressi dell’istituto penitenziario. Mantovani ha avuto un colloquio con una rappresentanza di detenuti ai quali ha assicurato il suo interessamento presso il Provveditorato regionale per risolvere questa problematica. Interessamento che ha avuto l’effetto sperato, visto che in poche ore è stata disposta l’assegnazione della somma di 9000 euro per l’acquisto dei televisori. I detenuti, appresa la notizia, hanno voluto ringraziare pubblicamente Mantovani per l’impegno profuso, inviando una lettera ad alcuni giornali locali, e hanno immediatamente interrotto le manifestazione di protesta. Adesso c’è, quindi, solo da attendere che i soldi arrivino all’ufficio economato della direzione del carcere affinché provveda all’acquisto dei televisori. Milano: una città senza muri, ma la sicurezza è un diritto di Venanzio Postiglione Corriere della Sera, 20 maggio 2017 Se Milano è un modello deve trovare la via tra gli ideali della piazza e la politica di tutti i giorni. Un’immagine che è un pezzo di storia di Milano. Quindi d’Italia. È una foto del ‘68, la scattò Uliano Lucas: davanti alla stazione Centrale. Sullo sfondo il grattacielo Pirelli di Gio Ponti, cioè lo specchio del boom economico, e in primo piano l’emigrante dal nostro Sud con la valigia di cartone e il cappotto troppo largo. Due mondi che potevano confliggere e distruggersi, come immaginava Luciano Bianciardi nel romanzo "La vita agra", oppure (faticosamente) integrarsi e andare avanti. Come è successo. Cinquant’anni dopo lo scenario è sempre la stazione. Il Pirellone non è il più alto come allora, ma resta un incanto. È tutto il resto che è diverso. I nuovi migranti hanno un’altra lingua e un’altra cultura, scappano da qualche inferno del mondo e trovano (a stento) una branda nel dormitorio. Blitz o non blitz, percezione o verità, il piazzale della Centrale fa paura: è meglio dirselo, basta passarci di persona con un bambino invece di commentare dal salotto. In maggioranza sono stranieri che cercano un’attività seria o un passaggio verso i Paesi del Nord, in tanti non hanno capito ancora cosa faranno, non è colpa loro, e in pochissimi (ma sempre troppi) finiscono a spacciare per le vie di Milano: da corso Como, di notte, nel cuore della città nuova, fino alle periferie più lontane, che aspettano la svolta promessa dal sindaco Beppe Sala. Oggi sfila una fetta della città: "Insieme senza muri". Il modello è la manifestazione di Barcellona, l’obiettivo è sicuramente nobile, il senso è che chiudere Milano al mondo equivale a soffocarla. Insomma: una metropoli che appare sicura di sé prima ancora che sicura in senso stretto. Ma la realtà supera le fiction, questo l’abbiamo imparato da tempo, e allora, alla vigilia della marcia, Ismail Tommaso Ben Yousef Hosni ha ferito un poliziotto e due soldati. Alla stazione. Non è un migrante: è nato a Milano da padre tunisino che lo chiama Yousef e madre italiana che lo chiama Giuseppe. Ha postato video dell’Isis ed è indagato per terrorismo. Vive in un quartiere della città dove hanno messo le sirene anti abusivi, come se ci fosse la guerra, e dove i citofoni hanno le grate altrimenti se li portano via. Una storia che sembra francese, con un ventenne di seconda generazione, la banlieue, l’abisso sociale e lo stato islamico. Una vicenda che con la marcia c’entra e non c’entra. È lontana anni luce sul piano razionale. È vicina pochi centimetri nella vita quotidiana e nell’immaginario delle persone, dagli anziani delle case popolari fino ai pendolari che ogni giorno arrivano in stazione, poi ripartono e sono "il mare di Milano con l’onda e la risacca", come scriveva Anna Maria Ortese. La sicurezza è un diritto ed è soprattutto la sicurezza che ferma la xenofobia. Con la prevenzione e i controlli nelle strade (poco o niente da invidiare al resto d’Europa), le pene certe e rapide (molto da invidiare). Accoglienza diffusa per superare i maxi-centri con il consenso dei sindaci, come sta provando a fare il ministro Marco Minniti. Piano per l’inclusione a livello nazionale e anche città per città, spiegando però dove si prendono le risorse, altrimenti è soltanto propaganda. Se Milano è un modello, deve trovare la via (strettissima) tra gli ideali sacrosanti della piazza e la politica complicata di tutti i giorni. Insieme senza muri: speriamo. Ma anche senza paura. Altrimenti le barriere nasceranno da sole, saranno invalicabili e non le butterà giù nessuno. Torino: presentata la relazione un anno di attività della Garante dei detenuti lettera21.org, 20 maggio 2017 Alla presenza del Direttore della Casa circondariale "Lorusso e Cutugno", Dott. Minervini, del Presidente del Consiglio Comunale Fabio Versaci, del Vice Sindaco di Torino Guido Montanari e della Conferenza dei Capigruppo, la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino, Monica Cristina Gallo ha presentato la propria relazione annuale. Martedì 16 maggio in una Sala Polivalente del Padiglione E del carcere di Torino, gremita, la Garante Gallo ha stilato un bilancio, sollevato criticità e proposto strade da percorrere per la tutela dei diritti delle persone private della libertà riepilogando dodici mesi di attività del proprio Ufficio. Una scelta precisa quella di presentare il lavoro all’interno dell’Istituto di pena torinese. Dando in questo modo l’opportunità di partecipare ad una rappresentanza dei detenuti all’evento. "Noi lavoriamo per loro", le parole di apertura della Garante. "Abbiamo il dovere di offrire l’opportunità per chi è in carcere di diventare dei buoni cittadini. Le persone private della libertà non devono essere solo più i destinatari dell’offerta trattamentale, ma diventare essi stessi i protagonisti di un percorso, capace con assunzione di responsabilità e autogestione di allontanarli dalla trappola dell’infantilizzazione". Considerazioni che guidano le attività quotidiane dell’Ufficio, impegnato a diffondere nella collettività un’idea del carcere lontana da luoghi comuni e pregiudizi. Trecento sessantacinque giorni trascorsi per cercare di migliorare norme concepite per una popolazione detenuta ritenuta, dal legislatore, omogenea per lingua e religione, ma che in realtà non è tale. Uno sforzo composito e concepito attraverso numerose azioni, dal rafforzamento delle attività di mediazione, all’ascolto delle singole richieste, a testimoniarlo i 436 colloqui effettuati nell’Istituto Lorusso e Cutugno durante il 2016. Cifra che rappresenta solo una parte, perché non bisogna dimenticare che le competenze di tutela dei diritti e monitoraggio della Garante non riguardano solo le persone private della libertà, ma ugualmente gli ospiti del carcere minorile "Ferrante Aporti", del Cie di c.so Brunelleschi, dei cittadini sottoposti a TSO e delle Rems (in questo caso cittadini torinesi in cura nelle Rems italiane). Attività che diventano una risorsa preziosa per il miglioramento del territorio e per creare una reale cultura di integrazione ed inclusione nello stesso, perché "chi abita il carcere, fa parte del nostro territorio", sottolinea la Dott.ssa Gallo, per questo è necessario che si creino nuovi modelli di cooperazione tra i vari attori che lo popolano e governano. "Bisogna sostenere chi in carcere crea economia carceraria, Freedhome - lo store dell’eccellenza dell’economia carceraria di via Milano 2/C a Torino - ne è un esempio. Urge rafforzare le collaborazioni in tal senso", la considerazione della Garante, perché, prosegue "altrimenti progetti interessanti rischiano di chiudere per mancanza di risorse, in questo momento ad esempio al "Ferrante Aporti" la mediazione culturale è a rischio, e per questo stiamo istituendo un tavolo per scongiurare tale pericolo". Fin qui alcuni flash sul "dentro", ma c’è anche un fuori, l’esecuzione penale esterna, dove si lavora sull’emergenza e dove vanno concentrati altrettanti sforzi per poter creare percorsi personalizzati e rispondere alle singole richieste. In particolare di abitazione e lavoro, di chi, disorientato si rivolge all’Ufficio della Garante. "L’impegno è quello di favorire un atteggiamento di mediazione con tutti gli attori coinvolti in questi percorsi, per facilitare le necessità delle persone. Chiediamo la possibilità di avere i nomi dei dimittendi, in modo da sostenerne i bisogni attraverso uno sportello mirato e di essere ancora più attenti e sensibili in merito alla custodia aperta, anche laddove ora sembra essere difficile poterla attuare. Si devono ipotizzare sistemi di housing sociale, dove le persone con problemi di giustizia possano accedervi, contribuendo al bene della collettività in ottica di giustizia riparativa. Bisogna inoltre ripensare agli scenari a cui vanno incontro i giovani adulti. La strada da intraprendere è quella indicata dal Garante Nazionale, Dott. Mauro Palma, proponendo le "Raccomandazioni" come strumenti che indichino buone prassi da seguire in tutti gli Istituti. Alessandria: carceri sicure per città sicure, una prospettiva di Domenico Arena* alessandrianews.it, 20 maggio 2017 Quanto è sicuro un carcere? Qual è il suo compito? Attraverso quali vie lo si persegue? Siamo sicuri che il modello "carcere-discarica" sia davvero ciò che vogliamo per la nostra società e ciò che può garantire maggiore sicurezza a tutti? Alcune recenti notizie di fatti di cronaca all’interno del mondo penitenziario (ivi incluse le carceri alessandrine) hanno innescato un dibattito su quanto sia (in?)sicuro il carcere e su quali possano essere gli strumenti utili per un suo miglioramento. All’interno di questo dibattito, troppo facilmente si rischiano equivoci e fraintendimenti, tra sommari allarmismi e sottovalutazioni vere o presunte. Di cosa parliamo quando parliamo di sicurezza penitenziaria? La domanda, che torna periodicamente di attualità, necessita prima di tutto di qualche chiarimento preliminare. In un certo immaginario collettivo, il carcere è un’istituzione finalizzata, in primo luogo, a garantire la sicurezza sociale, rinchiudendo tra le sue mura chi quella sicurezza ha già posto in pericolo, rivelandosi così socialmente inaffidabile; penitenziari, dunque, come contenitori di violenza il cui compito è impedire che il proprio contenuto si disperda nell’ambiente esterno, inquinandolo pericolosamente. L’analogia di questa logica con quella della gestione dei rifiuti è evidente, al punto che nei convegni di settore è ormai divenuta una banalità etichettare i penitenziari come "discariche sociali". Se il carcere è una discarica, coloro che ci vivono e ci lavorano sono immersi in un ambiente mefitico, un’aria nociva e insalubre, uno scenario di pericolo incombente ed assoluto; fuor di metafora e in questa prospettiva, il carcere-discarica deputato alla sicurezza sociale è, probabilmente, il luogo più insicuro della nostra società. Dentro questa visione, il riflesso condizionato è quello di rafforzare la dimensione della sorveglianza fisica, in una logica di contrapposizione muscolare tesa a mostrare, ai detenuti violenti, tutta la capacità di reazione e la forza del sistema di controllo e di repressione degli atti illeciti nel territorio della pena. È, storicamente e archetipicamente, il modello più utilizzato - perlomeno nel nostro Paese - per garantire l’ordine e la sicurezza, un’endiadi tanto enfatica quanto, nella realtà dei fatti, difficile a praticarsi: un modello - la Storia del carcere italiano ce lo ha purtroppo abbondantemente dimostrato - ben poco efficace in passato e drammaticamente inadeguato alle sfide del nostro tempo. Come accade in molte occasioni, anche in questo ambito, il microcosmo carcerario si trova a svolgere il ruolo di battistrada e laboratorio di questioni sociali ben più ampie: ed, infatti, come accade anche nella vita "libera", la dimensione della violenza, svincolatasi - almeno in parte - dalle ideologie salvifiche e sistemiche del ‘900, si polverizza in una miriade di atti spesso incomprensibili e legati, al di là delle dimensioni specifiche, dall’unico filo rosso dell’odio e del disagio. Non più (o non solo) una violenza organizzata, fredda, in qualche modo controllata e finalizzata da associazioni criminali e terroristiche che la pianificano e "autorizzano", quanto piuttosto, un’esplosione - più o meno premeditata, ma spesso del tutto estemporanea - di forza distruttiva priva di altri obbiettivi oltre a quello del male inferto, in qualche caso solo sponsorizzato (ma non guidato) da prospettive fondamentalistiche o antisistema. Questa dunque è la nuova sfida della violenza, dentro e fuori dal carcere. È una sfida che richiede, a chi si trova a doverla fronteggiare, intelligenza oltre e molto più che muscoli. È, tra l’altro, una sfida gravida di rischi strutturali, foriera di potenziali e dirompenti corollari, a partire dalla possibile progressiva instaurazione di una dimensione quotidiana, diffusa ed imprevedibile di violenze endemiche. Come comprendere, decodificare e leggere uno scenario di tale complessità, come fronteggiare efficacemente i pericoli che esso reca con sé: questa è la questione che dobbiamo imparare ad affrontare adeguatamente. Su questa direzione di marcia non ci sono ricette preconfezionate e automatiche, risposte standardizzate e routinarie; anzi, un approccio possibile deve muovere proprio dalla necessità di diversificare, di distinguere le situazioni concrete, evitando generalizzazioni, sottovalutazioni e allarmismi. Dare per scontata una lettura imperniata sulla omogeneità delle persone come automaticamente violente e pericolose in quanto detenute costituisce - oltre che una evidente mancanza di giustizia - un errore metodologico cruciale, una profezia destinata ad auto-avverarsi, consegnando nelle mani di chi effettivamente ha intenzioni bellicose una manovalanza estesa ed indistinta. Ciò che dobbiamo fare, nelle carceri (e, credo, possibilmente nella società esterna) è esattamente l’operazione inversa: prenderci cura e conoscere le persone individualmente, fornendo risposte ed opportunità diversificate ai bisogni, alle situazioni e alle intenzioni di ciascun essere umano; capire e ricostruire le situazioni, le storie, le estrazioni culturali e familiari, le dinamiche di relazione di ciascuna persona detenuta, per poter decodificare adeguatamente la realtà e prevenire - o, almeno, ridurre al minimo - i rischi e i pericoli. È un lavoro estremamente dispendioso, che necessita di considerevoli risorse umane - oltre che tecnologiche -, sia sotto l’aspetto quantitativo che sotto quello qualitativo. Ecco allora che il mio cruccio (come quello di tanti colleghi) di non avere a disposizione le tante risorse necessarie - a cominciare dai poliziotti penitenziari, educatori, psicologi, assistenti sociali, per non dire delle opportunità di lavoro e delle risorse logistiche esterne al carcere - non può che essere comune con quello delle Organizzazioni Sindacali, che da troppi anni si battono insieme a noi per spiegare che un carcere che funziona non può essere un contenitore malsano di disagio, ma deve costituire il terreno privilegiato di investimento di risorse massicce e mirate in tema di risocializzazione ed intelligence, di umanità e di sicurezza, di dignità e decoro per tutti coloro che in carcere vivono e lavorano. Non sono questioni riducibili allo stantio dibattito su buonismi più o meno immaginari, contrapposti ad altrettanto immaginarie ed irrealistiche durezze generalizzate. Sono invece esigenze reali, che sono direttamente connesse alla sicurezza di ciascun cittadino, a partire dai nostri figli, nelle strade, sulle piazze, nella vita di tutti i giorni. L’alternativa è scivolare, gradatamente e inesorabilmente, lungo il piano inclinato della cieca contrapposizione: un percorso inefficace e denso di frustrazioni e pericoli, accompagnato dalla amara e fatalistica constatazione di come il contesto carcerario rischi di essere il fin troppo facile terreno di cultura per il proselitismo dei fondamentalismi di turno, incubatore oggi delle violenze di domani. *Direttore della Casa di Reclusione di Alessandria Firenze: a Sollicciano 500 detenuti in digiuno e preghiera "Papa Francesco vieni da noi" di Roberto Davide Papini La Nazione, 20 maggio 2017 Partirà il 24 maggio l’iniziativa promossa da don Vincenzo Russo per chiedere al pontefice di fare tappa al carcere fiorentino in occasione della sua visita a Barbiana. Digiuno e preghiera "per chiedere a Papa Francesco di indirizzare i suoi passi verso il carcere di Sollicciano". Così don Vincenzo Russo, cappellano del carcere fiorentino, spiega l’iniziativa presa da lui e "da oltre 500 detenuti di Sollicciano" (una percentuale piuttosto alta, se si pensa che in totale sono oltre 700) per lanciare un appello al Papa, affinché li vada a trovare in occasione della sua visita a Barbiana, il 20 giugno, in onore di don Lorenzo Milani. Un’iniziativa annunciata da Russo a "Radio Carcere" su Radio Radicale. "Secondo noi - dice don Russo - il carcere di Sollicciano è in evidente continuità con Barbiana. È un luogo in cui si concentrano tantissime criticità: malattie, povertà, ignoranza". Il cappellano e i detenuti hanno scritto al Papa chiedendo "che sia con noi non solo con il cuore, ma anche con una presenza fisica". Da qui l’iniziativa di preghiera e digiuno che partirà il 24 maggio: "Non è uno sciopero della fame, non è una protesta - tiene a precisare don Vincenzo Russo - è un modo per condividere la vita e le sofferenze dei detenuti e chiedere al Papa di venirci a trovare". Si tratta per Russo di "aprire una nuova strada guardando in faccia alla realtà del carcerato, bisognoso di un rapporto che entra nel vivo delle sue difficoltà" Per Papa Francesco (sempre molto attento alla sofferenza dei carcerati) potrebbe essere l’occasione per visitare un carcere pieno di problemi, dove il sovraffollamento (774 detenuti su 494 posti regolamentari) e l’inadeguatezza delle strutture creano gravi disagi e sofferenza ai detenuti, ma anche a chi ci lavora che, al contrario, è costantemente sotto organico. Sui tempi del digiuno ancora non ci sono decisioni, ma don Vincenzo Russo non vuole mollare: "Io penso di andare avanti, tengo particolarmente al fatto che il Papa sia con noi perché è vicino alla sofferenza e alla povertà. Lo aspettiamo nel campo di calcio dove il suo elicottero può atterrare. Vogliamo abbracciarlo". Libri. "Arrestati" di Can Dundar. Diario di una prigionia di Chiara Cruciati Il Manifesto, 20 maggio 2017 Il libro, uscito per "Nutrimenti", del giornalista e direttore del quotidiano turco "Cuhmuriyet". Domenica, presentazione al Salone del libro di Torino. Can Dundar guarda la Turchia dalla sua cella. Ne descrive le trasformazioni naturali e imposte, le speranze evaporate e l’impegno politico, racconta la sottocultura plasmata dal regime di Erdogan e le paranoie tipiche di un autoritarismo. E alla fine, quasi da spettatore privilegiato (lo scrive lui stesso, ringraziando il governo che lo ha arrestato di avergli regalato tempo a sufficienza per fermarsi a pensare e capire), tira fuori un diario che sfocia nel romanzo. Se si leggesse "Arrestati" (Nutrimenti, pp. 264, euro 17, presentazione domenica al Salone del libro di Torino) senza sapere chi è Can Dundar, cos’è Cuhmuriyet - il quotidiano di opposizione di cui era direttore - e qual è stato il calvario giudiziario condiviso con il caporedattore Erdem Gul, si scorrerebbero le pagine come fosse una storia inventata. Ed invece in quel diario della prigionia c’è la Turchia del governo Akp e del progetto neo-ottomano del suo presidente. Una prigionia lunga tre mesi, dal novembre 2015 al febbraio 2016, imposta sulla base dei presunti reati di divulgazione di segreto di Stato e sostegno ad organizzazione terroristica: Dundar, sostenuto dalla tutta la redazione, aveva pubblicato, pochi mesi prima, un reportage corredato di fotografie sulla consegna di armi da parte del Mit, i servizi segreti turchi, a gruppi islamisti attivi in Siria. A denunciarlo era stato lo stesso Erdogan, primo atto di una lunga campagna repressiva contro una delle voci dissidenti del panorama mediatico turco. Dundar e Gul finiscono in prigione, il primo mese e mezzo in isolamento in una cella di 25 metri quadri su due piani e un minuscolo cortile circondato da mura alte 10 metri. Il libro che ne è uscito, scritto da Dundar come poteva, le prime pagine sui moduli per la cantina del carcere, è immediato e spontaneo. È il resoconto di una prigionia, un lavoro di introspezione, ma anche l’attento esame del lavoro di un giornalista indipendente e l’elogio della scrittura: la penna viene esaltata dal suo possessore come strumento di espressione sì, ma anche come arma di difesa e attacco (Dundar dedica un intero capitolo solo all’arte dello scrivere). È il racconto quotidiano dell’ingegno umano per sopravvivere all’isolamento, dei trucchi per tenere il corpo più caldo possibile o per evitare che si atrofizzi per il poco movimento, delle tattiche (in alcuni casi suggerite da amici giornalisti incarcerati in precedenza su editoriali diretti al direttore-prigioniero) per lavare i vestiti con una busta che si fa lavatrice o per estrarre il colore dalle riviste che arrivavano in cella. È anche una storia della Turchia, narrata attraverso i nomi di chi lo ha preceduto, chi - scrittore, giornalista, dissidente, artista, politico - ha conosciuto la prigione per la propria attività politica lungo tutta la storia contemporanea del paese, da Ataturk all’Akp. Ed è, seppur nascosto tra le righe, l’analisi del concetto più profondo di carcere. Al di là delle ragioni per cui le sbarre vengono imposte - che si tratti di oppositori politici o criminali comuni - l’elemento in più che Dundar trasmette al lettore, forse senza volerlo, è la natura stessa della prigione: la separazione dal mondo, la riduzione dell’essere umano alla sua colpa (vera o presunta), la limitazione della vita quotidiana e l’imposizione del tempo e dei tempi, la costrizione in spazi minimi sia fisici che psicologici e l’omologazione che annulla la specificità del soggetto. Il prigioniero si riduce al suo corpo fisico, privato della naturale relazione con l’ambiente esterno, la società, l’interazione umana. I gesti quotidiani che Dundar racconta sono quelli di qualsiasi carcere: la famigerata Silvri in Turchia è modello di una forma punitiva universale. A salvarlo è l’esterno, il mondo fuori che entra nelle ore lente e identiche dalla tv e dai giornali, che raccontano di sit-in, manifestazioni, proteste e gli mostrano i volti dei colleghi, dei compagni e dei familiari. Cinema. "La prima meta", di Enza Negroni. I Giallo Dozza giocano sempre in casa di Maria Grosso Il Manifesto, 20 maggio 2017 Insieme si allenano, portano oltre l’asticella dello sforzo; scandiscono il numero delle flessioni in coro, spingono il corpo al limite su e giù per le gradinate, lo incastrano a fianco agli altri nel bisonte metallico della macchina di mischia. Dividono la tavola, la convivialità del terzo tempo, i video dei match e le lezioni tattiche. E sempre insieme si addormentano nelle brandine contigue, la biancheria stesa tra i fori delle grate, la luce del giorno che filtra nelle stanze dietro le sbarre blu, tra corridoi in penombra e cancelli governati dal tintinnio delle chiavi delle guardie; il caffè in un bicchierino di plastica, una sigaretta, una lettera da leggere e i passi da contare nelle ore d’aria, la vista filtrata, interrotta da reticolati e muri. "In Italia sono 9 gli istituti penitenziari che sperimentano il rugby con l’obiettivo del recupero fisico, sociale ed educativo dei giovani detenuti", si legge nell’incipit su fondo nero de La prima meta, documentario di Enza Negroni, molto amato a dicembre al 57º Festival dei Popoli e il 10 maggio a "Il cinema che cambia", continuum romano della rassegna, all’Apollo 11, dopo la tappa a Visions du Réel a Nyon. A Bologna è invece il carcere di cui si narra nel film, nei luoghi della regista (esordio di finzione nel ‘96 con Jack Frusciante è uscito dal gruppo), dove ha intrapreso la sua ricerca sul documentario - in questo caso è anche produttrice con Giovanna Canè - mentre i colori della squadra sono quelli della Giallo Dozza: 40 giocatori tra i 20 e i 35 anni, condanne dai 4 anni all’ergastolo; militano in C2 e il loro allenatore è Max Zancuoghi. Il soggetto, per la complessità dei mondi narrati e loro punti di scontro e di tangenza, è dunque di per sé avvincente, pure non basterebbe, se non ci fosse un certo sguardo a fare questo film, anche fisicamente impegnativo - lunghi mesi per le stanze del carcere, tra allenamenti, nel rugby non ci sono stop per pioggia o neve, e partite - uno sguardo discreto e partecipe, capace di dare pennellate sulle singole vite (la maggior parte immigrate), ma per lo più teso a privilegiare la dimensione corale di entrambe le esperienze, carceraria e rugbistica. In particolare, rispetto a quest’ultima, sia per chi conosce a fondo questo sport (ringrazio Carmelo Marcelli per le suggestioni preziose), sia per chi vi si accosta per la prima volta, è arduo non farsi coinvolgere dallo spirito di solidarietà che emerge dal film e che fa del rugby un mondo ancora a sé: un universo di corpi, come verità che il documentario abbraccia in toto, tra ridondanza fisica, rabbia e regole da non violare, rispetto degli avversari e corridoio per omaggiarli, bende, grovigli umani e Voltaren; le luci malinconiche degli allenamenti notturni (la fotografia è di Roberto Cimatti, le musiche di Giorgio Canali e MaterElettrica), i contrasti, il timore di un abbandono. "I Giallo Dozza giocano sempre in casa", ma distesi in cerchio, uno accanto all’altro, fanno fiorire mete ancora più grandi e, dal basso, nei salti, sembrano librarsi oltre la ringhiera. Televisione. "I miei 60 giorni all’inferno". Carceri Usa, note false dall’inferno di Andrea Fagioli Avvenire, 20 maggio 2017 Diciamo la verità: al primo colpo il docu-reality statunitense "I miei 60 giorni all’inferno" non convince più di tanto. Quello che viene definito "esperimento sociale" sembra abbia qualcosa di falso. Forse sarà per il solito doppiaggio così poco credibile. Fatto sta che si stenta a prendere per autentica la storia di nove volontari innocenti che si infiltrano sotto copertura in un carcere statunitense di massima sicurezza. E pensare che siamo alla terza stagione (in prima tv in Italia il mercoledì alle 22.00 su Crime+Investigation, canale 118 della piattaforma Sky) mentre è in preparazione la quarta. Sede dell’"esperimento" è il Fulton County Jail di Atlanta, un penitenziario di massima sicurezza tra i più popolati in assoluto: duemilacinquecento detenuti. Ogni episodio viene introdotto dallo scrittore russo Nicolai Lilin, con un’aria piuttosto inquietante, che nel corso della sua vita ha provato l’esperienza carceraria nella Russia post-sovietica. L’intento della serie sarebbe quello di mettere a fuoco da vicino e senza filtri le principali lacune del sistema carcerario americano: dal sovraffollamento agli episodi di corruzione, passando per lo spaccio e l’utilizzo di droga, fino agli scontri tra gang. Questo dovrebbe aiutare il responsabile della struttura carceraria, Mark Adger, a scoprire meccanismi, inganni e traffici di cui non potrebbe mai venire a conoscenza in altro modo: "Saranno i miei occhi là dentro", afferma Adger di fronte alle telecamere. Telecamere che con la scusa di un documentario sulla vita nelle carceri americane si muovono con gli operatori nelle zone comuni del carcere, mentre altre, di nascosto, vengono piazzate in tutti i luoghi, celle comprese, per riprendere ventiquattr’ore su ventiquattro i detenuti. La presenza delle telecamere, almeno di quelle a vista con dietro l’operatore, condizionano ovviamente l’atteggiamento dei reclusi, anche se non mancano situazioni forti con violenze fisiche e verbali. Colpisce invece nel privato la quantità di droga che sembra circolare in quella che è notoriamente riconosciuta come una struttura penitenziaria controversa, pericolosa, con metodi estremamente rigorosi e condizioni di vita estreme e rischiose. Il tutto ripreso, come suole dirsi, "senza censura", ma con il montaggio che, di fatto, detta il racconto. Migranti. Normalizzare le Ong unico obiettivo dell’indagine di Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 20 maggio 2017 Il punto di caduta politico del documento prodotto dalla Commissione difesa del Senato sull’operato delle Organizzazioni Non Governative (ong) impegnate nel salvataggio delle "nude vite" migranti, è uno ed uno solo: la normalizzazione delle organizzazioni della società civile che rivendicano la coerenza tra gli enunciati contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la loro pratica. Il resto, le raccomandazioni alla trasparenza dei fondi, gli obblighi a conformarsi al diritto internazionale (quale?), sono evenienze già messe in essere dalle Ong da molto tempo e dunque suonano come giustificazioni del vero scopo dell’inchiesta. Chi, infatti, avesse voluto informarsi realmente sulle condizioni cui ottemperano le organizzazioni non governative, sia a livello internazionale, che europeo, ma anche nazionale, avrebbe subito avuto le prove che i loro bilanci sono pubblici, le regole di gestione dettate dalle occhiute e inflessibili burocrazie onusiane (dell’Onu), comunitarie ed anche italiche, che non fanno certo mancare i controlli di merito e di metodo. Difficilmente un partito politico o un imprenditore privato sarebbero sottoposti a simili pratiche ed anche, nel caso delle Ong internazionali, a vere e proprie verifiche sulla competenza dei loro addetti. Se qualcuno avesse perso qualche minuto per leggere, ad esempio, i termini dei contratti di partenariato che legano alcune Ong internazionali ad Echo, l’ufficio europeo per l’aiuto umanitario, si sarebbe accorto che le raccomandazioni della Commissione difesa sono solo i prerequisiti per ottenerlo, che non solo vengono verificati dall’Unione europea allo scadere di ogni periodo, ma controllati per ogni singolo intervento finanziato. Dunque le risultanze della Commissione sono solo i dispositivi ridondanti di una operazione di portata ben più vasta e che, lo diciamo con grande chiarezza e fermezza, oggi cerca di colpire le Ong più esposte sul fronte migranti, per domani ricondurle, magari opportunamente screditate, nell’alveo degli operatori al servizio di un sistema che si nutre di diseguaglianze crescenti. Sappiamo bene come funziona questo gioco: sinché ci si occupa di alleviare i sintomi, emarginazione, povertà, migrazioni, e via enumerando, si è ben disposti a tirare fuori qualche spicciolo per la cooperazione allo sviluppo (quale?) o l’aiuto umanitario (meglio se gestito dai militari), ma mica tanti sennò la cosa si fa seria, salvo a diventare feroci, sino al linciaggio ed alle accuse infamanti (connivenze con i criminali trafficanti di esseri umani) quando le Ong denunciano le cause e, ancor più, propongono soluzioni che vanno a squilibrare i dettami della necro-politica imperante. Ma, fatto forse ancora più grave, dato che questo teatrino lo conosciamo bene, è l’evidenza che una politica sempre più debole e subalterna alle logiche del grande molok della disinformazione mediatica, si sia ridotta ad esercitare il suo residuo potere prescrittivo proprio su quegli strati di società che dovrebbe, non solo rappresentare, ma soprattutto sostenere ed ascoltare. Mai le Ong, almeno quelle internazionali, hanno voluto sostituirsi agli Stati ed ai Governi, creando un sistema parallelo o in competizione. Il nostro scopo, invece, è sempre stato quello di proporre soluzioni generalizzabili che diventassero politiche atte a risolvere gli annosi problemi dell’umanità nel quadro di una solidarietà di specie e biosferica. Il dialogo con la politica e le sue istituzioni è sempre stato parte integrante della nostra azione, della quale gli interventi sul terreno costituiscono non solo la parte preponderante, ma rivolta anche a mostrare concretamente il "che fare". Per questo impedire alle Ong internazionali di percorrere, nel pieno rispetto dei Diritti umani, le strade della solidarietà e ricondurle ad una ruolo ancillare e subalterno a soluzioni che sino ad ora non hanno mostrato nessuna reale efficacia, né tantomeno capacità di innovazione, significa amputare quel poco di autonomia del politico che ancora esiste. *Presidente Cini (Coordinamento italiano network internazionali) Droghe. Dalla Svizzera arriva la cannabis in versione light di Simona Ravizza Corriere della Sera, 20 maggio 2017 I coltivatori hanno messo sul mercato una varietà con Thc (il principio attivo) inferiore all’1%, ma è stato aumentato il livello di un altro cannabinoide legale i cui effetti non sono stati ancora ben studiati. In Emilia Romagna si studia un prodotto simile. I campi dove la coltivano sono raggiungibili solo dopo una scarpinata di un’ora o con l’elicottero. In una località tenuta segreta e protetta dal filo spinato, sopra la valle di Biasca. Alessia Caverzasio, 36 anni, per adesso prima e unica ticinese con il permesso di vendere canapa, non vuole svelare il luogo esatto della coltivazione: troppi rischi di furti e di occhi indiscreti. Il prodotto ha una particolarità, che sta facendo fare la fila in Canton Ticino anche agli italiani. Il suo livello di Thc - il più noto principio attivo della canapa - rispetta i limiti della legge svizzera. Ma l’effetto viene assicurato dal potenziamento di un altro cannabinoide, il Cbd. "In Italia", chiarisce subito Caverzasio, "questa varietà di cannabis è considerata tuttora una sostanza stupefacente". I clienti dall’Italia - L’autorizzazione alla vendita al dettaglio è appesa alla parete del negozio. Gliel’hanno rilasciata il 20 marzo: "In poche settimane abbiamo già il 30 per cento di clienti italiani". Del resto, agli svizzeri, il fiuto per gli affari non manca. Il nuovo business, che dalla Svizzera tedesca e francese sta arrivando anche in Ticino, a due passi dal confine con l’Italia, è la canapa light. Stesso aspetto, identico profumo di quella illegale, ma con un mix innovativo di cannabinoidi che la rende conforme alla legge. L’incrocio magico - Dopo la normativa federale sugli stupefacenti entrata in vigore nel luglio 2011, ci è voluto qualche anno per organizzarsi. Alla fine l’incrocio magico di piante è stato realizzato. "I coltivatori sono riusciti a mettere sul mercato cannabis con Thc inferiore all’1%", dice Andrea Lurati, comandante della sezione Antidroga del Ticino, allargando le braccia. "In compenso, è stato aumentato il livello di un altro cannabinoide, il Cbd, al momento legale, i cui effetti non sono stati ancora ben studiati". Caverzasio non ci gira intorno: "Il prodotto viene acquistato per essere fumato", ammette. "Con la riduzione del Thc siamo riusciti a diminuire gli effetti psicotropi, ma con il potenziamento dei livelli di Cdb abbiamo ottenuto effetti rilassanti e ansiolitici". Tasse al 25 per cento - È venduta in pacchetti come fosse semplice tabacco: 2,5 grammi costano 32,50 franchi (un po’ meno di 30 euro), mentre il prezzo di 5 grammi è di 65 franchi (60 euro). L’autorizzazione della Polizia cantonale necessaria per mettere in commercio la canapa costa 500 franchi (490 euro). Le tasse da pagare sono al 25 per cento, una percentuale che comporta per l’Amministrazione federale delle dogane ottimi incassi. In Ticino in pochi mesi le richieste di vendita sono già otto, di cui tre rifiutate. Lo smercio di marijuana legale per adesso avviene solo nel padiglione industriale della ditta Purexis a Manno, periferia di Lugano, comune tra i più ricchi e sede di multinazionali. Caverzasio è la titolare del permesso, strettamente personale. Ma altri aspettano di mettersi sul mercato. "Attendiamo il via libera definitivo a breve", assicura Wagner Trivioli del negozio per fumatori Growsmoke di Arbedo, vicino a Bellinzona. "Noi siamo pronti". Il permesso è subordinato a un interrogatorio, la fedina penale dev’essere pulita, lo smercio non può essere a ridosso delle scuole: "In ogni caso i minorenni non possono acquistarla". Il ritorno dei canapai - È la premessa per un ritorno dei canapai in Ticino, che fino al 2002 è stato la piazza preferita dagli italiani per l’acquisto di marijuana. Poi ci fu un giro di vite pesante, voluto dall’allora ministro della Giustizia Luigi Pedrazzini, supportato dal procuratore pubblico Antonio Perugini, entrambi del Ppd, il corrispettivo italiano della vecchia Dc: "A un certo punto ci si è resi conto che il fenomeno ci stava sfuggendo di mano", spiega l’ex consigliere di Stato in carica dal 1999 al 2011. "Era un fiorire di canapai ovunque. E Il problema non era il mercato locale, ma il boom di acquisti dall’Italia". Erano i tempi in cui i dibattiti pubblici tra favorevoli e contrari alla liberalizzazione della cannabis mandati in onda dalla Rsi (la tv di Stato svizzera) si svolgevano addirittura nei canapai. Il pugno di ferro portò alla chiusura dei negozi. Ma ora c’è una recrudescenza del fenomeno. Qui, nella Svizzera conosciuta anche per essere stata la patria di Albert Hofmann, il chimico che a fine anni Trenta per primo sintetizzo l’Lsd, la droga per eccellenza del movimento hippie. "Proteggere i minorenni" - La Polizia cantonale è in allerta. "La marijuana legale a occhio nudo non è in alcun modo distinguibile da quella illegale", sottolinea il comandante Lurati. "L’unico modo per capire la differenza è procedere con le analisi di laboratorio tornate all’ordine del giorno". L’ha sperimentato la ditta Purexis che poche settimane fa si è vista sequestrare tutta la merce: "Ma dopo le analisi di laboratorio", dice soddisfatta Caverzasio, "gli agenti hanno potuto appurare che i nostri prodotti rispettano la legge federale". Pedrazzini, anche se non ha più incarichi politici, non nasconde la sua preoccupazione: "Il livello di impegno per contrastare una nuova fioritura di canapai deve essere commisurato alla necessità di proteggere i minori, anche a costo di risultare restrittivi con gli adulti". In Emilia Romagna - E adesso l’idea della canapa light sta iniziando ad avere seguito anche in Italia. Non solo tra i consumatori. È di pochi giorni fa la notizia apparsa sui giornali dell’arrivo in commercio di una varietà di marijuana con un valore di Thc inferiore allo 0,6 per cento, il limite di legge consentito a livello nazionale (quello elvetico è più alto). È stata presentata alla fiera internazionale della canapa a Casalecchio di Reno da Easyjoint, un’azienda emiliana che ammette di essersi ispirata proprio alla Svizzera. E sicura di potere fare ottimi affari visto il boom d’Oltreconfine. Libia. È guerra nel Fezzan, in campo "milizie islamiste" di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 20 maggio 2017 Oltre 130 morti, Haftar accusa Tripoli. Il governo Serraj: non abbiamo dato l’ordine di attacco alla base. Il caos libico è deflagrato di nuovo sotto forma di guerra del tutto asimmetrica nel deserto del Fezzan, a una sessantina di chilometri dalla città-fortezza di Sebha. La battaglia è scoppiata tre giorni fa con un attacco in grande stile alla base aerea di Brak al Shati, controllata fino a quel momento dalle milizie fedeli al generale Khalifa Haftar. L’attacco, che di fatto viola la tregua tra le due entità che si contendono la sovranità sul frantumato paese - Tripoli e Bengasi per semplificare - viene però sconfessato dal governo di Tripoli di Fayez Al Serraj. È il rompicapo libico, la cui unica certezza è la completa instabilità del Paese, di nuovo un passo oltre l’orlo della guerra civile. La strage è di "soldati" di Haftar, inquadrati nella milizia chiamata "Brigata 12", più un certo numero di civili. Neanche il numero dei morti però è sicuro. Secondo fonti mediche citate dall’emittente Sky News Arabiya il bilancio ieri pomeriggio sarebbe di 134 vittime, mentre il sindaco della città Ibrahim Zami ha parlato con i media locali di 74 soldati morti. Le stesse fonti mediche dell’ospedale di Brak riferiscono poi che alcuni dei cadaveri risultavano essere stati sgozzati, altri freddati con un colpo alla nuca, alcuni bruciati. E la tv attribuisce le efferatezze contro i miliziani sotto attacco a non meglio precisate "milizie estremiste". L’assalto, come conferma il sindaco, è stato messo in atto da un gruppo specifico delle milizie di Misurata, la città-stato che fornisce la maggiore forza armata al governo di Tripoli. Il gruppo viene chiamato "Terza Forza" e c’è più di un sospetto che sia completamente scappato di mano al governo di Al Serraj. Infatti il comunicato del ministero della Difesa di Tripoli ieri oltre a invitare alla preghiera per le vittime militari e civili della strage e dopo aver ribadito di considerare ancora "l’esercito libico nel sud, nell’est e nell’ovest della Libia come un esercito unico" per cui "i suoi feriti siano i nostri feriti", sostiene di non aver impartito nessun ordine di attacco contro la base aerea. "Gli ordini impartiti alle nostre forze sono stati sempre chiari e volti alla tregua, tanto che non abbiamo dato alcun ordine di avanzare o di attaccate la base". Poi il comunicato continua addossando in ogni caso la responsabilità delle morti "a coloro che hanno iniziato con i raid aerei su Tamanhint", cioè le truppe fedeli ad Haftar. I deputati del parlamento di Tobruk, legati al generale e il loro presidente Aguila Saleh dopo aver proclamato tre giorni di lutto "per le anime dei martiri delle forze armate libiche cadute nell’attacco vile delle milizie terroriste", denunciano profanazione di cadaveri e uccisioni sommarie e addossano la responsabilità al ministero della Difesa di Tripoli "per il sangue versato dopo che era stata accolta una tregua dell’Esercito libico", così si chiama la milizia di Haftar. Martin Kobler, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, condanna le violenze commesse alla base aerea di Brak al Shati e afferma che "potrebbero costituire un crimine di guerra perseguibile dalla Corte internazionale di giustizia", invitando per altro le parti a non fasri "scoraggiare" nel trovare "soluzioni politiche pacifiche". Il drappo nero - Il non detto di tutta questa vicenda è cosa si celi dietro la ripresa del conflitto nel Fezzan, territorio desertico a ridosso di un confine poroso con il Niger e l’Algeria dove transitano contrabbandieri di ogni risma e dove passa anche la rotta dei migranti. Ieri è circolata sul web una foto - da fonte incerta, coperta dall’anonimato - che faceva vedere l’avanzata sulla pista di otto pick-up della colonna di miliziani all’assalto della base di Brak al Shati con una bandiera nera dell’Isis. La didascalia recitava: "Bandiere dell’Isis si nascondono dietro le milizie di Misurata". Lo sventolio del drappo nero con l’inconfondibile scritta in arabo nel tondo bianco sarebbe un ritorno sulla scena libica dopo la cacciata da Sirte, oltre a un grosso grattacapo per Serraj, impegnato a stringere mani e accordi con l’Italia e l’Europa, in cambio di fondi, per fermare i migranti. Contro Haftar si erano già scontrati i qaedisti delle Brigate della difesa di Bengasi, provenienti da Ansar al-Sharia, ma sulla costa, per il controllo dei terminal petroliferi. La ricomparsa del drappo nero nel Fezzan a fianco della frangia islamista di Misurata, se confermata, sarebbe tutta un’altra partita. Libia. Medici Senza Frontiere: l’assistenza a migranti e rifugiati detenuti a Tripoli medicisenzafrontiere.it, 20 maggio 2017 Nel corso del primo quadrimestre del 2017, abbiamo continuato a fornire assistenza medica di base e salvavita ai rifugiati e migranti detenuti nella capitale Tripoli. Più di 4.000 visite mediche sono state effettuate in sette diversi centri di detenzione sotto il controllo dell’Autorità per la Lotta all’Immigrazione Clandestina (Directorate for Combating Illegal Migration - Dcim). Circa 1.300 detenuti al mese sono stati curati attraverso cliniche mobili per patologie come malattie della pelle, diarrea, infezioni del tratto respiratorio e del tratto urinario. Queste malattie prevenibili, come la malnutrizione, sono la diretta conseguenza delle condizioni di detenzione. Le condizioni nei centri non corrispondono a nessuno standard nazionale, regionale o internazionale. Malnutrizione degli adulti - Il cibo distribuito nei centri di detenzione è spesso insufficiente sia in quantità sia in qualità. Nei primi tre mesi del 2017, vi sono state interruzioni nella distribuzione di cibo in due centri di detenzione e i detenuti sono rimasti per giorni senza cibo. Come risultato, stiamo curando adulti che soffrono di malnutrizione. A gennaio erano 13 i pazienti affetti da malnutrizione acuta in cura nel programma di nutrizione terapeutica di MSF, a febbraio 19 e a marzo 20. Sovraffollamento - Il numero dei detenuti in ciascun centro cambia in modo significativo. Senza un sistema legale vigente in Libia, le persone sono detenute arbitrariamente e resta poco chiaro il funzionamento del sistema di detenzione. Le persone compaiono da un giorno all’altro dopo essere state intercettate in mare dalla Guardia Costiera libica, arrestate in strada, radunate in blitz notturni, o portate in carcere da singole persone. I detenuti vengono improvvisamente rilasciati durante la notte o trasferiti in altro luogo imprecisato. Rinchiudere un ampio numero di persone in spazi piccoli causa dolori muscoloscheletrici e la trasmissione di malattie e infezioni, come scabbia e varicella. Il numero di malattie da infezioni respiratorie è molto influenzato anche dalla scarsa ventilazione. Nonostante le condizioni di sovraffollamento siano leggermente migliorate, nel corso dei primi tre mesi dell’anno, abbiamo riscontrato celle sovraffollate. Supporto alla salute mentale - La detenzione ha un impatto diretto sulla salute mentale dei detenuti che non hanno un’immediata prospettiva di migliorare la loro situazione, e spesso nessuna idea del perché o per quanto saranno detenuti. Un ampio numero di detenuti soffre di iper-vigilanza, una condizione nella quale le persone sono ossessionate dal controllo dell’ambiente circostante, per timore di possibili pericoli, e si spaventano facilmente. Molti detenuti hanno pensieri suicidi, difficoltà a dormire, mostrano sintomi da disordini da stress post traumatico e soffrono di attacchi di panico, depressione e ansia. Svolgiamo attività psicosociali nei centri di detenzione e realizza sedute individuali. Durante questo periodo i nostri team hanno fornito anche cure psichiatriche a 17 persone. Ferite dovute alla violenza - Stiamo trattando ferite legate alle violenze incluse cicatrici visibili, contusioni e lacerazioni. A gennaio sono state trattate per questo tipo di ferite 5 persone, a febbraio 8 e a marzo 3. Trasferimenti salvavita - Nel caso di un’emergenza medica, tentiamo di trasferire i pazienti negli ospedali di Tripoli. Durante i primi 4 mesi dell’anno, abbiamo trasferito più di 53 persone che avevano bisogno urgente di cure mediche specialistiche. Ogni trasferimento è molto complicato da gestire e la sua organizzazione porta via molto tempo; inoltre molti ospedali non vogliono ricoverare i detenuti. Accesso ad acqua potabile e a servizi igienici - L’accesso ad acqua potabile sufficiente e l’accesso a latrine e docce è vitale per contrastare le malattie come le infezioni della pelle e le infestazioni come i pidocchi, la scabbia e le pulci. In molti centri detentivi visitati da MSF, la disponibilità quotidiana d’acqua adesso incontra (o supera) la quantità minima per bere e lavarsi. Abbiamo installato cisterne, tubature e rubinetti in diversi centri, allo scopo di migliorare la qualità dell’acqua e l’accesso all’acqua corrente. Ispezioniamo e facciamo regolare manutenzione di questi sistemi. Nonostante questi miglioramenti, le frequenti interruzioni della corrente elettrica e l’assenza di acqua che si verificano a Tripoli si traducono in una difficoltà dei centri detentivi a garantire la fornitura dell’acqua durante i periodi di disponibilità limitata. Inoltre, le possibilità di trasportare l’acqua con i camion sono limitate. L’accesso 24 ore su 24 ai bagni senza impedimenti non è garantito in tutti i centri. Abbiamo fatto diversi sforzi per migliorare le condizioni di igiene all’interno dei centri e forniamo a tutti i detenuti kit per l’igiene personale e prodotti per la pulizia dei locali. Tuttavia, i detenuti non sempre hanno accesso privo di ostacoli ai materiali distribuiti e osserviamo che qualche volta gli oggetti sono confiscati. Limitazioni all’azione medica - Le cure mediche che forniamo avvengono all’interno di un ambiente altamente militarizzato. La quotidianità dei nostri pazienti è fortemente controllata. Ai nostri medici non sempre è data piena libertà di effettuare triage medico o decidere quali pazienti visitare. Non è garantita la privacy necessaria per le consultazioni mediche. In alcuni centri detentivi, gli agenti assegnano ai medici di MSF un’area ad hoc per fare le consultazioni mediche in privato, ma in altri ciò non avviene. È una scelta difficile per noi lavorare in un ambiente dove le persone sono tenute in condizioni che ledono la loro dignità. Tuttavia, la nostra speranza è che, con la presenza e la fornitura di cure mediche, possiamo migliorare le condizioni di detenzione e alleviare parte delle sofferenze patite dai detenuti. Continuiamo a opporci alla detenzione arbitraria di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Libia. Tunisia. L’hotel del massacro del 2015 riapre: gli ospiti sono 400 avvocati italiani di Nicola Pinna La Stampa, 20 maggio 2017 All’Hotel Imperial non è rimasta neanche una stanza libera. L’obiettivo è "far riaprire questo resort e gridare a tutta l’Europa che la guerra ai terroristi si combatte anche vincendo la paura". Prenotare è impossibile già da qualche giorno: all’Hotel Imperial non è rimasta neanche una stanza libera. Non succedeva da quasi due anni: dal 26 giugno del 2015, dal giorno che un terrorista armato si è presentato in mezzo agli ombrelloni, tra i lettini schierati, al centro della bella spiaggia di Sousse. I clienti dell’hotel erano tutti li, assopiti sotto il sole, e in 38 non avevano avuto il tempo di scappare: vittime di una sparatoria insensata e inaspettata, progettata da un soldato dell’Isis infiltrato nel giardino di un resort con l’assurdo obiettivo di violare anche la tranquillità della vacanze. Da quel giorno la Tunisia non è più il paradiso dei turisti europei, i prezzi sono precipitati ma le offerte non hanno attirato nessuno. I resort di Sousse da allora sono sempre vuoti e l’Hotel Imperial ha dovuto licenziare i dipendenti. Ma in questi giorni in tanti sono tornati al lavoro: camerieri, barman, chef, giardinieri, bagnini e responsabili delle pulizie. L’albergo (uno dei più lussuosi della zona) si è rianimato all’improvviso: la bella stagione è sbocciata in anticipo, solo grazie a una bella spedizione solidale. Dall’Italia arriva una carovana che si è prefissata una missione ambiziosa: "Far riaprire questo resort e gridare a tutta l’Europa che la guerra ai terroristi si combatte anche vincendo la paura". A Sousse in questi giorni sbarca una comitiva davvero speciale: più di 400 avvocati provenienti da tutte le regioni italiane. In 130 sono partiti dalla Sardegna, perché proprio nell’isola (che dista dalla Tunisia più o meno 200 chilometri) è nata l’idea di questa curiosa operazione di solidarietà. La solita raccolta di fondi, almeno in questo caso, sarebbe servita a poco o nulla: l’importante era mettere in circolo un messaggio, dimostrare che le vacanze in Tunisia sono sempre un bel sogno e che arrivare in questo angolo di Mediterraneo non rappresenta di certo un rischio a prescindere. Per organizzare questa "operazione fiducia" e coinvolgere così tante persone l’Ordine degli avvocati di Oristano si è trasformato in una sorta di tour operator della solidarietà. "Lo scorso anno abbiamo ospitato gli avvocati tunisini che sono stati insigniti del Premio Nobel per la pace e abbiamo deciso in quel momento che sarebbe stato molto bello fare qualcosa di utile - racconta la presidente, Donatella Pau - Siamo stati a Sousse e abbiamo trovato il resort dell’attentato desolatamente vuoto. All’interno c’era soltanto il direttore e così abbiamo capito che l’operazione più importante e più urgente da fare era quella di invogliare la gente a tornare in Tunisia a fare le vacanze. Noi diamo l’esempio". Sulla spiaggia insanguinata stamattina è ricominciata la vita. Gli sportivi non si sono fatti sfuggire l’occasione della corsetta mattutina e tante famigliole si sono piazzate in prima fila per godersi il primo sole. Per chi ha visto morire all’improvviso una rinomata località balneare c’è il tanto per commuoversi. Per questi quattro giorni, infatti, gli ospiti dell’Hotel Imperial sono più o meno un migliaio, perché l’appello degli avvocati italiani è arrivato lontano ed è stato raccolto dai colleghi di altre nazioni: dalla Francia alla Spagna e dall’Inghilterra. Parentesi vacanziera, ovviamente anche per legali della Tunisia, pure loro in campo (anzi, in spiaggia) per dare un contributo a rimettere in moto la macchina delle vacanze. "Io ho portato qui anche i miei figli, perché sono convinto che questa sia davvero una lezione di vita per tutti - confida l’avvocato Antonello Spada - Non possiamo continuare a credere che il rischio di un attentato sia più concreto in Tunisia rispetto alle nostre città. Il vero problema è che ci sentiamo molto più lontani culturalmente e ci convinciamo che queste siano mete troppo rischiose. Noi sardi questo discorso lo possiamo fare ancora meno, perché la Tunisia è molto più vicina a casa nostra rispetto a Milano o Parigi, siamo sulla sponda opposta dello stesso mare". Il fallimento dell’austerity. La Grecia all’anno zero di Francesco De Palo Il Dubbio, 20 maggio 2017 Proteste di piazza contro il quarto memorandum della Troika. A poche ore dal voto del parlamento ateniese sulle nuove misure draconiane di tagli e tasse chieste dalla troika, la Grecia di nuovo in piazza. Due giorni di sciopero generale con scene che non si vedevano, in piazza Syntagma, da anni. Lacrimogeni e lanci di pietre, molotov e tanta rabbia per un tunnel di cui non si vede la fine. Tutte le sigle sindacali hanno manifestato assieme ad Atene contro il quarto memorandum che taglia per la quarta volta le pensioni (in media del 9%) e aumenta l’imposizione fiscale. Uno scenario a cui fa da sfondo la recessione, con i numeri del primo trimestre del 2017 (riduzione dello 0,5% su base annua dell’economia ellenica) che non fanno sperare nulla di buono. Pame, Adedy e Gsee hanno chiamato a raccolta tutte le categorie professionali elleniche, anche quelle che un tempo stavano benone, i medici, e che invece oggi affollano la lista dei sottopagati. Hanno risposto in 10mila, con due cortei contemporanei da piazza Klafthmonos e da Patissia, che confluiscono sotto il Parlamento. "Giù le mani da salari, pensioni e assicurazioni, se volete tagliate Syriza", recitava uno striscione a dimostrare la fine della luna di miele con il partito di Alexis Tsipras, reo secondo i manifestanti di non essere riuscito a contrattare al rialzo con la troika, e facendo quindi peggio dei suoi predecessori. Le contraddizioni dei conti pubblici greci sono lì come un totem immobile: nonostante cinque anni di austerità e tre tagli a pensioni, stipendi e indennità il debito pubblico aumenta, scende il potere di acquisto, aumentano i nuovi poveri e i greci che vivono con meno di 500 euro al mese. Di contro la partita delle privatizzazioni fa registrare segnali contraddittori. Nella lista del Taiped, l’ente di Stato che deve cedere le utilities, non figurano solo asset come l’energia elettrica, gli aeroporti (privatizzati in 14 dalla tedesca Fraport) o i porti (Pireo ai Cinesi di Cosco e Salonicco ai francesi di Cma) ma luoghi culturalmente "sacri" come le Termopili, nelle cui acque sulfuree Leonida e i 300 spartiati si immersero prima di scontrarsi nell’eroica battaglia contro Serse e i persiani. Un po’come se l’Italia cedesse la Reggia di Caserta. Altro j’accuse che i manifestanti muovono a Syriza è che le previsioni della troika e del governo non coincidono con i numeri reali di un Paese che sembra avvitarsi ogni giorno di più. Nikos aveva con suo fratello due camion e un’azienda di trasporti: con il calo delle commesse ne ha venduto uno e, a 50 anni, dalla scrivania si è rimesso in viaggio a bordo di quello che gli è rimasto: "Sono in piazza perché non credo che con queste misure avremo un futuro migliore: i tagli già ci sono stati e non è cambiato nulla. Ci vogliono far morire di fame? ". Katerina gestisce un chiosco di quotidiani e sigarette, dice che lo Stato le chiede anche le tasse per l’anno prossimo. "Non riesco a pagare quelle dell’anno in corso, figuratevi se posso pagare quelle future. La verità è che agli evasori della Lista Lagarde Tsipras non ha torto un capello". Sempre più studenti greci abbandonano le università, al pari di chi, tra i professionisti, sceglie la nuova "emigrazione" trasferendosi con figli a carico in Svezia o in Australia. Altro punto interrogativo è relativo ai nuovi investimenti: gli analisti non sembrano convinti che ci sia abbastanza interesse da parte degli investitori sui titoli che il governo punta a rimettere sul mercato. I rappresentanti del governo greco, con l’aiuto di Rothschild che è incaricato della gestione della ristrutturazione del debito greco, hanno condotto una serie di incontri con gli investitori da inizio dell’anno, per cui solo se il recente accordo tra Atene e gli istituti di credito sulle misure 2019- 2020 sarà accompagnato da un significativo passo in avanti sugli impegni di riduzione del debito da parte dei creditori europei (soprattutto dalla Germania) allora qualche segnale positivo in più di sarà. Ma fino ad allora mancano tre anni e della riduzione del debito greco, che era un prerequisito per la partecipazione al programma del FMI, se n’è parlato solo nei dopocena. Tra i bambini perduti del Nepal venduti come schiavi e spose di Monica Perosino La Stampa, 20 maggio 2017 Le piccole cedute per pochi dollari in India e Qatar. Cresce il lavoro nelle miniere. E le Ong lanciano l’allarme: dopo il terremoto il traffico di minori è aumentato. Hira Thapa, 11 anni, costa 900 dollari sul mercato di Qatar e Arabia Saudita. Kamal, 8 anni, vale 7000 rupie indiane, 108 dollari, a New Delhi. Sabriti, 13 anni, vale meno di mezzo dollaro al giorno, 14 ore al giorno, nella fabbrica di mattoni del distretto di Bagmati, nella valle di Kathmandu. Sua sorella, 10 anni, è stata venduta per 67 dollari a un dentista di Lucknow, Uttar Pradesh. Sono i figli perduti del Nepal. Orfani, o semplicemente poveri, venduti dai loro stessi famigliari ai trafficanti di bambini, destinati a lavorare nelle miniere e nelle fabbriche, o a diventare schiavi sessuali per i mercati di India, Iraq, Oman, Cina, Sud Corea, Hong Kong, Arabia Saudita, Qatar. I numeri sono spaventosi: secondo le stime Unicef ogni anno vengono venduti 15.000 bambini. Per le ong di Kathmandu si arriva a 25 mila. La maggior parte è condannata allo sfruttamento sessuale in India, ma non solo. I Paesi del Golfo, raccontano le Ong, sono i principali "acquirenti" di bambine nepalesi sotto i 14 anni. E oggi la situazione, già drammatica, è ancora peggiorata: a due anni dal terremoto di magnitudo 7.8 che il 25 aprile 2015 ha devastato il Paese, lasciato 9000 morti, polverizzato 700.000 edifici e ridotto alla disperazione tre milioni di persone, il Nepal è ancora in ginocchio e le prede più deboli sono i bambini e le donne. La ricostruzione avanza a passi talmente lenti da essere impercettibili, il tasso di povertà, già tra i più alti al mondo, è cresciuto senza pietà, arrivando a toccare il 46% della popolazione. In questo quadro i bambini rimasti orfani o appartenenti a famiglie cadute in miseria corrono un alto rischio di essere venduti, tanto che in soli 18 mesi dal sisma la tratta è aumentata del 15%. Le vittime - Oltre il muro del frastuono dei motorini che intasano ogni vicolo, nell’aria satura di polvere che a Kathmandu ricopre tutto, cose, persone, palazzi deformati dal terremoto e dalla miseria, si apre una porta verde su un piccolo cortile fresco, alle spalle del mercato di Durbar Square, il cuore simbolo della capitale. Seduta su una sedia foderata di similpelle marrone c’è lei, Hira Thapa, che a 11 anni è stata tradita già tre volte. La prima dal destino, che l’ha fatta nascere nella casta più bassa del Nepal, i Dalit, e nel distretto di Sindhupalchok, tra i più poveri del Paese e il più colpito dal terremoto del 2015. La seconda dai genitori, che l’hanno venduta per lavorare in città. La terza dal proprietario del ristorante in cui ha servito ai tavoli per 4 mesi che l’ha "data" a un trafficante per un cliente del Qatar. Una schiava sessuale di 11 anni a 900 dollari. "Una fortuna per una famiglia nepalese - spiega Mohan Dangal, presidente della ong Child Nepal. I bambini vengono spediti in città dalle zone più rurali e povere, ed è lì che spesso vengono agganciati dai trafficanti". Il terremoto ha lasciato migliaia di orfani, senza entrambi i genitori o con solo la madre o il padre. Il governo cerca di evitare quanto possibile di mandare i piccoli negli orfanotrofi e così li affida ai parenti più prossimi, "e sono loro che spesso li vendono per pochi dollari. Ma anche una madre rimasta sola non ha molte alternative". Hira Thapa, sorprendentemente, è illuminata da un sorriso che non la abbandona mai. "Mia mamma mi voleva bene", dice, e poi tace. L’unica via di uscita - "La speranza sta nelle scuole - aggiunge Mohan Dangal -. L’unico modo per evitare, o almeno tentare di evitare che le famiglie credano di non avere via di uscita se non quella di mandare via i figli e per proteggerli in strutture che li tengano lontani dai trafficanti". Peccato che soprattutto nelle zone rurali, le scuole siano state polverizzate dal terremoto. Ma ci sono eccezioni che riaccendono le speranze. Come quella a Kavre, dove la ong italiana WeWorld sta portando avanti una serie di progetti per garantire ai bambini scuole sicure. Nei distretti di Sindupalchock, Kavrepalanchok, e Kathmandu - dove WeWorld lavorava da anni a favore dell’educazioni di base -, il terremoto ha colpito duramente. Solo a Sindupalchock sono morte 40.000 persone e l’80% delle scuole elementari sono state distrutte. "Nei 3 mesi successivi al sisma - spiega Marta Volpi, rappresentante di WeWorld Onlus in Nepal - abbiamo costruito 63 strutture temporanee per garantire la scolarizzazione e un luogo sicuro a 5000 bambini, monitorando la loro presenza e prevenendo il rischio che cadessero nelle mani dei trafficanti". A due anni dal terremoto, la fase di emergenza si è conclusa, e WeWorld è impegnata nella ricostruzione di scuole permanenti. A Kavre scatta l’intervallo, i bambini si riversano nel cortile tra gridolini e risate: "Per loro anche venire a scuola è una sfida - aggiunge Marta - molti devono camminare per chilometri per arrivarci, devono lavorare nei campi prima e dopo le lezioni per aiutare le famiglie, non si possono permettere libri, quaderni, penne, che cerchiamo di fornire noi, così come pasti e cure mediche. Ma le famiglie sanno che il sacrificio che fanno ora è l’unica scelta possibile per salvarli".