Al Due Palazzi il 6 maggio si va alle urne per eleggere i rappresentanti dei detenuti Il Mattino di Padova, 1 maggio 2017 Al Due Palazzi il 6 maggio le persone detenute potranno votare i loro rappresentanti. È un evento davvero straordinario, ma lo sarà ancora di più se aprirà la strada a elezioni in tutte le carceri. È stato un percorso faticoso, quello per arrivare a una rappresentanza dei detenuti, che ha avuto tante tappe: una prima sperimentazione è avvenuta nel carcere di Bollate, la redazione di Ristretti Orizzonti ha poi presentato una proposta al Tavolo 2 degli Stati Generali dell’esecuzione penale, che l’ha accolta e fatta propria. Però c’era il desiderio che non restasse tutto sulla carta, ma che si potesse cominciare davvero a sperimentare in più carceri uno strumento così straordinario di democrazia, e questo si è incontrato, a Padova, con una Direzione che ha espresso da tempo il suo parere favorevole a promuovere una possibilità di voce collettiva dei detenuti e che ha creduto in questa idea. Ci sono già state riunioni nelle sezioni, condotte da volontari e operatori, altre ce ne saranno prima delle elezioni, anche per vincere le resistenze, inevitabili, di alcuni detenuti, ma la testimonianza di due persone detenute, che riportiamo, spiega bene quanto può essere straordinaria questa novità. Mancanza di dialogo vero male delle carceri Io ho passato vent’anni della mia vita girando diverse carceri in Italia, e solo da quando sono qui a Padova, ho iniziato un percorso di ricostruzione della mia persona e inevitabilmente ho iniziato anche a pensare a quella che è stata la mia vita, a quello che sono stato, quello che ho fatto. La prima cosa che ho dovuto imparare in questo percorso è di ammettere a me stesso di avere delle responsabilità, perché mi sono dato molti alibi nella mia vita, e poi ho imparato anche a farmi delle domande diverse da quelle che mi facevo, e cercare risposte. Io con questa esperienza, purtroppo lunga, di carcere mi sento di affermare che la mancanza più grande che c’è nel sistema penitenziario italiano è quella di un dialogo tra il detenuto e le istituzioni. Per me questa mancanza di dialogo ha portato a separare le due parti, che inevitabilmente sono costrette a vivere in questo luogo, il detenuto privato della libertà perché ha commesso dei reati, e gli operatori perché devono lavorare dentro a questa struttura. E questa mancanza di dialogo ha portato a incrementare un conflitto, e tutta la cultura del conflitto che ha caratterizzato fuori la nostra vita. Io ho avuto sempre un conflitto con l’istituzione non solo all’interno del carcere, ma anche all’esterno, e riportare la stessa mentalità, la stessa cultura all’interno di una struttura che dovrebbe essere rieducativa ha fatto, secondo me, solo peggiorare le cose. Ora noi in questo carcere inizieremo l’esperienza di una rappresentanza seria, io ne ho viste tante di pseudo-rappresentanze in giro per le carceri, tipo la Commissione sportiva e la Commissione cultura. Ma quella di cui parlo è una rappresentanza eletta in maniera democratica dai detenuti. Ora questa rappresentanza la voglio definire come uno strumento per imparare a comunicare in maniera diversa, e qui sto mettendo in discussione anche noi detenuti e il nostro modo di comunicare e di porci rispetto alle istituzioni. Noi detenuti impareremo non solo a dialogare con le istituzioni in maniera costruttiva, ma anche ad affrontare problemi che una lunga detenzione inevitabilmente comporta. Solitamente se c’è un problema che riguarda la sezione, i detenuti si sentono impotenti perché vedono solo le sbarre, e oltre le sbarre c’è l’istituzione, ci sono gli appuntati di sezione, e molto spesso non si hanno risposte non per una mancanza del capoposto, dell’appuntato di sezione, ma perché ovviamente più di tanto non può fare, e noi non avevamo altri interlocutori, e questo ha comportato a molti miei compagni detenuti, anche a me in passato, galera in più, la perdita dello sconto di pena per buona condotta, la denuncia, e questo capitava perché non eravamo capaci di comunicare in una determinata maniera, ma neppure ci davano la possibilità di farlo. Noi della redazione la proposta di istituire una forma di rappresentanza vorremmo che fosse estesa a tutte le carceri, e magari anche, perché no, ma poi io sono appunto delle volte un sognatore, penso alle cose in grande, vorremmo organizzare un lavoro congiunto tra la rappresentanza, i garanti regionali, il garante nazionale, il Volontariato, e forse così si riuscirà anche ad affrontare la questione della disparità di trattamento tra carcere e carcere. C’è troppa differenza tra carcere e carcere, la rappresentanza è un modo per promuovere con forza in tutti gli Istituti il rispetto dei diritti. Lorenzo Sciacca Confronto pacifico e non più violento Finalmente fra pochi giorni all’interno del Due Palazzi si partirà con le elezioni dei candidati per la rappresentanza di ogni sezione dell’istituto, uno strumento fortemente voluto dalla nostra redazione di Ristretti Orizzonti, che opera sempre con tenacia nel far conoscere al mondo esterno le condizioni a volte poco umane e infantilizzanti che vive il detenuto. Si tratta di una sperimentazione "importata" dall’istituto penale di Bollate, famoso proprio per essere uno dei migliori istituti di pena, all’avanguardia per il reinserimento dei detenuti. Questo è un primissimo passo anche per noi reclusi padovani per una svolta rivoluzionaria e un cambiamento culturale che dà la responsabilità al detenuto eletto per un ruolo così importante, di fare da portavoce di un’intera sezione composta in media da 50 detenuti di tante culture, nazionalità e tipologie di reato diverse. La direzione del carcere, che ha permesso con coraggio questa sperimentazione, ha dimostrato che anche persone come noi, per la maggior parte condannati a pene lunghe per reati gravi, possono avere un confronto diretto con chi rappresenta l’amministrazione penitenziaria, evitando un conflitto tra le due parti che spesso porta a situazioni di proteste, battiture, scioperi, che nella maggior parte dei casi si concludono con un aggravamento della posizione del recluso. Negli anni addietro proprio queste mani che scrivono hanno impugnato pentole, sgabelli e altro insegno di ribellione all’interno degli istituti italiani per ottenere quelli che ritenevo fossero i miei diritti. Mi accorgo che questo non solo non mi ha portato a ottenere nulla di quanto chiedevo protestando disperatamente, ma mi ha anche causato i soliti trasferimenti per motivi di sicurezza e ha agito sulla mia posizione in maniera più distruttiva possibile, anche perché dall’altra parte forse non c’era qualcuno pronto ad ascoltarmi con strumenti diversi che portassero ad un dialogo. Oggi fortunatamente, attraverso questo strumento della rappresentanza, è possibile un ascolto, un confronto pacifico tra le due parti, per cui ho potuto cogliere l’occasione anch’io per candidarmi a rappresentante della sezione in cui sono ubicato, che presenta i soliti problemi degli istituti di pena italiani: mancanza di lavoro, condizioni di scarsa manutenzione delle stanze di pernottamento, bagni spesso guasti, docce fatiscenti, mancanza di prodotti per l’igiene personale, richieste spesso fatte singolarmente che non vengono ascoltate. Stavolta in maniera diversa ho deciso di metterci la faccia, lasciandomi alle spalle quei metodi di protesta violenti, perché adesso conosco la parola "comunicazione" grazie alla quale qualche frutto ogni tanto con pazienza si ottiene. Questo è anche un modo chiaro per far conoscere al resto della popolazione detenuta una modalità di espressione del tutto innovativa rispetto a quelle vecchie già adottate da noi detenuti. Sarebbe uno spreco e soprattutto un peccato assistere ancora al fatto che un detenuto affronti una battaglia individualmente, con il rischio che non possa ottenere niente, se non altri guai, quando invece c’è qualcuno che è disposto ad ascoltare proposte collettive in tema di rappresentanza. Questa porta che si è aperta qui a Padova potrà essere da traino e da esempio a tanti altri istituti che devono sperimentare la rappresentanza per migliorare l’autostima del detenuto e restituirlo domani alla società come la Costituzione suggerisce, una persona più responsabile e affidabile per la società stessa. Raffaele Delle Chiaie Prescrizione "congelata", ecco perché gli avvocati incrociano le braccia di Raffaele Gaetano Crisileo* Cronache di Caserta, 1 maggio 2017 Come è noto da diversi mesi la nostra classe, quella degli avvocati penalisti d’Italia, tecnicamente si astiene dalle udienze (in pratica, per capirci, sciopera) per periodi a singhiozzo in ottemperanza ai deliberati dell’Unione Camere Penali Italiane (il nostro Organismo centrale di rappresentanza) ed è in stato di agitazione. La prossima astensione dalle udienze va da domani 2 maggio al 5 maggio 2017 e poi ne seguiranno altre ancora. Non tutti i cittadini, però, conoscono le vere ragioni dell’astensione (mi riferisco a quelli che operatori di diritto non sono e dai (piali. a volte, mi è capitato di ascoltare espressioni di disappunto). Ebbene proprio ad essi (e non solo ad essi) va doverosamente spiegato die sta per entrare in vigore nel nostro Paese una riforma giudiziaria epocale, che definire ingiusta è davvero riduttivo. Innanzitutto va premesso che questa emanando riforma del processo penale, di iniziativa governativa, sta ricorrendo con forza (e inspiegabilmente) all’uso dello strumento della fiducia. Ma perché sta avvenendo tutto ciò? Perché - ci dobbiamo ancora chiedere - bisogna far approvare chiesto Ddl da parte del Governo non dando al Parlamento la possibilità di un confronto su temi che incidono in profondità sull’intero sistema processuale e sull’intero ordinamento penale. Onestamente non lo si comprende e non lo comprendiamo. E non solo. Certamente non è condivisibile questa emanando riforma su punii essenziali in essa contenuti (piali ad esempio, tra tanti, il tema della prescrizione e l’uso del cosiddetto processo a distanza. L’Unione delle Camere Penali Italiane, raccogliendo le voci di dissenso di noi penalisti, di fronte all’utilizzo davanti alla Camera di questo strumento particolare del ricorso alla fiducia (strumento sicuramente poco ortodosso perché si sottrae ad ogni confronto tra le parti; voci delle diverse anime ed espressioni dei Paese) indice correttamente e giustamente scioperi a singhiozzo. Secondo noi - e lo diciamo con serenità - questa riforma distorce gravemente il modello accusatorio del giusto processo per cui si è tanto penato e "combattuto" ed essa è sicuramente contraria non solo agli interessi e ai diritti dei singoli imputati, ma anche alle legittime aspettative delle persone offese e della intera comunità. Una comunità qual è la nostra esige, in un Paese civile, qual è l’Italia da un lato che i procedimenti penali abbiano una ragionevole durata di tempo nel loro svolgimento naturale e complessivo e da un altro lato che la fase dell’accertamento dibattimentale sia posta al centro del processo penale, realizzando ì prìncipi del "giusto processo ". E parlando di "giusto processo" mi riferisco soprattutto ai princìpi che sono a garanzia ed a dignità della persona umana che sicuramente non verrà tutelata una volta entrata in vigore la norma della sua partecipazione a distanza nel processo. In buona sostanza oggi la partecipazione a distanza, per capirci in video conferenza, è prevista solo per le persone detenute in regime del cosiddetto carcere duro, vale a dire soggette alia previsione dell’articolo 41 bis. Se entrerà in vigore questa riforma vi sarà una estensione di questo principio anche agli imputati che non sono soggetti a questo regime. Ecco il primo motivo di disappunto e di dissenso della nostra classe. E poi non è assolutamente condivisibile un altro passaggio determinante della riforma: la sospensione della decorrenza dei termini prescrizionali tra la sentenza di primo grado e il giudizio di secondo grado. Questo significherebbe una sola cosa: tenere, per un tempo infinito, una persona imputata sospesa nel "limbo" e sulla graticola dell’attesa di una sentenza di secondo grado in preda ad una parossistica tensione nervosa e con la mente narcotizzata e segnata dal dolore. Se dovesse avvenire ciò, la Giustizia perderebbe il suo connotato di umanità e perché no di "misericordia". E ciò noi operatori del diritto (ed in particolare noi giuristi cattolici) non lo possiamo accettare. *Avvocato Nuova legge Immigrati. 26 sezioni specializzate per gestire il contenzioso di Giuseppe Buffone Il Sole 24 Ore, 1 maggio 2017 Nella "Gazzetta Ufficiale" n. 90 del 18 aprile 2017 è stata pubblicata la legge 13 aprile 2017 n. 46, di conversione del decreto legge 17 febbraio 2017 n. 13, recante "disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale". Nelle more, il Consiglio superiore della magistratura ha già messo mano agli atti consiliari necessari per dare attuazione ai profili organizzativi delegatigli dal Legislatore della decretazione d’urgenza. Gli altri provvedimenti approdati in Gazzetta - Nel frattempo sono stati pubblicati sulla Gazzetta altri due provvedimenti di fatto "collegati" al decreto "Minniti": la legge 7 aprile 2017 n. 47 contenente disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati, pubblicata sulla "Gazzetta Ufficiale" del 21 aprile 2017 n. 93, e il decreto del ministero dell’Interno 10 febbraio 2017 sulla determinazione delle modalità e dei termini per garantire ai cittadini stranieri interessati le informazioni di cui all’articolo 6, paragrafo 2, della direttiva 2009/52/CE, che introduce norme minime relative a sanzioni ed a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, recepita con il decreto legislativo 16 luglio 2012, n. 109, uscito lo scorso 21 aprile sulla "Gazzetta Ufficiale" n. 93. La conversione del decreto legge 13/2017 - La legge di conversione conferma il leit motiv della riforma: nuove competenze specializzate a organico invariato. Sostanzialmente, i tribunali ospitanti le costituende sezioni specializzate in materia di immigrazione dovranno far nascere i nuovi centri di competenze usando i magistrati in servizio, senza poter beneficiare di nuovi giudici, togati o onorari. Questo comporta essenzialmente almeno due conseguenze: a) i magistrati addetti alle nuove sezioni specializzate saranno necessariamente recuperati da altre sezioni, ordinarie (se le specializzate accelerano i ritmi di lavoro, c’è il rischio che le altre li rallentino, visto che perdono risorse); b) le sezioni specializzate potranno, tendenzialmente, ospitare magistrati con funzioni promiscue (in mancanza di giudici in numero sufficiente, alcuni potrebbero essere addetti ad affari ordinari e ad affari specializzati). Ventisei sezioni presso le corti di appello - La legge di conversione n. 46 del 2017 introduce delle importanti modificazioni al decreto legge 17/2017. In primo luogo, ai sensi dell’articolo 1 del decreto legge 13/2017, come modificato dalla legge di conversione, le sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea sono istituite "presso ogni tribunale ordinario del luogo ove ha sede la Corte di Appello". Viene quindi abbandonata l’idea di soli 14 poli giurisdizionali di riferimento e si passa a 26 sezioni in tutto. Questa scelta è senz’altro da salutare con favore perché garantisce una maggiore prossimità del servizio pubblico di Giustizia (all’utente) e una migliore distribuzione delle controversie tra i tribunali italiani. Legge Immigrati. Organizzazione e prassi, le linee guida del Csm di Giuseppe Buffone Il Sole 24 Ore, 1 maggio 2017 Nella sua precedente formulazione, il decreto legge n. 17 del 2017 prevedeva l’istituzione delle sezioni specializzate nei tribunali ordinari di Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Catania, Catanzaro, Firenze, Lecce, Milano, Palermo, Roma, Napoli, Torino e Venezia: si trattava, in tutto, di 14 sezioni di nuova istituzione nel territorio nazionale. Istituzione delle sezioni specializzate - La Relazione Illustrativa spiegava che l’individuazione degli uffici presso i quali collocare le istituende sezioni era avvenuta sulla base dei dati relativi al numero delle domande di protezione internazionale esaminate, negli anni 2015 e 2016, da ciascuna commissione territoriale o sezione distaccata. Il Legislatore della conversione, melius re perpensa, opta (n.b. fortunatamente) per una scelta più razionale e più attenta alla natura del servizio pubblico da erogare. Con il precedente sistema si rendeva eccessivamente difficoltosa finanche la partecipazione al processo, tenuto conto delle importanti distanze geografiche che potevano registrarsi; ciò con ricadute negative per tutti i soggetti coinvolti (accompagnatori, interpreti, richiedenti e così via). Con la legge 46/2017, il legislatore passa al modello distrettuale tipico, con previsione di una sezione specializzata in ogni Corte di appello. Per effetto della rideterminazione dei centri di giurisdizione dedicati alla materia specializzata, il Legislatore della conversione riscrive i criteri di competenza territoriale. Nella precedente versione normativa, la competenza territoriale delle sezioni specializzate era determinata, a seconda dei casi, facendo leva: • sul luogo in cui ha sede l’autorità che ha adottato il provvedimento impugnato; • sul luogo in cui ha sede la struttura di accoglienza governativa o del sistema di protezione di cui all’articolo 1-sexies del decreto legge n. 416 del 1989, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 39 del 1990, ovvero il centro di cui all’articolo 14 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998 in cui è presente il ricorrente; • sul luogo in cui il richiedente ha la dimora. Il nuovo comma I dell’articolo 4 - con una semplificazione quanto mai opportuna - prescrive che "è competente territorialmente la sezione specializzata nella cui circoscrizione ha sede l’autorità che ha adottato il provvedimento impugnato". Per l’assegnazione delle controversie di cui all’articolo 35 del decreto legislativo 28 gennaio 2008 n. 25, l’autorità di riferimento per determinare la competenza territoriale è costituita dalla commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale o dalla sezione che ha pronunciato il provvedimento impugnato ovvero il provvedimento del quale è stata dichiarata la revoca o la cessazione. Nel caso di ricorrenti presenti in una struttura di accoglienza governativa o in una struttura del sistema di protezione, oppure trattenuti in un centro di permanenza per i rimpatri, il criterio in esame si applica avendo riguardo al luogo in cui la struttura o il centro ha sede. Ai sensi dell’articolo 4 comma 4, per l’assegnazione dei procedimenti di cui all’articolo 14, comma 6, del decreto legislativo 18 agosto 2015 n. 142, il criterio della competenza si applica avendo riguardo al luogo in cui ha sede l’autorità che ha adottato il provvedimento soggetto a convalida. Il criterio di cui all’articolo 4 del Dl 17/2017 non trova applicazione nell’ipotesi in cui il giudizio non sia impugnatorio: ad esempio, per l’accertamento dello stato di apolide o di cittadino. In tali ultimi casi, la competenza si radica nel tribunale distrettuale del luogo in cui dimora l’attore (articoli 3, comma 2, 4 comma 5, del Dl 17/2017). La bussola delle linee guida del Csm - Nelle more, il Consiglio superiore della magistratura ha già approvato (e trasmesso al Dicastero) le "Linee Guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi alla protezione internazionale", riservando con ulteriore atto consiliare l’attuazione della delega legislativa contenuta nell’articolo 2, comma 2, del Dl 13/2017. Nelle Linee Guida il Consiglio "ribadisce che la priorità ex lege nella trattazione dei procedimenti da protezione internazionale impone da subito, ed ancor più nell’ambito delle sezioni specializzate, l’individuazione di un numero di giudici e di risorse adeguato alla qualità e alla necessaria celerità della risposta giurisdizionale. Le scelte di allocazione delle risorse, da parte dei dirigenti, potranno implicare un inevitabile rallentamento nella trattazione degli altri procedimenti, almeno finché non troverà soluzione l’arretrato da protezione internazionale. Occorre, di conseguenza, che, accanto al dimensionamento adeguato per numero di giudici della sezione o del gruppo di magistrati addetti alla protezione internazionale, per far fronte nei tempi previsti dal legislatore alla definizione delle sopravvenienze, vengano anche predisposte misure straordinarie per lo smaltimento dell’arretrato". Trova conferma, sostanzialmente, quanto si diceva in merito alla "istituzione delle sezioni specializzate a risorse invariate": atteso che il numero dei magistrati resta lo stesso, accelerare le procedure di protezione internazionale equivale a rallentare altri procedimenti (si pensi a una causa in materia di appalto o a una controversia in tema di usucapione, etc.). Si va, dunque, verso una "Giustizia a diverse velocità" in base alla natura del procedimento. Questo criterio di definizione dei tempi di trattazione, se da un lato non appaga in punto di parità di trattamento, dall’altro non lede il diritto dell’utente del servizio alla prestazione riservatagli che, come noto, deve contenersi nei limiti della durata ragionevole. Giova ricordare che, ai sensi dell’articolo 2 comma 2-bis legge 89 del 2001, si considera rispettato il termine di ragionevole durata del processo se quest’ultimo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità. Entro questa forbice, il Legislatore può dunque modulare i tempi della risposta giudiziale, in base alle contingenze storiche; quindi, ad esempio, ipotizzando cause entrambe definibili in 2 anni, il Legislatore può ridurre i tempi di una causa a 4 mesi e aumentare i tempi di un’altra fino a 3 anni. Un altro spunto interessante che si trae dalle linee guida è la proposta di applicare alle sezioni specializzate il criterio della "non esclusività" prevedendo che i giudici ad esse applicati possano anche trattare una quota ridotta di affari ordinari. Secondo le Linee Guida, in particolare, "la caratteristica, pur nella stabilità, dei flussi variabili nel tempo del fenomeno migratorio sconsiglia di adibire, quand’anche i numeri lo permettano, un’intera sezione alla trattazione esclusiva di tali procedimenti, in quanto è da ritenersi preferibile un modulo organizzativo maggiormente flessibile e in grado di adeguarsi all’evolvere contingente delle sopravvenienze". Un primo modello che va questa direzione è, ad esempio, quello "istituendo" al tribunale di Milano dove le sezioni specializzate dovrebbero essere costituite con magistrati togati e onorari, senza (per tutti) il vincolo della assegnazione in via esclusiva a detto Ufficio. Particolarmente interessante è la proposta del Csm di valutare, nei singoli Uffici interessati dalla riforma, la istituzione di un Ufficio per il processo dell’immigrazione (Upi) "con la finalità di favorire, nell’immediatezza, la definizione dell’arretrato e per far fronte al carico di lavoro conseguente all’attività di cancelleria connesso alle pratiche di gratuito patrocinio, che in alcuni uffici, per la quantità, possono richiedere una struttura amministrativa dedicata". Questo Ufficio, ben inteso, opererà con l’apporto della magistratura onoraria. Legge Immigrati. Nessun minore non accompagnato respinto alla frontiera di Giuseppe Buffone Il Sole 24 Ore, 1 maggio 2017 Una delle modifiche di maggiore importanza, è apportata al Dl 13/2017, dalla legge 46 del 2017, mediante introduzione del nuovo articolo 19-bis. In virtù di questo grimaldello, le disposizioni del Dl 13 del 2017 "non si applicano ai minori stranieri non accompagnati" (Msna). Minori non accompagnati - La normativa anteriore alla legge n. 47 del 2017 offriva disposizioni "a carattere sparso" in merito alla esatta definizione dell’istituto. Sulla scorta del Dpcm del 1999, per Msna si intende il minorenne non avente cittadinanza italiana o di altri stati dell’Unione europea che, non avendo presentato domanda di asilo, si trova per qualsiasi causa nel territorio dello stato privo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano (articolo 1, comma 2, del Dpcm 535/1999). Per il Dlgs 85/2003, per minori stranieri non accompagnati si intendono "i cittadini di paesi terzi o gli apolidi di età inferiore ai diciotto anni che entrano nel territorio degli stati membri senza essere accompagnati da una persona adulta responsabile per essi in base alla legge o agli usi, finché non ne assuma effettivamente la custodia una persona per essi responsabile, ovvero i minori che sono lasciati senza accompagnamento una volta entrati nel territorio degli stati membri". In ambito nazionale, riprendendo sostanzialmente le indicazioni europee, la definizione è anche contenuta nell’articolo 2, comma 1, del Dlgs 18 agosto 2015 n. 142, secondo cui il minore non accompagnato è lo straniero (cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea e apolide), di età inferiore ai diciotto, che si trova, per qualsiasi causa, nel territorio nazionale, privo di assistenza e rappresentanza legale. Il nuovo articolo 2 della legge n. 47 del 2017 introduce, ora, una definizione autonoma ad hoc : "per minore straniero non accompagnato presente nel territorio dello Stato si intende il minorenne non avente cittadinanza italiana o dell’Unione europea che si trova per qualsiasi causa nel territorio dello Stato o che è altrimenti sottoposto alla giurisdizione italiana, privo di assistenza e di rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano". Secondo i dati del Dipartimento della pubblica sicurezza, i minori stranieri (e coloro che si dichiarano tali) non accompagnati, sbarcati nel 2014, sono pari a 13.026, il 50% di tutti i minori sbarcati (26.122). Nel 2015 (fino al 10 ottobre) sono pari a 10.322, il 73% del totale dei minori soccorsi (pari a 14.109). La clausola di esclusione dell’articolo 19-bis menzionato si giustifica perché, nelle more, il Legislatore ha provveduto a regolare autonomamente la materia, con la legge 7 aprile 2017 n. 47 ("Disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati"; in "Gazzetta Ufficiale", serie Generale n. 93 del 21 aprile 2017). La nuova legge sui Msna - Le principali novità introdotte dalla nuova legge in materia di Msna sono le seguenti: a) in nessun caso può disporsi il respingimento alla frontiera di minori stranieri non accompagnati (articolo 19 comma 1-bis del Dlgs 286 del 1998) per i quali quindi vengono introdotti appositi "permessi di soggiorno per minori stranieri per i quali sono vietati il respingimento o l’espulsione" (articolo 10 della legge 47/2017); b) viene introdotta una procedura ad hoc per la identificazione dei minori stranieri non accompagnati (articolo 19-bis del Dlgs n. 142 del 2015); c) gli enti locali possono promuovere la sensibilizzazione e la formazione di affidatari per favorire l’affidamento familiare dei minori stranieri non accompagnati, in via prioritaria rispetto al ricovero in una struttura di accoglienza (articolo 2, comma 1-bis, della legge n. 184 del 1983); d) il provvedimento di rimpatrio assistito e volontario di un minore straniero non accompagnato e adottato, ove il ricongiungimento con i suoi familiari nel Paese di origine o in un Paese terzo corrisponda al superiore interesse del minore, dal tribunale per i minorenni competente, sentiti il minore e il tutore e considerati i risultati delle indagini familiari nel Paese di origine o in un Paese terzo e la relazione dei servizi sociali competenti circa la situazione del minore in Italia (articolo 15 della legge 47/2017); e) presso ogni tribunale per i minorenni è istituito un elenco dei tutori volontari, a cui possono essere iscritti privati cittadini; f) il minore straniero non accompagnato coinvolto a qualsiasi titolo in un procedimento giurisdizionale ha diritto di essere informato dell’opportunità di nominare un legale di fiducia, anche attraverso il tutore nominato o l’esercente la responsabilità genitoriale (articolo 76, comma 4-quater, del Dpr n. 115 del 2002). Portella della Ginestra, settant’anni dopo in una Terra priva di verità di Paolo Borrometi articolo21.org, 1 maggio 2017 La prima sanguinosa strage dell’età Repubblicana. Sono settanta anni da quel drammatico primo maggio del 1947. Si ritorna a Portella, oggi. I segretari di Cgil, Cisl e Uil hanno deciso (giustamente) di commemorare quel tragico evento con il ritorno fisico nel luogo dove tutto è nato. La violenza del bandito Giuliano, insieme agli interessi politici ed alle connivenze che portarono alla morte di undici persone, tra cui due bambini, e più di una sessantina di feriti. La folla inerme di lavoratori, donne, bambini e anziani, fu bersagliata dalle raffiche di mitra della banda di Salvatore Giuliano, ma è incredibile come, a una simile distanza di tempo, non sia stata fatta ancora luce sui mandanti della strage. In quella vallata, il primo maggio 1947, la gente era tornata a celebrare la Festa del Lavoro che, dal Regime fascista, era stata spostata al 21 aprile, ricorrenza del Natale di Roma. Erano circa duemila i lavoratori, molti dei quali agricoltori, che vi si erano riuniti per manifestare contro il latifondismo e festeggiare la recente vittoria del Blocco del Popolo (l’alleanza tra i socialisti di Nenni e i comunisti di Togliatti) che aveva da pochi giorni battuto la Democrazia cristiana alle elezioni dell’Assemblea Regionale Siciliana. La località fu scelta perché, da uno dei sassi del pianoro, alcuni decenni prima, teneva i suoi animati discorsi ai contadini il medico Nicola Barbato, una delle figure simbolo del socialismo siciliano tra Otto e Novecento. Il grande tema di quel periodo era la riforma agraria, ancora da attuare, di cui un precedente significativo era stata l’occupazione delle terre incolte legalizzata, nell’ottobre del ‘44, dai decreti del Ministro dell’Agricoltura Fausto Gullo. Erano appena scoccate le dieci quando, una prima raffica di mitra (scambiata per mortaretti), tranciò i corpi dei lavoratori. Da allora settanta anni di misteri, promesse di verità e silenzi istituzionali. Nel Paese delle verità di comodo, il nostro, tutto è possibile. È possibile che un bandito compia una strage e non si rintraccino mai i mandanti. Adesso, dopo settanta anni, si ritorna a Portella ma senza quella verità indispensabile per trovare la forza di avere "Giustizia". In questo 2017 in cui, oltre ai 70 anni da Portella, commemoreremo i 25 anni dalle stragi di Falcone e Borsellino. Stragi, morti e potenti: un filo rosso che ha continuato ad unire le morti e le mani sporche di sangue, in cui però il "volto" riconosciuto è sempre e solo quello di chi preme il grilletto e mai quello (o quelli) di chi ha armato quei mitra o ha permesso che chilometri di autostrada saltassero in aria. L’Italia dei misteri, dicevamo. In una terra, la Sicilia, che ancora oggi fa riecheggiare la disperazione delle madri senza verità. Quella Sicilia che non ha mai smesso di lottare di Roberto Bertoni articolo21.org, 1 maggio 2017 Esiste, da sempre, e ovviamente per fortuna, una Sicilia libera e onesta che non si arrende alla violenza e alla criminalità. Esiste una Sicilia indomita che si batte, da sempre, per i propri diritti e per emanciparsi dalla crudeltà di quanti l’hanno letteralmente depredata. Esiste una Sicilia che non si ferma davanti a nessuna barbarie, che si rialza e reagisce, che studia e che ci crede, ancora, nonostante tutto, con straordinaria passione e umanità. È la Sicilia di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, assassinati il 30 aprile 1982 per la loro battaglia indomita contro la mafia e i suoi soprusi, ed è la Sicilia dei contadini e dei lavoratori di Portella della Ginestra, massacrati il 1° maggio del 1947 da quel latifondismo fascista e criminale che per vent’anni aveva spadroneggiato a spese della povera gente e che, nell’immediato dopoguerra, non aveva alcuna intenzione di venire incontro alle richieste di migliori condizioni di vita e di lavoro che provenivano dalle masse sfruttate ed umiliate. Una mattanza che aveva anche evidenti finalità politiche, in una stagione nella quale, specie in Sicilia, l’anticomunismo era feroce e si avvaleva di tutti i mezzi possibili e immaginabili per evitarne l’avanzata, irridendo le richieste di giustizia sociale, uguaglianza e diritti che sempre più forti si levavano da parte della popolazione. Due storie siciliane, dunque, ma al tempo stesso due storie che riguardano tutti noi e che dicono molto su questi settant’anni di vita repubblicana, fra zone grigie e mafiosità diffuse, vergogne taciute, segreti occultati, appalti assegnati agli amici degli amici, missili dislocati dove faceva comodo ai padroni del mondo e indicibili accordi per tutelare lo status quo ed impedire l’affermazione di una forza politica onesta ma scomoda per gli equilibri stabiliti a Yalta. Trentacinque anni fra Portella della Ginestra e l’omicidio di quel segretario regionale del Pci, nato povero e giunto in Parlamento; trentacinque anni dalla morte di Pio La Torre ad oggi; settant’anni di misteri mai svelati e di scempi perpetrati, invece, con grande protervia, ben coscienti delle complicità dall’alto e delle mani sporche di sangue che sarebbero intervenute per colpire chi si fosse eventualmente azzardato a provare a far luce su una simile vergogna. Settant’anni in cui, nell’inferno di una regione devastata e amministrata quasi sempre malissimo, abbiamo avuto alcuni splendidi esempi di resistenza anche nelle file della Democrazia Cristiana, primo fra tutti quel Piersanti Mattarella che pagò con la vita il prezzo del suo coraggio nel provare a modificare il corso della storia, non solo politica, della sua isola e del Paese. Da Portella della Ginestra, prima strage dell’Italia repubblicana, alle grandi stragi e ai delitti di mafia che insanguinarono la stagione della Trattativa, preceduti dall’orrore dei due decenni in cui i Corleonesi provarono, e diciamo pure riuscirono, a impadronirsi di tutti i gangli vitali di una terra bella e maledetta: questa è la storia occulta del nostro Paese. E il generale Dalla Chiesa, che tutto era fuorché comunista, quando gli venne chiesto di commentare i motivi per cui era stato assassinato Pio La Torre, insieme all’autista, rispose in maniera semplice e disarmante: "Per tutta una vita". Una vita conclusasi nel sangue a soli cinquantaquattro anni, una vita intensa, ricca di passioni e di entusiasmo, una vita grazie alla quale la parola "mafia" entrò nell’immaginario collettivo e nessuno poté più tacere di fronte a questa piovra malvagia che continua tuttora ad avvelenare la nostra società. Una vita, quella di Pio La Torre, che è considerata, a ragione, un simbolo di dedizione pressoché totale alla politica e al bene comune, eroica nella sua tragicità, disperata nelle sue denunce, solitaria e sconfitta dal silenzio complice dei troppi che non vollero vedere e dai molti che, pur vedendo, non vollero credergli. Settant’anni per dire basta, per ricordare e per sforzarsi di costruire una società e un futuro migliori. Dedichiamo a loro questo primo maggio che, da qualche anno, più che la festa del lavoro e dei lavoratori, è diventata la festa della disoccupazione, del precariato e della rabbia di chi vede davanti a sé unicamente il buio. Dedichiamo loro un pensiero, un ricordo, un fiore e una riflessione ma, soprattutto, il nostro coraggio e il nostro desiderio di far sì che le battaglie per cui quei braccianti e quel coraggioso esponente politico caddero per mano mafiosa proseguano e vengano, finalmente, portate a compimento. Mario Scrocca, trent’anni senza verità. Di giustizia nemmeno a parlarne di Francesco Ruggeri popoffquotidiano.it, 1 maggio 2017 Lo stranissimo suicidio in carcere di un infermiere sindacalista arrestato per errore. Si chiamava Mario Scrocca. Un’inchiesta mai fatta davvero. Primo maggio del 1987, alle 21.30 viene dichiarata, dai medici del S. Spirito di Roma, la morte di Mario Scrocca. Era stato prelevato il giorno prima da casa, accusato di un pluri-omicidio avvenuto quasi dieci anni prima; su sua espressa richiesta durante l’interrogatorio era stato sottoposto a vigilanza a vista. Il ragazzo (27 anni) costretto in isolamento era sorvegliato con la cella aperta. Per un "errore" nel cambio di consegna degli agenti penitenziari, la sorveglianza a vista si trasforma in controllo ogni dieci minuti dallo spioncino. Scrocca fu arrestato per il duplice omicidio di due neofascisti in via Acca Larentia nel gennaio 1978 sulla base delle rivelazioni di una pentita Livia Todini (all’epoca dei fatti quattordicenne), che parlò di un certo Mario riccio e bruno ma non lo riconobbe nel corso del riscontro fotografico. Questa è una delle storie contenute nel sito di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, e sulla quale sta per uscire un documentario che verrà presentato l’11 maggio al Cinema Palazzo di Roma. Alle 20 del primo maggio, orario del cambio di guardia, gli agenti trovano il giovane impiccato, non in una cella anti-suicidio, ma in una cella anti impiccagione. Riuscì ad impiccarsi per uno scarto di 2 millimetri usufruendo dello spazio del water, incastrando la cima del cappio nella finestra a vasistas, cappio confezionato con la federa del cuscino scucita e legata alle estremità con i lacci delle sue scarpe (che erano stato confiscati insieme alla cintura al momento della carcerazione); lacci che torneranno magicamente sulle scarpe del ragazzo (uno regolarmente allacciato) quando arriverà al S. Spirito. I primi soccorsi vengono effettuati direttamente a Regina Coeli, sembra, nella stessa cella, poi il detenuto viene portato all’ospedale che dista circa 500 metri dalla casa circondariale, che purtroppo sono contromano, 1.6 km per un tempo stimabile al massimo in 10 minuti. Il trasporto avverrà nel portabagagli di una 128 Fiat familiare, anziché sull’autoambulanza di servizio del carcere. Due agenti di custodia e un maresciallo, senza alcuna presenza del medico che avrebbe dovuto prestare teoricamente il primo soccorso; appare evidente ai sanitari dell’Ospedale che nulla è stato tentato per salvare Mario. Arriverà al S. Spirito alle 21.00 già cadavere. Non sarà permesso ai familiari (avvisati per altro al telefono e senza qualificarsi) di vedere il corpo fino alle 6 del mattino successivo, che non presenta tracce di lesioni se non per l’enorme ematoma sulla spalla destra e sul collo, solcato da larghi e profondi segni, dichiarati dagli stessi sanitari, non prodotti da stoffa. Tre giorni dopo la morte di Mario, il Tribunale del Riesame revocherà il mandato di cattura. Dopo la costituzione come parte civile, nel procedimento aperto contro ignoti, della moglie, spariranno tutti i fogli di consegna, di ricovero e requisizione degli oggetti al momento dell’arresto. A distanza di un anno il procedimento si chiuderà in primo grado senza responsabili se non lo stesso giovane. L’accaduto è sempre stato volutamente nebuloso fin dall’arresto su dichiarazioni di seconda mano di una pentita che avrebbe appreso notizie da una persona non rintracciabile. Evidenti le irregolarità nella carcerazione, le stranezze della morte del giovane e nei referti autoptici. Nessuno ha mai dato risposte se il giovane sia "stato suicidato" o se sia stato istigato al suicidio, reato che all’epoca non esisteva. La responsabilità "reale" di quel giovane è stata avere un nome troppo comune, una famiglia, un bimbo di due anni, un lavoro stabile, essere militante di Lotta continua e poi tra i fondatori delle RdB del settore sanitario, amare il suo lavoro, la sua vita e le sue convinzioni politiche. L’equa riparazione è oggettiva. Si prescinde dal dato emozionale: conta solo il danno di Giovambattista Palumbo Italia Oggi, 1 maggio 2017 Sentenza della Corte di cassazione interviene sulla non ragionevole durata del giudizio. Il significato dell’equa riparazione prescinde dal dato emozionale soggettivo e valorizza invece la componente oggettiva del danno prodotto dalla durata irragionevole del processo, e l’offesa per la lesione del diritto ad un procedimento giurisdizionale che si svolga nei tempi ragionevoli, come prescritti dalla Costituzione e dalla Cedu, con conseguente perdita dei vantaggi personali conseguibili da una sollecita risposta del servizio giustizia. Così ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 2028 del 26/1/2017. Nel caso di specie la Corte d’appello di Perugia, in sede di rinvio dalla Cassazione, aveva riconosciuto a favore del richiedente l’importo di euro 10.000,00, a titolo di indennizzo per la non ragionevole durata del giudizio di divisione introdotto nel 1976 ed ancora in corso nel 2009, quando era stata proposta la domanda di equa riparazione. La Cassazione aveva annullato il decreto della Corte d’appello nella parte in cui commisurava l’indennizzo esclusivamente al tempo successivo al 1994, quando il richiedente si era costituito nel giudizio presupposto, dopo essere rimasto fino ad allora contumace. All’esito del nuovo giudizio di rinvio, ai fini della liquidazione dell’indennizzo, la Corte d’appello aveva poi però ritenuto di dover procedere ad una valutazione in parte disancorata dagli usuali criteri, tenendo conto che il ricorrente, nato nel 1971, per ragioni di età, non avesse consapevolezza della vicenda giudiziaria, iniziata nel 1976, almeno fino all’adolescenza. Il richiedente ricorreva quindi in Cassazione, contestando, tra le altre, l’argomentazione secondo cui, nei primi anni del processo, non aveva potuto subire pregiudizio, non essendo in grado, per l’età, di avere consapevolezza della vicenda processuale. Tale motivo di censura, secondo i giudici di legittimità, era fondato, risultando ingiustificata la riduzione del periodo, operata dalla Corte d’appello nell’ambito della liquidazione dell’indennizzo, sul rilievo che il ricorrente non aveva subito pregiudizio fino al tempo in cui era diventato adolescente, essendo in precedenza troppo giovane per avvertire il disagio psicologico nel quale consiste il danno non patrimoniale oggetto di indennizzo. La Suprema Corte evidenziava inoltre che, dopo la sentenza delle Sezioni unite n. 585 del 2014, che ha affermato l’irrilevanza della contumacia ai fini del diritto all’equa riparazione, la questione della partecipazione attiva al processo ha perso di significato, valendo invece il principio per cui qualunque persona che sia parte di un processo, a prescindere dalla consapevolezza soggettiva e dalla partecipazione attiva, ha diritto a che il processo abbia una durata ragionevole. Polizia, archivi dati col timer. I termini di conservazione sono estremamente lunghi di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 1 maggio 2017 Il parere dell’Autorità garante della privacy sul trattamento delle informazioni. Troppo lunga la data retention da parte delle forze di polizia. È la sintesi del "garante della privacy-pensiero" sullo schema di decreto presidenziale, attuativo del Codice della privacy, dedicato al trattamento delle informazioni da parte delle forze di polizia. Sotto i riflettori le misure che la polizia deve prendere, per non invadere la riservatezza degli innocenti, quando cerca di stanare criminali. Come la data di scadenza degli archivi. Quando cala l’oblio? O i dati detenuti possono stare in custodia cautelare per l’eternità? No, una scadenza c’è, ma è un countdown lento, lento. Per esempio ci sono 50 anni di tempo per scongelare un cold case, ma arriva a 80 anni la dead-line in caso di condanna e si conta fino a 6 lustri per un atto di indagine. Un po’ troppo, ribatte il garante della privacy, chiamato a esprimere il proprio parere: ma, con il provvedimento n. 86 del 2 marzo 2007 (che non riguarda le polizie locali), il collegio presieduto da Antonello Soro non ha intimato l’alt, spedendo solo un invito a ripensarci. Tra l’altro si è tutti in attesa del recepimento della direttiva europea 2016/680 (scade il 5 maggio 2018) con il quale ci potrà essere la possibilità di qualche ritocco. In gioco c’è il rapporto tra sicurezza e libertà, cioè uno dei temi cruciali del sistema occidentale: e il risultato della frazione vacilla, da una parte, tra un’aspettativa di maggiore sicurezza a scapito del desiderio di maggiore riservatezza e, dall’altra parte, una disponibilità a una minore tutela della tranquillità individuale e collettiva a vantaggio di una maggiore sfera di invalicabilità dei dati e della vita delle singole persone. Partiamo proprio dal Codice, che si occupa di tutta la privacy, in tutti gli ambiti, privati e pubblici. Tra questi ultimi si occupa anche di trattamenti delle forze di polizia. Anche la polizia deve rispettare la privacy, anche se in una versione attenuata. La privacy light riguarda i trattamenti di dati personali direttamente correlati all’esercizio dei compiti di polizia di prevenzione dei reati, di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, di polizia giudiziaria, svolti, in base al codice di procedura penale, per la prevenzione e repressione dei reati. Si tratta di una disciplina leggera perché tantissimi articoli del Codice della privacy non entrano nelle caserme, nei commissariati, nelle procure e simili. Non si applicano le modalità del diritto di accesso e l’informativa, le condizioni di liceità del trattamento prescritte in generale alla p.a., la notificazione al garante, la disciplina sul trasferimento dati all’estero, ricorsi amministrativi e giurisdizionali sull’esercizio dei diritti. I privilegi sono del tutto logici. Ci pensate se il maresciallo dovesse mandare un’informativa "privacy" prima di compiere un pedinamento? Ma versione light della privacy non significa niente privacy. L’articolo 57 del Codice della privacy (del 2003) ha rinviato a un Dpr le modalità di attuazione dei principi della privacy relativamente al trattamento dei dati delle forze di polizia. Lo stato deve, quindi, spingersi a un dettaglio su alcuni temi cruciali per la tutela della libertà del galantuomo (come si diceva per le garanzie del codice di procedura penale). Tra i nodi da sciogliere due sono particolarmente stretti: a) individuazione di specifici termini di conservazione dei dati in relazione alla natura dei dati o agli strumenti utilizzati per il loro trattamento, alla tipologia dei procedimenti nell’ambito dei quali essi sono trattati o i provvedimenti sono adottati; b) uso di particolari tecniche di elaborazione e di ricerca delle informazioni, anche mediante il ricorso a sistemi di indice. Quanto ai termini di conservazione dei dati personali, il garante dice testualmente che "appaiono... estremamente lunghi, anche se sono stati inseriti alcuni temperamenti indicati sopra, come limitazioni all’accesso ai dati conservati per un tempo pari o superiore ai 30 anni, quando sia decorsa la metà del termine di conservazione". Insomma, anche se dopo un certo periodo bisogna chiedere un permesso in più per consultare i dati (potranno farlo solo operatori incaricati del trattamento, a ciò autorizzati per il compimento di specifiche operazioni nell’ambito di attività informative, di sicurezza o di indagine di polizia giudiziaria), ciò non toglie che il tempo supera le ragioni di conservazione. E quei dati, lasciati lì, possono attirare malintenzionati o essere abbandonati a loro stessi. La controproposta del garante? Eccola: "Parrebbe, comunque, necessario stabilire termini di conservazione sostanzialmente più brevi, con possibilità di prolungarli nei casi in cui ciò sia effettivamente necessario". Peculato e truffa aggravata, elemento distintivo è la modalità del possesso del denaro di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 1 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 19 aprile 2017 n. 18886. L’elemento distintivo tra il peculato e la truffa aggravata ai sensi dell’articolo 61, numero 9, del Cp va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione. È ravvisabile, quindi, il peculato quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio fa proprio il bene altrui del quale abbia già il possesso per ragione del suo ufficio o servizio e l’eventuale condotta fraudolenta non è finalizzata a conseguire il possesso del bene ma a occultare l’illecito; mentre, vi è la truffa aggravata quando l’impossessamento del denaro o di altra utilità costituisce conseguenza logica e temporale degli artifizi e raggiri posti in essere dal funzionario altrimenti privo della possibilità di acquisirne direttamente l’importo, non avendone autonomamente la disponibilità. Lo hanno precisato i giudici della sezione VI penale della Cassazione con la sentenza 19 aprile 2017 n. 18886. Costituisce affermazione consolidata quella secondo cui l’elemento distintivo tra il peculato e la truffa aggravata va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione. È ravvisabile, quindi, il peculato quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio si appropri del denaro o della cosa mobile altrui di cui abbia già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio; è ravvisabile, invece, la truffa aggravata qualora l’agente, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri, in funzione della condotta appropriativa del bene. Alla condotta di peculato può affiancarsi anche una condotta fraudolenta, finalizzata, però, non a conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile, ma a occultare la commissione dell’illecito ovvero ad assicurarsi l’impunità: in tale ipotesi, deve ravvisarsi il peculato, nel quale - di norma - rimane assorbita la truffa aggravata, salva la possibilità, in relazione a specifici casi concreti, del concorso di reati, stante la diversa obiettività giuridica, la diversità dei soggetti passivi, il diverso profitto, il diverso momento consumativo (tra le altre, sezione VI, 6 maggio 2008, Savorgnano). In altri termini, ricorre il reato di peculato quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio si appropri del denaro o della cosa mobile altrui di cui abbia già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio; versandosi sempre in tema di peculato quando l’agente ponga in essere anche una condotta fraudolenta che non incida, però, sul possesso del bene, nel senso di conseguirne la disponibilità, ma abbia la sola funzione di mascherare, almeno all’apparenza, la commissione del delitto. Ricorre, invece, la truffa aggravata quando l’agente, non avendo il possesso del bene, se lo procuri fraudolentemente in funzione della contestuale o successiva condotta appropriativa (ex pluribus, sezione VI, 3 marzo 2016, Saccone e altro; nonché, sezione VI, 13 dicembre 2011, Zedda). Accesso abusivo al sistema informatico se l’abilitato non rispetta i limiti fissati dal titolare di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 1 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 24 marzo 2017 n. 14546. Ai fini della configurabilità del delitto di accesso abusivo a un sistema informatico, da parte di colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto, violando le condizioni e i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, è necessario verificare se il soggetto, ove normalmente abilitato ad accedere nel sistema, vi si sia introdotto o mantenuto appunto rispettando o meno le prescrizioni costituenti il presupposto legittimante la sua attività, giacché il dominus può apprestare le regole che ritenga più opportune per disciplinare l’accesso e le conseguenti modalità operative, potendo rientrare tra tali regole, ad esempio, anche il divieto di mantenersi all’interno del sistema copiando un file o inviandolo a mezzo di posta elettronica, incombenza questa che non si esaurisce nella mera pressione di un tasto ma è piuttosto caratterizzata da una apprezzabile dimensione cronologica. Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza della quinta sezione penale 24 marzo 2017 n. 14546. La decisione si ricollega alla sentenza 27 ottobre 2011, Casani e altri, con la quale le sezioni Unite sono intervenute sull’ambito di operatività della norma fondamentale di tutela del domicilio informatico: l’articolo 615-ter del Cp, che punisce l’accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, sanzionando la condotta di chi abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo. Secondo il ragionamento delle sezioni Unite, il reato non sussiste allorquando il soggetto accede o permane nel sistema rispettando i limiti dell’autorizzazione rilasciatagli dal titolare del sistema. Il reato sussiste, invece, se e in quanto il soggetto, pur astrattamente autorizzato ad accedere o a permanere nel sistema, lo fa violando i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema ovvero lo fa ponendo in essere operazioni ontologicamente diverse da quelle autorizzate. Qui la Corte ha inteso precisare che compete al dominus, ossia al titolare del sistema, stabilire le prescrizioni e le limitazioni cui devono sottostare i soggetti autorizzati, ben potendosi verificare che nell’ambito di una determinata azienda vengano poste regole di accesso e mantenimento nel sistema che il management di un’altra società consideri invece del tutto irrilevanti: cosicché, la violazione penalmente rilevante potrebbe verificarsi anche nel caso della mera copiatura di un file e/o dell’inoltro di questo a mezzo di posta elettronica, laddove tali limitazioni operative siano state poste nello specifico a carico dei soggetti autorizzati. Calabria: i Giovani Avvocati "bene impegno Consiglio regionale su Garante dei detenuti" ildispaccio.com, 1 maggio 2017 L’Aiga - Associazione italiana giovani avvocati - accoglie positivamente l’impegno da parte del Consiglio regionale della Calabria ed, in particolare, della Prima Commissione "Affari istituzionali, affari generali e normativa elettorale", di dare seguito alle proposte di legge finalizzate all’istituzione del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale e dell’Osservatorio regionale per le politiche penitenziarie. "È un primo segnale importante da parte del legislatore regionale affinché la Calabria colmi il gap legislativo, dotandosi nella propria struttura della figura istituzionale del Garante, e non solo quale doverosa risposta alla censura nazionale ed internazionale sullo stato dei nostri istituti di detenzione" afferma il vice presidente nazionale avv. Aurelia Zicaro. "La giovane avvocatura calabrese ha più volte sollecitato le istituzioni locali ad investire in questa materia adottando misure di prevenzione affinché la privazione della libertà non degeneri in situazioni tali da tradursi in trattamenti inumani e degradanti, tanto che proprio a Cosenza, quale prima sede nazionale, è stato presentato, lo scorso 9 febbraio, il lavoro svolto sul tema: "Reati ostativi e diritti: quale carcere?" alla presenza del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale, prof. Mauro Palma, sceso in Calabria per l’occasione". "Il percorso da tempo intrapreso dall’Aiga ha, inoltre, consentito la partecipazione alla 69 edizione dell’American Academy of Forensic Science (AAFS) tenutosi a New Orleans (Louisiana) nel febbraio di questo anno, in occasione del quale è stato presentato lo studio "Re-Socialization of the Prisoner Between Psychological Support and Work - The Italian Experience". Alla luce - altresì - dei dati forniti dall’Ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale in occasione della relazione annuale presentata a Roma il 21 marzo scorso - alla quale ha partecipato il vice-presidente nazionale Zicaro - è necessario che la Calabria si strutturi, al più presto, dell’organismo, al fine di individuare preventivamente le criticità materiali e formative che spesso sfociano in azioni lesive della dignità della persona privata della libertà, attuando politiche positive che arginino tali criticità. Ove più si consideri che secondo i dati contenuti nella Relazione illustrativa non tutti gli istituti di pena calabresi, visitati dal Garante nel periodo marzo 2016 - febbraio 2017 - godono di ottima salute, tanto che sono state emesse, complessivamente, ben 55 raccomandazioni. "Secondo quanto fornito dal Garante le carenze di molti istituti di pena calabresi riguardano la mancanza di stanze per la socialità o di ambienti comuni fruibili per attività di larga presenza; carenze di attività volte al reinserimento sociale e inadeguatezza degli alloggi del personale di Polizia penitenziaria " - aggiunge il vice-presidente Zicaro - "carenze che devono imporre il legislatore a licenziare in tempi brevi la legge istitutiva del Garante quale custode e difensore della tutela della persona". Trieste: detenuto morto in carcere, un solo agente in turno la notte della tragedia di Corrado Barbacini Il Piccolo, 1 maggio 2017 Organici e procedure di assistenza sanitaria sotto tiro dopo la morte in cella di Andrea Cesar. I sindacati di polizia: "Impossibile controllare tutto". Un solo poliziotto chiamato a sorvegliare una cinquantina di detenuti. C’era un unico agente della Penitenziaria in servizio al secondo piano del Coroneo nella notte tra martedì e mercoledì, quando Andrea Cesar, 36 anni, è stato trovato morto. Vittima, secondo l’ipotesi al momento più accreditata dalla Procura, di un’overdose di psicofarmaci. Un decesso che gli addetti alla sorveglianza, visti anche gli organici ridotti ai minimi termini, non sono riusciti a scongiurare. "Quella sera - spiega Alessandro Penna, segretario provinciale della Uil-Penitenziari - uno dei due agenti del turno notturno era stato mandato in ospedale per piantonare un detenuto, e l’altro era rimasto da solo in carcere". La morte di Andrea Cesar, però, non chiama in causa solo gli organici inadeguati del penitenziario ma anche i meccanismi dell’assistenza medica dietro alle sbarre. "Fino a qualche anno fa il servizio nelle carceri era gestito direttamente dalla cosiddetta Sanità penitenziaria - prosegue Penna -. Da quando sono subentrate le Aziende sanitarie, invece, non abbiamo più competenze. Noi siamo solo osservatori a tutela degli operatori esterni (medici e infermieri, ndr) che operano nell’istituto. Non possiamo sapere nemmeno di che patologia soffre un detenuto. Tutto per ragioni di privacy". Saranno le indagini avviate subito dopo la tragedia dal pm Federico Frezza a fare luce sulle cause della morte improvvisa. Essenziale l’esito dell’autopsia eseguita venerdì mattina. I risultati sono attesi nei prossimi giorni. Intanto gli amici non riescono a capacitarsi di quanto successo: "Era un ragazzo normalissimo - ricorda il suo amico Alessandro Flora - pur con questi problemi che si portava dietro da anni e anni. Troppi. Non si meritava di morire in carcere, era una persona fantastica". "Non penso possa essere stato un atto inconsulto, Andrea era certamente stufo di quel problema che nessuno riusciva a curargli - dice Manuel Farfoglia, 26 anni, un altro amico conosciuto tre anni fa - ma non tanto da fare una sciocchezza come suicidarsi, amava la vita". Venezia: riscatto professionale per i detenuti, secondo store di economia carceraria affaritaliani.it, 1 maggio 2017 Dalla Cooperativa Sociale al mercato professionale: questa la scommessa di Rio Terà dei Pensieri, realtà no profit che offre opportunità occupazionali e di reinserimento sociale ai detenuti, uomini e donne, nell’ambito del sistema penitenziario veneziano. Quest’attività virtuosa ha fatto sì che un artista americano e di fama internazionale come Mark Bradford, che rappresenterà gli Stati Uniti alla 57a Esposizione internazionale d’arte a La Biennale di Venezia dal prossimo 13 maggio al 26 novembre, si appassionasse al progetto. Grazie al suo impegno finanziario e proattivo è stato infatti possibile aprire al pubblico un negozio speciale, che porta con sé la storia delle persone che hanno lavorato e dato vita a creazioni uniche, fatte di passati tortuosi, presenti di impegno e attese di futuri migliori. Produzioni che raccontano di responsabilità, etica e cura per l’ambiente: attraverso la coltivazione di un orto biologico, la realizzazione di cosmetici, tra cui una linea bio a marchio "Rio Terà dei Pensieri" curata presso la Casa di Reclusione per Donne della Giudecca, la confezione di borse e accessori con materiali riciclati in PVC a nome "malefatte" e la stampa in serigrafia di T-shirts del Commercio Equo e Solidale nei laboratori attivi della Casa Circondariale Maschile di Santa Maria Maggiore di Venezia. Il sodalizio infatti, la cui ufficialità verrà resa pubblica proprio il giorno dell’inaugurazione dello store a Venezia, in Fondamenta dei Frari il 29 aprile alle 18 in sua presenza, darà avvio a una collaborazione della durata di sei anni con la Cooperativa Sociale veneziana Rio Terà dei Pensieri, dal titolo Process Collettivo, che ambisce a supportare un programma sostenibile a lungo termine e a replicare che il successo di questo modello. Un esperimento di natura commerciale a denso valore aggiunto, che segue il brillante esempio di Freedhome, di cui anche Rio Terà dei Pensieri fa parte, una rete di cooperative sociali che operano nelle prigioni italiane, fornendo ai carcerati occasioni lavorative a seguito di un’attenta formazione nella manifattura di prodotti artigianali, che a fine ottobre scorso ha inaugurato a Torino il primo store permanente di economia carceraria in Italia. Misurarsi con le questioni sociali e investire nelle persone, nel loro potenziale e nella loro voglia di riscatto offre un’opportunità in più alla società di affrancarsi da un sistema rigido, grazie a manovre di reinserimento professionale e confidando nella forza riabilitativa del lavoro - principio indimenticato su cui si fonda la nostra Repubblica. Bologna: dem spaccati sul Garante dei detenuti Corriere di Bologna, 1 maggio 2017 La discussione sui criteri per scegliere il nuovo Garante dei detenuti spacca in due il Pd con una polemica dalle coloriture "etniche". "Avrei preferito una proposta che valorizzasse chi viene da fuori e non una logica troppo "Bologna ai bolognesi", che mi sembra vada contro la storia di questa città", ha detto l’altro giorno il consigliere comunale del Pd Raffaele Persiano, pugliese di San Severo. Durissima, la replica del capogruppo dem Claudio Mazzanti, bolognese doc: "Il Consiglio comunale e lo stesso Persiano sono la configurazione fisica del fatto che questo è un suo pensiero completamente privo di ogni realtà". Nel gruppo Pd a Palazzo D’Accursio, ha aggiunto Mazzanti, "guardate quanti sono calabresi, pugliesi e ogni altro tipo. Noi bolognesi siamo in netta minoranza. Abbiamo anche una presidente che non è certo bolognese". Il riferimento è a Luisa Guidone, calabrese di Castrovillari. Tutto è iniziato quando il Consiglio comunale si è messo al lavoro per ridefinire i criteri in vista della nomina del nuovo Garante per i detenuti che sostituirà (dal prossimo 23 luglio) Elisabetta Laganà, eletta nel 2012 e non più rinnovabile dopo due mandati. In Comune sono già arrivate 26 candidature. Il vecchio regolamento indicava tra i criteri, le competenze e i legami con il territorio, senza indicare però una priorità tra i due requisiti. Per tre sedute si è discusso se e come cambiare le regole nonostante Mazzanti avesse proposto di lasciare tutto invariato. Invece alcuni consiglieri del Pd, tra cui Andrea Colombo e Francesco Errani, hanno proposto di mettere in cima alle caratteristiche richieste i legami con il territorio. E a questo punto Persiano si è opposto: "Prima vengono le competenze — spiega Persiano — Non credo che il legame con il territorio sia un valore. Se uno ha già fatto il garante a Padova o a Reggio Calabria, io lo preferisco. Anzi, è meglio perché vuol dire che il prescelto non ha legami che possano configurare eventuali conflitti di interessi". Di diverso avviso Errani: "In un lavoro del genere la conoscenza del territorio è importante". Risultato? Alla fine tutto è rimasto com’era, con i requisiti indicati in ordine sparso e senza priorità. Ma i consiglieri del Pd si sono spaccati per la seconda volta quando, in extremis, il grillino Massimo Bugani ha chiesto di privilegiare chi non abbia già ricevuto incarichi da Comune, Città metropolitana o società partecipate. I dem Raffaella Santi Casali e Michele Campaniello, che ritenevano ragionevole la proposta del M5S si sono astenuti. Mentre il resto del Pd l’ha bocciata. Spoleto (Pg): due progetti per il carcere, incontri con gli studenti e gli scrittori di Celeste Bonucci gazzettadifoligno.it, 1 maggio 2017 Il carcere di Spoleto ha attivato interessanti progetti per promuovere l’interazione reclusione-mondo esterno. Il primo progetto nasce dall’iniziativa del detenuto Vincenzo Rucci che ha scritto una propria autobiografia e ha chiesto di poter fare un lavoro con i ragazzi delle scuole per dissuaderli dall’intraprendere le sue stesse esperienze di vita. Al progetto ha aderito la classe II A dell’Istituto Tecnico Tecnologico "L. da Vinci" di Foligno. I ragazzi, dopo aver letto l’autobiografia, hanno svolto una serie di incontri con l’autore in carcere. Gli obiettivi del progetto sono quelli di conoscere il mondo carcerario e le problematiche del detenuto, riflettere sulla compatibilità tra sistema carcerario e Costituzione, riflettere sulla conseguenza dei reati commessi, sull’articolo 27 della Costituzione, ossia sulla rieducazione, sull’accoglienza al momento del rientro in società. Durante il primo incontro, svoltosi lo scorso primo dicembre, gli studenti hanno conosciuto il carcere e il carcerato e hanno posto al detenuto domande e curiosità in relazione all’autobiografia da loro letta. Durante il secondo incontro, svoltosi il 28 marzo, è stato invece trattato il tema accettazione-riconciliazione. L’ultimo incontro, che si svolgerà entro la fine dell’anno scolastico, sarà invece incentrato sull’articolo 27 della Costituzione. Responsabili del progetto sono: la prof.ssa Lucia Vezzoni, docente di italiano, la dott.ssa Tiziana Porfilio, educatrice, la dott.ssa Rita Cerioni, ex magistrato e volontaria al carcere di Spoleto, il docente di diritto prof. Fabio Massimo Sebastiani. "Tramite questo progetto - ha riferito la dott.ssa Cerioni - gli studenti hanno imparato a vedere con occhi nuovi il carcere: non un luogo di chiusura, ma un ambiente con cui ci si può relazionare. Il messaggio principale che vogliamo veicolare è il fatto che le persone, come nel caso di Vincenzo, possono cambiare. Sicuramente nostro intento, sarà quello di riproporre l’iniziativa anche ad altre classi delle scuole superiori di Foligno". Il secondo progetto promosso è la lettura ad alta voce di testi letterari contemporanei e classici, che si concluderà, in alcuni casi con l’incontro degli autori in carcere. Il progetto è curato dall’Associazione FulgineaMente di Foligno e l’obiettivo è quello di avvicinare i detenuti alla lettura come mezzo di rieducazione e riflessione personale, che favorisca una più profonda conoscenza di se stessi e degli altri. Il progetto è rivolto ai due circuiti di alta e media sicurezza e prevede la lettura guidata dei testi e la partecipazione, talvolta, degli studenti delle scuole superiori di Foligno, che leggeranno i medesimi libri sotto la guida dei propri insegnanti. Uno degli obiettivi è anche quello di favorire tra i carcerati la stesura di riflessioni scritte sui temi trattati. Coordinatrice del progetto è la prof.ssa Ivana Donati. Treviso: portare la filosofia nelle carceri, arriva l’ambizioso progetto "I care" trevisotoday.it, 1 maggio 2017 Mercoledì 3 maggio le filosofe Valeria Genova e Anita Santalucia terranno, per la prima volta nella Marca, un laboratorio filosofico dedicato ai ragazzi del carcere minorile di Treviso". Come può la filosofia, disciplina baluardo del libero pensiero, entrare in carcere? È questa la domanda da cui è partito l’ambizioso progetto di Valeria Genova e Anita Santalucia, due giovani donne unite da una laurea in filosofia e dalla profonda certezza che, oggi più che mai, occorra riscoprire le enormi potenzialità del dialogo filosofico, inteso come costante provocazione a pensare. Con questo scopo, mercoledì 3 maggio, le due filosofe terranno per la prima volta presso l’Istituto penitenziario minorile di Treviso, un laboratorio sperimentale di filosofia, intitolato "I Care", ispirato e condotto secondo il modello della Philosophy for Children and for Community. Il laboratorio, fortemente voluto e appoggiato da Titti Bonetti, coordinatrice didattica dell’Istituto, pone l’attenzione sul concetto di cura declinato in prendersi cura di se stesso e dell’altro soprattutto in un contesto di perdita e di smarrimento del sé. "L’obiettivo della filosofia dovrebbe essere quello di insegnare l’arte della "fuga", attraverso la riflessione e il confronto su temi della quotidianità in tutti i suoi risvolti. Il dialogo filosofico in ambito carcerario permette di diventare osservatori di se stessi, delle proprie vicende e di un’esperienza comunitaria così particolare", dice Valeria Genova, laureata in Filosofia a Venezia, founder di un importante progetto editoriale ed ora completamente immersa in questa nuova missione; "vogliamo dimostrare ai ragazzi del carcere che il pensiero è libero, nonostante nasca dentro quattro mura: se ci si pone un obiettivo, una speranza, un’idea, si può raggiungere la dimensione del futuro con il pensiero, dunque con una sorta di libertà". "I nostri laboratori di filosofia vogliono dimostrare come gli interlocutori che ci troviamo di fronte siano in possesso di tutti gli strumenti per affrontare temi esistenziali e prendere consapevolezza di essere loro stessi portatori di una filosofia ispiratrice di scelte e di assunzione di responsabilità." aggiunge Anita Santalucia, laureata in Filosofia a Napoli e teacher di Philosophy for Children and for community. Questi laboratori del nuovo progetto I Care, in un momento storico in cui forte si sente nel nostro paese il problema delle carceri, intendono dimostrare che i detenuti, in quanto persone, sono portatori di un vissuto ricco e problematico, espresso in bisogni identitari fortemente strutturati che sfociano in una vera e propria filosofia di vita. Torino: sventata evasione di 4 detenuti dal carcere minorile quotidianopiemontese.it, 1 maggio 2017 Hanno tentato di evadere dal carcere minorile di Torino, ma la vigilanza della polizia penitenziaria li ha fermati prima che potessero scappare. A dare la notizia è il Sappe, il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Racconta Vicente Santilli, segretario regionale per il Piemonte del Sappe: "Questa notte, nel carcere minorile Ferrante Aporti di Torino, poco dopo mezzanotte e trenta, è stata sventata una tentata evasione da parte degli agenti di Polizia Penitenziaria preposti in servizio. La tentata evasione stava per essere portata in atto da un gruppo di detenuti di nazionalità straniere. Durante lo svolgimento del servizio, gli Agenti, allertati da strani rumori, hanno effettuato una serie di controlli nei vari Reparti. In una cella sono stati sorpresi quattro giovani adulti mentre cercavano, con una staffa di ferro ricavata dalla staffa di sostegno del lavandino, di bucare la parete della stanza. I 4 sono stati fermati e spostati in altre celle. È del tutto evidente come anche questo grave episodio evidenzia le difficoltà operative del Reparto di Polizia Penitenziaria in servizio al Ferrante Aporti di Torino. Difficoltà che il Sappe denuncia da anni senza però avere alcun riscontro dalle competenti articolazioni, centrali e periferiche, del Ministero della Giustizia". Donato Capece, segretario generale del Sappe, ricorda i numerosi eventi critici che accadono regolarmente nelle carceri minorili, da ultimo l’evasione di un detenuto l’altro giorno dal penitenziario per minori di Airola, e sollecita urgenti adeguati provvedimenti da parte del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità: "Quel che accade ogni giorno nelle carceri minorili del Paese ci preoccupa. Eppure le nostre denunce rimangono senza risposte ed adeguati provvedimenti. Gli Agenti di Polizia Penitenziaria devono andare al lavoro con la garanzia di non essere insultati, offesi o - peggio - aggrediti da una parte di popolazione detenuta che non ha alcun ritegno ad alterare in ogni modo la sicurezza e l’ordine interno. Non dimentichiamo che contiamo ogni giorno gravi eventi critici nelle carceri italiane, episodi che vengono incomprensibilmente sottovalutati dalla Giustizia minorile e dall’Amministrazione Penitenziaria. Migranti. Attracco vietato alle navi delle Ong sospette di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 1 maggio 2017 Si studia la possibilità di vietare l’attracco a chi non ha bilanci trasparenti e rapporti chiari con le istituzioni italiane. Nella lista dei magistrati, oltre alla Moas, alcune associazioni tedesche. Vietare l’attracco a chi non ha rapporti chiari con le istituzioni. In attesa che l’istruttoria della commissione Difesa raggiunga qualche certezza sui rapporti fra Ong e sbarchi, si ragiona su possibili rimedi. Soluzioni che rispettino gli imperativi umanitari (soccorrere chi rischia di annegare lungo la tratta della speranza) scoraggiando chi opera senza trasparenza. Come il divieto di entrare in porto. È il caso, per fare un esempio, di quelle Organizzazioni non governative che hanno rifiutato di fornire l’elenco completo dei finanziatori alla commissione guidata da Nicola Latorre (Pd) come la Moas (Migrant offshore aid station) con sede a Malta, capitanata da un milionario americano e un’italiana. Limite agli attracchi - Scoraggiare chi si muove lungo un confine opaco, fra esigenze umanitarie e sbarchi pilotati, dunque. In Parlamento c’è chi pensa di porre un limite agli attracchi: tra i "privati" potrà sbarcare solo chi ha bilanci trasparenti e rapporti chiari con le istituzioni italiane. Non si tratta di imporre un numero chiuso aprioristicamente ma di distinguere fra interventi di soccorso e iniziative che potrebbero essere frutto di accordi illeciti. Con telefonate via satellitare degli scafisti che, appena fuori dalle acque libiche, avvisano della presenza di un’imbarcazione generalmente in pessime condizioni. Gli sos fra marinai - Si è discusso molto di questo. C’è anche chi ritiene che le comunicazioni fra natanti e soccorsi avvengano in modo informale, fra marinai e scafisti e dunque sfuggano al comando delle imbarcazioni. È un’ipotesi, ovviamente. Ma se così fosse è chiaro che è difficile distinguere fra una missione umanitaria e un’iniziativa coatta. A dispetto di molte polemiche non c’è alcuna volontà di criminalizzare le Organizzazioni non governative che quest’anno hanno soccorso decine di migliaia di persone (gli stranieri sbarcati sono stati circa 37.000) e ieri hanno recuperato cinque corpi a largo della Libia. Associazioni come Medici senza Frontiere e Save the Children sono una sorta di istituzione. Ma in questa fase si sta cercando di accertare se tutti abbiano davvero come unico obiettivo il salvataggio di vite umane. I finanziatori vip - I numeri parlano di uno sforzo economico imponente sostenuto da alcune Organizzazioni, alcune delle quali, pur europee non dialogano con il governo italiano. Di tutte si sta occupando il procuratore capo di Catania, Carmelo Zuccaro, al momento senza aver formulato alcuna ipotesi di reato né inviato avvisi di garanzia, come ha precisato nelle sue pubbliche esternazioni di cui domani discuterà anche il Csm. Tra le Ong finite nell’elenco dei "sospetti" c’è da tempo la Moas di Christopher e Regina Catrambone, che ha ricevuto donazioni per oltre 5 milioni e mezzo di euro, ma non ha voluto fornire l’elenco completo dei benefattori. Alcuni sono nomi famosi come quello degli attori Michael Fassbender e Colin Firth. La Moas ha tra i propri sostenitori anche il magnate George Soros, accusato più volte proprio per questo di "favorire l’invasione dei migranti". Moas e altre - La Moas non è l’unica nel mirino dei magistrati catanesi, tuttavia. Altre sarebbero le "Jugen Rettet" e "Sea Watch". Mentre la "Sos Mediterranée" pur nata a Berlino opera in collaborazione con Medici Senza Frontiere e i suoi finanziatori sono esclusivamente privati. La "Jugen Rettet" opera a nord ovest di Tripoli, batte bandiera olandese e a Pasqua si è ritrovata in panne con 400 profughi a bordo. C’è poi la "Life boat" di Amburgo che conta fra i suoi sostenitori la società di calcio St Pauli. Mentre pochissimo si sa della "Sea Eye" di Monaco se non che può contare su un peschereccio riadattato per i soccorsi. Quanto alla "Sea Watch", il responsabile delle operazioni Axel Grafmanns ha fatto sapere di voler valutare una denuncia per diffamazione contro il procuratore Zuccaro. Infine la "Proactiva Open Arms" di Barcellona, sostenuta da privati cittadini. Dal 2016 ad oggi ha salvato 18 mila persone. Migranti e Ong, così Unicef risponde a critici e troll della Rete di Giovanni Gagliardi La Repubblica, 1 maggio 2017 Il responsabile dell’account del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia replica su Twitter alle polemiche sul ruolo dei volontari. Non con le offese, ma con i contenuti. Con molte risposte individuali e una grande preparazione sul tema. Hashtag #eroe. Così su Twitter un utente, @Giovanni_N0, definisce "quello/a dietro l’account de @Unicef_Italia che risponde a tutti invece de scriveje....", segue insulto nei confronti di quanti lo attaccano. Sì, perché in questi giorni di feroci polemiche politiche sul ruolo delle Ong nel salvataggio in mare dei migranti, con il procuratore di Catania che parla di possibili legami tra volontari e scafisti, sull’account del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, c’è un social media manager (smm) che ribatte punto su punto ad ogni tentativo di polemica, fornendo dati, cifre e argomenti ai quali è difficile, se non impossibile, replicare (o, per dirla con linguaggio internettiano, "trollare"). E a chi ci prova, il nostro #eroe risponde puntuale, asciutto. Opponendo fatti a opinioni, in maniera dura ma mai offensiva. Alcuni esempi: due giorni fa, il 28 aprile, Unicef Italia sul suo account Twitter pubblicava la foto di una piccolissima migrante salvata in mare e scriveva: "#Rispetto per chi soccorre #Rispetto per chi soffre #Rispetto per chi muore. Nessun rispetto per chi infanga". L’attacco di @Paolo_ms3 arriva il giorno dopo: "È odioso l’utilizzo strumentale dei bambini in foto. In quale % sono i bambini tra coloro che soccorrete? Bambini non finti minorenni". "Il 100% delle persone che soccorriamo sono esseri umani - è la replica di Unicef - E sarebbe bello se lo fossero anche il 100% delle persone che commentano". Una risposta che però non soddisfa @valeriamoretti8: "Non so se vi è chiaro che gli aventi diritto sono pochissimi...perché una volta salvati non li riportate indietro? Nessuno penserebbe male..". Anche in questo caso la replica è puntuale: "Non sappiamo se ti è chiaro che Unicef, Ong, Governo italiano e Unione Europea sono soggetti completamente differenti per missione e ruolo". E oggi @Paolo_ms3 è tornato alla carica: "Una curiosità....ricevete compensi per l’attività che fate?". "No - è la risposta - i volontari a bordo li paghiamo noi. Comunque sei parecchio lontano dal capire che il business è in Libia, non in mezzo al mare...". "Quindi. Che volontari sono - incalza @vitomastropasq2 - Chi sceglie i volontari pagati? E quanto guadagnano?". "I marinai della Guardia Costiera sono professionisti dipendenti dello Stato, ministero dei Trasporti. Dovrebbero lavorare gratis? Tu lo fai?", ribatte Unicef. Nessuna retorica, nessun accenno alle cifre che la stessa Unicef fornisce attraverso altri media e che parlano di oltre 150 bambini morti attraversando il Mediterraneo centrale dal Nord Africa all’Italia e della 849 persone che risultano disperse in mare lungo la rotta, dal primo gennaio 2017 ad oggi. Ma @vitomastropasq2 non è soddisfatto: "Sì, mi riferisco a chi fa servizio x le Ong se sono li solo per scopi umanitari. O pensano anche alle loro saccocce". E di nuovo arriva la risposta di Unicef: "Tu che giudichi tanto, fai un lavoro più degno e importante di chi salva vite umane? Lavori gratis? Perché pensi che gli altri debbano farlo?". Poi, di fronte ad un nuovo attacco sugli stipendi dei volontari che "non vengono resi noti", arriva un tweet nettissimo: "Il solito vizio di giudicare prima di conoscere. Vuoi conoscere i nostri stipendi? Chiedi. Sono online, da anni: http://www.unicef.it//doc/3050/rapporti-di-lavoro-e-retribuzioni.htm". E a quel punto arriva il tweet di @tanocacchione che si rivolge a @Paolo_ms3 e, lapidario, chiude la discussione: "Sei un poveraccio". Il smm di Unicef risponde puntuale ad ogni post, anche a quelli di livello ancora più basso: "I figli dei migranti sgozzeranno i nostri figli. Noi dobbiamo proteggere i nostri figli", scrive @Patriota_22. E la replica è sconsolata: "Davvero il sonno della ragione genera mostri". "Così l’Onu torna in Libia.. e questa volta ci resteremo" di Paolo Valentino Corriere della Sera, 1 maggio 2017 Amin Awad, direttore d’area Unhcr: stop ai trafficanti. Quella annunciata dal segretario generale in Libia è una missione umanitaria, inizialmente limitata a tre mesi, nella quale saranno coinvolte le diverse agenzie dell’Onu, fra cui noi dell’Unhcr. Siamo usciti dalla Libia nel 2014 a causa del grave peggioramento della situazione. Negli ultimi mesi ci sono state brevi missioni di pochi giorni. Ora è tempo di tornare, di stabilire nuovamente una presenza significativa e permanente. Ci vorranno appunto da due a tre mesi perché tutto sia a regime: sicurezza, logistica, personale. Al termine di questo periodo faremo una verifica, ma l’obiettivo è tornare per restarci". Amin Awad è il direttore regionale per il Medio Oriente e il Nord Africa dell’Unhcr, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati. Quante persone avrete impegnate sul campo? "All’inizio lo staff internazionale per tutte le agenzie umanitarie sarà tra 20 e 30 persone, ma avremo anche uno staff locale, che ha già lavorato con noi in passato e con loro possiamo arrivare fino a 120 persone". Come intendete muovervi? "Oltre a Tripoli, abbiamo in programma di aprire field office a Bengasi, Tobruk e nel Sud. Noi lavoreremo con tutte le autorità, sia quelle riconosciute internazionalmente sia le altre. Vogliamo stabilire una presenza anche nei centri di detenzione, dove sono trattenuti i migranti, migliorando l’assistenza e cercando soluzioni alternative più rispettose dei diritti umani. Dobbiamo anche impegnarci con le autorità locali, specialmente la Guardia costiera, la Marina, le strutture costiere e i porti. Vogliamo aiutare il governo libico ad assolvere i propri compiti, in primo luogo migliorandone la capacità di processare i migranti. Ma occorre anche estendere l’autorità statale, rafforzare le istituzioni emergenti e ripristinare i servizi pubblici. C’è poi da affrontare il problema dei libici sfollati, di cui nessuno parla ma che sono decine di migliaia". Quali notizie avete dal territorio e quali sono i rischi maggiori della missione? "Intanto c’è un problema di sicurezza. Molte zone sono fuori controllo, gli scontri tra fazioni sono all’ordine del giorno. Quello dell’ordine pubblico è il pericolo più grave. Dovremo avere compound ben protetti e disporre di veicoli blindati per il nostro personale". Cosa sapete dell’attività delle organizzazioni criminali che trafficano con i migranti? "In Libia ci sono tre tipi di organizzazioni criminali. Quelle che trafficano con i migranti e quelle che contrabbandano armi cooperano e si scambiano informazioni fra di loro. E poi naturalmente sono ancora attivi gruppi terroristi legati a Daesh. Uno dei problemi è che le bande dei trafficanti di anime non operano in isolamento, ma sono in contatto con elementi locali che facilitano la loro rete clandestina. È un’operazione molto sofisticata, quasi un nastro trasportatore che parte nel cuore dell’Africa e si muove attraverso la Libia verso l’Europa". In Italia c’è un’indagine in corso sui rapporti non chiari che alcune Ong attive nel Mediterraneo intratterrebbero con i trafficanti d’anime. Ne è al corrente? "Non ne so molto, ma le Ong internazionali con cui noi abbiamo a che fare, alcune delle quali agiscono anche per conto nostro, non hanno alcun tipo di rapporto con i gruppi criminali. Se avessimo qualche sospetto, ci comporteremmo di conseguenza". Della inchiesta italiana non so molto, ma le Ong con cui noi abbiamo a che fare non hanno alcun tipo di rapporto con i gruppi criminali. Se avessimo sospetti, ci comporteremmo di conseguenza. Corea del Nord, le torture e gli abusi. Il racconto di una guardia dei campi di lavoro di Annalisa Grandi Corriere della Sera, 1 maggio 2017 Per la prima volta una donna, che ha lavorato come guardia nei campi lager in Nord Corea, racconta quanto avveniva: "Chi cercava di fuggire veniva decapitato, le donne stuprate e se non abortivano i bambini venivano bruciati vivi". "Li hanno decapitati davanti a tutti, tutti dovevano sapere cosa succede a chi cerca di scappare". È una storia che sembra uscita da un film dell’orrore, quella raccontata al britannico "Daily Mail" da Lim Hye-jin, nordcoreana. Quando aveva 20 anni per un periodo spiega di aver prestato servizio come guardia nei campi di lavoro forzato in Corea del Nord. Il lavoro forzato e le esecuzioni - Siamo negli anni Novanta, ma l’ultima commissione di inchiesta Onu, nel 2014, parlava di oltre mezzo secolo di abusi e violenze in veri e propri campi di concentramento in Nord Corea. "Venivamo addestrati a non provare nessun tipo di empatia verso i prigionieri. Ci dicevano che avevano commesso dei crimini orribili. Ora so invece che erano persone normalissime e mi sento davvero in colpa" racconta Lim, che oggi vive a Seoul. Quando aveva solo 17 anni, inizia a lavorare nel "Campo 12", a Chongo-ri, vicino al confine cinese. Qui sarebbero state rinchiuse 10mila persone: prigionieri politici, responsabili di reati economici, criminali comuni. Due fratelli erano riusciti a scappare da uno dei campi. Li avevano ritrovati in Cina, riportati in Corea e poi decapitati, spiega l’ex guardia. "Hanno tagliato loro la testa davanti a tutti, poi hanno ordinato agli altri prigionieri di tirare delle pietre contro i corpi. Io dopo quella scena non ho mangiato per giorni". Lim Hye-jin è la prima donna ad aver prestato servizio nei campi di lavoro che sceglie di parlarne. Prima di lei, l’avevano fatto alcuni altri, che avevano descritto orrori simili. "Anche i bambini venivano rinchiusi lì, per punire genitori e nonni. Molti prigionieri erano deformati dalla fame e dal lavoro nelle foreste al gelo o nelle miniere". "Se gli uomini erano in salute, venivano mandati nelle miniere. Molti morivano. Una volta c’è stata un’esplosione di gas, 300 persone sono morte. Le guardie hanno chiuso la galleria anche se c’erano delle persone ancora vive dentro". Gli stupri - "Le donne venivano stuprate - racconta ancora. Non potevano dire no, e se qualcuna di loro rimaneva incinta doveva abortire o le veniva praticata l’iniezione letale. Se la gravidanza era in fase troppo avanzata, il bambino una volta nato veniva picchiato fino ad ucciderlo o bruciato vivo". Lim racconta di una donna spogliata e poi bruciata viva, da una guarda che semplicemente si annoiava, durante un interrogatorio. I detenuti, spiega ancora "dovevano lavorare 16 ore al giorno, sette giorni alla settimana". "Non c’era rispetto neanche per i morti, i corpi venivano messi uno sopra l’altro e poi bruciati". L’ex guardia, oggi una donna di mezza età, dopo aver disertato è stata arrestata perché accusata di traffici con la Cina, ora vive in Corea del Sud. "Temo che la situazione oggi sia ulteriormente peggiorata", dice. Quanto avveniva nei campi in Corea del Nord era stato raccontato anche da chi in quei campi ci era finito: Jung Gwan II, arrestato con l’accusa di spionaggio, era stato rinchiuso per tre anni nel campo di Yodok. "È stato come vivere l’inferno sulla Terra" aveva spiegato, raccontando di aver subito ogni tipo di tortura già prima di entrare nel campo "Potevo solo strisciare non riuscivo a camminare" aveva rivelato. "I prigionieri non sembravano esseri umani, e non c’era solidarietà fra di loro. Ognuno pensava che se avesse aiutato gli altri sarebbe stato punito a sua volta". Una storia, quella di Jung Gwan II, per certi versi simile a quella di Shin Dong-hyuk, oggi 35enne, l’unica persona nata, cresciuta e riuscita a fuggire da un campo di internamento in Nordcorea. "Quando sono arrivato ho pensato di essere in un film dell’orrore - ha spiegato Kang Chol Hwan, all’età di nove anni finito nel campo di Yodok insieme al nonno - Una volta avevo visto un film su Auschwitz, e lì era praticamente uguale". I numeri - Secondo il rapporto dalla Commission per i diritti umani delle Nazioni Unite nei campi di lavoro in Corea del Nord sono state rinchiuse tra le 600mila e i 2 milioni e mezzo di persone, in mezzo secolo. In 400mila sarebbero morte per le torture, la malnutrizione e le esecuzioni sommarie. Venezuela. Il Papa: "Governo eviti violenza e rispetti diritti umani" frammentidipace.it, 1 maggio 2017 Un accorato appello per il Venezuela, è giunto stamattina da papa Francesco, in occasione del Regina Coeli. Come ricordato dal Santo Padre, dal paese latinoamericano "non cessano di giungere drammatiche notizie" riguardo l’aggravarsi degli scontri, con numerosi morti, feriti e detenuti". Unendosi al "dolore dei familiari delle vittime", per le quali ha assicurato "preghiere di suffragio", il Pontefice ha rivolto "un accorato appello al Governo e a tutte le componenti della società venezuelana affinché venga evitata ogni ulteriore forma di violenza, siano rispettati i diritti umani e si cerchino soluzioni negoziate alla grave crisi umanitaria, sociale, politica ed economica che sta stremando la popolazione". Il Papa ha quindi affidato "alla Santissima Vergine Maria l’intenzione della pace, della riconciliazione e della democrazia in quel caro Paese". Le preghiere di Francesco sono state quindi estese a "tutti i Paesi che attraversano gravi difficoltà", con particolare riferimento alla "ex Repubblica Jugoslava di Macedonia". Un ringraziamento alla Vergine Maria è stato rivolto dal Santo Padre per il viaggio apostolico conclusosi ieri in Egitto: "Chiedo al Signore che benedica tutto il popolo egiziano, tanto accogliente, le autorità e i fedeli cristiani e musulmani; e che doni pace a quel Paese", ha detto.