Padova. Carcere, l’inchiesta e la sfida di Giovanni Viafora Corriere di Veneto, 19 maggio 2017 "Credo che uno Stato abbia il dovere ineludibile di applicare l’articolo 27 della Costituzione, che dice che le pene devono tendere alla rieducazione del detenuto, dove per tendere significa "tendere il più possibile", "allargare quanto possibile", "provarci fino allo stremo delle forze". Sono parole pronunciate lo scorso 5 ottobre dal magistrato Roberto Piscitello, numero uno della Direzione generale del Dap (Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria), davanti alla redazione di "Ristretti Orizzonti", la rivista fatta dai detenuti del carcere "Due Palazzi" di Padova. La notizia di questi giorni è che "Ristretti", che, grazie all’opera meritoria e in pratica volontaristica della sua direttrice, Ornella Favero, è una delle pochissime realtà in Italia ad incarnare davvero quella "tensione fino allo stremo" di cui sopra, sarebbe coinvolta nell’inchiesta penale che riguarda l’ex direttore del "Due Palazzi", Salvatore Pirruccio. L’accusa sostiene che "Ristretti", assieme alla cooperativa "Giotto" - altra eccellenza apprezzata in tutto il Paese, che in carcere ha portato il lavoro (e il valore del lavoro) - avrebbe tenuto "in pugno" il direttore Pirruccio, fino al punto di fargli declassare una dozzina di detenuti dall’"Alta sicurezza" alla sezione "normale". I fatti sarebbero avvenuti tra il 2014 e il 2015, quando, a causa dello scandalo del traffico di droga e cellulari in carcere, il Guardasigilli stava procedendo alla chiusura della sezione di Alta sicurezza del "Due Palazzi". Ma è qui che noi ci interroghiamo. Quale sarebbe stato il tornaconto? Insomma, dietro alla scelta di Pirruccio di declassare i detenuti - concedendo quindi loro di restare a Padova - c’era forse qualche altra ragione che non fosse quella di permettere a "Ristretti" e alla "Giotto" di proseguire, con quegli stessi, il cammino di recupero? E di evitare, per altro, che i carcerati finissero nelle prigioni di mezza Italia, dove nella maggior parte dei casi, come si sa, sarebbero stati abbandonati a loro stessi, chiusi 23 ore su 24 in cella? A dircelo ovviamente sarà la magistratura, sulla quale, anche conoscendo la serietà degli inquirenti che conducono l’indagine, si nutre la massima fiducia. Ma forse la posta in gioco è più alta. La redazione di Ornella Favero è composta da 30 detenuti (60 quelli che partecipano ai laboratori di scrittura), cinque dei quali provenienti dall’Alta sicurezza. Negli anni, Ornella ha fatto dialogare questo gruppo di detenuti con decine di persone (esperti, docenti, scrittori), li ha fatti incontrare con gli alunni delle scuole - mettendoli davanti alle loro responsabilità - e con le vittime dei reati (da Olga D’Antona a Benedetta Tobagi). Un percorso unico, che ha dato risultati straordinari. Lo raccontano centinaia di testimonianze. Basterebbe per altro riportare quanto ha detto uno dei detenuti di Alta sicurezza al magistrato Piscitello, proprio in occasione della visita di cui si è riferito all’inizio: "Io sono da 24 anni in carcere e questi tre anni di Ristretti sono stati i più difficoltosi di tutta la mia detenzione. Perché qui per la prima volta mi sono preso una responsabilità. Mi presento davanti agli studenti (...) e mi sono preso numerose critiche da altri detenuti. Ma è un percorso che mi ha migliorato: ho scoperto lo scrivere, il parlare, il confrontarmi con le persone della società esterna, ho tolto quel paraocchi che avevo anch’io della subcultura e della rabbia". Ed ecco perché forse il punto è un altro: c’è qualcuno - soprattutto dentro al carcere - a cui questo sistema non piace? Che non vuole o che teme quella "tensione fino allo stremo"? "Non bisogna buttare via nessuno", sostiene Agnese Moro, la figlia di Aldo. Ed è una sfida che non riguarda solo un ex direttore di carcere oggi indagato e chi, forse, lo ha convinto. Ma tutti noi. Riforma del processo penale, slitta il voto. Orlando contro Renzi: "così affossa la legge" di Francesco Pacifico Il Mattino, 19 maggio 2017 Prima c’è da approvare il decreto Parchi, che doveva essere ultimato ieri. E non aiuta nemmeno il contemporaneo sbarco in commissione Bilancio della manovrina. Questa sì da votare in tempi strettissimi. La riforma del codice penale, e con essa la delega per riformare l’uso e la diffusione delle intercettazioni, dovrebbe essere incardinata martedì prossimo alla Camera. Invece la misura, quella più calda del momento e sulla quale si discute dall’inizio della legislatura, va verso uno slittamento di almeno uno o due settimane. Almeno, perché il suo varo non sembra più una priorità per il Pd. Che, infatti, si sta spaccando anche sul porre o meno la fiducia, utilizzata invece nel passaggio al Senato. Ettore Rosato, capogruppo del Nazareno a Montecitorio, ieri ha ufficializzato quello che 48 ore prima aveva annunciato ai suoi colleghi tra lo sbigottimento generale: "La fiducia alla Camera sul Ddl di riforma del processo penale non serve. Non è che non la mettiamo perché non crediamo più nel provvedimento, ma perché alla Camera sia i numeri sia l’iter in Aula sono diversi: in un giorno e mezzo l’approviamo". Un approccio che non sarebbe piaciuto al Guardasigilli Andrea Orlando. Il quale, imbufalito, invece vorrebbe che il Parlamento chiudesse la pratica al più presto con la fiducia, per poi mettersi a scrivere i decreti attuativi necessari per rendere più virtuoso l’uso delle intercettazioni ed evitare nuovi abusi. Non a caso avrebbe già garantito all’Anm e alle Camere penali una commissione congiunta per discutere le linee guida alla base dei provvedimenti finali. Spiega al riguardo il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri: "Il tema centrale adesso è quello della fiducia. Premesso che io non ho nessuna voce in capitolo sull’argomento e che il mio non è un giudizio di merito, rilevo che nel caso non si mettesse la fiducia, potrebbero essere inserite delle modifiche al testo, che lo riporterebbero in Senato. A quel punto si allungherebbero i tempi e il ministero potrebbe non garantire più l’approvazione dei decreti attuativi". Alla base del traccheggiare dei renziani ci sarebbe soltanto una questione di opportunità politica. Una scelta che le polemiche tra Matteo Orfini e Giorgio Napolitano - "Non ricordo un altolà del presidente sul caso Unipol", "Sono insinuazioni malevole, mi chieda scusa" - hanno soltanto rafforzato. Certo sono in molti nel gruppo dirigente del partito a non esaltarsi per un testo molto prudente, che prova a responsabilizzare i magistrati con un apposito archivio dove custodire le intercettazioni, conferma il divieto a rendere noto materiale non inerente delle indagine e, di fatto, non pone veri limiti alla pubblicazione dei brogliacci. "Ma in questa fase, dopo la pubblicazione delle telefonata dove Renzi "interroga" il padre sulle sue responsabilità nel caso Consip", spiegano dal Giglio magico, "non possiamo passare come quelli che vogliono censurare la magistratura o la stampa". Le elezioni sono vicine e, come nel caso dei voucher e della legittima difesa, ulteriori strappi sono insostenibili. Intervistato da Affaritaliani.it, il neopresidente dell’associazione nazionale magistrati, Stefano Albamonte, ha consigliato al governo di stralciare la delega sulle intercettazioni per "mirare all’approvazione delle parti condivise senza creare lacerazioni". Un’ipotesi che spaventerebbe Orlando e non piace ad ampi settori del Pd. Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia e relatrice del testo, annuncia che lei, "lunedì, andrà comunque in aula. Se dovesse essere cambiata anche una sola virgola e si tornasse al Senato per la quarta lettura, vorrebbe dire affossare una riforma di sistema sulla quale hanno lavorato governo e Parlamento per oltre tre anni. E che serve a migliorare il processo penale nell’interesse dei cittadini e del funzionamento della giustizia. Siamo a fine legislatura e certi provvedimenti, come abbiamo fatto con il cyberbullismo, vanno approvati anche se migliorabili in seguito". Aggiunge la collega Anna Rossomando: "Io auspico l’uso della fiducia. È un testo di tutto il Pd: rispetto a quanto fatto in passato, noi rafforziamo lo strumento e abbiamo recepito molte circolari delle maggiori procure sull’uso delle intercettazioni". Se non bastasse, sono in fibrillazione anche gli altri pezzi della maggioranza. Al centro Alternativa popolare plaude alla decisione di non porre la fiducia sul Ddl penale, ma chiede modifiche - incurante del ritorno in Senato - su due punti fondamentali come il congelamento della prescrizione e il limite di cinque giorni con il quale il pm può differire il colloquio tra l’arrestato e il proprio avvocato. Nessun dubbio sulla parte che riguarda le intercettazioni, che, come ha ricordato ieri il capogruppo alla Camera Maurizio Lupi, "sono un utile strumento di indagine, ma come dice Gherardo Colombo, uno dei pm di Mani pulite, sono da usare con parsimonia, da ascoltare e non solo da leggere nella trascrizione per capire il tono e il contesto di chi parla e soprattutto da non pubblicare se si tratta di atti riservati o se riguardano la vita personale delle persone intercettate e non l’oggetto di indagine. I processi si fanno nelle aule dei tribunali e non sui media". Anche i bersaniani di Articolo1-Mdp potrebbero porre delle eccezioni. Voto contrario invece dal centrodestra e dal movimento Cinquestelle. Il grillino Alfonso Bonafede, vicepresidente della commissione Giustizia, nota che "ogni volta che si scopre uno scandalo in politica, l’attuale maggioranza viene alla Camera con l’esigenza di limitare le intercettazioni. Questo è inaccettabile". Intervista a Walter Verini (Pd): "senza fiducia la riforma del processo penale non passa" di Alessandro De Angelis L’Huffington Post, 19 maggio 2017 Il capogruppo Pd in commissione Giustizia: "Attacco alla democrazia? Sono termini sbagliati". Walter Verini, capogruppo del Pd in commissione Giustizia alla Camera, è visibilmente preoccupato: "Beh sì, qualche rischio che non passi c’è, se non viene posta la fiducia". Il riferimento è alla riforma del processo penale. Un provvedimento di "sistema". Da poco approvato a palazzo Madama col voto di fiducia, lunedì approda in Aula. Matteo Renzi, nell’ultima cabina di regia, ha ipotizzato che non sarà posta la fiducia. C’è il sospetto che, in tal modo, abbia affossato il provvedimento. Dove sono i rischi? Sospetto sbagliato, visto che si tratta di una legge qualificante del Governo Renzi e del Ministro della Giustizia. Il punto è - secondo me - avere la garanzia che il provvedimento passi così. È vero che i tempi dovrebbero essere contingentati e quindi si potrà fare in fretta per l’approvazione, però è possibile che ci siano voti segreti che possono incrociarsi, gioco d’aula. Immagino che i rischi veri sono al Senato. Immagina bene. Al Senato il rischio è che si fermi. Proprio ieri abbiamo approvato la legge contro il bullismo alla Camera nonostante il Senato avesse cassato tutta la parte dell’aggravante. Ecco. Una staffetta estenuante tra le due Camere produce inconcludenza. Insomma, non ci giriamo attorno. Serve che il governo ponga la fiducia. Si appella a Gentiloni? La mia opinione è che se ci saranno le condizioni per chiudere il provvedimento senza la fiducia - senza però modificarlo -sarebbe meglio. Ma se non ci fossero - come temo - è giusto che il Governo valuti l’apposizione della fiducia. Lo scenario peggiore sarebbe arenare una riforma di questo tipo, di sistema. Che peraltro, soprattutto nella parte della scrittura della delega, sarà accompagnata da un rapporto costante con il mondo della magistratura, dell’avvocatura, dell’informazione per la questione intercettazioni e da un costante monitoraggio per eventuali correzioni alla luce dell’esperienza. Però voglio aggiungerle una cosa. Prego. Il rapporto in maggioranza, che diceva. Guardi che con i centristi abbiamo trovato punti di sintesi importanti su provvedimenti complicati Per esempio, come unioni civili e legittima difesa. Guardi che sulla legittima difesa abbiamo costruito e approvato insieme un provvedimento significativo che, nonostante quel che si dice, è un provvedimento equilibrato rispetto alla giungla armata di Salvini, della giustizia fai da te e dall’altra parte rispetto a una certa sinistra che sottovaluta il tema sicurezza. Anche la riforma del processo penale si può approvare in un clima sereno. Del resto, sul tema della prescrizione, ricordo che il Senato ha licenziato delle modifiche rispetto al testo uscito dalla Camera che sono andate nella direzione auspicata da forze di centro. E noi le voteremo, anche se personalmente avrei preferito la proposta a suo tempo uscita da Montecitorio. Insisto. Pare essere proprio l’ex premier a non volerlo. Secondo me lei si sbaglia. È interesse di tutti - e quindi anche di Renzi - che tutti vivano i provvedimenti della maggioranza non come una imposizione ma come condivisione. Guardi che questa riforma è davvero una cosa seria. Domando: ma si sa che questo provvedimento implica l’aumento delle pene per i reati di allarme sociale? Si sa che si aumentano le pene per il voto di scambio politico mafioso? E i tempi certi per la riforma delle indagini? Ma si sa che c’è l’ampliamento dei diritti della parte offesa? E si sa che c’è tutta la parte fondata sulla giustizia riparativa? E tempi certi per la chiusura delle indagini? Cito solo alcuni titoli che mi vengono in mente. E nella terza parte c’è tuta la riforma dell’ordinamento penitenziario che va nella direzione di carceri più umane, di pena certa, che serva a recuperare e e reinserire, per non far uscire di carcere persone che poi, se non recuperate, tornano a delinquere... Sacrosanto, ma sto per farle la stessa domanda di prima. Qualcuno vuole fermarla. Le ripeto che questo è un disegno di legge che approvò il governo Renzi. E che è nella cultura del Pd. Pensi, nel 2008 nel programma del Pd c’era scritto anche che il Partito si sarebbe impegnato a garantire il rafforzamento dello strumento per le indagini e si sarebbe impegnato a disciplinare la pubblicabilità delle intercettazioni senza alcuna rilevanza penale... Ora il Pd parla di attacco alla democrazia sulla famosa intercettazione pubblicata dal Fatto. Attacco alla democrazia è un termine che io non avrei usato. Quando penso a un attacco alla democrazia penso alla P2, a cose del genere. Ma un dato è certo: il comportamento di alcune Procure, la vicenda di alcune intercettazioni del Noe di Napoli, gettano ombre che spetta alla stessa magistratura dissipare. Quei fatti opachi ed inquietanti dovrebbero essere valutati ed eventualmente sanzionati dalla stessa magistratura, perché rischiano di far perdere credibilità. È d’accordo con Napolitano, che sostanzialmente ha detto: ci potevate pensare prima, ora siete ipocriti. Premesso: io sono uno che quando sente il nome di Napolitano si toglie il cappello per l’autorevolezza e il rigore del suo profilo e del ruolo che ha svolto al vertice dello Stato. E così dovrebbero fare tutti. Detto questo ricordo che nel materiale della commissione dei saggi istituita dal Presidente Napolitano era contenuta una proposta sulle intercettazioni nella quale si leggeva: "Deve essere resa cogente come mezzo per la ricerca della prova e non per la ricerca del reato. Occorre porre dei imiti alla loro divulgazione perché il diritto ad essere informati non costituisca il pretesto per la lesione dei diritti fondamentali". Non aggiungo altro. Ma sa perché giudico sbagliate uscite come quella che lei ha ricordato? Perché? Perché questo clima rischia di oscurare questi ultimi quattro anni di vita politica del Paese e del rapporto politica-giustizia. Il governo Letta per un breve periodo e soprattutto quello guidato da Renzi hanno voltato pagina nel rapporto politica-giustizia e hanno fatto riforme di sistema, non contro qualcuno o per qualcuno. Anni che hanno visto approvate cose equilibrate, come la riforma della legge Vassalli sulla responsabilità civile dei magistrati senza il cappio della responsabilità diretta; la riforma magistrati e politica, o provvedimenti come l’introduzione del reato di voto di voto di scambio politico-mafioso, l’auto-riciclaggio, la ripenalizzzione del falso in bilancio, la riforma dei beni confiscati, la legge sul caporalato, i nuovi poteri all’Anac, il codice degli appalti. Insomma nessuno ha potuto parlare di guerra con la magistratura. O di leggi fatte a favore o contro qualcuno. Questo patrimonio, che ha visto il Governo Renzi, il Ministro Orlando e il parlamento protagonisti non va dissipato. Da chi parla di "gogna mediatica" e attacchi alla democrazia, dice lei. Espressioni figlie del tempo che viviamo, però vedo una cultura che anima alcuni giornali figlia di una sorta di "davighismo" (stimo Davigo, ma alcuni suoi espressioni e giudizi per me sono state inaccettabili) per cui non c’è più presunzione di innocenza ma di colpevolezza. Questa per me è cosa diversa da alcuni principi di civiltà e costituzionali. C’è però una che anima alcuni politici, oggi alla guida del Pd, figlia del berlusconismo per cui il problema non è merito di quel che è venuto alla luce, ma la pretesa dell’intoccabilità. Beh, se c’è qualcuno che a sinistra vuole concorrere sullo stesso piano sbaglia. Il nostro problema è che ci sia un autentico rispetto, l’attenzione e la denuncia delle anomalie deve essere fatta e sanzionata, ma magistratura e politica devono essere alleati - nella rispettiva indipendenza - su un punto di fondo: in Italia pochi magistrati che sbagliano, che pensano di fare politica con le istruttorie o con intercettazioni sono certamente un problema da risolvere, ma l’emergenza vera è data da corrotti e corruttori, dalla piaga della corruzione, che oltretutto sottrae al Paese risorse per circa cento miliardi l’anno. Per me la questione morale, berlinguerianamente intesa, significa inoltre che la politica deve ritrovare la sua grandezza nel guidare, governare, ma la gestione degli aspetti tecnici deve essere affidata a competenze e capacità e non alle spartizioni. E nemmeno agli amici, ai parenti e ai fedeli di Rignano, come emerge dal caso Consip ed Etruria. Se Berlinguer avesse visto questa concezione familistica del potere, cosa avrebbe detto? Francamente De Angelis, io sto facendo un discorso più ampio, che riguarda che cosa fa la politica nella sanità, nella pubblica amministrazione, nelle partecipate. Cerchi di guardare la luna, non il dito... E anche nelle banche. Sulle banche vedo un rischio. Che si voglia usare la costituenda commissione di inchiesta - soprattutto da parte di forze di opposizione - non per individuare strade da battere per regolamentare e rendere davvero trasparente il sistema bancario ma per regolare conti in vista della campagna elettorale, per strumentalizzare vicende col grave rischio di delegittimazione di organismi nazionali e internazionali che dovrebbero essere tenuti al riparo. Eviterebbe di farla? Eviterei di usarla come una clava. Riforma penale. Bocciati tutti gli emendamenti contro Skype ai super boss di Eduardo Meligrana Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2017 Dopo il sì della Commissione Giustizia al ddl Orlando via Arenula rassicura ancora: "Non riguarderà i detenuti al 41 bis". Ma le associazioni delle vittime protestano. Nomi di boss del calibro di Salvatore Messina Denaro (fratello di Matteo), Vito e Mariuccio Brusca, Mario Santafede, Antonio e Giuseppe Trigida, potrebbero beneficiare di alcune nuove disposizioni del disegno di legge di iniziativa governativa "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario", approvate dalla commissione Giustizia della Camera, dopo il voto di fiducia al Senato. Sono stati respinti, infatti, tutti gli emendamenti, decine, delle opposizioni che miravano a scongiurare - con una formulazione meno vaga di quella del ddl - anche l’utilizzo di sistemi audiovisivi, tipo Skype, da parte di criminali sottoposti al 41 bis o in regime di alta e media sicurezza "per favorire le relazioni familiari" direttamente dal carcere. A lanciare l’allarme su quello che potrebbe prospettarsi come una sorta di teleworking criminale è l’associazione "Vittime del Dovere" che rap- presenta i familiari di giudici, agenti, carabinieri uccisi o feriti. Il presidente Emanuela Piantadosi mette in guardia: "Non vogliamo che nessuna legge italiana favorisca le relazioni familiari di ‘ndranghetisti, camorristi, mafiosi o terroristi. Così come è formulata la norma non esclude la possibilità ai soggetti sottoposti al 41 bis di poter usufruire di collegamenti audiovisivi e peggio ancora a quanti si trovano in regime di alta sicurezza, nemmeno citati". A finire sotto la lente d’ingrandimento è un inciso del comma 85 dell’unico articolo del testo che approderà in aula a Montecitorio: "Fermo restando quanto previsto dall’articolo 41bis". La formulazione, così delineata, non supera inequivocabilmente la prospettiva che i nuovi tipi di comunicazione audiovisiva possano essere estesi ai più efferati criminali, i quali potrebbe- ro continuare a dettare ordini a familiari e gregari dalle loro celle di sicurezza. Il 41 bis non esclude infatti incontri o colloqui telefonici con i propri congiunti e il passo all’utilizzo di diverse modalità di comunicazione, anche audiovisive, potrebbe essere breve. Il Ministro della Giustizia Orlando dichiarò il 29 marzo al Fatto: "È una questione che approfondiremo", mentre dai suoi uffici arrivavano rassicurazioni: "Si tratta di una delega, la legge è tutta da scrivere, la possibilità d’introduzione di strumenti audiovisivi, Skype compreso, non potrà riguardare i detenuti al 41bis". Posizione ribadita anche da Donatella Ferranti (Pd), presidente della commissione Giustizia: "I rischi paventati sono infondati". Tribunali e intercettazioni, il doppio processo italiano di Antonio Polito Corriere della Sera, 19 maggio 2017 La parte più consapevole della magistratura ha proposto correttivi e talvolta li ha addirittura messi in pratica con forme di auto-regolamentazione, come ha fatto la procura di Roma da tempo. E dove questo è accaduto, il miglioramento c’è stato. Perché da anni non si riesce a correggere ciò che tutti criticano nel sistema della intercettazioni, e cioè gli abusi, le violazioni della privacy, le fughe di notizie? E perché un disegno di legge sulla giustizia penale presentato dal governo Renzi, che potrebbe aprire la strada a una parziale riforma, langue da quasi tre anni in Parlamento? Di solito la colpa di questi ritardi si dà ai partiti. Però non saremmo onesti se omettessimo un particolare decisivo: il sistema delle intercettazioni regge com’è, chiunque sia al governo, perché le intercettazioni sono popolari, e i partiti di solito non fanno cose impopolari. Meno che mai Renzi adesso, proprio mentre intercettano lui, e in tempi già pre-elettorali: il che fa temere che anche per questa legislatura non se ne faccia niente. Perché sono popolari le intercettazioni? Forse è questo il punto da discutere. Lo sono perché in molti casi vengono considerate l’unica sanzione possibile per i potenti. La crisi della giustizia italiana, la sua lentezza, la capacità di ottenere la prescrizione degli imputati eccellenti, rendono sempre più rare le sentenze, specialmente nel campo delle inchieste sui cosiddetti "colletti bianchi". Gli italiani hanno capito che difficilmente, e chissà quando, il processo farà giustizia e la pena sarà certa. Dunque accettano, e purtroppo talvolta sollecitano, una giustizia più sommaria. L’intercettazione, con il carico di ambiguità di una conversazione privata trascritta su un brogliaccio (e con i frequenti travisamenti, omissioni ed errori di trascrizione), si presta perfettamente alla bisogna, anche perché consente sentenze immediate nell’opinione pubblica, nel giro di qualche settimana, mentre il processo si avvia con le sue pachidermiche movenze. Quanto ai politici, preferiscono colpirsi reciprocamente e a turno con il brogliaccio disponibile, aizzando così il pubblico, invece che educarlo alle regole dello stato di diritto, per le quali un indagato non è un imputato, un imputato non è un condannato, e un condannato non è un colpevole fino a sentenza definitiva. Si sta aprendo così un divario molto ampio e pericoloso tra la giustizia dei tribunali e quella dell’opinione pubblica. E non soltanto perché le sentenze talvolta scagionano personaggi già condannati in piazza, magari costretti alle dimissioni o alla gogna, senza poterli però risarcire. Ma anche per la sensazione di confusione, di incertezza, di pesi e misure diverse tra le procure, che si sta diffondendo e che non giova certo alla giustizia. Prendiamo il caso della telefonata di Tiziano Renzi. La procura di Roma, che lo indaga, ha dichiarato che quella intercettazione, richiesta invece dalla procura di Napoli, non è utilizzabile nel processo che lo riguarda. Ma quella stessa intercettazione è utilizzabile eccome, e anzi utilizzata, e anzi utilissima, nel processo in corso nell’opinione pubblica nei confronti del cosiddetto Giglio Magico. E a riprova dell’ambiguità insita in questi spezzoni di conversazione trascritti, viene brandita contemporaneamente come prova a discolpa da parte di chi difende i Renzi, e a carico da parte di chi li accusa. Siamo ormai fuori anche da quello che un tempo si chiamava "circuito mediatico-giudiziario", perché ci sono brandelli di indagine che vivono vite diverse e separate nel "giudiziario" e nel "mediatico", come rette parallele che non sono destinate mai a incontrarsi. Clamoroso il caso della presunta intercettazione in cui Berlusconi avrebbe dato giudizi irriverenti sulla signora Merkel, noti ormai a tutto il mondo e tradotti in tutte le lingue ma mai apparsi in un qualsiasi atto. Questo andazzo è pericoloso innanzitutto per il processo penale, per la sua credibilità e la sua centralità. La parte più consapevole della magistratura lo sa benissimo, ed è per questo che ha proposto correttivi e talvolta li ha addirittura messi in pratica con forme di auto-regolamentazione, come ha fatto la procura di Roma da tempo. E dove questo è accaduto, il miglioramento c’è stato. Non resta che trasformare al più presto quelle regole di buon senso in norma giuridica valida per tutti. Ma ancor più importante è affrontare nel profondo le cause della caduta di credibilità del nostro sistema giudiziario, se vogliamo convincere l’opinione pubblica che si può avere giustizia anche senza lo spettacolo. La cosa più inutile e puerile sarebbe, nell’epoca di Wikileaks, cercare di alzare una diga a valle, senza chiudere il rubinetto a monte, punendo cioè la pubblicazione invece che frenando la diffusione degli atti di indagine. In tutto il mondo i giornalisti cercano e pubblicano informazioni riservate o segrete, è il loro mestiere. Ma in nessun altro Paese circola una tale mole di carte giudiziarie segrete o riservate. E questo non potrebbe accadere senza la complicità o la negligenza di qualche investigatore e di qualche magistrato, troppo spesso a caccia di popolarità. Intercettazioni. La separazione dei doveri di Mario Calabresi La Repubblica, 19 maggio 2017 Come avviene da anni, con cadenza sistematica, siamo tornati a discutere della necessità di nuove regole sulle intercettazioni. Da più parti si invoca una legge, che poi non arriva mai, e ogni volta si biasimano i giornalisti. Nelle passate edizioni di questo dibattito si sono proposti bavagli, multe astronomiche e carcere per chi pubblica conversazioni riservate. Ora a tenere banco è la telefonata tra Tiziano e Matteo Renzi e nell’intervista al nostro giornale il ministro della Giustizia sostiene che non doveva essere pubblicata perché non ha alcuna rilevanza penale. In questa frase di Andrea Orlando è contenuto tutto il conflitto che da anni contrappone politici e giornalisti. Il ministro della Giustizia ha certo il dovere di sostenere che quel colloquio intercettato e mai depositato nelle carte dell’inchiesta non doveva uscire, perché non ha rilevanza penale, ma non può dire che non andava pubblicato in un libro o sui giornali. Non si può chiedere ai giornalisti di autocensurarsi, di farsi carico dell’incapacità delle istituzioni di tenere riservati pezzi di inchieste. Il dovere per chi fa il nostro mestiere è quello di pubblicare tutto ciò che è giornalisticamente rilevante, che può avere un valore per l’opinione pubblica. In questo la valutazione diverge da quella del magistrato, che considera degno di essere trascritto e allegato agli atti solo ciò che ha rilevanza penale. Ma la rilevanza penale e quella giornalistica non sempre coincidono. La storia della telefonata tra i Renzi ne è un chiaro esempio: non fa parte degli atti dell’inchiesta romana e non risulta sia stata mai fatta trascrivere dal pubblico ministero, quindi per la magistratura non aveva valore per sostenere l’accusa. Per l’opinione pubblica invece un valore ce l’ha, mostra il rapporto tra l’ex presidente del Consiglio e il padre e risponde a molte delle domande che i cittadini si sono fatti in questi mesi sulle relazioni e le complicità familiari. E in questo caso richiamare un diritto alla privacy non è corretto: la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sostenuto più volte che la tutela della riservatezza si restringe quando si tratta di personaggi che hanno responsabilità pubbliche e allo stesso tempo si allarga il diritto di informare i cittadini. Così se il testo di quella conversazione, che ha una evidente rilevanza giornalistica, fosse arrivato sulle nostre scrivanie anche noi l’avremmo pubblicato, come Marco Lillo sul Fatto Quotidiano, e saremmo ipocriti se sostenessimo il contrario. Questo però non significa che il modo con cui quella conversazione è uscita sia legittimo e che non abbia provocato fortissima tensione tra procure e investigatori. È evidente che c’è stata una violazione del segreto d’ufficio da parte di un pubblico ufficiale ma per perseguirla non è necessaria una nuova legge, quelle che ci sono bastano e avanzano. Se di una nuova legge c’è bisogno è invece per dare ordine e uniformità al metodo usato nei diversi tribunali italiani, per mettere un freno al fiume di intercettazioni che escono da ogni inchiesta senza distinzioni tra chi è indagato e chi finisce semplicemente intercettato. In questo caso non c’è bisogno di inventare nulla, basta rifarsi alle circolari di autoregolamentazione delle procure di Torino, Roma, Napoli, Bari, Firenze, che hanno stabilito di eliminare dagli atti le intercettazioni ritenute non rilevanti, che contengano dati sensibili o che violino il codice della privacy. Come ha spiegato Armando Spataro, procuratore capo di Torino, queste direttive "hanno lo scopo di tornare a dare alle intercettazioni lo scopo che realmente hanno: raccogliere elementi per dimostrare la colpevolezza di un imputato". Un principio sacrosanto per un magistrato, che non lede il principio fondamentale di un giornalista: cercare e pubblicare notizie ogni volta che hanno valore per l’opinione pubblica, anche se sono riservate o penalmente irrilevanti. Questo non vuole dire essere buca delle lettere delle procure. La consapevolezza che il giornalismo non significhi incollare paginate di verbali e intercettazioni ma fare sintesi e ricostruire contesti ci è chiara, valutare gli atti e le inchieste con spirito critico è un passo necessario, così come rispettare le persone e non distruggere vite e reputazioni. Ma tutto questo non ci può far dimenticare cos’è una notizia e cosa è rilevante per i lettori. Dovrebbe essere il cuore del nostro mestiere. Intercettazioni. Caso Consip in salsa turca, spiati anche i difensori di Rocco Vazzana Il Dubbio, 19 maggio 2017 La telefonata tra Tiziano Renzi e il suo legale finisce sul Fatto di Travaglio. "Non sono preoccupato né per me né per il mio assistito, ma per la categoria forense in quanto sembra affermarsi un relativismo contrario a ogni principio costituzionale in tema di tutela e garanzie difensive". Federico Bagattini, difensore di Tiziano Renzi, commenta così la notizia della pubblicazione di una conversazione telefonica intercorsa tra lui e il suo assistito. "Non distruggere le conversazioni tra il legale e il suo assistito è una decisione che rispetto. Del resto il danno ai principi è stato fatto ed è irreparabile". Le intercettazioni di cui parla l’avvocato non sono utilizzabili a processo - secondo quanto sostengono le procure di Roma e Napoli - ma sono finite comunque sulla prima pagina di alcuni giornali: la Verità (prima) e il Fatto quotidiano (poi), in un articolo firmato da Marco Lillo. "Avvocato, ho avuto una notizia: Luigi Marroni è ricattabile!" dice il padre dell’ex premier al suo legale, "è ricattabile per cose private". Scrive Lillo: "La telefonata avviene dopo l’interrogatorio di Tiziano Renzi da parte dei pm Paolo Ielo e Celeste Carrano durante il quale Renzi senior e Bagattini hanno capito benissimo che il nemico numero uno, l’uomo che ha messo nei guai l’indagato davanti ai magistrati, è proprio Marroni", amministratore delegato di Consip e prin- cipale accusatore del padre dell’ex premier nell’inchiesta per traffico di influenze. Il problema però è che il dialogo tra Bagattini e Renzi senior riportato dal quotidiano diretto da Travaglio non è mai finito neanche negli atti dell’inchiesta. "La Procura di Roma non ha ordinato la distruzione di alcuna intercettazione nel procedimento a carico di Renzi Tiziano e altri", avevano fatto già sapere da Piazzale Clodio in una nota, prima di precisare: "Peraltro l’eventuale distruzione poteva essere disposta solo dall’Ufficio che aveva disposto l’intercettazione. Inoltre, come è noto, le intercettazioni con i difensori sono inutilizzabili". Tradotto: chiedete a Napoli cosa è successo. E il capo dei pm napoletani, Nunzio Fragliasso, non si sottrae: "A questo ufficio non risulta essere stata disposta la distruzione dell’intercettazione", come sostenuto in un primo articolo pubblicato sulla Verità. Dunque, il nastro esiste ancora ma non può essere utilizzato. La materia però è delicata, non esiste una giurisprudenza univoca sulla "inviolabilità" del rapporto tra legale e assistito. A fare chiarezza potrebbe intervenire il ddl penale che il 22 maggio approderà in Aula. Alla lettera "a" del comma 84, il testo prevede "disposizioni dirette a garantire la riservatezza delle comunicazioni, in particolare dei difensori nei colloqui con l’assistito, e delle conversazioni telefoniche e telematiche oggetto di intercettazione". In attesa di disposizioni definitive, l’inchiesta Consip viene brandita come un brandello tra le parti. Per il Pd siamo di fronte a un "attacco alla democrazia" (copyright Matteo Orfini) e l’onorevole Marco Anzaldi, portavoce della mozione Renzi al congresso, si scaglia contro il cronista del Fatto: "Dispiace che un giornalista come Marco Lillo, nella campagna che sta portando avanti per promuovere il suo libro, arrivi fino all’insulto contro Matteo Renzi", dice l’esponente dem. "La pubblicazione illegale di una telefonata mai trascritta, e che forse non poteva neanche essere intercettata dagli inquirenti, lo ha portato a divenire oggetto di indagine, iscritto nel registro degli indagati per arbitraria pubblicazione di atti di un procedimento penale. È comprensibile il nervosismo, ma non si capisce cosa c’entri il giornalismo con le offese personali". Quando parla di offese, Anzaldi si riferisce alle parole pronunciate da Lillo a Radio 24. "Matteo Renzi è un cialtrone, mente sapendo di mentire", dichiara il giornalista, a proposito di quanto riferito nei giorni scorsi dall’ex premier su una querela intentata contro lo stesso Lillo e poi ritirata. Per il cronista del Fatto, la ricostruzione del segretario Pd è falsa, lui non si accordò mai con il capo del Pd: "Io e Renzi ci siamo incontrati nel 2012 e in quella occasione mi disse altre cose", dice. "Renzi è un ometto ma deve sapere che io ho traccia di quella conversazione", aggiunge. Orlando: "la telefonata tra padre e figlio non doveva uscire, subito le norme anti-abusi" di Liana Milella La Repubblica, 19 maggio 2017 Il ministro della Giustizia: "Il punto è impedire la fuga di notizie, il governo metta la fiducia sul mio provvedimento". Le intercettazioni? "Se si vuole risolvere il problema si approvi la legge". Ne è sicuro? "Se non lo fossi non ci avrei lavorato da tre anni". È convinto che dopo non uscirà più una telefonata? "Non esiste una certezza in questo senso, ma la mia legge limiterebbe il rischio". Dice così il Guardasigilli Andrea Orlando. Telefonata Renzi figlio-Renzi padre. Cos’ha pensato appena l’ha letta? "Che non doveva stare sul giornale perché non ha alcuna rilevanza penale. Quindi non doveva stare neppure tra gli atti processuali. E mi sono ancor più sorpreso che, non essendoci, fosse stata diffusa. Per questo è necessario fare la massima chiarezza". Ma del contenuto che dice? "Entrare nelle dinamiche familiari altrui è difficile quando si è direttamente coinvolti, figurarsi su quelle pubblicate da un giornale. Mi sembra un elemento di inciviltà pretendere di trarre valutazioni politiche da una conversazione del genere". Non mi dirà che non andava pubblicata... "Ho pensato che non era giusto diffonderla, chi si trova una conversazione del genere tra le mani, è difficile che dica di no. Il problema è evitare le fughe. Intervenire sulla pubblicazione diventa complicato nell’epoca di internet ". Ne fa una questione di tutela della privacy? "La Costituzione autorizza a entrare nella corrispondenza personale in funzione di finalità previste dalla legge, non per dare valutazioni morali o fare analisi socio- culturali. Le intercettazioni servono per fare i processi, i processi per accertare dei fatti". Non ritiene che un uomo pubblico abbia diritto a una privacy attenuata? "... e chi è un uomo pubblico? Il potere non è solo politico. Perché non ci dovrebbe essere la privacy attenuata per i giornalisti? Lei ha un potere molto grande, perché non attenuare la sua privacy per vedere come esercita questo potere? Capisce che su questa via si sa dove si inizia ma non dove si finisce". Il politico risponde agli elettori, il giornalista ai lettori, o no? "Mi rendo conto che la mia è una provocazione, ma esistono oggi poteri di fatto che incidono nella vita di tutti in modo assai più forte della politica". Eppure le sentenze da Strasburgo parlano di privacy attenuata per i politici. "Non riguardo alle intercettazioni. La loro diffusione è un’anomalia tutta italiana". Napolitano vede "un’insopportabile violazione della privacy ". Lei ritiene davvero che quella conversazione non debba mai finire nel processo? "In sé quella telefonata no. Un figlio che dice al padre di rispondere in modo corretto non è un fatto di rilevanza penale. In connessione con altre conversazioni potrebbe assumere un altro significato, ma proprio questa considerazione ci fa capire quanto sia arbitraria e fuorviante la pubblicazione di singoli stralci". Il presidente Pd Orfini parla di "attentato alla democrazia". "Le parole andrebbero pesate di più soprattutto quando si svolgono funzioni politiche così importanti. Nessuno può negare che ci siano stati fatti molto gravi su cui bisogna accettare le responsabilità. Se però si hanno elementi stringenti per parlare di una regia unica di fatti avvenuti in contesti diversi e se si ritiene che questa azione sia finalizzata a destabilizzare la democrazia, allora bisogna essere conseguenti, si devono investire le istituzioni e chiamare il popolo a una mobilitazione. Altrimenti si cade nel complottismo, un genere di cui di solito hanno fatto storicamente abuso le destre populiste". Come esce il Pd dal caso Consip? "Mi pare che il caso sia solo alle primissime battute. E la cattiva abitudine di trarre delle conseguenze dall’inizio di un processo, e non dalla sua fine o almeno dal suo sviluppo, si accompagna quasi sempre alla pretesa di definire giudizi morali. Questo non fa bene né all’informazione né ai processi ". Manderà gli ispettori tra Napoli e Roma? "Quando si ravvisa una possibile irregolarità il primo passo è l’avvio degli accertamenti preliminari. Qualora dimostrassero elementi concreti si prosegue con l’invio degli ispettori. L’eventuale azione disciplinare è all’esito del loro lavoro. È molto probabile che in alcune di queste vicende gli accertamenti preliminari porteranno alle fasi successive". Crede alla guerra tra le procure di Roma e Napoli? "I magistrati interessati lo hanno escluso. Le procure, quelle così grandi in particolare, non sono dei monoliti. L’ordinamento prevede un potere diffuso, l’autonomia di ogni singolo magistrato. Per questo è importante il coordinamento che i capi devono esercitare. E per questo è fondamentale che questi ruoli non restino sguarniti". Le intercettazioni e il suo ddl penale. Renzi ostacola la fiducia. È lo strascico delle primarie? "Non credo. Mi auguro che tutto il Pd si convinca del fatto che c’è una contraddizione tra il denunciare l’utilizzo improprio delle intercettazioni e tenere ferma una legge che affronta il tema per più di tre anni, compresa la campagna referendaria sulla quale si riteneva che la legge potesse avere un impatto negativo ". Ma la fiducia è necessaria? "Sì, perché penso che una qualunque modifica al testo, possibile con i voti segreti, lo rimanderebbe al Senato, e quindi, dato lo stato avanzato della legislatura, a un nulla di fatto". Sa che Alfano non la vuole e pretende che lei cambi la prescrizione... " L’attuale testo è stato concordato, punto per punto, con il presidente della commissione giustizia del senato, il senatore D’Ascola, del partito di Alfano". Ma non è che Renzi rema contro il ddl penale perché teme che ostacoli la legge letterale? "I due provvedimenti, dal punto di vista del calendario, sono assolutamente compatibili. Io voglio, almeno quanto Renzi, che la nuova legge elettorale sia approvata, tanto più che il testo di cui si sta discutendo assume uno dei punti su cui mi sono caratterizzato durante il congresso, l’esigenza di costruire un centrosinistra largo e competitivo". Con la delega sulle intercettazioni che succede? Il governo Gentiloni farà quello che voleva fare Berlusconi, bavaglio su magistrati e giornalisti? "Sono due interventi che non hanno alcun punto di contatto. Noi non limitiamo in alcun modo l’utilizzo delle intercettazioni come strumento di indagine, ma mettiamo paletti più stringenti per evitare la diffusione di conversazioni che non hanno rilevanza penale e in generale per evitare fughe di notizie che possono perfino pregiudicare le indagini". Anche con le circolari delle procure, proprio quelle di Napoli e di Roma, le telefonate escono lo stesso. È proprio necessaria una legge? "Non è che il divieto di un fenomeno di per sé lo elimini. Sicuramente una legge è più stringente di una circolare, e vale per tutto il territorio nazionale e può stabilire responsabilità più certe. Anche la prima applicazione delle circolari ci potrà servire per capire cosa va precisato e cosa corretto ". Reati fiscali, allargato il "ne bis in idem" di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2017 La Corte europea dei diritti dell’uomo torna sull’applicazione del principio del ne bis in idem nei casi di sanzioni tributarie e penali per reati fiscali. Con la sentenza depositata ieri nella causa Johannesson e altri contro Islanda (ricorso n. 22007/11), Strasburgo sembra allargare nuovamente gli spazi applicativi del principio del ne bis in idem. Per la Corte, infatti, se manca una connessione sostanziale e se la sovrapposizione tra il procedimento tributario e quello penale è limitata dal punto di vista temporale, è certa la violazione del principio. A rivolgersi alla Corte sono stati due cittadini islandesi che erano stati al centro di un procedimento per evasione fiscale. L’amministrazione tributaria aveva disposto l’applicazione di una sovrattassa, ma dopo nove mesi i due ricorrenti erano stati indagati per reati fiscali e condannati a una pena detentiva (pena sospesa) e a una multa. Di qui il ricorso alla Corte europea che ha dato ragione ai ricorrenti. Per la Corte, infatti, l’Islanda ha violato l’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea - che afferma il diritto a non essere processato o punito due volte per lo stesso reato - proprio perché il procedimento tributario culminato con una sanzione pecuniaria aveva, in realtà, una natura sostanzialmente penale. I fatti contestati nei due procedimenti erano identici e così la stessa entità dell’evasione fiscale contestata. È vero - osserva la Corte europea - che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 non esclude del tutto la possibilità che due procedimenti siano condotti contemporaneamente, ma questo solo a condizione, accertata l’identità del fatto, che le due azioni siano strettamente legate dal punto di vista sostanziale e temporale. In presenza di questo legame "sufficientemente stretto", infatti, si verifica un’integrazione tra le due azioni. Con la conseguenza che i due procedimenti ne formano uno unico. La Corte, nell’accertare se sussistessero le due condizioni, ha tenuto conto, dal punto di vista della connessione temporale, della durata della sovrapposizione legata, però, all’intero svolgimento del procedimento. Di conseguenza, poiché i procedimenti si erano svolti in parallelo solo per un anno su una durata complessiva di 9, Strasburgo ha escluso la connessione, anche perché l’imputazione ai due ricorrenti era arrivata 16 mesi dopo la decisione delle autorità fiscali. Netta separazione anche sotto il profilo delle prove, con indagini e svolgimento dei procedimenti realizzati in modo indipendente. Di qui la conclusione dell’assenza di una connessione sostanziale e temporale "sufficientemente stretta" e l’evidente duplicazione del processo, con una chiara violazione del principio del ne bis in idem. Sicurezza e legittima difesa. Difendersi con il cervello di Carlo Alberto Romano Corriere di Brescia, 19 maggio 2017 Non pare corretto entrare nel merito della riforma dell’articolo 52 del codice penale almeno fino a quando non sarà definitiva; vero è che il testo approvato dalla Camera suscita qualche perplessità, soprattutto con riferimento alla indeterminatezza dei concetti di "notte" e di "turbamento psichico", poco in linea con il dichiarato obiettivo di voler ridurre la discrezionalità interpretativa nelle aule giudiziarie in tema di legittima difesa. Il punto è un altro: siamo proprio sicuri che ci sia così bisogno di questo cambiamento? La proposta nasce dall’asserito desiderio di sentirsi più sicuri dentro le proprie case, essendo fortemente diffusi sentimenti di insicurezza e di paura fra i cittadini. Provo a svolgere alcune riflessioni. L’attuale configurazione della legittima difesa nasce nel codice Rocco (guardasigilli fascista) e dalla riforma Castelli 2006 (che aumentò lo spazio di autotutela): non mi pare una norma generata in un clima di buonismo pacifista. Trovo inoltre quantomeno curioso che si voglia modificare questo istituto in un quadro storico in cui tutti riconoscono il calo dei reati. L’Istat (dati 2014) conferma il minimo storico degli omicidi in Italia, uno dei più bassi al mondo. Anche i reati predatori che pure nell’ultimo ventennio erano stati in controtendenza rispetto al costante decremento dei reati in generale, da un paio di anni sono in calo. Ne è un segnale il fatto che la quota di famiglie che percepiscono un elevato rischio di criminalità nella zona in cui vivono è scesa dall’oltre il 40% del 2015 al 38,9 del 2016. L’intervento pare quindi arrivare fuori tempo massimo. E poi, favorire palesemente un maggior ricorso all’acquisto e possesso di armi, consentirebbe una maggior prevenzione dei rati predatori? Temo di no posto che la maggior concentrazione di furti in casa avviene in orari nei quali gli autori sperano di non incontrare chi ci vive. Si creerebbe invece un rischio proprio dalla maggior diffusione di armi all’interno delle nostre abitazioni, che finirebbero per essere usate anche in momenti del tutto slegati dalla legittima difesa, come dimostrano gli Usa, ma anche alcuni gravi fatti di cronaca (penso alla fucilata che uccise il giovane Rom e a quella di Serle, proprio ieri il responsabile è stato rinviato a giudizio). Meglio fare prevenzione insegnando alla gente poche ma fondamentali regole per diminuire il rischio di subire reati, come dimostra l’azione svolta dalle forze di polizia con gli anziani per contrastare le truffe. Ciò aumenterebbe il senso di relazione con le istituzioni e potrebbe anche contribuire ad abbattere le paure persistenti. In poche parole meno pancia e più cervello. Perché parlare di lavoro e carcere di Desi Bruno* Ristretti Orizzonti, 19 maggio 2017 Il lavoro è ciò che chiede e di cui ha bisogno la grande maggioranza della popolazione detenuta, che per estrazione sociale è poverissima. Gli ultimi dati aggiornati sul lavoro in carcere sono al 30 giugno 2016, come indicati nell’atto di indirizzo del Ministro di Giustizia per l’anno 2017 : a fronte di 54.072 detenuti presenti negli istituti italiani (ma al 30 aprile 2017 le presenze diventano 56436 ), sono 12903 lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria e 2.369 non dipendenti ovverossia lavoratori in proprio o alle dipendenze di imprese o cooperative, di cui 963 impegnati all’interno degli istituti, 781 ammessi al lavoro esterno ex art. 21 O.P. e 652 ammessi al regime di semilibertà. La situazione risulta drammatica perché resta esiguo il numero delle persone che hanno l’opportunità di lavorare, mentre invece il lavoro è passaggio determinante per il percorso del detenuto, non semplicemente in termini di occupazione e retribuzione ad esso legati, ma proprio in termini di assunzione di responsabilità e di valore nella ricostruzione di una persona. È importante ricordare che i detenuti sono privati della libertà personale, ma non degli altri diritti, in primo luogo del diritto al lavoro che è il fulcro del trattamento penitenziario e che deve essere retribuito. Il nostro è un ordinamento avanzato e non prevede il lavoro obbligatorio; il detenuto deve poter lavorare, per contribuire a mantenere la famiglia, per le piccole necessità e per mettere da parte qualcosa per quando uscirà dal carcere. Il lavoro retribuito va tenuto distinto da quello volontario e dei lavori socialmente utili e/o di pubblica utilità, una cosa non esclude l’altra, ma il lavoro retribuito è un diritto allo stato imprescindibile e l’istituzione penitenziaria ha l’obbligo per legge di garantirlo. Il sistema carcere, anche al fine di dare attuazione al dettato costituzionale sulla funzione della pena, deve avere la capacità di accompagnamento al lavoro e di reinserimento nel tessuto sociale e produttivo. Apprendere capacità lavorative è una forma di educazione alla legalità e avere una professionalità da spendere sul mercato del lavoro, una volta fuori dal carcere, sarà la prima forma di protezione dal pericolo di recidiva e quindi anche fonte di sicurezza collettività. Il tema del lavoro e della formazione è stato oggetto specifico di un apposito tavolo ((8) degli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal Ministro di Giustizia, i cui risultati devono concretizzarsi in modifiche normative non più rinviabili. Una delle strade da perseguire è quella del coinvolgimento dell’imprenditoria in progetti finalizzati all’impiego di detenuti in attività lavorative, anche perché le strutture penitenziarie offrono particolari potenzialità, in termini di spazi, che potrebbero essere, per questa via, pienamente valorizzati. Alle imprese che assumono detenuti o ex detenuti vengono riconosciuti sgravi fiscali (cd. legge "Smuraglia") al fine di incentivare appunto l’assunzione. In questo senso è da segnalare, tra le attività di eccellenza del carcere di Bologna, che da qualche anno nel carcere della Dozza è attiva a pieno regime un’officina meccanica, fortemente voluta da un cartello di imprese che operano nel territorio (Ima-Marchesini e GD) e dalla Fondazione Aldini Valeriani insieme alla Direzione della Casa circondariale di Bologna, che ha dato vita a Fid -Fare impresa in Dozza-Impresa sociale srl. Questa impresa sta dando lavoro a una decina di detenuti, assunti con regolare contratto da dipendenti, a cui viene fornita dalle stesse aziende una prospettiva di lavoro anche all’esterno, una volta finita di espiare la pena e a cui viene fornita formazione attraverso dei tutor ex dipendenti delle aziende coinvolte. Questa è una strada da seguire. Quanto al lavoro interno all’amministrazione penitenziaria invece, bisogna anche considerare che le carceri spendono moltissimo appaltando lavori di manutenzione del carcere a ditte esterne, mentre va incentivato il lavoro degli stessi detenuti, con innegabili vantaggi anche per il risparmio di spesa. La stessa cosa potrebbe essere fatta dalle amministrazioni, favorendo l’assunzione di un certo numero di detenuti nelle cooperative di tipo B che si occupano della manutenzione del verde pubblico o dei lavori stradali. Le direzioni degli istituti penitenziari dovrebbero poter utilizzare le risorse di cui dispongono in modo diverso e con autonomia gestionale, considerando il lavoro dei detenuti come una risorsa, almeno per la manutenzione ordinaria e i lavori di pulizia che spesso non vengono svolti come si dovrebbe per mancanza di personale. Le amministrazioni penitenziarie dovrebbero anche poter utilizzare le competenze specifiche dei detenuti: ci sono tecnici elettricisti, imbianchini, idraulici che potrebbero venire molto utili per la manutenzione dell’edificio. Di tutto questo, e delle proposte in tema di lavoro e carcere dell’Unione delle Camere penali, si parlerà il 20 maggio a Bologna proprio nella sede della Fondazione Aldini-Valeriani, scelta simbolica ma piena di concretezza perché, oltre alle parole, si dia spazio ai fatti, e cioè al lavoro in carcere come scelta consapevole e dignitosa nella sua realizzazione e remunerazione. *Avvocato, responsabile Osservatorio Carcere della Camera penale di Bologna "Franco Bricola" Ma quando qualcuno parla al telefono dice la verità? di Alberto Cisterna (Magistrato) Il Dubbio, 19 maggio 2017 Il cretese Epimenide sostiene che "tutti i cretesi mentono". Lo chiamano il paradosso del mentitore. Un vecchio arzigogolo logico che potrebbe tornare utile per cercare di uscire dal pantano della polemica politica sulla telefonata tra Matteo Renzi ed il padre. Renzi parla sapendo di essere intercettato e, quindi, mente. Oppure Renzi ignora di essere intercettato e, quindi, mostra una bella tempra morale nell’imporre al babbo di dire la verità ai giudici. Ciascuno è libero di prendere parte alla discussione schierandosi per l’una o l’altra posizione. Il paradosso del mentitore sta nel fatto che Epimenide era cretese e se dice che "tutti i cretesi mentono" abbiamo un bel rompicapo per stabilire se dica il vero o il falso. Tutto sta nel punto di partenza. La soluzione potremmo cercarla in un dubbio iniziale che precede le parole di Epimenide: può essere davvero che tutti i cretesi siano bugiardi incalliti. Sì o no. Spostiamo il giochino nel campo del nostro ex premier. Qui bisognerebbe rispondere a qualche domanda in più. La prima: ma la gente, quando parla al telefono o vis a vis, dice sempre la verità? Secondo la comune esperienza no. Secondo la Cassazione, invece, si. Le conversazioni telefoniche o ambientali hanno il crisma di una presunzione di attendibilità per gli ermellini. Le persone quando conversano dicono il vero e, quindi, ciò che si dicono vale come prova nel processo penale. Al più, dicono le toghe, ci vuole prudenza quando Tizio e Caio, chiacchierando, attribuiscono un reato a Mevio. Prudenza, certo, ma non riscontri. Le frasi captate sono pietre. Non sono le parole di un pentito che pretendono accertamenti precisi e verifiche puntuali. L’intercettazione, dicono i chierici, è un atto a sorpresa, quindi quel che viene ascoltato non deve passare alcun setaccio a maglie strette. Se Tizio, parlando con Caio, si attribuisce una rapina, quella è una confessione. Se dice che la rapina l’ha commessa insieme a Caio è lecito ritenere che dica il vero. In manette sia lui che l’ignaro Caio chiamato in mezzo dal loquace complice. Se è un pregiudicato e non ha un alibi ci sono buone possibilità che sia anche condannato. Una follia, direbbe qualcuno. Insomma non proprio. Ai tempi del primo maxi-processo di Palermo qualche toga (non Falcone) aveva pensato di adoperare una rivelazione di Tommaso Buscetta per semplificare la prova di dozzine di omicidi. Due uomini d’onore, quando parlano tra loro, non mentono. Era una regola di mafia aveva detto Buscetta. Quindi tutto quello che i boss palermitani avevano raccontato al primo grande pentito di Cosa nostra era da pesare come oro colato nelle aule di giustizia. Ovviamente non c’è voluto molto tempo, e molto poco ne è servito a Falcone, per accorgersi che la regola non funziona per la semplice ragione che i mafiosi mentono spesso e, anzi, mentono molto più della gente perbene. Oggi tutti sono d’accordo su questo. Eppure resta un grumo di pregiudizio che sopravvive proprio nell’interpretazione delle parole intercettate. Un grumo che, come abbiamo detto, è difficile rimuovere. Molto difficile. Sono in gioco processi importanti, condanne eccellenti, strategie investigative che puntano all’intercettazione come il principale, se non esclusivo, mezzo di prova. Certo siamo tutti d’accordo sul principio che si devono pesare diversamente le parole intercettate di un picciotto al cospetto del proprio capo, da quelle di due faccendieri corrotti che discutono di contatti ed entrature. Ma la questione non è da risolvere solo con il buonsenso, ci vogliono regole precise. Poco poco che il codice fosse corretto o che la Cassazione mutasse opinione le intercettazioni perderebbero l’importanza decisiva che hanno oggi nei processi e, quindi, sui giornali. Se alla presunzione di verità si sostituisse, come per i pentiti, una presunzione di inattendibilità (ossia il dovere dei riscontri) nessuno si sognerebbe di risolvere la partita solo sulle parole al telefono o in auto di Tizio e Caio. È la ragione per cui paesi di grande civiltà giuridica non ammettono le intercettazioni come prove decisive nelle aule di giustizia. Verrebbero fatte a pezzi dal Perry Mason di turno. E allora Matteo Renzi ha simulato o meno quando parlava con il padre? Il buonsenso ci dice che, in genere, un figlio non coinvolgerebbe mai il padre in un artifizio del genere. Nella telefonata l’ex premier raccomanda al padre di non coinvolgere la madre davanti ai giudici e lo rimprovera aspramente. Quale figlio consegnerebbe al paese un’immagine cosa penosa del proprio genitore. Se davvero Renzi avesse saputo delle intercettazioni, come qualcuno sostiene, avrebbe allora agito come quel caporale Parolisi che, dopo aver ucciso la moglie, si era messo a parlare da solo in auto per allontanare da sé i sospetti degli inquirenti che lo intercettavano. Una messinscena subito scoperta. E Renzi, a occhio e croce, pare di una tempra molto diversa. Cagliari: carcere di Uta, detenuto 41enne suicida in cella di Lorenzo Ena L’Unione Sarda, 19 maggio 2017 È stato ritrovato nella sua cella senza vita ieri pomeriggio. Un detenuto del carcere di Uta, G. D. G., 41enne cagliaritano, si è suicidato impiccandosi, tra lo sconforto di operatori penitenziari, agenti e il personale sanitario della struttura. A segnalare l’episodio è la presidente di Socialismo diritti riforme, Maria Grazia Caligaris: "Rinunciare alla vita è una scelta dolorosa, disperata, spesso dissimulata e quindi imprevedibile. Se avviene in una struttura penitenziaria purtroppo ne conferma l’inadeguatezza. Le Istituzioni non possono trascurarne il significato". "Spesso si dimentica che la perdita della libertà - sottolinea - è una condizione particolarmente pesante che segna profondamente l’esistenza della persona con ripercussioni sulla solidità della propria identità. L’esclusione dalla vita familiare, dai figli, dalla comunità pesa particolarmente. La carcerazione fa emergere nascoste fragilità. Può rendere la persona irrequieta, irascibile, depressa, disperata. Chi deve pagare il debito con la società per un reato deve farlo in modo da vedere il proprio futuro migliore. Lo Stato deve essere presente pertanto in modo adeguato senza trascurare aspetti fondamentali che contemplano la sicurezza e la riabilitazione. Ogni suicidio in carcere ha una storia a sé e spesso appare inspiegabile, tuttavia la responsabilità ricade sul sistema. La professionalità della Polizia Penitenziaria non può sempre scongiurare il peggio soprattutto quando difettano anche i numeri. La detenzione però deve diventare davvero l’extrema ratio e la vigilanza deve essere supportata da altre figure professionali competenti" Il carcere di Uta registra il numero di tentati suicidi più alto in Italia: "Non è, purtroppo, la prima volta - aggiunge Caligaris. E a correre i maggiori rischi sono le persone con problemi di tossicodipendenza che avrebbero bisogno di percorsi personalizzati considerando che tanti di loro fanno i conti con problemi sanitari. Detenuti, appunto, per i quali il ricorso alle misure alternative dovrebbe diventare automatico". Napoli: la Prison Valley d’Italia, con il terzo carcere che sarà costruito a Nola di Samuele Cafasso Pagina99, 19 maggio 2017 Aprile 2016: gli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal ministro Andrea Orlando terminano i lavori con la raccomandazione di limitare al minimo la detenzione come pena correttiva e costruire, se proprio necessario, nuove carceri solo di piccole dimensioni, possibilmente inserite all’interno dei contesti urbani. Marzo 2017: il governo pubblica il bando per la realizzazione di un maxi-carcere da 1.200 detenuti a Nola, provincia di Napoli, in un’area completamente scollegata da centri urbani. Non solo: si tratta del terzo polo nella grande Napoli, dopo Secondigliano e Poggioreale, area dove è difficilissimo già adesso portare avanti i piani di rieducazione dei condannati. Intanto continua a salire il numero di detenuti nel nostro Paese: erano 52mila a fine 2015, sono saliti a 54.653 a fine 2016 e ad aprile hanno toccato quota 56.436. Sono oltre seimila in più della capienza massima, secondo i dati ufficiali. "In realtà la situazione è di molto peggiore perché in Ballavi sono almeno cinquemila celle inagibili" sostiene la deputata Rita Bernardini che, insieme a Luigi Manconi, chiede "una amnistia e un indulto" per far fronte a una situazione "di totale illegalità". Una proposta, ammette lo stesso Manconi, che "ha scarsissime possibilità di passare in questa legislatura, ancora meno nella prossima". Sono passati quattro anni dalla sentenza Torreggiani con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato il Paese perle condizioni disumane delle carceri. Quattro anni in cui il numero dei detenuti, soprattutto grazie a misure temporanee, è prima calato drasticamente ma che, adesso, è iniziato a risalire. La Campania è diventata il territorio dove si misurano tutte le contraddizioni e le difficoltà del nostro sistema carcerario. Un carcere a Nola era già previsto nel piano del governo Berlusconi che, dieci anni fa, intendeva risolvere il problema del sovraffollamento carcerario con "20 mila nuovi posti" da realizzare con una pioggia di soldi, 1,5 miliardi di euro. Piano naufragato. Quando arriva il governo Renzi, Orlando cambia linea: convoca gli Stati Generali e promuove un disegno di riforma che da una parte acceleri l’uso delle pene alternativa e che, dall’altra, renda la detenzione più umana, intervenendo sull’architettura carceraria, sul diritto all’affettività dei detenuti, sull’ampliamento delle occasioni di lavoro negli istituti di pena come strumento di rieducazione. Tutto questo è previsto nella delega al governo contenuta nella riforma penale all’esame del Parlamento. "Ma dopo, ovviamente, dipenderà da come tutto questo verrà tradotto in atti concreti dal governo" mette le mani avanti Bernardini. Intanto rispunta il maxi-carcere di Nola. E fa litigare gli architetti che pure erano stati chiamati dal governo stesso a dare il loro parere su una nuova stagione dell’edilizia carceraria. Cesare Burdese definisce il progetto "un "crimine architettonico" perché disumano; una proposta calata dall’alto, in un vuoto di tradizione di studi e sperimentazione; un regresso sul piano del trattamento penitenziario". Perché allora andare avanti su Nola? La spiegazione ufficiale è che Nola sia necessario per garantire il principio di territorialità, secondo cui ogni detenuto dovrebbe scontare la pena il più possibile vicino a casa. Ad oggi la Campania ospita settemila detenuti, con un’eccedenza rispetto alla capacità degli istituti di pena di oltre novecento unità. I detenuti residenti campani però sono oltre novemilacinquecento. Anche escludendo i 41bis, c’è un numero rilevante di detenuti "in trasferta". Ma basta questo a giustificare un maxi carcere quando la linea annunciata era stata quella di chiudere quella stagione? Alessio Scandurra, associazione Antigone, parla del rischio di una "prison Valley" campana e punta il dito sulle burocrazie statali: "Questo è un progetto che farà contente le decine di agenti di polizia campani che potranno così tornare a casa. Si pensa a loro, non ai detenuti. Era già successo con Favignana quando, chiuso il vecchio carcere, se ne è costruito uno poco più in là per rispondere alle esigenze dell’indotto carcerario. In Italia la politica penitenziaria si fa ancora così, anche se non si dovrebbe". In realtà il progetto è molto cambiato rispetto alla prima versione:: sarà un carcere senza il muro di cinta esterno, costruito secondo una logica che "mima" la vita familiare, raggruppando i carcerati in unità residenziali simili ad abitazioni civili, con spazi dedicati all’affettività dei detenuti. Per questo l’architetto Luca Zevi, che del tavolo dedicato all’edilizia penitenziaria degli Stati generali è stato il coordinatore, non boccia completamente il progetto: "Sia chiaro, io mai avrei fatto un maxi-carcere - premette - però l’attuale progetto è senz’altro migliore di quello di partenza. Come Stati generali non c’è una pronuncia ufficiale, io come singolo ho preferito intervenire ottenendo un miglioramento, "il meno peggio", per così dire. Con un no netto il carcere sarebbe stato costruito lo stesso, e con un progetto peggiore di quello poi approvato". Ma la nuova stagione delle carceri italiane, quella è ancora lontana. Santa Maria Capua Vetere (Ce): nuove sezioni in carcere, polizia penitenziaria in agitazione ilcasertano.it, 19 maggio 2017 Il personale della polizia penitenziaria della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere è in stato di agitazione per l’apertura di nuove sezioni detentive disposta dal Dap. In una nota, il segretario regionale dell’Unione sindacati Polizia penitenziaria (Uspp) Ciro Auricchio denuncia "il grave sovraffollamento di detenuti a fronte della cronica carenza di personale cui si aggiunge il vecchio problema dell’approvvigionamento idrico della struttura, carente, e mai risolto, che si aggrava durante la stagione estiva". Al carcere di Santa Maria Capua Vetere sono 970 i detenuti ma la capienza regolamentare ne prevede 833, rileva il sindacato. Sono invece 480 gli agenti della penitenziaria, ma quasi un centinaio viene impiegato esclusivamente per il trasporto dei detenuti, non solo di Santa Maria, ma anche delle altre due carceri casertane di Carinola e Aversa, presso altre case di reclusione o tribunali; il rapporto tra poliziotti presenti e detenuti è così di un agente per quasi tre reclusi mentre in Europa è più basso. "È intollerabile aprire nuove sezioni detentive in un carcere già gravato da mancanza di agenti - dice Auricchio - anche perché si tratta di un carcere tra i più importanti e difficili della regione, che ospita una sezione per detenuti di alta sicurezza, ovvero gli affiliati ai clan camorristici, una femminile e un’altra per la tutela della salute mentale con 20 detenuti che hanno problemi psichici gravi, che fino al 2015 erano internati negli ex Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg); tra l’altro mancano anche gli operatori specializzati per assistere queste persone. Chiediamo pertanto - prosegue Auricchio - un urgente incontro con il Prap regionale (Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria, ndr) affinché sia richiesta nell’immediato un’integrazione del personale della Polizia Penitenziaria; in assenza di confronto, siamo pronti a manifestare il nostro dissenso con una manifestazione all’esterno dell’istituto di Santa Maria Capua Vetere" conclude il sindacalista. Asti: "Licenze digitali", un progetto con esiti virtuosi nel carcere di Quarto comune.asti.it, 19 maggio 2017 Ci sono riserve di energie e possibilità di impiegare bene il tempo, di cui si può iniziare a far tesoro. Molte esperienze in Italia coinvolgono carcerati in attività socialmente utili quand’anco in vere e proprie imprese con produzioni di alta qualità. Dalla collaborazione tra Città di Asti (Settore Patrimonio, Ambienti, Reti), la Direzione Casa di Reclusione di Asti e l’associazione di volontariato Effatà Onlus di Asti, sancita con protocollo d’intesa, ne è scaturito il progetto "Licenze digitali" per la digitalizzazione di documenti cartacei, in particolare licenze edilizie dell’archivio corrente e dell’Archivio storico, con l’inserimento in database dei relativi dati. A partire da maggio 2016 si è avviata l’attività di digitalizzazione di documenti cartacei che è svolta da un gruppo di detenuti attualmente costituito da circa 10 persone, che scansiona i documenti e riconsegna al Comune la documentazione cartacea (provvedendo a restaurare gli atti cartacei e le planimetrie su supporti eliografici che il tempo ha deteriorato) nonché le scansioni digitali classificate secondo la tipologia richiesta dagli Uffici tecnici. Le attività, sorrette da un gruppo e una metodologia di lavoro, hanno permesso finora la lavorazione da parte dei detenuti coinvolti di n. 1.219 licenze edilizie relative all’anno 1991, restituendo al Comune n. 28.228 file in formato jpeg, sui quali è stato effettuato anche il restauro digitale con Photo Shop, e n. 13.381 file in formato pdf, utilizzando 157 voci diverse per la nomenclatura dei singoli file. La documentazione, restituita al Comune, serve per la creazione del sistema di archiviazione elettronica del materiale originariamente cartaceo e la metodologia adottata ne permette una rapida consultazione, venendo così incontro alle esigenze di cittadini e professionisti, e la produzione di copia conforme dei documenti elettronici, secondo quanto previsto dal D. Lgs. n. 82 del 2005 "Codice dell’amministrazione digitale". Indubbio il valore di iniziative che oltre a occupare utilmente il tempo-lavoro delle persone coinvolte restituisce a uffici e professionisti esiti altrimenti onerosi, in termini di tempo e personale, se svolti dall’ente locale. Il progetto "Licenze digitali" si inserisce negli obiettivi strategici dell’Amministrazione comunale per la progressiva digitalizzazione di tutti i propri archivi cartacei finalizzata all’attuazione del progetto innovativo "Asti Digitale", che consentirà la condivisione di informazioni pubbliche per la realizzazione di banche dati e servizi online per i cittadini, le imprese e le pubbliche amministrazioni, rispondendo quindi alle esigenze di semplificazione, collaborazione ed efficienza delle procedure. A dicembre 2016, la Fondazione Cassa di Risparmio di Asti, ha donato alla Casa di Reclusione uno Scanner A0 che ha consentito ad un secondo gruppo di detenuti di lavorare sul progetto "Licenze digitali". Per dare seguito e incrementare i buoni esiti e le finalità del progetto, con deliberazione di Giunta, si è ora richiesto un finanziamento in risposta al bando della Compagnia di San Paolo "Contributi ordinari anno 2017". Inoltre, la Città di Asti, riconosciuta la validità del progetto ed i risultati ottenuti dall’avvio del medesimo, ha partecipato con "Licenze digitali" al Premio Open Gov Champion, organizzato e promosso dal Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, finalizzato a riconoscere e valorizzare nelle organizzazioni pubbliche italiane l’adozione di pratiche ispirate ai principi fondanti dell’"amministrazione aperta". Il Comune di Asti ha superato la verifica di ammissibilità da parte del Dipartimento Funzione Pubblica nella categoria "Cittadinanza e competenze digitali" ed entro il 20 maggio 2017 saranno resi noti i dieci progetti finalisti per ciascuna categoria. Un’ulteriore selezione basata su criteri di innovazione, replicabilità, risultati raggiunti e coinvolgimento dei cittadini e delle organizzazioni della società civile porterà alla valutazione finale (30 giugno 2017). Forlì: Techne ed Hera donano 120 computer a favore di persone svantaggiate romagnawebtv.it, 19 maggio 2017 Le due realtà hanno donato 120 PC per l’alfabetizzazione informatica di detenuti, rifugiati e persone indigenti grazie al riutilizzo e recupero dei computer aziendali dismessi dalla multi-utility. Recuperare vecchi computer, di tecnologia obsoleta ma ancora funzionanti, dismessi da Hera per metterli a disposizione di fasce della popolazione svantaggiate, coinvolte in progetti di alfabetizzazione informatica e reinserimento lavorativo e sociale, quali disabili, anziani, detenuti, extracomunitari, rifugiati politici e persone senza fissa dimora: questo l’obiettivo di un accordo sottoscritto tra Techne, ente di formazione di proprietà pubblica che lavora da oltre quarant’anni in favore delle fasce svantaggiate, ed Hera, al fine di favorire l’alfabetizzazione informatica di persone in difficoltà e bisognose. L’accordo prevede che Techne prenda in consegna 120 apparecchiature informatiche (70 fissi e 50 portatili), ne verifichi la funzionalità e le possibilità di rigenerazione e predisponga l’eventuale recupero di parti di ricambio fino al completo ricondizionamento. Tutti i 120 PC sono stati donati, in poco più di un anno, a cooperative sociali che gestiscono progetti in favore di detenuti e rifugiati, nonché ad associazioni di volontariato a supporto delle persone più indigenti e/o disabili. Tra gli enti ed associazioni che hanno ricevuto in dono i computer vale la pena ricordare la Caritas, Assiprov (Centro Servizi per il volontariato), Cooperativa Dialogos, Cooperativa Formula Solidale, Cooperativa "Lavoro Con", la Casa circondariale di Forlì. Techne ed Hera, partner da oltre 10 anni in progetti che coniugano le tematiche sociali e la sostenibilità ambientale sono fermamente convinti del valore di iniziative con una duplice valenza, umanitaria ed eco-sostenibile, che mettono in campo interventi per l’inclusione sociale delle fasce più deboli della popolazione. "Giunti a fine Progetto era doveroso fare un bilancio - afferma soddisfatta Lia Benvenuti, direttore di Techne - e siamo felici di aver consegnato tutte le 120 apparecchiature che ci eravamo prefissati. L’iniziativa - continua la Benvenuti - ha quindi raggiunto il suo obiettivo di sostenere da un lato una cultura dell’accoglienza per i rifugiati presso le comunità del territorio e dall’altro promuovere l’alfabetizzazione informatica delle categorie più svantaggiate della nostra società, offrendo anche ai meno abbienti l’opportunità di mettersi in gioco ed entrare a far parte dell’era digitale, il tutto in un’ottica di inclusione lavorativa e di pieno inserimento sociale nella comunità". "In aggiunta alle importanti e positive ricadute sociali - conclude Salvatore Molè, Direttore Centrale Innovazione di Hera - questa iniziativa presenta anche un aspetto ecologico-ambientale non trascurabile: consente infatti di riutilizzare apparecchiature informatiche che non hanno più i requisiti necessari per la nostra azienda, ma che risultano invece pienamente adeguate alle esigenze di altre persone, riducendo così la produzione complessiva di rifiuti". Entrambi gli enti confidano in una nuova iniziativa che possa dare continuità a questa prima esperienza, terminata con successo, consapevoli che le necessità di alfabetizzazione informatica riscontrate durante questa prima sperimentazione sono state tante e che dunque ancora numerosi sono gli spazi per sostenere le persone indigenti in un percorso che è anche e soprattutto di reinserimento sociale. Alessandria: "per migliorare la sicurezza in carcere servono risorse umane" radiogold.it, 19 maggio 2017 La lettera aperta del direttore dell’istituto penitenziario San Michele di Alessandria, Domenico Arena. Per affrontare il problema della sicurezza nelle carceri l’intelligenza serve di più che i muscoli. Lo ha scritto in una riflessione aperta il direttore dell’Istituto Penitenziario San Michele di Alessandria, Domenico Arena. Di contro "un carcere inteso come discarica della sicurezza sociale è il luogo più insicuro della nostra società, capace di produrre "un’esplosione, più o meno premeditata ma spesso del tutto estemporanea, di forza distruttiva priva di altri obiettivi oltre a quello del male inferto, in qualche caso solo sponsorizzato (mai non guidato) da prospettive fondamentalistiche o antisistema". Secondo Arena serve quindi "diversificare, distinguere le situazioni concrete, evitando di generalizzazioni, sottovalutazioni e allarmismi. Dare per scontata una lettura imperniata sulla omogeneità delle persone come automaticamente violente e pericolose in quanto detenute costituisce un errore metodologico cruciale, una profezia destinata ad auto avverarsi". Occorre, secondo il direttore dell’istituto alessandrino "fare l’operazione inversa: prenderci cura e conoscere le persone individualmente, fornendo risposte e opportunità diversificate ai bisogni, alle situazioni e alle intenzioni di ciascun essere umano. Capire e ricostruire le situazioni, le storie, le estrazioni culturali e familiari, le dinamiche di relazione di ciascun detenuto per poter decodificare adeguatamente la realtà e prevenire, o almeno ridurre al minimo, i rischi e i pericoli. È un lavoro estremamente dispendioso" aggiunge Arena "che necessita di considerevoli risorse umane, oltre che tecnologiche, sia sotto l’aspetto quantitativo che sotto quello qualitativo." Il "cruccio" di Domenico Arena è appunto il "non avere a disposizione le tante risorse necessarie, a cominciare dai poliziotti penitenziari, e poi educatori, psicologi, assistenti sociali, per non dire delle opportunità di lavoro e delle risorse logistiche esterne al carcere. Un cruccio comune a quello delle organizzazioni sindacali che da troppi anni si battono insieme a noi per spiegare che un carcere che funziona non può essere un contenitore malsano di disagio ma deve costituire il terreno privilegiato di investimento di risorse massicce e mirate in tema di risocializzazione e intelligence, di umanità e sicurezza, di dignità e decoro per tutti coloro che in carcere vivono e lavorano. (…) Sono esigenze reali. (…) L’alternativa è scivolare lungo il piano inclinato della cieca contrapposizione". Bologna: domani il Garante regionale Marighelli al convegno sul lavoro in carcere di Cristian Casali assemblea.emr.it, 19 maggio 2017 L’incontro in Fondazione Aldini Valeriani, in via Bassanelli. "Non banalizzare su mercedi, senza queste mansioni strutture ben più inospitali". "Vogliamo un carcere che non punisca, che sostenga il cambiamento delle persone, che rieduchi e non emargini, che difenda la società e non produca e riproduca la cultura criminale. Per questo dobbiamo investire, più adeguatamente, nella scuola e nella formazione professionale, ma soprattutto nel lavoro come risorsa materiale e formativa da spendere anche all’esterno". È il Garante regionale delle persone private della libertà personale, Marcello Marighelli, a lanciare un monito sul tema del lavoro all’interno degli istituti penitenziari. Marighelli parteciperà al convegno "Il lavoro in carcere. Il carcere al lavoro" in programma sabato prossimo, 20 maggio, organizzato dalla Camera penale di Bologna in collaborazione con l’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali e con la Fondazione Aldini Valeriani. L’incontro si svolgerà a Bologna, a partire dalle 9.30 fino al pomeriggio, nella sede della stessa Fondazione Aldini Valeriani, in via Bassanelli 9/11. Un momento di confronto su tre differenti temi: il lavoro dentro e fuori le mura, il carcere-impresa e il ruolo delle aziende e del volontariato. Il programma è consultabile nella pagina web http://www.ristretti.it/commenti/2017/maggio/pdf5/convegno_bologna2.pdf. L’argomento del lavoro in carcere, ha infine spiegato Marighelli, "è ancora troppo sottaciuto e banalizzato nella misura dei riconoscimenti economici, le cosiddette mercedi. Il tema riguarda tante persone detenute impegnate nei lavori domestici e di manutenzione ordinaria, oltre ad altre mansioni, senza i quali gli istituti di pena sarebbero ben più inospitali e degradati". Pesaro: una luce può filtrare in mezzo alle sbarre grazie a Bracciaperte Onlus di Luca Senesi Corriere Adriatico, 19 maggio 2017 L’associazione si adopera perché la pena dei detenuti possa essere utile e costruttiva. Con lo scopo di organizzare attività filantropiche, raccolta di generi di prima necessità ed attività formative rivolte a soggetti svantaggiati (in particolare minori sottoposti a provvedimenti giudiziari, detenuti ed ex detenuti), è nata nel 2012 l’associazione Bracciaperte Onlus. Suo fondatore è Mario Di Palma un artigiano che, a seguito di una visita in carcere, ha realizzato quanto la formazione ed il lavoro all’interno del carcere siano fondamentali al fine del miglioramento della vita detentiva oltre che al recupero dei detenuti. "Troppo spesso la noia e la carenza di attività all’interno degli istituti, contribuiscono al peggioramento delle condizioni della vita carceraria - dichiara lo stesso pertanto attraverso varie iniziative formative e l’ideazione di laboratori, si può dare la possibilità di espiare la pena in modo utile e costruttivo". Le iniziative dell’associazione vengono infatti svolte prevalentemente all’interno di istituti penitenziari ed ovunque vi siano soggetti svantaggiati. Attraverso corsi di formazione professionale cerchiamo di coinvolgere artigiani ed imprenditori che possano mettere la loro professionalità a disposizione di chi, scontando la pena, apprende un lavoro manuale. Tra i progetti che l’associazione mette in campo ci sono corsi di tecnico elettrodomestici, cucina, pelletteria, segreteria e informatica oltre a raccolta libri e generi di prima necessità. Dal 2012 sono stati formati circa 450 detenuti attraverso i corsi e le iniziative. L’associazione è presente all’interno dei carceri di Pesaro, Montacuto (An), Barcaglione (An), Marino del Tronto (Ap). Nel 2013 l’Associazione ha donato le attrezzature per una parrucchieria professionale presso la Sez femminile del Carcere di Pesaro e nel 2014 ha vinto il premio Vei (volontariato e impresa del Csv) per l’impegno nella realizzazione di progetti che coinvolgono volontariato e imprenditori sul territorio. Ogni anno in collaborazione con la Casa Circondariale di Pesaro e la biblioteca S Giovanni collabora con la realizzazione dell’Arte Sprigionata. Dal 2016 è stato avviato il progetto "oltre il muro" che consiste nel presentare degli incontri all’interno di scuole di secondo grado, utili a portare a conoscenza dei giovani le esperienze umane dei volontari dell’associazione che quotidianamente lavorano a contatto con i detenuti. Il primo di questi incontri si è svolto il lo scorso 1 aprile presso l’aula magna della Nuova Scuola di Pesaro. Giovedì 20 aprile è iniziato il corso "segretaria centro assistenza" presso la Sezione femminile del carcere di Pesaro. Siracusa: dibattito al carcere di Augusta sull’ergastolo ostativo di Antonio Gelardi lacivettapress.it, 19 maggio 2017 Presenti i Radicali, Nessuno tocchi Caino, Comitato prevenzione tortura, docenti di diritto penale. Unico limite: gli ospiti erano quasi tutti abolizionisti. Per un processo di ripensamento dei detenuti sarebbe utile un confronto con chi ha subito il reato. Si è tenuto la settimana scorsa, al carcere di Augusta, un dibattito sull’ergastolo cosiddetto ostativo, quello che non consente un’uscita anticipata a meno che non si collabori con la giustizia e che riguarda gli affiliati alla criminalità organizzata e le persone condannate per gravi reati associativi. La discussione è avvenuta dopo la proiezione del docufilm "Spes contra Spem", incentrato sulle testimonianze sul tema, da parte di detenuti e operatori. Al dibattito, di alto livello, erano presenti la leader radicale Rita Bernardini, che nel giorno in cui La Civetta esce in edicola torna a visitare l’Istituto, il presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino Sergio D’Elia, l’avvocato Zamparutti membro del Cpt (Comitato Prevenzione Tortura), docenti di diritto penale, e, last but not least, trecento detenuti. Di alto livello dicevo, ma con il limite dovuto al fatto che tutti gli intervenuti erano della stessa opinione abolizionista. Lo erano i radicali, D’Elia, ovviamente i detenuti, meno ovviamente i docenti di diritto penale, che dopo aver detto che il carcere è un orrore avrebbero dovuto, ritengo, aggiungere che esiste ovunque e che in tanti paesi, che riteniamo e sono di elevata civiltà, vi si fa maggiore ricorso che in Italia. Non l’ho sottolineato io, perché in questi casi. dopo il saluto iniziale, assumo un basso profilo per dare spazio al dibattito ed anche perché, confesso, in questi casi avverto il rischio di essere scambiato per il difensore di fiducia del carcere. E questo ruolo francamente mi starebbe stretto. Basti dire che ancora oggi, dopo trentatre anni che faccio questo lavoro, quando mi capita di uscire dai reparti detentivi la sera, l’ora brutta, quella dei pensieri tristi per chi è detenuto, io stesso avverto un senso di oppressione. Qualche considerazione per i lettori de La Civetta la voglio però fare, lasciando comunque la questione aperta. Le norme di contrasto alla criminalità organizzata, di cui è parte quella che ha come effetto quanto prodotto dall’ergastolo ostativo, nascono dall’azione sviluppatasi nei primi anni novanta, nel periodo in cui imperversava la Cosa Nostra dei corleonesi; per quanto riguarda in particolare la materia penitenziaria, le norme antimafia attuarono un riequilibrio rispetto alla legge Gozzini, o se vogliamo un ridimensionamento, limitando l’accesso ai benefici quali permesso premio, e semilibertà per i condannati per associazione mafiosa ed altri reati associativi.. Il cosiddetto combinato disposto, oggi, fa sì che i condannati all’ergastolo affiliati alla mafia non possano uscire dal carcere, a meno che non collaborino con la giustizia, salvo che la collaborazione non sia diventata impossibile (ad esempio laddove siano stati arrestati tutti gli altri membri del clan) o sia irrilevante (il pesce piccolo che avendo un ruolo marginale non è messo a parte dei fatti dell’organizzazione ). Nasce quindi in un periodo storico preciso, in un momento in cui lo stato era o sembrava sotto scacco, ed è stata una risposta storicamente collocata. Sottolineo questo perché le misure di cui si parla, ossia i limiti all’accesso ai benefici, e poi il regime penitenziario duro del 41 bis, si collocano al limite estremo della risposta repressiva ma sono state parte di una risposta ritenuta, probabilmente a ragione, necessaria. Questa necessità permane? Il fine pena che potremmo chiamare mai e poi mai, per il quale si è posto un problema di costituzionalità, è certamente una misura spietata, una morte bianca. È accettabile che permanga nel nostro ordinamento? Dicevo che il dibattito svoltosi in carcere non ha visto tutte le voci presenti; mancava quella che negli studi penalistici viene chiamata la necessità di difesa sociale, fortemente avvertita invece nella società, e che porta a una domanda di sicurezza crescente, nonostante tutte le statistiche dicano che i reati sono in calo. All’inizio degli anni ottanta il referendum per l’abolizione della pena dell’ergastolo proposto dai radicali venne respinto con un plebiscito; credo di essere facile profeta ritenendo che oggi avverrebbe la stessa cosa. Eppure l’interrogativo va posto lo stesso in una società che si evolve e che dà ai valori di libertà sempre maggiore rilievo. Mi piacerebbe affrontare nuovamente sul campo l’argomento, e quelli connessi, allargando però la platea degli interventi e mettendo a confronto vittime e rei, detenuti e associazioni antiracket, e associazioni vittime dei reati. Sarebbe un passo verso la mediazione. Il nostro ordinamento infatti prevede che la persona detenuta sia rieducata (io preferisco per la verità il termine risocializzzata) e che attui una revisione del proprio operato. È però difficile, secondo la mia esperienza, che ciò avvenga attraverso un ripensamento interiore. È più facile anzi, che a causa delle storture del sistema penale e penitenziario, la persona che sta in carcere si percepisca come vittima. Trovarsi invece di fronte a persone, in carne ed ossa, che hanno subito il reato potrebbe avviare realmente un vero processo di ripensamento. L’ergastolo ostativo, cos’è. L’ergastolo è previsto dall’art. 22 del codice penale. La pena è perpetua, cioè a vita, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno; quest’ultima restrizione è stata modificata implicitamente dall’art. 6 comma 2 della legge 26 luglio 1975 n. 354, che dispone che "i locali destinati al pernottamento dei detenuti consistono in camere dotate di uno o più posti senza distinguere la pena da eseguire", e dunque che i condannati all’ergastolo possano passare le notti in condizioni di non isolamento. Il condannato all’ergastolo può essere ammesso al lavoro all’aperto. In Italia esistono due tipi di ergastolo: quello normale e quello ostativo. Il primo, normale, concede al condannato la possibilità di usufruire dei benefici previsti dalla legge (ad esempio: assegnazione lavoro all’esterno; permessi premio; misure alternative alla detenzione; affidamento in prova, detenzione domiciliare, ecc.). Il secondo, che è invece un regime di eccezione, nega al detenuto ogni beneficio penitenziario, a meno che non sia un collaboratore di giustizia. Ostativo è uno status particolare di quei detenuti (non necessariamente ergastolani) che si trovano ristretti in carcere a causa di particolari reati classificati efferati dall’ordinamento giuridico italiano: associazione di tipo mafioso (art. 416 bis c.p.), sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.), associazione finalizzata al traffico di droga (art. 74 D.P.R. n. 309/1990), ecc. i quali ostacolano la concessione dei benefici sopraelencati. I detenuti all’ergastolo ostativo (in maggioranza condannati per omicidi legati alla mafia) possono rientrare nel regime normale solo nel caso che essi diventino collaboratori di giustizia (i cosiddetti pentiti). Roma: "L’evasione Possibile"; il carcere, la vita, i diritti VII edizione del Festival di storia lavocedellazio.it, 19 maggio 2017 In collaborazione con: Antigone, Fort Apache Cinema Teatro, Le donne del Muro Alto 26 - 27 - 28 maggio 2017 Nuovo Cinema Palazzo Piazza dei Sanniti 9/A, Roma Giunto alla settima edizione, il Festival di storia - organizzato dal Nuovo Cinema Palazzo in collaborazione con Antigone, Fort Apache Cinema Teatro e Le donne del Muro Alto - si occuperà quest’anno dei diritti dei detenuti. Da venerdì 26 a domenica 28 maggio, la facoltà di Giurisprudenza de "La Sapienza" Università di Roma e gli spazi del Nuovo Cinema Palazzo ospiteranno tre giorni di incontri, proiezioni, spettacoli teatrali, esposizioni e concerti. Tra le molte storie possibili, il Festival si propone di indagare la connessione fra la storia dell’istituzione carceraria e le storie della popolazione reclusa. I caratteri secolari del mondo penitenziario - l’emarginazione e l’impermeabilità verso l’esterno, la violenza tra custodi e custoditi, l’eterna contraddizione tra le finalità dichiarate di recupero sociale e quelle attuate mediante radicate prassi carcerarie difficilmente riformabili - saranno nel corso del Festival esplorate a partire dal filo conduttore dei diritti. Approfondendo tre tematiche cardinali - il diritto all’affettività, le necessità e le richieste della popolazione carceraria femminile e minorile, le legislazioni emergenziali (dalla legge Reale alla Minniti - Orlando) - la costruzione del Festival darà spazio alle voci dei reclusi, dei loro familiari e di chi all’interno delle carceri appronta quegli strumenti terapeutici e pedagogici, il teatro su tutti, che si pongono come potenziale agente di cambiamento. La sfida di queste tre giornate è cercare di portare alla luce, tra le diverse forme di detenzione che coesistono nel carcere contemporaneo, quei modelli che rispettano i diritti fondamentali della persona umana. Rossano (Cs): due detenuti si laureano presso l’Università della Calabria sibarinet.it, 19 maggio 2017 Ieri mattina Giovanni Musone, classe 1964, ergastolano ostativo, di Marcianise (Caserta) e Francesco Pasquale Argentieri, classe 1974, di Mesagne (Brindisi), entrambi detenuti in espiazione di pena nella Casa di Reclusione di Rossano nel Circuito Penitenziario dell’Alta Sicurezza (As3), si sono laureati in Scienze del Servizio Sociale e Sociologia presso l’Aula Caldora dell’Università della Calabria. La Commissione, presieduta dal Prof. Ercole Giap Parini e composta dai Professori Pierluigi Adamo, Antonino Campennì, Franca Garreffa, Donatella Loprieno, Giorgio Marcello, Annalisa Palermiti, Antonio Samà e Giovanna Vingelli, dopo aver ascoltato gli interessati che hanno brevemente illustrato le loro tesi, ha assegnato loro il voto più alto (106/110) tra tutti i numerosi studenti che hanno sostenuto l’esame di laurea. Gli studenti-detenuti, su disposizione del Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Silvana Ferriero, per motivi di sicurezza, sono stati accompagnati dal personale del Reparto di Polizia Penitenziaria di Rossano guidato dall’Ispettore Superiore Domenico Vennari.Musone, il cui Docente tutor era la Prof. Franca Garreffa, ha presentato una tesi in "Sprigionare la genitorialità. Come valorizzare il ruolo educativo del padre detenuto", mentre Argentieri, il cui Docente Tutor era il Prof. Ercole Giap Parini, quella del "La sfera pubblica: il Carcere come progetto sociale". Alla cerimonia di laurea, oltre agli Agenti di Polizia Penitenziaria, ai Funzionari Giuridico Pedagogici, al Cappellano della Casa di Reclusione di Rossano ed ai familiari degli interessati, erano presenti anche Emilio Enzo Quintieri e Valentina Anna Moretti, esponenti dei Radicali Italiani, che hanno regalato ai due neodottori le tradizionali corone di alloro. Era assente, per altri impegni istituzionali, il Direttore dell’Istituto Penitenziario rossanese Giuseppe Carrà. Siamo particolarmente soddisfatti per questo grande risultato, ha detto l’esponente dei Radicali Italiani Quintieri. Martedì prossimo, con una delegazione di studenti del Corso di Diritto Penale dell’Università della Calabria guidati dal Prof. Mario Caterini, faremo visita proprio alla Casa di Reclusione di Rossano, ove attualmente vi sono 11 detenuti iscritti all’Università. Altri 2 detenuti, Francesco Carannante e Gennaro Barnoffi, si sono laureati l’anno scorso presentando il primo un elaborato su "Reclusi insieme. La condizione dei familiari dei detenuti: tra etichettamento e inclusione" ed il secondo su "Una squadra una città: breve storia della Società Sportiva Calcio Napoli". Ci auguriamo, conclude Quintieri, che presto ci siano altri iscritti all’Università della Calabria e che l’Ateneo deliberi l’esenzione delle tasse o la sensibile riduzione delle stesse per i detenuti come avviene in tante altre Università d’Italia. Asti: dai detenuti ai bambini, la musica contro il disagio sociale di Silvia Musso atnews.it, 19 maggio 2017 Un’idea nata all’interno della Casa di Reclusione di Quarto, sviluppata dall’Associazione Aso di Asti, accolta dalla scuola Gramsci e appoggiata dalle istituzioni. Tutto questo è "Aso-Carcere-Scuola. Crescere con la musica", una di quelle realtà che sviluppatasi sottotono, senza clamori, è riuscita in pochi mesi a coinvolgere numerosi attori e affermarsi nel panorama cittadino come iniziativa di prevenzione al disagio sociale. Il progetto è corale e vede coinvolti l’Associazione Asti Sistema Orchestra (Aso), la Casa di Reclusione di Quarto e la Scuola Primaria Gramsci con il Patrocinio dell’Assessorato ai Servizi Sociali del Comune di Asti. L’obiettivo, creare un ponte tra realtà carceraria e quella territoriale; il mezzo, la musica come elemento di riabilitazione e integrazione sociale. L’idea nasce quando Monica Olivero, educatrice a Quarto propone all’Associazione Aso di far costruire degli strumenti musicali, violini in particolare, ai detenuti. "Alcuni detenuti già lo facevano - spiega Olivero - ma al massimo li regalavano ai loro figli o li tenevano per sè. Con Aso siamo riusciti a portarli all’esterno della Casa di Reclusione". A fornire le direttive sul miglior modo per costruire i violini, Antonella Pronesti, presidente Aso: "All’inizio sembrava un’utopia. Ma abbiamo incontrato persone che, come noi, hanno dimostrato passione e volontà e ci siamo riusciti". Tra chi ha creduto nel progetto, oltre alla direttrice della Casa di Reclusione Elena Lombardi Vallauri, l’assessore alle Politiche Sociali Piero Vercelli, Mariangela Cotto e la vicaria del dirigente scolastico Maria Rosa Amich. I violini sono stati costruiti da sei detenuti della Sala Hobby, da novembre 2016 all’inizio di maggio 2017, riutilizzando cassette di legno della frutta e altro materiale, come colla e compensato, donato dall’associazione Effatà. Ora sono utilizzati dagli 88 bambini, dalla prima alla quinta elementare, frequentanti la scuola Gramsci. Cinque le lezioni di musica che si svolgono in orario scolastico (mercoledì dalle 14 alle 16): le prime lezioni hanno avuto luogo il 10 e 17 maggio e si concluderanno il 6 giugno. "Siamo riusciti ad arrivare a questo punto ed è un successo corale - vuole evidenziare Pronesti che spiega - Il Sistema Orchestra nasce in Venezuela. Dal Sud America si diffonde in tutto il mondo. Alla base c’è l’educazione musicale come modo per prevenire il disagio sociale. Se si educa al bello non si può che creare qualcosa di bello". In Venezuela hanno iniziato con questo approccio musicale 46 anni fa con sei bambini. Ora il Sistema Orchestra è presente in 400 scuole. Ad Asti c’è da due anni grazie all’ASO, Asti sistema Orchestra. La sua presidente, Antonella Pronesti, è coadiuvata nel progetto dai collaboratori Nancy Travares, chitarrista argentina, Jonathan Guzman, violoncellista venezuelano e Alessia Porcheddu, esperta di percussioni e grammatica musicale. Quella di ieri, mercoledì 17 maggio, più che una lezione è stata una presentazione di quanto fatto finora. I bambini si sono esibiti nell’Inno alla Gioia, con percussioni realizzate con materiali di riciclo, i violini dei detenuti, violoncelli donati dalla Civica Scuola Liuteria del Comune di Milano e chitarre del Comune di Cortandone. È stata anche l’occasione per porre gli obiettivi futuri. "L’IC3 Asti e Aso intendono proseguire la collaborazione nei prossimi anni scolastici rendendo l’impegno con le classi continuativo a cadenza settimanale - ha commentato Amich, vicaria del dirigente scolastico della scuola Gramsci - L’impegno coinvolgerà, inoltre, le classi in uscite pubbliche anche di accompagnamento ad eventi culturali organizzati da enti e associazioni". "Sarebbe bello poter dare a questa scuola una sua identità musicale. La musica potrebbe diventare la sua peculiarità e il suo fiore all’occhiello" conclude Pronesti. Torino: teatro-carcere, detenuti in scena a metà per diventare un tutt’uno di Michele Sciancalepore Avvenire, 19 maggio 2017 Nel carcere delle Vallette il regista Claudio Montagna guida i suoi speciali attori ispirandosi al Cantico dei Cantici per far loro riscoprire la forza e il senso dell’affettività perduta Detenuti in scena a metà per diventare un tutt’uno. "Se sapevo che c’era il teatro non sarei finito qua dentro". Parola di detenuto. Anzi di due diversi detenuti che a distanza di svariati anni hanno confidato l’importanza cruciale del teatro come deterrente alla chiusura fisica e mentale a una stessa persona: Claudio Montagna, regista che dal 1993 ha a che fare con le pene degli animi, più che con quelle giudiziarie, dei carcerati delle Vallette di Torino (1.400 "ospiti" per 800 posti, tra cui "AS", alta sicurezza, "sex offenders", leggi pedofili, e "isolati"), le maneggia con sapiente premura e le sublima in forma artistica. Fa teatro in carcere, si dovrebbe sintetizzare. A vederlo in azione si direbbe piuttosto che porta folate di vita e libertà in carcere. E lo conferma Becky, nigeriana di 34 anni ma che sembra un adolescente nell’aspetto e nello spirito: "Per me fare teatro è una boccata di ossigeno. Anche se sono dentro, mi fa sentire fuori". Comunque noi sapevamo che c’era il teatro nelle Vallette, ora Casa Circondariale "Lorusso e Cutugno", e lì dentro ci siamo finiti, volontariamente, per alcune ore, sinceramente non tanto attratti da un palcoscenico dietro le sbarre (realtà diffusa e da tempo incentivata, da Rebibbia a Roma al carcere di Opera alle porte di Milano, al carcere di Volterra con la Compagnia della Fortezza) quanto colpiti dalla coraggiosa scelta dell’argomento rappresentato: i sentimenti, l’amore di chi vive in reclusione. Nessuna metafora sull’evasione attraverso il potere immaginifico e catartico dell’arte, nessuna ars dicendi, casomai ars amandi, non intesa però come arte della seduzione ma come indagine artistica su un tema delicatissimo, quasi un tabù, di certo una croce: come vive, o meglio, come non vive l’amore il prigioniero? Quale valore, ruolo, spazio hanno eros e agape nella vita reclusa e penalizzata dei carcerati? Domande tremende che Claudio Montagna pone con asciuttezza e chiarezza coniugandole con gli affascinanti versi del più sublime dei poemi amorosi della Bibbia. Meditazioni sul Cantico dei Cantici è infatti il sottotitolo di questa messinscena che ha invece un titolo per nulla filosofico ma lapidario, laconico e che in due sillabe scaglia una denuncia, Metà, reso ancora più esplicito dalla citazione di un detenuto anonimo: "Da quando non ci sei, a me non resta altro che la metà di me…". L’evento, realizzato da Teatro e Società con il sostegno della Compagnia di San Paolo, offerto a 150 spettatori a sera, ha il carattere della straordinarietà. Nulla di eccezionale nella sua fattura scenica e interpretativa, anzi la valenza amatoriale prevale e i sessanta minuti dello spettacolo scorrono un po’ faticosamente e in modo frammentario fra esternazioni liriche attinte al Cantico o estemporanei spaccati sui sogni e le ansie dei reclusi, azioni acrobatiche e visioni simboliche; il tutto intervallato da sporadici interventi di due studentesse di Giurisprudenza che disputano e danno voce alle paure e ai giudizi della società civile, citano articoli dell’ordinamento penitenziario che regolano i colloqui con i detenuti, rammentano che l’Italia, a differenza di 31 Stati sui 47 del Consiglio d’Europa, non consente le visite affettive all’interno della realtà carceraria. Di singolare c’è che per la prima volta otto donne della sezione femminile calcano il palco a fianco di quattordici detenuti. Un motivo di grande emozione anche per Michele, 43 anni, che dal 1992 entra ed esce dai penitenziari e non nasconde la sua gioia: "È bellissimo! Anche mia moglie è detenuta qui, i nostri sguardi si incrociano, ma al di fuori del teatro e dei colloqui non ci possiamo parlare. Comunichiamo solo disegnando le parole con gli accendini di notte e con le lenzuola di giorno". Di altrettanto unico c’è la decisione di Claudio Montagna di realizzare per la prima volta dopo venticinque anni una rappresentazione esclusivamente ispirata agli affetti coniugali e familiari in carcere: "Mi ci è voluto quasi un quarto di secolo - confessa il regista - per maturare questa scelta; l’argomento scatenava sempre reazioni emotivamente forti e spesso incontrollabili, ma poi ho capito che non potevo più eludere la questione: le relazioni affettive sono un alimento per noi e se non ci si nutre di questo cibo ci si dimezza. Il carcere ti fa perdere l’altra metà e restituisce alla società persone dimezzate". Montagna, che dal 1993, quando le carceri pullulavano di detenuti con l’Aids che avevano una condanna penale superiore alla sentenza del medico, di sofferenze ne ha viste tante "tra suicidi e gente che non vedeva l’ora di uscire e poi tornava perché non trovava più la famiglia o da mangiare" e sa bene di non poter dare risposte col suo spettacolo. Spera piuttosto nel valore della condivisione fra palco e platea e nella possibilità che nelle coscienze dei cittadini liberi faccia breccia l’invito accorato che i suoi detenuti-attori dalla scena lanciano in uno dei momenti più toccanti della serata: "Che la vostra presenza ci dia sollievo e dignità… Fateci riscoprire che siamo una cosa sola: voi e noi". Napoli: una magia nel carcere di Secondigliano; il teatro rianima, riconcilia, recupera linkabile.it, 19 maggio 2017 "Un uomo può cadere molte volte, ma non è mai un insuccesso se decide di rialzarsi. Siamo qui per evitare che una persona entri in carcere perché ha commesso un reato ed esca dopo averne subito lui uno", con questa riflessione il presidente della Mansarda Samuele Ciambriello ha aperto presso il Carcere di Secondigliano la rappresentazione il "Ciclope" di Euripide promossa dall’associazione La Mansarda. Questo testo, ironico e divertente, è stato tradotto in dialetto napoletano ed ha tutti i connotati della farsa. La vicenda è quella nota dell’accecamento del Ciclope da parte di Ulisse. "Essa vuole rappresentare, utilizzando la metafora della cecità del Ciclope, come ciascuno di noi, nel quotidiano, può essere accecato dalla gelosia, dall’invidia, dall’odio, dalla violenza", così Samuele Ciambriello nel motivare la rappresentazione. A seguire, vi è stato un breve sketch, sulla parodia della trama "dell’Otello". Erano presenti alla rappresentazione il direttore del carcere di Secondigliano Liberato Guerriero, la Garante dei detenuti Adriana Tocco, il Consigliere regionale Gianluca Daniele, la magistrata di sorveglianza Margherita Di Giglio l’ex presidente del Tribunale di sorveglianza Carmine Antonio Esposito, gli educatori del carcere ed i responsabili della polizia penitenziaria. Erano altresì presenti i familiari dei detenuti-artisti, che terminata la rappresentazione si sono trattenuti con i propri congiunti. Entrambe le rappresentazioni hanno visto coinvolti undici detenuti del reparto Mediterraneo del carcere di Secondigliano, che con sei volontarie, uno scenografo e il regista Mauro Acanfora da sei mesi si sono preparati a questo evento. Il primo giugno lo spettacolo si replicherà nel teatro centrale del carcere per i detenuti dell’alta sicurezza. Napoli: "Fine Pena Mai", lo spettacolo teatrale itinerante a Palazzo d’Avalos di Procida ilgolfo24.it, 19 maggio 2017 Da giovedì 18 a domenica 21 maggio Palazzo d’Avalos ospiterà l’evento ideato e diretto dal giovane Marco Musto. Le stanze, i corridoi, gli spazi dell’ex Penitenziario procidano si riempiranno di quei personaggi che lo hanno reso "celebre" negli ultimi due secoli. Con due rappresentazioni al giorno, uno al tramonto (alle 19:30) e uno alle 21:30 con ombre e luci artificiali, gli spettatori potranno scegliere il grado di suggestione offerto da una struttura che ha scritto pagine indelebili nella storia di Procida. "Si tratta di un progetto che stiamo provando da 9 mesi" spiega Marco: "Abbiamo iniziato a settembre. Ma prima di scrivere il copione, abbiamo svolto un denso lavoro di documentazione, con interviste a persone che in un modo o nell’altro hanno vissuto il Carcere, come Gigi Bellini, la signora Adriana Balestrieri (moglie di un Agente di Custodia), il dottor Giacomo Retaggio, un ex detenuto. Abbiamo letto il libro del dottore, "L’Isola nell’Isola", il libro di Monsignor Luigi Fasanaro "Chi li Ricorda?" e parte del libro di Franca Assante "La Regina delle Galere", fonti molto attendibili. E poi ho scritto la maggior parte dei testi, che sono tutti inediti e raccontano la vita all’interno di Palazzo d’Avalos quando era il Carcere di Procida. Lo spettacolo sarà ambientato negli anni 70 e mostrerà soprattutto il rapporto tra Agenti di Custodia e detenuti, la quotidianità di un Istituto di Pena, e poi delle storie particolari, come quella del Duca Sigismondo di Castromediano, del detenuto comune Francesco Venosca e di Gigi Bellini. Perché "particolari"? Perché queste tre storie sono ambientate "fuori epoca", nell’ 800 i primi due e alla fine degli anni 40 del 900 la vicenda di Gigi". L’obiettivo, precisa il giovane Musto - il quale non è alla prima prova da regista: nel 2015, infatti, ha diretto e interpretato "Filumena Marturano", il capolavoro di Eduardo De Filippo - è quello di "far rivivere un luogo già di per sé molto bello, ma "spoglio" di quei personaggi che lo rendevano vivo", e quindi creare un ambiente verosimile al periodo in cui il Penitenziario a Procida era ancora attivo. Ma Fine Pena Mai è prima di tutto uno spettacolo teatrale itinerante. "È come se il pubblico facesse una passeggiata nel Carcere e a un certo punto incontrasse i personaggi che lo hanno animato. Ci saranno anche tappe in cui gli spettatori si potranno sedere e assistere alle scene". Il percorso è stato creato ad hoc per poter essere fruito dagli spettatori. Il pubblico visiterà tutto l’intero Palazzo d’Avalos, illuminato per l’occasione e arricchito dalla presenza di figuranti vestiti con gli abiti d’epoca. "Sarà un’esperienza molto evocativa ed emozionante", aggiunge Marco. È stato girato anche un trailer con alcuni dei veri protagonisti della vita all’interno del Carcere e i loro corrispettivi interpreti nello spettacolo. Il trailer ha avuto molto successo online e lo si può trovare cliccando sul link: vimeo.com/213639500. Inoltre, la giovane fotografa Simona Florentino, vincitrice della Prima Edizione del Premio Caracalè 2015, ha realizzato un servizio fotografico intitolato "Carcere in Motion" pubblicato sulla pagina Facebook dedicata allo spettacolo: Fine Pena Mai (facebook.com/finepenamai.procida/posts/1892061617716876), con una dettagliata descrizione. Anche se saranno previste delle date anche nei prossimi mesi di giugno, luglio e agosto, affrettiamoci a prenotare, perché il numero di posti è limitato: massimo 30 persone. Le prenotazioni si possono effettuare contattando il numero 3472135398 (anche via WhatsApp), tramite email, all’indirizzo:finepenamai.procida@gmail.com, o inviando un messaggio in privato alla pagina Facebook. Ultimi, penultimi, terzultimi… il welfare (che manca) e la scala delle fragilità Redattore Sociale, 19 maggio 2017 Nella "scala" dei bisogni troviamo migranti, detenuti, persone anziane, disabili, i "senza identità e speranza". Ma quali risposte (e monitoraggio dei fenomeni) sono possibili senza un riferimento istituzionale? L’analisi di don Albanesi (Comunità di Capodarco): "È scomparso prima il Dipartimento, poi il ministero delle politiche sociali" È sempre difficile stilare la lista di chi, più di altri, ha bisogno di attenzione e di aiuto. Non esistono parametri, né scale di riferimento. Vivendo il mondo dell’assistenza però è possibile farsi un’idea di che cosa sta avvenendo nella nostra storia di welfare. Discorso a parte è il problema della povertà, anche se spesso si intreccia quello dell’assistenza. Di quest’ultimo parliamo. La categoria più a rischio sembra essere l’emigrazione. Problema vasto, complesso e di difficile soluzione. I popoli si sono sempre mossi in cerca di benessere. Ieri erano le terre coltivate, poi il lavoro, oggi la sopravvivenza. Ricordi personali si intrecciano con considerazioni economiche, politiche e sociali. Il nonno emigrò, all’inizio del secolo scorso, in Argentina, come molti italiani allora fecero; i compagni di scuola si sono recati, negli anni ‘60, in Francia, Svizzera, Belgio per fare i muratori e i minatori, molte famiglie del sud Italia salirono al nord per lavorare nelle grande industrie delle auto e della chimica. Ora sono i popoli d’Africa che si muovono, per guerre e per fame. Ma nessuno li ha chiamati, perché l’Europa non ha attualmente sviluppo industriale; le culture che si intrecciano sono molto diverse; gli spostamenti sono soggetti a vere e proprie tratte di esseri umani. Le tensioni sono alte e nessuno ha idea di come "gestire" il fenomeno. I penultimi sono le persone private delle libertà personali e rinchiuse nelle carceri. In tempi di incertezza, chi ha sbagliato, secondo il comune sentire, deve pagare. Il tutto aggravato da frequenti episodi di corruzione che toccano tutti i gangli della convivenza: nel pubblico e nel privato, a opera di singoli e di organizzazioni criminali. Una recente inchiesta tra i giovani ha concluso che un terzo di loro - tra i 17 e i 24 anni - è favorevole, per i reati più gravi, al ripristino della pena di morte. Soprusi, vagabondaggi, furti e violenze non hanno nessuna attenuante. Il concetto delle carceri come occasione di reinserimento è lontano dal comune sentire. Di fronte alle trasgressione della vita sociale, l’unica via d’uscita sembra essere la fermezza della galera. Sono lontani i tempi in cui si ragionava sulle cause e le risposte educative al disagio sociale. I terzultimi della scala del bisogno sono i fragili: persone anziane, disabili, i senza identità e speranza. È un gruppo ampio. La scienza fortunatamente ha allungato la vita:, ma non sempre riesce a guarire, garantendo solo una vita minorata. Malattie croniche, fragilità diffuse investono milioni di persone. Novecentomila cittadini in Italia portano effetti invalidanti a seguito dell’ictus. Ogni anno 120 mila sono colpiti dalla stessa malattia. La patologie neurologiche (Parkinson, Alzheimer, distrofie, Sla) sono in espansione, con la necessità di una assistenza personale e continua. In Italia è scomparso prima il Dipartimento, poi il Ministero delle politiche sociali. Un riferimento istituzionale è invece necessario contro il rischio dell’abbandono e dell’affidamento del carico assistenziale alle sole famiglie, molte delle quali versano in condizioni difficili. Senza attenzione non è possibile nemmeno monitorare i problemi, programmare, reperire risorse, alleggerire i pesi. Il primo passo per affrontare il serio problema del futuro gracile è dunque ripristinare il riferimento istituzionale e adeguare il sistema assistenziale. Una macchina legge il cervello Tremano i criminali (e i bugiardi) di Azzurra Noemi Barbuto Libero, 19 maggio 2017 Usata dall’Fbi e riconosciuta dalla Corte di giustizia americana, adesso è arrivata in Italia. E può diventare un importante strumento di prevenzione. Cosa accadrebbe se da oggi nessuno di noi potesse più mentire senza essere scoperto? Probabilmente la nostra vita privata ne risentirebbe alquanto, ma la società potrebbe funzionare meglio: in carcere ci sarebbero solo i colpevoli, molti casi di omicidio verrebbero risolti e così le truffe e al potere ci sarebbero solo persone oneste, impegnate nel perseguire davvero il bene pubblico e non l’interesse personale. Tutto questo potrebbe diventare realtà grazie a un’invenzione che appare quasi fantascientifica, proveniente dagli Stati Uniti. Si tratta della brainwave science, una macchina che legge il cervello, inventata da un gruppo di ricercatori americani e indiani, distribuita in Italia dalla società italo-americana Esim Global. La macchina, della quale si dice che raccolga prove attendibili al 99,9%, è riconosciuta negli Usa dalla Suprema Corte di giustizia federale ed è già utilizzata da numerose agenzie federali, tra cui l’Fbi, per l’acquisizione di prove certe attraverso la lettura di onde cerebrali, le quali non possono essere influenzate dalla volontà e dalle emozioni del soggetto interrogato. La brainwave è stata oggetto di sperimentazione da parte degli americani e da pochi mesi è disponibile per i governi e le istituzioni che intendano servirsene nella lotta contro il terrorismo o nell’attività anticrimine, magari per risolvere una volta per tutte i cosiddetti "cold case", ossia quei delitti che da sempre costituiscono un enigma. "Si tratta di una risorsa importante per l’intelligence qualora venisse impiegata anche nell’ambito della lotta al terrorismo", sottolinea Gianluca Sciorilli, presidente di Esim Global, che ci spiega il funzionamento della macchina capace di leggerci nel pensiero. Il meccanismo è molto semplice: sullo schermo scorrono immagini di vario tipo, alcune comuni, altre inerenti a ciò che si intende scoprire. "Il cervello non si può condizionare. La macchina rileva la frequenza delle onde cerebrali e le traduce in curve voltaiche che rivelano l’eventuale coinvolgimento del soggetto nelle organizzazioni terroristiche o la sua partecipazione ad azioni di tipo criminale", aggiunge Sciorilli, che ritiene che sarebbe opportuno utilizzare la macchina nel carcere di Sassari, dove sono detenuti 22 terroristi islamici ad altissimo profilo criminale, al fine di tracciarne i collegamenti con le reti jihadiste presenti in Italia. La brainwave potrebbe risolvere anche i casi di malagiustizia. A questo proposito, Sciorilli ci racconta la storia di un uomo dell’Iowa, che dopo 33 anni di galera con una condanna all’ergastolo, è stato sottoposto all’esame della macchina risultando innocente. Per questo l’uomo è stato risarcito con alcuni milioni di dollari per ingiusta detenzione. La macchina che legge il pensiero non viola nessun diritto umano, non ha nessun effetto sulla salute e non è invasiva in alcun modo. A differenza del poligrafo, ossia la celebre "macchia della verità", che misura e registra diverse caratteristiche fisiologiche di un individuo, quali pressione del sangue, polso arterioso, respirazione, mentre il soggetto risponde ad una serie di domande, la brainwave non prevede che al soggetto che viene sottoposto all’esame vengano posti quesiti. Inoltre, il test del poligrafo ci ha già mostrato i suoi limiti. "Barare alla macchina brainwabe sarebbe impossibile. Possiamo controllare la respirazione, persino il battito cardiaco con un minimo di allenamento, ma il cervello è un organo incontrollabile. I due ceceni che hanno eseguito l’attentato in occasione della maratona di Boston del 15 aprile del 2013, interrogati due anni prima mediante l’utilizzo della macchina della verità erano risultati scollegati alle reti terroristiche, sebbene fossero già impegnati nella preparazione di quell’azione micidiale", spiega Sciorilli. Chissà allora se, qualora i due terroristi fossero stati sottoposti all’esame della brainwave science, quell’attentato, che causò 3 morti e 264 feriti, si sarebbe potuto evitare! Questa straordinaria macchina, leggera e pratica, costituisce "l’innovazione del futuro nel contrasto e nella prevenzione del terrorismo islamico e nell’accertamento della verità in generale", secondo il presidente di Esim Global. Nell’epoca dei social network, delle bacheche aperte, degli iphone, delle intercettazioni e delle videocamere piazzate ovunque, avevamo tutti un’unica certezza: che nessuno potesse leggere quantomeno il nostro cervello, i nostri più intimi pensieri. Adesso la nostra privacy rischia di essere del tutto annullata. Ma speriamo almeno che questa invenzione possa aiutarci a debellare il crimine. Sicuramente non sono pochi gli uomini e le donne che vorrebbero la brainwave in casa propria, per sottoporre il partner a costanti verifiche sulla sua effettiva sincerità. E forse, in questo caso, potrebbe andare in tilt. Ovviamente, la macchina. Non il cervello. Migranti. Pressing sui Paesi africani per bloccare la rotta del Sud di Grazia Longo La Stampa, 19 maggio 2017 Domani vertice con i ministri di Libia, Ciad e Niger: "Ma l’Ue faccia la sua parte". Minniti firma l’accordo con 80 sindaci del Milanese: "È un modello da esportare". Un vertice con i ministri dell’interno di Libia, Ciad e Niger per gestire il monitoraggio dei confini meridionali libici, porta d’ingresso del 90 per cento dei migranti. Domani il titolare del Viminale incontrerà a Roma i suoi tre omologhi africani per stoppare la rotta del Sud e affrontare l’emergenza dal suo punto d’origine La frontiera a Sud della Libia, appunto. È triplice il raggio d’azione voluto dal ministro Marco Minniti contro il traffico di esseri umani. Prima ancora dell’accoglienza nelle nostre città - oggetto ieri della firma del protocollo con i sindaci lombardi, prima ancora del controllo delle partenze dalle coste della Libia, c’è proprio l’allarme lungo i 5 mila chilometri al confine con Ciad e Nigeria. Mentre la guardia costiera libica, entro fine mese, avrà a disposizione tutte e dieci le motovedette ristrutturate dal nostro Paese e mentre il protocollo sulle nuove strategie per l’accoglienza firmato ieri da 76 sindaci dell’hinterland milanese viene definito ritenuto da Minniti "un modello per l’Italia e per l’Europa", il suo impegno è focalizzato dove tutto ha inizio. "Oltre alla collaborazione con la Libia è fondamentale l’interazione con Ciad e Nigeria - osserva -. Oltre il 90 per cento dei flussi migratori arriva dalla Libia, ma nessuno di loro è cittadino libico, provengono prevalentemente dall’area subsahariana. Sorvegliare le frontiere libiche meridionali è quindi quanto mai prezioso". L’attenzione si concentrerà su Ghat, Sabham, Murzuq, al-Jufrah, città del Fezzan che è la regione meridionale della Libia al confine con Niger e Ciad. La strada per raggiungere questo obiettivo era già stata tracciata quaranta giorni fa, quando il ministro si fece garante, per il governo, di un accordo delle tribù della Libia meridionale. Non prima di aver ricevuto a Roma singolarmente, i capi tribù Tebu, Suleiman e Tuareg, per ascoltare le ragioni di ciascuno e fare il punto sulle carovane di migranti che oltrepassano le frontiere di Ciad e Nigeria e attraversano il Fezzan. Il nostro Paese aveva offerto la disponibilità di un aiuto con droni, immagini satellitari e fondi. Ma è evidente che condizione imprescindibile è l’intesa con i Paesi coinvolti. "Il confronto al Viminale con i colleghi di Libia, Ciad e Nigeria è un importante passo in avanti - ribadisce Minniti. Ma anche l’Europa deve fare la sua parte". Non a caso la scorsa settimana insieme al ministro dell’interno tedesco Thomas De Maiziere ha spedito una lettera a Bruxelles per sollecitare una "missione europea al confine tra Libia, Ciad e Niger il più in fretta possibile". Il vertice di domani al Viminale è un altro tassello del puzzle dell’emergenza. Finora si è registrato il 34,9% di arrivi in più, in Italia, rispetto al 2016, che alla fine è risultato l’anno record con 181 mila stranieri giunti via mare. E non si trascura il fronte accoglienza con le nuove modalità, che prevedono la distribuzione di tre profughi ogni mille abitanti. Nel protocollo milanese sono più di 80 i sindaci che hanno dato disponibilità alla firma su 134 Comuni che fanno parte dell’area metropolitana. Un protocollo che per il ministro dell’Interno è "un esempio da esportare e che può servire a superare i centri d’accoglienza". Intanto sono 2.300 i migranti soccorsi ieri nel Mediterraneo in 22 operazioni coordinate dalla Guardia costiera. Migranti. Per la prima volta l’Italia ha un programma completo di Mario Giro* Il Manifesto, 19 maggio 2017 Non occorre cercare lontano: il populismo è nato quando i partiti si sono messi ad inseguire la "politica delle emozioni". Sappiamo che c’è una differenza tra realtà e percezione della stessa: una conduzione ragionevole degli affari pubblici dovrebbe indirizzare sempre verso l’oggettività delle cose e non accodarsi agli allarmismi. Purtroppo negli ultimi 20 anni è sempre di più accaduto l’inverso. Tanti parlano di "valori" e di "fatti" ma poi inseguono il vento delle emozioni pubbliche. Se ripartiamo dai valori e dai fatti, la polemica sulle Ong del "Search and Rescue" appare un polverone in cui tutto si confonde. Il valore da cui ripartire è quello della vita: salvare vite umane è imprescindibile. Chi critica le operazioni di SaR (da quelle di Mare Nostrum alle attuali) viene meno a tale valore fondante della democrazia. Se facciamo eccezioni a questo principio, mettiamo in pericolo la democrazia stessa e i suoi fondamenti, perché non ci possono essere eccezioni sulla vita umana, né differenziazioni. Una vita è una vita. I fatti poi sono chiari da tempo: i flussi rispondono a "push factors" (guerre, carestie, ricerca di miglior futuro, land grabbing, crisi ecologiche, etc.), rispetto ai quali non c’è "pull factor" che tenga. Le migrazioni sono tuttavia divenute un business per trafficanti senza scrupoli. Siamo dunque in ostaggio morale di costoro e, come nel caso della schiavitù, non abbiamo scelta se non salvare vite. Voltarsi dall’altra parte sarebbe disattendere i fondamenti del nostro convivere e della nostra stessa Costituzione. Occorre quindi attrezzarsi per accogliere al meglio e per integrare (su questo manca ancora molto). Laddove possiamo intervenire incisivamente è a monte: in Africa ed in Europa. Si trattengono i potenziali migranti solo a terra, non in mare e nemmeno in Libia, che è ancora un inferno. Gli accordi che il governo sta negoziando coi paesi di origine e transito servono a questo. La cooperazione allo sviluppo si impegna nei rimpatri volontari assistiti e su progetti che creino lavoro. L’"External Investment Plan" (migration compact) ci darà la potenza di fuoco necessaria per investire coi privati e ora sta nascendo al Parlamento Europeo. La trattativa sulla "redistribuzione" interna europea dei migranti continua. È la prima volta che l’Italia mette in opera un programma completo, non limitandoci a gridare o inseguire umori, manipolando la paura a fini elettorali. Com’è facile capire, tutto ciò è difficile e lento. Ci vorrà tempo. Si deve anche sapere che l’apparente "egoismo" dei partner europei sulla distribuzione ha le sue ragioni: l’Italia non è il primo paese per numero di rifugiati o immigrati. Più grave per i nostri partner è che, almeno fino al 2011, l’Italia ha chiuso gli occhi sugli arrivi, che "scivolavano" per la gran parte verso nord, senza controlli. Fornimmo addirittura carte di identità valide 15 giorni per favorire la partenza di 65.000 tunisini verso la Francia: gli altri non dimenticano. Ugualmente si deve sapere che la contrarietà degli Stati africani sui rimpatri forzati ha anch’essa dei motivi: per motivi di bilancio noi non accettiamo - se non rarissimamente - le loro richieste sulla trasferibilità delle pensioni (per chi ha lavorato regolarmente qui per anni), né sulle doppie imposizioni: è la prima cosa che ci chiedono. Infine sull’"aiutiamoli a casa loro" va tenuto conto che le rimesse dei migranti sono oltre il doppio dei denari dati in aiuto allo sviluppo. Se vogliamo affrontare con successo la gestione comune dei flussi dobbiamo almeno conoscere tutto ciò che è in gioco. Serve dunque sulle migrazioni una politica a largo spettro, se possibile bipartisan, per non incorrere nelle solite contorsioni polemiche preelettorali, inefficaci quanto indegne di una democrazia avanzata e di un paese civile. *Viceministro degli esteri e della cooperazione Migranti. Milano, c’è spazio per tutti nella marcia per l’accoglienza di Luca Fazio Il Manifesto, 19 maggio 2017 Domani Milano sarà attraversata da migliaia di persone che chiedono (anche al governo) politiche diverse per l’immigrazione. Dopo una lunga trattativa si è arrivati ad un accordo per la composizione del corteo che prevede la presenza, non ai margini, anche dello spezzone "Nessuna persona è illegale". Ieri, intanto, il ministro degli Interni Marco Minniti ha firmato un protocollo in Prefettura che impegna 76 sindaci dell’area milanese ad accogliere i profughi sul territorio. Settantasei sindaci dell’area metropolitana milanese (su 134) hanno detto sì. Sono disponibili ad accogliere sul territorio gruppi di migranti per un’accoglienza "equilibrata, sostenibile e diffusa" - come dice il ministro degli Interni Marco Minniti. Il protocollo è stato sottoscritto ieri in Prefettura, alla presenza del sindaco di Milano, ed è una mossa che va nella direzione giusta a poche ore dalla manifestazione "per l’accoglienza" che domani riempirà le strade della città. Il protocollo impegna i sindaci ad accogliere entro il 2017 un numero di richiedenti asilo secondo una ripartizione stabilita in base al numero dei cittadini residenti. Si tratta di tre profughi ogni mille abitanti per un totale di circa cinquemila persone da suddividere tra i Comuni. "È un protocollo - ha detto Minniti - che può rappresentare un modello per l’Italia e l’Europa e può servire a superare i centri di accoglienza". Il sindaco Beppe Sala, che sarà un protagonista della marcia per l’accoglienza di domani, non essendo condizionato più di tanto dalle inadeguatezze del Pd locale e nazionale, non ha perso l’occasione per dispensare buon senso: "Uno che fa il sindaco non può far finta che le cose magicamente si risolvano e girarsi dall’altra parte, non è giusto che ci sia qualcuno che deve fare anche la parte degli altri, perché questo dell’immigrazione è un tema che sarà dominante anche per le prossime decadi". Nel frattempo la complicata macchina organizzativa della giornata "Insieme senza muri" (appuntamento domani alle 14 in Porta Venezia) ha raggiunto un accordo di massima sulla composizione della piazza. Non è una questione di lana caprina, è il frutto di una lunga trattativa per dare dignità e visibilità politica anche allo spezzone che intende coniugare il generico concetto di "accoglienza" con una decisa critica della legge Minniti-Orlando (associazioni e centri sociali che aderiscono alla piattaforma "Nessuna persona è illegale"). Il loro striscione sarà nelle prime file, appena dopo quello ufficiale - "Insieme senza muri" - e quello di Radio Popolare, che di fatto si è incaricata di trainare un evento concepito con alcune ambiguità che hanno provocato le tradizionali risse a sinistra. A seguire, sfileranno i migranti, gli amministratori locali, le bande musicali, poi sindacati, Acli, Emergency, Casa della Carità, Legambiente, Arci, lo spezzone "più radicale" con i centri sociali, le associazioni e in fondo i politici. L’ex sindaco Pisapia, esponenti di Mdp, Emma Bonino, Giusi Nicolini, Carlo Petrini, il presidente del Senato Pietro Grasso e (forse) il ministro Maurizio Martina, anche se una rappresentanza governativa potrebbe agitare gli animi. Poi, in piazza del Cannone, musica dal basso e dj set (il Comune non ha sborsato un euro). Si attendono più di diecimila persone. Anche se da una manifestazione nazionale preparata pensando a Barcellona, con più di 500 adesioni e tutta la sinistra più o meno organizzata in piazza, sarebbe lecito aspettarsi qualcosa di più. Comunque vada, sarà un successo. Migranti. Insieme a Milano, perché nessuno è illegale di Nicola Fratoianni Il Manifesto, 19 maggio 2017 Appello per la manifestazione del 20 maggio. È sempre più urgente proporre un punto di vista diverso rispetto al tema dell’accoglienza in Europa. Di fronte ai muri, al veleno della xenofobia e del razzismo iniettato dagli imprenditori della paura nelle vene della società, di fronte alla sordità di gran parte delle istituzioni, bisogna reagire. Per questo la manifestazione di Milano può e deve essere un punto di snodo importante, come lo è stata quella di Barcellona, per questo saremo in piazza. Marciare per l’accoglienza significa, oggi più che mai, marciare per la vita e per la dignità umana. Non sfuggirà a nessuno, credo, che la condizione dei migranti, oggi più di ieri, è strettamente connessa a quella dei più deboli e dei più poveri che abitano le nostre città, le nostre periferie. È sulla pelle dei più deboli, di qualunque colore sia, che si sta giocando una partita terribile, e che abbiamo il dovere di contrastare se vogliamo anche solo provare a disegnare un mondo diverso. L’Europa si presenta sempre più come una fortezza, intenta a proteggere i propri confini. Lo fa con Frontex e lo fa con il vergognoso accordo con la Turchia di Erdogan a cui cerca di appaltare controllo e repressione. Oggi l’Italia riproduce lo stesso modello di esternalizzazione firmando accordi con pezzi di governo e tribù libiche. In Italia anni di legislazione fondata sulla cultura del respingimento hanno costruito il terreno su cui sono cresciuti razzismo e intolleranza. L’attacco vergognoso alle Ong che salvano migliaia di vite in mare in uno straordinario sforzo di supplenza rispetto all’assenza di chi, Europa in testa, dovrebbe garantire canali umanitari sicuri ne è una testimonianza evidente. La Bossi-Fini ha messo un muro sui nostri confini e ha reso il Mediterraneo un cimitero. Il sistema di accoglienza è inceppato e farraginoso, basato più sulla discrezionalità di governo e prefetture, che su una piena consapevolezza e coinvolgimento delle comunità locali. Ma soprattutto resta legato ad una logica emergenziale. Che si riproduce e produce opacità, in un circolo vizioso che non si spezza mai, con le politiche di contrasto alla povertà e alle disuguaglianze ridotte a nulla. Insieme per ribadire che nessuna persona è illegale. Bisogna chiudere con la stagione in cui scambiamo i sintomi della malattia con la sua cura: se anche per chi ha le sue radici politiche nella sinistra il tema della povertà viene affrontato con le armi del decoro, della presunta sicurezza, dei super poteri ai sindaci come previsto dai pessimi decreti Minniti-Orlando mi pare abbastanza evidente che continueranno a crescere i muri. E con loro continueranno a crescere la paura, il razzismo e la violenza. Abbiamo bisogno dell’esatto contrario. Facciamolo. Egitto. Il governo dica cosa farà su Regeni di Antonio Marchesi* La Stampa, 19 maggio 2017 Circola da tempo la tesi secondo cui potrebbe servire allo scopo di ottenere verità e giustizia nel caso di Giulio Regeni una ripresa piena delle relazioni diplomatiche con il Cairo. La tesi è legittima ma nessuno ha ancora fornito un’analisi convincente del perché e del come il rientro in Egitto del nostro ambasciatore possa favorire la "soluzione" del caso. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa il governo e su quali elementi si fonderebbe, eventualmente, la valutazione alla base di un radicale mutamento di atteggiamento. Se dal punto di vista dei diritti umani la sorte di Giulio Regeni non si distingue da quella che purtroppo subiscono molti cittadini egiziani ad opera delle autorità del proprio Paese, la dimensione transnazionale del caso lo rende rilevante anche per il diritto internazionale classico, che regola i rapporti fra Stati, perché fa entrare in gioco lo Stato nazionale della vittima, l’Italia, in quanto soggetto leso a sua volta dal comportamento egiziano. L’ordinamento internazionale prevede diverse possibili "contromisure" al fine di spingere lo Stato autore di un illecito a fornire una riparazione (in questo caso ad accertare i fatti e punire i responsabili). Il governo italiano ha scelto di concentrarsi sul richiamo dell’ambasciatore, che però non ha dato il risultato sperato. Ci si sarebbe aspettati, allora, che fossero prese in considerazione altre misure. Lo stesso Paolo Gentiloni aveva parlato di misure "progressive". Invece, si è ipotizzato un passo indietro, la rinuncia alla sola misura concreta di reazione all’illecito subìto - da Giulio, dalla sua famiglia e dal nostro Paese. Come fare un passo indietro invece di un passo avanti possa contribuire a ottenere "verità per Giulio" rimane da chiarire. Gli unici segnali concreti che conosciamo, quelli che sono venuti dal Cairo quando questa ipotesi è stata avanzata, sono di segno contrario. Il probabile ritorno dell’ambasciatore veniva presentato come un successo della diplomazia egiziana, che sarebbe riuscita a calmare la tempesta, a ripristinare le condizioni preesistenti a prescindere da qualsivoglia passo avanti verso la soluzione del caso Regeni, presentato come una fastidiosa pietra d’inciampo gettata lì per creare difficoltà alle buone relazioni fra i due Paesi. Si discuta pure, dunque, del ritorno dell’ambasciatore al Cairo. Ma l’onere di provare che la rinuncia all’unico mezzo che abbiamo di pressione sulle autorità egiziane sia utile a ottenere quella "verità per Giulio" che è dovuta in base al diritto internazionale, è compito di chi si assume la responsabilità di quella scelta. Altrimenti rimane il dubbio, anch’esso legittimo, che si tratti di una spiegazione di comodo, volta a nobilitare una scelta che risponde a interessi diversi, di fronte ai quali l’obiettivo di ottenere una riparazione per la grave violazione subìta al tempo stesso dalla vittima, dalla sua famiglia e dal nostro Paese, viene semplicemente messo da parte. *Presidente di Amnesty International Italia