Giustizia, se ci sei batti un colpo. Lo stato comatoso delle carceri, emergenza continua di Valter Vecellio L’Indro, 18 maggio 2017 La nota su carcere e giustizia di questa settimana comincia con un ricordo di Alberto La Volpe, il mio primo direttore di quando, nel lontano 1992 misi per la prima volta piede al Tg2; se penso ad Alberto, il primo pensiero, la prima definizione, è "galantuomo". Poi lo associo al programma che forse ha più amato, e a cui ho avuto l’onore di collaborare: ‘Lezioni di mafia’, un ciclo di inchieste e reportage ideato con Giovanni Falcone. Falcone avrebbe dovuto essere l’insegnante, che di ‘lezioni’, nel senso letterale, si trattava; ‘lezioni’ sulle varie tipologie del grande crimine organizzato, in Italia e nel mondo. Purtroppo Cosa Nostra, alla vigilia della prima puntata, ci priva del ‘maestro’: Falcone viene ucciso con la moglie e la scorta vicino a Capaci. La Volpe vuole ugualmente fare la trasmissione, in onore del suo amico: quel magistrato che il mondo ci invidia, e che in Italia tanti detestano: non solo Totò Riina e la sua banda di mafiosi tagliagole. Anche dentro le ‘istituzioni’. Tanti lo ‘chiacchierano’, Falcone; per potergli poi rimproverare di essere ‘chiacchierato’. ‘Lezioni di mafia’ ancora oggi dimostra quello che può e che deve essere il servizio pubblico. Grazie ad Alberto ho imparato come si deve e si può coniugare rigore senza smarrire umanità e senso della misura. Pochissime volte l’ho visto rabbuiato: quando si mostrava il morto non coperto da lenzuolo o almeno da giornali. Per lui era un comandamento: chiunque fosse il ‘caduto’, andava rispettato il suo corpo; e rispettati gli utenti, che non dovevano subire scene raccapriccianti e violente. Non gli piaceva la televisione del dolore, chiedeva un’informazione corretta ed onesta; ha insegnato che si ha diritto alle proprie opinioni, che però si devono inchinare alla verità dei fatti e non alle convenienze del potente di turno. Un’infinità di volte ci siamo sentiti ripetere: ‘Un fatto è un fatto; e questo è un fatto’. Ricetta semplice, comprende tutto. L’ho detto: è stato un grande direttore galantuomo. Ora, un tema che ad Alberto era caro, e che sembra essere sparito dall’agenda politica di questo Paese: quello della Giustizia, del carcere. Non ne parla il Governo; tacciono i partiti di maggioranza; silenzio da parte dell’opposizione. Anche per questo è opportuno continuare a insistere. Si può cominciare da Roma, carcere di Regina Coeli. Nel mese di febbraio un ragazzo di 22 anni viene ritrovato chiuso nel bagno, impiccato con un lenzuolo. È già evaso tre volte dalla Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria di Ceccano; è finito poi in carcere, lì si è tolto la vita. Una delle mille storie di emarginazione e solitudine nelle carceri italiane. Storie ignote e ignorate. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria fornisce eloquenti statistiche, tutte in netta crescita: al 30 aprile risulta la presenza di 56.436 detenuti, circa 4 mila unità in più rispetto all’anno precedente. Un dato allarmante soprattutto perché rischia di sfociare in un nuovo stato di sovraffollamento, dando vita ad una nuova emergenza. Vediamo i dati che riguardano i suicidi all’interno delle strutture. A febbraio, all’indomani del suicidio del 22enne a Regina Coeli, il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria denuncia la crescente tensione nelle carceri del Paese. "Tre suicidi in quattro giorni tra le sbarre di tre penitenziari italiani evidenzia come permangano e si aggravano i problemi sociali e umani" spiega Donato Capece, segretario generale. "Il dato oggettivo è che la situazione nelle carceri resta allarmante". A fine febbraio erano già una decina i suicidi avvenuti all’interno delle celle. Numeri preoccupanti se si pensa che nel corso dell’anno precedente si sono tolte la vita 45 persone su 115 morti totali. A distanza di tre mesi i numeri continuano ad aumentare: sono 18 i suicidi registrati al 5 maggio su 37 morti. I dati sono quelli diffusi dal dossier "Morire in Carcere" di Ristretti Orizzonti che dal 2000 si occupa di raccogliere i dati relativi alla mortalità nelle carceri su tutto il territorio nazionale. "Uno strumento utile - viene spiegato nel dossier - per far conoscere all’opinione pubblica le reali condizioni del carcere, a cominciar dallo stato di difficoltà e, a volte, di abbandono in cui si trova la sanità penitenziaria". Dal 2000 ad oggi su 2.658 morti i suicidi sono stati 951, ma il numero potrebbe essere superiore. Tra gli ultimi casi registrati quelli di due detenuti nel carcere di Monza che si sono tolti la vita a distanza di poche ore, il primo impiccandosi l’altro inalando gas dal fornelletto in dotazione. Al 41-bis a 90 anni suonati, si chiama crudeltà di Stato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 maggio 2017 Rita Bernardini denuncia la follia del carcere di Parma. uno dei detenuti in regime di 41-bis è Francesco Barbaro, 90 anni compiuti il 13 maggio scorso. Secondo la Radicale Rita Bernardini dalla cartella clinica penitenziaria, sono emersi dei deficit cognitivi, disturbi della memoria e altre patologie legate alla sua età avanzata. Nel carcere di Parma ci sono almeno tre detenuti novantenni reclusi al 41 bis (cioè nel regime di carcere duro), tra i quali uno che presenta i sintomi dell’Alzheimer. L’istituto di Parma è un carcere di alta sicurezza noto per aver ospitato negli ultimi anni detenuti al 41 bis come Bernardo Provenzano (deceduto nel luglio dello scorso anno), Raffaele Cutolo (il fondatore della Nuova Camorra Organizzata), Totò Riina (che ha raggiunto la soglia degli 86 anni) e Massimo Carminati che è in attesa di giudizio. Poco noto il fatto che al 41 bis ci sono numerosi detenuti ultra ottantenni, tra i quali Francesco Barbaro - 90 anni compiuti il 13 maggio scorso - che presenta patologie cliniche incompatibili con la carcerazione speciale. A rivelarlo è Rita Bernardini, coordinatrice della presidenza del Partito Radicale. Dalla cartella clinica penitenziaria, sempre secondo l’esponente radicale, è emerso che Barbaro presenta dei deficit cognitivi, disturbi della memoria e altre patologie legate alla sua età avanzata. Al momento risulta che non ci sono criticità tali da ricoverarlo d’urgenza, ma potrebbe da un momento all’altro peggiorare. Infatti gli stessi sanitari dell’istituto penitenziario avrebbero espresso il parere favorevole per un suo trasferimento. Eppure, nonostante ciò, persiste la carcerazione speciale al 41 bis in quanto è considerato ancora un soggetto pericoloso e in grado di mantenere rapporti con la criminalità organizzata. Francesco Barbaro, detto U castano, appartenente alla ‘ndrangheta, era conosciuto negli anni 80 come il re dei sequestri. Fu arrestato il 5 gennaio del 1989 e detenuto fino al 5 febbraio del 2013. Dopodiché, all’età di 88 anni, accusato di essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio del brigadiere dei carabinieri Antonino Marino, ucciso a Bovalino il 9 settembre del 1990, viene arrestato a settembre del 2015 e condannato all’ergastolo. Avendo avuto un passato di ‘ndranghetista, l’ergastolo lo sta scontando tuttora nel regime del 41-bis. La sezione speciale del 41 bis del carcere di Parma, più che a un carcere assomiglia sempre di più a un ospizio per anziani con problemi di salute e acciacchi dovuti dall’età. L’età media continua ad alzarsi. A confermarlo è il garante locale dei detenuti Roberto Cavalieri. Raggiunto da Il Dubbio, spiega che attualmente alla sezione del 41-bis vi sono reclusi 65 detenuti, con l’età media che raggiunge quasi i 65 anni. Alcuni sono giovani, ma la media si alza a causa dell’invecchiamento dei detenuti. A questo va aggiunto il discorso sanitario. Sì, perché oltre ai tre novantenni, ci sono anche diversi ultra 80enni che necessitano di cure. Infatti, appena si liberano i pochi posti della sezione terapeutica alla quale l’amministrazione penitenziaria assegna i detenuti per il trattamento di patologie in fase acuta o cronica in fase di scompenso, subito vengono rimpiazzati da coloro che stanno male. A tal proposito il garante Cavalieri spiega che tale reparto - adibito per un massimo di 30 posti - è diventato un punto di riferimento anche per gli altri penitenziari: inviano i loro detenuti (anche comuni) malati che, una volta superata la fase diagnostica, rimangono nel carcere. Cavalieri, riferendosi al reparto sanitario, parla di un vero e proprio "parcheggio". Ma non solo. Il garante denuncia che nell’ospedale parmense c’è il "repartino" adibito per i detenuti che necessitano di cure urgenti. Non a caso viene definito con un diminutivo: è composto solo da tre stanze e attualmente vi sono ricoverati tre detenuti del 41 bis. Pluri-ottantenni anche loro. Una assistenza sanitaria così carente che va a sommarsi alle patologie legate sia alla vecchiaia che alla salute precaria dei detenuti reclusi nell’istituto penitenziario. Il garante Cavalieri spiega che il carcere di Parma è una casa di reclusione che al suo interno è suddivisa in quattro strutture: una per i detenuti in alta sicurezza (AS3), un’altra per i detenuti comuni di media sicurezza, un’altra ancora per l’alta sicurezza per gli ex 41 bis (AS1) e infine il 41 bis. In totale risultano 610 detenuti, il 10% dei detenuti ha più di 65 anni e - secondo una stima del garante - tra 10 anni raddoppieranno. Il 17% hanno 5 o più diagnosi croniche: patologie respiratorie, delle arterie, cerebrovascolari, delle basse vie respiratorie e quelle osteoarticolari registrano valori di prevalenza più che doppi per il servizio. Una vera e propria bomba sanitaria che produce disagio e ostruisce i percorsi di riabilitazione prevista dalla nostra costituzione. Un problema che porta al disagio psichico fino a concludersi anche con il suicidio. Come già denunciato dal garante Cavalieri, l’ultimo suicidio avvenuto al carcere di Parma riguarda un 76enne che viveva in un reparto per disabili. Lo scorso aprile invece un uomo di 62 anni, A.T. cittadino italiano, è deceduto in una sezione di alta sicurezza dopo che da diverso tempo protestava per le sue precarie condizioni di salute e la insufficienza delle cure ricevute. Sul caso, sentito il legale del detenuto, si è potuto appurare che alcuna diagnosi era stata ancora rilasciata dai sanitari. A proposito del 41 bis il garante ci ha consegnato questa sua riflessione: "L’attenzione per questi detenuti va posta al fine di evitare l’innescarsi di fenomeni afflittivi limitando gli strumenti di impedimento all’esercizio della libertà personale alle sole attività finalizzate all’impedire la relazione tra il detenuto e l’organizzazione criminale. Tutte le misure finalizzate a impedire il collegamento con l’esterno sono quindi legittime ma non lo sono quelle che rendono più intollerabile la pena". Ad esempio si domanda che bisogno c’è - come accade al carcere parmense di puntare la videocamera anche sul water? Renzi: niente fiducia sul processo penale. Il segretario del Pd rovina i piani del governo di Carlo Bertini La Stampa, 18 maggio 2017 Ira di Orlando: così la riforma muore. Il Pd accetta lo stop dei centristi. "Se non mettiamo la fiducia, la riforma muore qui, perché poi si torna in Senato e si chiude lì, non capisco la logica". Seduto su un divano alla Camera, il Guardasigilli Andrea Orlando compulsa il cellulare e si lascia andare ad uno sfogo contro chi vuole mettere lui e tutto il governo in difficoltà. Bersaglio degli strali è ovviamente Renzi e oggetto del contendere uno dei cardini di questo governo, la riforma del processo penale: tre anni e mezzo di lavoro, decine di sedute istruttorie e audizioni con avvocati e magistrati. Un’infinità di norme, tra cui stretta alla pubblicazione delle intercettazioni, allungamento della prescrizione, una rivoluzione delle misure carcerarie sul trattamento dei detenuti, l’innalzamento delle pene per rapine e furti nelle case e sistema delle impugnazioni in Cassazione. Una rivoluzione che, dopo una lotta in trincea del ministro per ottenere un voto di fiducia al Senato, ora rischia di finire su un binario morto, se la prossima settimana la Finocchiaro non potrà alzarsi in aula alla Camera per porre di nuovo la fiducia e azzerare centinaia di emendamenti. Stop da cabina di regia Pd Proprio la Finocchiaro l’altra sera, uscita dalla cabina di regia con Renzi, Martina e i capigruppo, registrava la battuta d’arresto nello sprint finale e scuoteva la testa con i suoi per questo "brutto segnale" che si spera non si ripeta per altri provvedimenti. Una scelta vestita di buone intenzioni - lasciare libero il Parlamento di discutere - ma che di fatto crea un problema di prima grandezza al premier Gentiloni, che sarà costretto a mediare con Renzi e i ministri Pd e Ap su un tema cruciale come la giustizia. Di qui l’irritazione - si fa per dire - del Guardasigilli: "Allora si parla tanto di intercettazioni e proprio qui dentro - scatta Orlando indicando l’aula di Montecitorio - c’è il provvedimento giusto, ma non si mette la fiducia per approvarlo. Mi chiedo quale sia la linea...". L’allusione alla linea del partito decisa dal segretario è evidente. Del resto ci aveva pensato l’orlandiano Daniele Marantelli, a squadernarla di buon mattino, "se Renzi vuole evitare l’uso improprio delle intercettazioni faccia ap- Niente fiducia sul processo penale Il segretario rovina i piani del governo Ira di Orlando: così la riforma muore. Il Pd accetta lo stop dei centristi provare la riforma". Al di là della questione degli ascolti, molti renziani premono per andare spediti alla Camera e dunque non sorprende se per tutto il giorno le diplomazie si mettono al lavoro, al punto da far tornare la questione sub judice. "Non è stato ancora deciso se mettere o no la fiducia", dice il capogruppo Rosato. Anche se i giochi sembrano fatti. Parlamento paralizzato - "La fiducia non verrà posta, nemmeno se la riforma torna al Senato", sorride sornione uno dei dirigenti più vicini a Renzi. Ammettendo in camera caritatis che la logica è anche quella di tenere sulla corda il governo "e soprattutto di dimostrare che in questo Parlamento non si riesce a fare più niente". Qualsiasi evocazione di un incidente parlamentare che possa poi sommarsi ad altri incidenti, tali da far ritenere a quel punto le urne l’unico sbocco della palude, è ovviamente voluta. Dalle parti di Alfano invece gongolano quelli che vogliono ottenere uno stop del via libera definitivo alla riforma del processo penale. "Pare che l’abbiamo spuntata", sibila infatti in Transatlantico il ministro Enrico Costa, uno di quelli che più si stanno battendo per evitare la fiducia e provare a cambiare qualcuno dei punti più controversi. Sì perché a mettersi di traverso sono in tanti e a dar voce alle critiche degli avvocati su vari punti sono i centristi di Ap. Neanche tutti, solo una parte. Ma quanto basta per dare l’alibi al Pd di rallentare le macchine. Con la dietrologia di palazzo che in questi casi non manca mai: e cioè che Renzi userebbe questa gentile concessione per conquistare i favori di Ap sulla legge elettorale, essendo a caccia di numeri preziosi in Senato. Fatto sta che fin dalla mattina i tamburi di guerra scuotono il Pd e la maggioranza. E ora Gentiloni è atteso al varco. Lancette italiane ferme al 1992 di Mario Sechi Italia Oggi, 18 maggio 2017 Infatti il diabolico corto circuito tra la politica e la giustizia non è mai stato riparato. Anche le riforme costituzionali sono fallite due volte. I media di carta sono dominati dal caso Consip, dalla telefonata di Matteo Renzi al padre. I titoli sono là, non hanno bisogno di grandi letture cremlinologiche, eccoli nel rigoroso disordine di lettura. Repubblica: "Consip, scontro sulla telefonata tra Renzi e il padre"; La Stampa: "La madre fermò Renzi. Basta urlare con papà"; Corriere della Sera: "Renzi, il caso della telefonata"; Il Messaggero: "Caso Renzi, due procure nel mirino"; Il Giornale: "Renzi intercettato. Un depistaggio nell’indagine farsa"; Il Manifesto: "Guardie e padri"; Libero: "Maledetti babbi"; Il Fatto Quotidiano: "Renzi mente pure sulla telefonata al babbo, tace su Luca e ci diffama"; La Verità: "Intercettazioni distrutta dalla Procura. Prova che babbo Renzi sa molto su Consip"; Il Mattino: "Renzi, inchiesta sulla fuga di notizie". Il registro linguistico va dal buro-giornalismo al dramma familiare, passando per il thriller politico e la cospirazione giudiziaria, fino al racconto de core della mamma che ferma il figlio in piena fase Cattivik. Il caso Renzi padre-figlio è una straordinaria lettura, la storia ha una enorme rilevanza su molti piani, proviamo a mettere in ordine i pezzi sulla scacchiera, ecco dieci punti che per il titolare di List sono il piano di gioco di oggi e di domani. 1. È l’eterno racconto del complesso di Edipo. Sia chiaro, Renzi-Edipo non vuole sopprimere il padre Laio-Tiziano per sposare la madre Laura-Giocasta, ma gli indizi sul tema freudiano ci sono tutti: Renzi fa una dura telefonata al padre, lo minaccia, incalza e prega (con sotto testo di non provare a dimenticarlo) di proteggere la madre. 2. È il romanzo italiano, è il rapporto tra padre e figlio che, in un paese destinato ad essere mammone, è quello sublime, delicato, gioioso e tragico di Pinocchio e Geppetto a cui il titolare di List ha dedicato un capitolo del suo libro "Tutte le volte che ce l’abbiamo fatta": "In un paese di mammoni qual era già allora l’Italia, Collodi celebra l’amore di un falegname povero, un uomo semplice che scolpisce il legno, ha le mani consumate dal lavoro, la vita infreddolita e un disperato bisogno di calore umano. Solo uno stuntman della letteratura come Collodi poteva pensare di raccontare una fiaba dove non c’è la mamma, e di mettere in scena un San Giuseppe senza la Madonna in un posto dove la Mater è venerata in chiesa e temuta in casa". Il caso Renzi, quella telefonata, rovescia i caratteri disegnati da Collodi: il figlio Matteo diventa un furente Geppetto, il padre Tiziano si trasforma in uno sfuggente Pinocchio. Che storia. 3. Sul piano narrativo è una grande trama, su quello giudiziario, si capisce poco ma anche moltissimo. L’intercettazione non è rilevante ai fini penali (magistratura dixit) ma, nello stesso tempo, lo è per dare una valutazione del funzionamento della macchina giudiziaria: un colabrodo. Con per soprammercato una strisciante guerra tra procure (Roma e Napoli) e una serie di potenziali manipolazioni del materiale investigativo sui quali sono in corso accertamenti. Notevole. 4. La pubblicazione dell’intercettazione paradossalmente gli dà una mano nel breve periodo: è il figlio che la mette giù dura con il padre, può interpretare sul palcoscenico il ruolo della vittima che, in Italia, ha una sua tradizione consolidata, può rilanciare le accuse, alimentare la macchina partisan del consenso sulla sua figura. Questo racconto di se stesso è appeso a una fragilità pericolosa: le vicende giudiziarie e il loro esito finale. In Italia, i processi sono lunghi, le commissioni d’inchiesta fanno danni tragicomici e la contemporaneità consuma leadership velocemente, logora anche chi il potere ce l’ha. 5. Questa vicenda dimostra che lancette dell’orologio istituzionale dell’Italia sono ferme al 1992: il corto-circuito tra politica e giustizia non è mai stato riparato, le riforme costituzionali sono fallite due volte (2006-2016), venticinque anni dopo Mani Pulite, il paese ha una magistratura che occupa gli spazi vuoti lasciati dalla politica (pensate solo all’abnorme ruolo pubblico del magistrato Raffaele Cantone), non ha una legge elettorale, ha un solo partito rimasto in piedi tra quelli del Novecento (il Pd), un partito anti-sistema che è il più contemporaneo e anche il meno affidabile sul piano del governo (la prova di Roma è sotto gli occhi) e il terzo debito pubblico del mondo. È materiale radioattivo. 6. La figura di Matteo Renzi ha polarizzato l’attenzione di forze contrapposte. Non si tratta del solito scontro tra conservazione-progresso, ma di qualcos’altro. Renzi è contemporaneamente establishment e nuovo, è l’unica continuità possibile per il piccolo salotto italiano, ma anche un fattore di rottura di cui non si conosce il percorso. Renzi è un "cattivista" che sceglie in base alla logica di clan, costruisce, di volta in volta, war room volatili, la sua idea di clan viene prima di quella dell’amministrazione, è accelerato per sua natura. In un paese lento e dalle liturgie consolidate, è considerato un’opportunità e un pericolo. 7. In questo quadro, parenti (il padre Tiziano), amici (Luca Lotti) e strettissimi collaboratori (Maria Elena Boschi), diventano bersagli giudiziari per interposta persona. 8. La promiscuità dei ruoli e delle situazioni è tipica di un disorganizzatore del governo e organizzatore del consenso. Renzi è un eccezionale front-runner elettorale, ma finora non ha dimostrato grandi capacità di governo. Ha fiuto, una strategia di lotta politica durissima, nel caso Consip ha mostrato una tenuta rara. È un leader di partito-fazione, non è ancora uno statista e per diventare tale deve fare passaggi che non si sono visti: unire e non dividere, federare (il primo Berlusconi) e scegliere i collaboratori sulla base del meglio in campo e non del più vicino in casa. 9. In Italia le crisi di sistema vengono (ir)risolte di solito con l’arrivo di governi di emergenza, tecnici o semi-tecnici, soluzioni più o meno efficaci e alcune davvero pasticciate. La crisi del 1992 fu affrontata dai governi Amato e Ciampi, quella apertasi nel 2011 da Monti e poi da Letta e oggi da Gentiloni. Il governo Renzi, in questa crisi, è stato una parentesi che si è chiusa con una sconfitta politica nel referendum (come per Berlusconi nel 2006). Gli elementi persistenti (e scatenanti) di queste fasi sono principalmente due: crisi finanziaria (speculazione sulla lira nel 1992, decollo dello spread nel 2011, crisi bancaria nel 2016) e avanzata giudiziaria (Mani Pulite nel 1992, caso Banca Etruria, caso Consip e altri). 10. La vera posta in gioco in questa fase è la presidenza del Consiglio. Anche in caso di vittoria del Pd, sarà Renzi il premier? Francamente, sembra un’operazione quasi impossibile. Renzi dovrà sciogliere questo nodo pubblicamente, è il nocciolo (incandescente) di tutta la vicenda che si sta squadernando davanti a noi. 11. Si sta avvicinando a passo di carica il momento in cui Sergio Mattarella fisserà un punto. Il presidente della Repubblica ha già fatto un’esternazione (purtroppo inutile finora) sull’urgenza della legge elettorale, ma la data delle elezioni si sta avvicinando. E il Quirinale sa che il governo Gentiloni non è affatto immune dallo tsunami mediatico-giudiziario. Occhio al Colle. 12. All’estero ci osservano con intensità crescente: i mercati sono calmi, ma non fermi. Abbiamo il terzo debito pubblico del mondo denominato in euro. Come diceva Gordon Gekko, il denaro non dorme mai. Gli Stati Uniti, in Italia, hanno sempre giocato un ruolo importante nelle vicende politiche (non furono semplici spettatori della crisi del 1992) e le difficoltà crescenti nell’amministrazione Trump sono un fattore non irrilevante. Nel periodo compreso tra il 2011 e il 2013 l’ambasciata americana a Roma pensava che il Movimento 5Stelle fosse degno di attenzione e potesse diventare forza di governo, Monti fu una soluzione per l’emergenza finanziaria, non per quella politica, due anni dopo l’amministrazione Obama e il clan dei Clinton spostarono il loro benevolo sguardo su Renzi, fu un grande investimento di fiducia. Ma oggi che diranno e cosa faranno gli americani? Si viaggia al buio, Trump balla la rumba delle spie a Washington e sta per sbarcare in Italia. Tortura, "legge inapplicabile". La montagna partorisce il topolino di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 maggio 2017 Con 195 voti a favore, 8 contrari e 34 astenuti, il Senato approva l’introduzione del reato richiesto dalle convenzioni internazionali. Limitata l’area di punibilità del reato Casson: "Sarà una corsa ad ostacoli, applicarla". Ddl "provocatorio e inaccettabile" secondo l’appello firmato anche dal pm Zucca, Cucchi e Guadagnucci. La montagna ha partorito il topolino. Dopo tanti rimpalli, veti incrociati, out out da parte di alcuni sindacati di polizia megafonati dalle destre estreme e di centro, il Senato ieri ha licenziato - con 195 sì, 8 voti contrari e 34 astensioni - un testo che molti di coloro che si battono da anni per introdurre il reato di tortura nell’ordinamento penale italiano non temono di definire "una legge truffa". La definizione è dei sottoscrittori di un appello firmato tra gli altri dal pm che indagò sulle violenze nella scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001, Enrico Zucca, dal giornalista Lorenzo Guadagnucci che in quella scuola venne torturato insieme a tanti altri dalle forze di polizia, e da Ilaria Cucchi, sorella di Stefano che nel 2009 morì con atroci sofferenze mentre era sotto la custodia dello Stato. L’appello, che bolla il ddl come "provocatorio e inaccettabile", si rivolge "ad Antigone, ad Amnesty International, alle associazioni, a tutte le persone di buona volontà", chiedendo loro "di battersi con ritrovata fermezza affinché la Camera dei deputati cambi rotta e il Parlamento compia l’unica scelta seria possibile, ossia il ritorno al testo concordato in sede di Nazioni Unite". Con diversi toni ma simili motivazioni, alcuni senatori si sono astenuti, solo perché di votare contro una legge necessaria all’Italia per rientrare nella legalità internazionale non se la sentivano. Astensioni a volte prevedibili, come nel caso di Sinistra Italiana, a volte meno scontate, come quella del presidente della commissione Diritti umani, il dem Luigi Manconi, o l’ex magistrato Felice Casson, passato con Mdp, che non hanno partecipato al voto in aperto dissenso con i loro partiti. Una legge dal travaglio lungo - malgrado sia tra le più facili da scrivere, perché la fattispecie è dettata chiaramente dalla Convenzione Onu ratificata dall’Italia nel 1988 -, iniziato a marzo 2014 nel peggiore dei modi proprio al Senato, e che non si è ancora concluso. Infatti il testo approvato ieri dalla maggioranza di Palazzo Madama dovrà tornare ora, per la quarta lettura, alla Camera, dove era già stato rimaneggiato e licenziato nell’aprile 2015, in una versione migliore di quella attuale. Il pericolo - difficile però dire se sia il peggiore possibile - è che nel ping pong si arrivi a fine legislatura. E arrivederci legge sulla tortura. Un rischio che il ministro della Giustizia Andrea Orlando vorrebbe evitare: "È stato compiuto un passo decisivo che ci consente finalmente di sbloccare una fase di stallo durata troppo - ha commentato in una nota il Guardasigilli - Il testo, frutto delle necessarie mediazioni parlamentari, ci avvicina all’obiettivo di introdurre nel nostro ordinamento una nuova figura di reato, su cui anche molti organismi internazionali sollecitano da tempo il nostro Paese. Ora l’auspicio è che la Camera approvi in tempi rapidi e in via definitiva la legge, colmando cosi un vuoto normativo molto grave". Allo stato dell’arte, il "compromesso" raggiunto tra chi pretende l’impunità completa delle forze dell’ordine e chi si batte per un provvedimento che rechi giustizia alle vittime degli agenti e dei pubblici ufficiali, è tutto definito dall’articolo 1 della legge che introduce il nuovo reato nell’ordinamento penale con gli articoli 613 bis e 613 ter. Il primo comma restringe, rispetto al testo della Camera, la fattispecie del reato ("violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà" che cagionano "acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico") e delimita la punibilità: "è punito con la pena della reclusione da 4 a 10 anni se il fatto è compiuto mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona" (nelle Convenzioni Onu i trattamenti sono inumani o degradanti, e non occorrono più condotte; inoltre, come sostiene l’appello contro la "legge truffa", "la possibilità di prescrizione permane"). Nel testo, la pena sale da 5 a 12 anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio nelle sue funzioni, e arriva a 30 anni di reclusione nel caso di morte "non voluta" del torturato; ergastolo se il decesso è nella volontà del torturatore. La pena però "non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti". Un passaggio, quest’ultimo, "decisamente superfluo" (lo sottolineano i senatori di SI) ma necessario per tranquillizzare certi sindacati di polizia. Scritta così, "tecnicamente male", secondo l’ex pm e giudice istruttore Felice Casson, "è inapplicabile", soprattutto perché "le condizioni poste alla punibilità, reintroducendo il concetto di reiterazione del reato, renderanno i processi una corsa ad ostacoli sempre più complicata". Anche il M5S parla di "formule che annacquano il testo", ma alla fine opta per il voto a favore. Per l’associazione Antigone, il ddl è "molto confuso, pasticciato, arzigogolato". In una parola: limitato, se non inutile. La palla passa ora alla Camera, in una corsa contro il tempo. Anche se una soluzione ci sarebbe: tornare al testo concordato in sede internazionale fin dal 1952. Vittime, avvocati e giudici: "la nuova legge sulla tortura è una truffa" di Marco Preve La Repubblica, 18 maggio 2017 Un appello firmato da persone massacrate alla Diaz, psicologi, magistrati: "È un testo provocatorio e inaccettabile". Le urla che accompagnano nell’immaginario collettivo le pratiche di tortura e che furono la colonna sonora dei raid in divisa alla scuola Diaz e a Bolzaneto nel G8 di Genova nel 2001, sembrano oggi essere sommerse dal silenzio che accompagna l’approvazione in Senato di una legge sulla tortura figlia dei timori di scontentare alcune fazioni delle forze dell’ordine e della polizia in particolare. Una legge che non segue le indicazioni della Corte europea ma che ricompatta vari orientamenti politici a sinistra e a destra. Una legge che a Genova, la città della Diaz, ossia dell’episodio costato all’Italia una condanna della Corte europea per i diritti umani proprio per la pratica della tortura e per l’assenza di leggi e norme che la impedissero e che perseguissero chi l’aveva praticata, dovrebbe stimolare dibattito e discussioni. Invece politica e intellettuali stanno alla larga. Troppo ostico il tema. Chi non si è tirato indietro è un gruppo eterogeno di cittadini, giornalisti, psicologi, vittime di tortura, avvocati, magistrati. Hanno scritto un appello per provare a tornare alla radice della norma. Ecco il testo e i primi firmatari: "Tortura: è una legge truffa e contro le vittime, torniamo al testo Onu. Il Senato ha approvato una legge truffa sulla tortura, scritta in modo da renderla inapplicabile e in totale contraddizione con la convenzione Onu sulla tortura e con le indicazioni contenute nella sentenza di condanna contro l’Italia della Corte europea per i diritti umani del 7 aprile 2015 (Cestaro vs Italia per il caso Diaz). È un testo provocatorio e inaccettabile, che il parlamento non può approvare, se l’Italia intende rimanere nel perimetro delle nazioni democratiche e all’interno della Convenzione europea sui diritti umani e le libertà fondamentali, firmata nel 1950. Nel testo licenziato dal Senato il crimine di tortura è configurato come reato comune e non proprio del pubblico ufficiale, arrivando alla scrittura di una norma volutamente ingannevole e quindi pressoché inapplicabile; la tortura è tale solo se "violenze", "minacce" e "condotte" sono plurime (in tutto il mondo si usa giustamente il singolare); la tortura mentale - la più diffusa - è tale solo se "il trauma psichico è verificabile" (quindi sottoposto a incerte valutazioni, con inevitabili disparità di trattamento e lasciando la porta aperta a tecniche, come la deprivazione sensoriale, oggi praticate in tutto il mondo); la possibilità di prescrizione permane (il Senato ha addirittura eliminato il raddoppio dei termini previsto dal testo della Camera, mentre le convenzioni internazionali e la Corte di Strasburgo richiedono la imprescrittibilità del reato); non è previsto alcun fondo per il recupero delle vittime (altro obbligo disatteso, mentre in altre leggi si prevede il rimborso delle spese legali per certe categorie di imputati); nulla si dice - ulteriore mancanza rispetto agli obblighi internazionali - sulla sospensione e la rimozione di pubblici ufficiali giudicati colpevoli di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Se la Camera approvasse questo testo, l’Italia avrebbe una legge che sembra concepita affinché sia inapplicabile a casi concreti; avremmo cioè una legge sulla tortura solo di facciata, inutile e controproducente ai fini della punizione e della prevenzione di eventuali abusi. È nell’interesse dei cittadini e delle stesse forze di sicurezza mantenere l’Italia nel perimetro della migliore civiltà giuridica, perciò chiediamo ad Antigone, ad Amnesty International, alle associazioni, a tutte le persone di buona volontà di battersi con ritrovata fermezza affinché la Camera dei deputati cambi rotta e il parlamento compia l’unica scelta seria possibile, ossia il ritorno al testo concordato in sede di Nazioni Unite. Quel testo garantisce un equilibrato aggiornamento del codice penale e può essere approvato dal parlamento nell’arco di poco tempo, entro la fine di questa legislatura. --------------------------------------------- Enrica Bartesaghi, Arnaldo Cestaro, Lorenzo Guadagnucci (Comitato Verità e Giustizia per Genova) Ilaria Cucchi (associazione Stefano Cucchi) Enrico Zucca (già pm nel processo Diaz) Roberto Settembre (già giudice nel processo d’appello per Bolzaneto) Fabio Anselmo (avvocato) Michele Passione (avvocato, studioso della tortura) Vittorio Agnoletto (già portavoce del Genoa social forum) Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto (psicologi, autori di studi sulla violenza collettiva e le vittime di tortura) Marina Lalatta Costerbosa (docente universitaria, autrice del libro "Il silenzio della tortura") Pietro Raitano (direttore di Altreconomia) Tortura. Nella vostra legge "tutto il male del mondo" di Luigi Manconi Il Manifesto, 18 maggio 2017 Non ho partecipato al voto sull’introduzione del delitto di tortura nel nostro ordinamento perché ritengo che quello approvato non sia un testo mediocre: è né più né meno che un brutto testo. E la scelta di non votarlo è stata per me particolarmente gravosa perché il disegno di legge in origine portava il mio nome, in quanto esattamente il primo giorno dell’attuale legislatura (il 15 marzo 2013) depositai il mio testo. Del quale, oggi, praticamente nulla più resta. Nell’articolato discusso nel luglio del 2016, si pretendeva che le violenze o le minacce gravi fossero "reiterate" perché così, e solo così, si sarebbe concretizzato il reato di tortura. Oggi, nel testo approvato, si dice che il fatto è punibile se compiuto mediante "più condotte". Ora, passi che il reato di tortura non sia riconosciuto per quel che è: un reato proprio dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio, derivante cioè dall’abuso di potere di chi tiene sotto la propria custodia un cittadino. Passi che il trauma psichico della vittima di tortura debba essere "verificabile" per concorrere a definire il fatto delittuoso. Ma che quest’ultimo debba comportare, per essere perseguibile, "più condotte" (dello stesso genere o necessariamente distinte?), ciò è davvero inaccettabile. Così come è stata scritta, la norma risulta di ardua applicazione: devono ricorrere nella definizione votata tali e tante circostanze da rendere complessa ogni operazione ermeneutica. D’altra parte, come si è detto, per esservi tortura devono verificarsi violenze esercitate attraverso più condotte. Dunque il singolo atto di violenza brutale (si pensi a una pratica singola di water boarding) potrebbe non essere punito. Ancora, scrivere che il trauma psichico deve essere verificabile significa introdurre un elemento di valutazione che impone probabilmente perizie psichiatriche o psicologiche. Ma i processi per tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo un trauma avvenuto tanto tempo prima? Tutto ciò significa ancora una volta che non si vuole seriamente perseguire la violenza intenzionale dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio in danno delle persone private della libertà o comunque loro affidate. E non per un riprovevole ma dichiarato atteggiamento di giustificazione della tortura in nome di qualche stato di eccezione: bensì solo per accondiscendere a richieste corporative che vogliono salvaguardare i peggiori, infangando la dignità dei migliori tra gli appartenenti alle forze di polizia, che, nella grande maggioranza, non userebbero violenza contro le persone sottoposte alla loro custodia. Non sanzionare quanti ricorrono a torture o a trattamenti inumani o degradanti, questo sì che significa disonorare la divisa e ledere il prestigio delle forze di polizia. Tutto ciò conferma ancora una volta come i partiti non riescano a liberarsi di quel riflesso d’ordine che li rende subalterni, prima ancora che ai corpi dello Stato, alle loro rappresentanze politico-sindacali, alle loro potenti pulsioni corporative e alle loro irresistibili tendenze alla connivenza. È come se la classe politica non si fidasse della lealtà delle polizie, dubitasse della loro dipendenza in via esclusiva "dalla legge". Da qui, una sorta di complesso di inferiorità e di sudditanza psicologica che pone come prioritario l’obiettivo della stabilità e della compattezza di quegli stessi apparati, anche quando ciò vada a scapito della piena legalità del loro agire. E a scapito di indispensabili, e non sempre indolori, processi di democratizzazione. Si tratta di un meccanismo micidiale che alimenta lo spirito di corpo e ostacola qualunque processo di autentica autoriforma. Di conseguenza anche questa non sembra la legislatura adatta per far corrispondere il nostro codice penale alle disposizioni costituzionali e a quelle della Convenzione delle Nazioni Unite del 1984. In ultimo, ricordo che la ratifica da parte dell’Italia di quella Convenzione porta la data del 1 gennaio 1988. È l’anno di nascita di Giulio Regeni, il nostro connazionale sequestrato, torturato e ucciso al Cairo nel 2016. Perché richiamo questa coincidenza? Perché nell’atteggiamento - che mi addolora definire inerziale - del nostro Paese nei confronti del regime dispotico dell’Egitto, che nega la verità su quella morte, trovo una possibile e drammatica chiave di interpretazione. L’Italia, tuttora priva di una legge contro la tortura, rivela una sorta di complesso di colpa e un deficit di autorità morale quando deve pretendere da un altro Stato un’intransigente ricerca e una severa sanzione delle responsabilità di chi ha seviziato e brutalizzato il corpo di un giovane. Non posso non ricordare qui le parole dei genitori di Giulio Regeni, ai quali dedico questo mio modesto atto di dissenso. Davanti al suo corpo martoriato, hanno detto: "Il volto di nostro figlio era diventato piccolo, piccolo, piccolo. Lo abbiamo riconosciuto dalla punta del naso. Sul suo viso tutto il male del mondo". Sì, tutto il male del mondo - nel pensiero dei signori Regeni - è appunto la tortura. Che non è solo esercizio di violenza sull’organismo fisico della vittima, sugli arti, sulle piante dei piedi, sulla schiena, sui genitali e sul volto. È volontà di degradazione della persona, mortificazione della sua identità, annichilimento della sua dignità. È intenzionale riduzione della "materia umana" (Primo Levi) alla sola dimensione del dolore fisico, schiacciando e annullando quell’umano nella materialità sofferente del corpo brutalizzato. Impresentabile e inaccettabile: quella brutta norma sulla tortura approvata dal Senato di Riccardo Noury (Amnesty International) Corriere della Sera, 18 maggio 2017 Approvata ieri in seconda lettura dal Senato con 195 voti a favore e 8 contrari, la proposta di legge sull’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano è impresentabile, inaccettabile e di difficile applicazione, qualora venisse approvata definitivamente dalla Camera. Una settimana di accordi compromissori su emendamenti e sub-emendamenti ha dato luogo a un testo che reintroduce il pessimo argomento della "reiterazione" (limitando cioè la tortura ai soli comportamenti ripetuti nel tempo) e circoscrive in modo intollerabile l’ipotesi della tortura mentale. Siamo anni luce dal dettato della Convenzione Onu contro la tortura, ratificata dall’Italia con la legge n. 489 del 3 novembre 1988. Quel legislatore che avesse voluto fare sul serio avrebbe dovuto limitarsi a prendere la definizione della tortura contenuta nell’articolo 1 della Convenzione, tradurla in un buon italiano e farne norma dello stato. Dopo 28 anni e mezzo dalla ratifica - hanno commentato amaramente Amnesty International Italia e Antigone - è evidente che la volontà di proteggere, a qualunque costo, gli appartenenti all’apparato statale, anche quando commettono gravi violazioni dei diritti umani, continua a venire prima di una legge sulla tortura in linea con gli standard internazionali che risponda realmente agli impegni assunti con la ratifica della Convenzione. Reato di tortura, così l’Italia tenta di tornare al passo con l’Europa di Marta Paris Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2017 Ecco come cambierà il codice penale in Italia in base all’ultima formulazione della norma all’esame del Parlamento e cosa prevedono gli altri paesi della Ue. Il reato di tortura - Se ne discute da sempre, il Ddl è in Parlamento dall’inizio della legislatura (il primo è stato presentato il 15 marzo 2013 dal senatore Luigi Manconi) ma l’Italia resta ancora senza una legge sulla tortura. A 33 anni dalla Convenzione Onu e dopo essere stata votata già una volta dal Senato e dalla Camera. Ora la proposta tornerà in aula a Palazzo Madama la prossima settimana dopo una nuova battuta d’arresto e un periodo di stand by che durava dal 14 luglio scorso. Con un testo che tiene conto degli emendamenti messi a punto dai relatori Nico D’Ascola (Alternativa popolare) ed Enrico Buemi (Autonomie) che sintetizzano l’accordo raggiunto dalla maggioranza. Ecco come cambierà il codice penale in Italia in base all’ultima formulazione della norma e cosa prevedono gli altri paesi della Ue. Dalla legislazione più "morbida" della Spagna, a quella severissima del Regno Unito, passando per la Francia, il cui sistema, con pene graduali fino all’ergastolo, si avvicina di più a quella che l’Italia si prepara a varare. Caso a parte la Germania, che pur vietando l’uso della tortura non ha un reato specifico nel codice, ma delle norme ad esso assimilabili. La tortura resta reato "comune". Pene fino all’ergastolo - Anche nell’ultima versione del testo dopo gli emendamenti dei relatori la tortura è configurata come rato comune e non proprio cioè commesso da un pubblico ufficiale. La pena prevista va da 4 a 10 anni per chi "con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza o che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da 4 a 10 anni se il fatto è compiuto mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". Prevista l’aggravante se l’autore del reato è un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. In questo caso la pena della reclusione sale da 5 a 12 anni. Le pene sono aumentate di un terzo in caso di lesioni gravi e della metà in caso di lesioni gravissime. E arrivano fino a 30 anni in caso di morte come "conseguenza non voluta" e all’ergastolo in caso l’autore del reato abbia provocato volontariamente la morte della persone offesa. In Francia pena minima 15 anni, al pubblico ufficiale fino a 20 - La tortura e gli atti di barbarie sono disciplinate dal codice penale francese. Nel caso di reato "comune" la reclusione arriva fino a 15 anni ma se commesso "da una pubblica autorità o da un pubblico ufficiale" la pena arriva fino a 20. Come anche nel caso la vittima sia un minore sotto i 15 anni, un disabile, o se il motivo è l’orentamento sessuale della vittima. Se il danno conseguente alla tortura è una mutilazione o un invalidità permanente si sale a 30 anni. Mentre in caso di morte anche senza intenzione di uccidere si arriva all’ergastolo In Germania tortura vietata in Costituzione, nessuna norma "esplicita" - In Germania a stabilire l’inviolabilità della dignità umana e il principio che le persone arrestate non possono essere sottoposte a maltrattamenti morali o fisici è la Legge fondamentale tedesca. Mentre non esiste nel codice penale una norma "esplicita" sul reato di tortura ma due articoli ad esso assimilabili. Uno punisce con la reclusione fino a tre anni (fino a 5 per fatti particolarmente gravi) o con una sanzione pecuniaria chi costringe una persona mediante violenza o minaccia "ad un’azione, accettazione o omissione". L’altro disciplina la fattispecie del reato commesso dal pubblico ufficiale: viene punito con la reclusione fino a 10 anni se commette maltrattamenti o violenza nei confronti di un’altra persona "per costringerla" a fare deposizioni, dichiarazioni o a ometterle In Regno Unito reato proprio, scatta il carcere a vita - Il Criminal Justice Act del 1988 prevede la detenzione a vita per chi commette il reato di tortura e lo configura come reato "prioprio". Nel Regno unito infatti a commetterlo è "il pubblico ufficiale" che nell’esercizio delle sue funzioni "pone in essere azioni tali da procurare ad altri sofferenza fisica o psicologica". In Spagna codice "morbido", pena massima fino a sei anni - Anche il codice penale spagnolo modula le pene in base all’autore del reato. In via generale la pena va da 6 mesi a due anni. Se a commettere il reato di tortura è un funzionario pubblico la detenzione va da 2 a 6 anni per fatti gravi e da uno a 3per fatti meno gravi. In ogni caso è prevista l’inabilitazione assoluta dall’impiego da 8 a 12 anni. Intercettazioni. Il grido di Napolitano: "Ipocriti!" di Francesco Lo Dico Il Mattino , 18 maggio 2017 L’ex presidente: nessuno vuole cambiare le intercettazioni. Orfini: attacco alla democrazia. Politica ipocrita, incapace di riformare se stessa. Di fronte all’ennesimo diluvio di dichiarazioni lamentose che punteggiano la pubblicazione del colloquio privato tra Matteo Renzi e suo padre, Giorgio Napolitano erompe contro un Parlamento incapace di condurre in porto una riforma della giustizia capace di sanare finalmente dopo molti anni un’anomalia tutta italiana. "Tutti adesso gridano contro l’abuso delle intercettazioni e l’abuso della pubblicazione - ha tuonato l’ex capo dello Stato, che cala sull’impotenza della politica parole affilate come lame: "È un’ipocrisia paurosa perché è una questione aperta da anni e anni". La stilettata di Napolitano, riassume anni di velleitarismi dei quali egli stesso è stato stupefatto testimone. "Io personalmente ho messo il dito in questa piaga - ammonisce l’ex inquilino del Colle - e non c’è mai stata una manifestazione di volontà politica per concordare provvedimenti che avessero messo termine a questa insopportabile violazione della libertà dei cittadini, dello stato di diritto e degli equilibri istituzionali". Il riferimento, palese e più che mai tagliente, è a quelle solenni promesse con le quali l’emiciclo parlamentare e il governo di Matteo Renzi in particolare, vincolarono il secondo mandato del presidente Napolitano, riluttante ad accettare la rielezione. Promesse tra le quali la riforma della giustizia, ritenuto dall’ex capo dello Stato inderogabile, avrebbe avuto un ruolo preminente. Bisogna chiedersi "perché fino a oggi sono sfuggiti a qualsiasi soluzione normativa", ha attaccato il presidente emerito, che forse presagiva già l’aria dell’ennesima resa. Forse Giorgio Napolitano era già stato informato che Renzi sarebbe intenzionato ad abbandonare in un binario morto la riforma del processo penale. La stessa che contiene anche la legge delega sulle intercettazioni che dovrebbe vietare la pubblicazione di quelle non penalmente rilevanti. L’improvviso dietrofront si sarebbe consumato nella serata di ieri. Martedì sera i ministri Anna Finocchiaro (rapporti con il Parlamento) e Andrea Orlando (Giustizia) avevano infatti chiesto di mettere alla Camera la fiducia sul provvedimento, con l’intento di blindarlo e di approvarlo rapidamente, già entro la prossima settimana. Ma la gogna mediatica subita, ha invece indotto l’ex premier al dietrofront, per "non dare l’impressione di cercare la vendetta contro magistrati e giornalisti". La conseguenza è presto spiegata: sull’attesissima riforma della giustizia, come da richiesta del ministro agli Affari regionali Enrico Costa e del capogruppo di Ap Maurizio Lupi, non sarà posta la fiducia. Una strategia che per il ministro della Giustizia Orlando, timoroso per le impossibili insidie del voto segreto e ormai rassegnato al fatto che la legge tornerà modificata al Senato, equivale a un certificato di morte. Senza fiducia, la riforma della giustizia è insomma spacciata. Finita sulle prime pagine dei quotidiani, l’illegittima pubblicazione della conversazione privata tra Matteo Renzi e il padre Tiziano ha monopolizzato il dibattito sulle intercettazioni tra distinguo, moniti e operazioni di pura speculazione politica. "Un attacco alla democrazia", ha tuonato il presidente del Pd Matteo Orfini, che reputa "un errore parlare di gogna mediatica, perché qui c’è qualcosa di più profondo dell’aggressione al Pd e al suo segretario". "Qui - chiosa Orfini - c’è qualcosa che riguarda il funzionamento della democrazia italiana e che dovrebbe allarmare tutti quanti". "L’unico obiettivo - annota - è colpire il principale partito del Paese". Ma di fronte all’asserita volontà di abbandonare la riforma al suo destino, dichiarazioni di questo genere somigliano in ultima analisi all’ennesima occasione perduta, proprio nel giorno in cui anche un magistrato come Nicola Gratteri, sottolinea che abusi e anomalie non possono essere sottaciuti. Pur sottolineando che non esiste "una guerra tra magistratura e politica, o tra magistratura e polizia giudiziaria", il procuratore di Catanzaro ha evidenziato con una chiara allusione alle molte anomalie del caso Consip che "ognuno risponde delle proprie azioni e concede che in presenza di anomalie "ci sono tre o quattro che possono essere infedeli, che non fanno il loro lavoro e quindi creano danni di immagine, di credibilità". Ma Gratteri non si è sottratto a un duro giudizio anche sulla pubblicazione di atti coperti da segreto. "Posso dire per esperienza che quando c’è una violazione, una fuga di notizie quasi sempre la fuga di notizie esce o dalla procura o dalla polizia giudiziaria" - osserva Gratteri - E, in genere, quando la polizia giudiziaria fa la fuga di notizie, c’è quanto meno una sorta di silenzio-assenso da parte della procura. Sennò le notizie non escono fuori". Ma la scarsa volontà di procedere a una vera riforma della giustizia, in nome di ragioni di consenso che di volta in volta hanno affossato i tentativi di rimettere in sesto i cocci di un sistema scassato, sono le dichiarazioni di Pierluigi Bersani e poi di Roberto Speranza. "In quei 20 km, tra parenti, amici, mamme, babbi e conoscenze d’infanzia - ha commentato Bersani dribblando il tema del colloquio dell’ex premier finito in pasto ai giornali si è creato un groviglio di relazioni che è stato pari pari trasferito a Roma nel cuore del sistema e questo non va affatto bene". E anzi, l’ex segretario del Pd ha rincarato la dose: "Adesso, se continua così, verrà fuori un cugino, un altro amico, ecc... C’è qualcuno che in questa storia non la racconta giusta". "Non voglio in alcun modo speculare su una conversazione tra padre e figlio buttata sui giornali", premette a sua volta il leader scissionista di Mdp, Roberto Speranza, ma il punto è che "noi siamo qui ad occuparci da settimane non dei problemi dell’Italia ma dei problemi di alcune famiglie: Boschi e suo padre e ora Renzi e suo padre". Dopo una tiepidissima solidarietà manifestata al segretario dem, il bersaniano ha poi spostato il tiro sul Pd. "È sorprendente com’è cambiata la natura del Pd. Il Partito democratico ormai usa gli stessi argomenti che usava Berlusconi qualche anno fa". Se la giustizia non vuole riformarla nessuno è perché probabilmente il sistema piace così com’è. Qualcuno ne trae sempre profitto in fondo. Perché cambiare? "Intercettazioni contro lo stato di diritto". La frustata di re Giorgio di Paolo Comi Il Dubbio, 18 maggio 2017 L’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, 92 anni, vita vissuta al vertice del Pci, poi delle massime istituzioni dello Stato, nove anni alla Presidenza della Repubblica - unico caso - ieri è intervenuto in modo clamoroso e sferzante sull’affare Consip, e più precisamente sulla questione delle intercettazioni telefoniche e dell’uso allegro che ne fanno investigatori e giornali. Ha detto così: "Tutti adesso gridano contro l’abuso delle intercettazioni e l’abuso della pubblicazione. È un’ipocrisia paurosa perché è una questione aperta da anni e anni con sollecitazioni frequenti e molto forti da parte delle alte istituzioni. Io personalmente ho messo il dito in questa piaga e non c’è mai stata una manifestazione di volontà politica per concordare provvedimenti che avessero messo termine a questa insopportabile violazione della libertà dei cittadini, dello stato di diritto e degli equilibri istituzionali. Bisogna chiedersi perché fino a oggi sono sfuggiti a qualsiasi soluzione normativa. È una vicenda che si trascina in modo intollerabile". Napolitano da molti anni è uno dei pochissimi esponenti della sinistra a difendere posizioni garantiste e liberali sulle questioni della giustizia. Lo fece, coraggiosamente, persino negli anni del "terrore" (92- 94) quando chi provava a dissentire dal pool di Mani Pulite e dalla strategia delle manette finiva inchiavardato alla gogna pubblica. Ora, con il peso della sua autorevolezza, torna alla carica e pone una domanda fondamentale: "Perché nessuno è riuscito a porre un argine allo scandalo delle intercettazioni selvagge?" Napolitano allude ai motivi di questa impasse, che conosce bene. Nessuno finora ha saputo mettere mano alle intercettazioni, per due ragioni. La prima è il gioco al "garantismo a giorni alterni". Che vuol dire questo: se le intercettazioni colpiscono i miei amici sono garantista, se colpiscono i miei nemici le cavalco. La seconda ragione è il "muro" sempre opposto, compattamente, contro ogni disegno di riforma, dalle due corporazioni più potenti d’Italia: quella dei giornalisti e quella dei Pm. Bisogna dire che stavolta - per la prima volta da anni e anni - sul garantismo a giorni alterni si è aperta una breccia: un partito storicamente avversario del Pd - e cioè Forza Italia - si è schierato a difesa di Renzi e ha de- nunciato le illegalità della gogna mediatica, giudiziaria, giornalistica. Potrebbe essere il segno di una svolta. Anche perché c’è un’altra novità: la magistratura non è più compatta. E una procura importante come quella di Roma ha rotto il patto di omertà ed ha aperto una inchiesta sulle fughe di notizie prodotte dai colleghi della Procura di Napoli. La dichiarazione di Napolitano ha aperto un fiume di polemiche. Anche perché alle sue dichiarazioni si sono sommate quelle del presidente del Pd Matteo Orfini. Il quale ha detto: "Credo sia un errore parlare di gogna mediatica, perché qui c’è qualcosa di più profondo dell’aggressione al Pd e al suo segretario. Qui c’è qualcosa che riguarda il funzionamento della democrazia italiana e che dovrebbe allarmare tutti quanti. Un attacco alla democrazia". La prima reazione è venuta da Mdp, e cioè dal movimento nato da una scissione nel Pd. Roberto Speranza, leader di Mdp, ha protestato vivamente e ha paragonato Orfini (ma forse anche Napolitano) a Berlusconi. Ha detto: "dichiarazioni che suonano simili a quelle pronunciate da Berlusconi qualche anno fa: La storia che abbiamo vissuto e pensavamo fosse chiusa, di chi denunciava accanimento delle procure e attacchi alla democrazia, sembra tornare nelle dichiarazioni di Orfini su Consip. È sorprendente e dimostra com’è cambiata la natura del Pd: Il Partito democratico ormai usa gli stessi argomenti che usava Berlusconi qualche anno fa: c’è una strana convergenza tra le affermazioni di autorevoli esponenti Pd e quelle che un tempo faceva Berlusconi’. Speranza in realtà è molto giovane, e probabilmente è del tutto all’oscuro della vecchia tradizione garantista di una parte molto importante della sinistra italiana. Soprattutto della sua componente socialista e laica, ma anche di ampi e gloriosi settori del partito e della cultura comunista, soprattutto della sinistra comunista. A sostegno di Speranza è giunto anche il senatore "5 Stelle" Vito Crimi: "Le dichiarazioni di Orfini sono il segnale di un partito ‘ spaesato’, che grida al complotto sull’inchiesta Consip e arriva persino a dire che è in atto un attacco alla democrazia... L’unico vero complotto è quello messo in atto dalla banda renziana. Contro la gogna la soluzione c’è: smettere di pubblicare intercettazioni di Claudio Cerasa Il Foglio, 18 maggio 2017 La gogna si combatte non trasformando i giornali nella buca delle lettere delle procure. Perché il Foglio non pubblica intercettazioni. E se bastasse semplicemente chiudere il rubinetto? A due giorni dallo "scoop" del Fatto quotidiano - relativo alla pubblicazione di un’intercettazione (a) penalmente irrilevante diffusa (b) in modo probabilmente illegale e (c) registrata con modalità sospette dai carabinieri del Nucleo operativo ecologico i quali, come ricordato ieri su Repubblica da Carlo Bonini, hanno appuntato le conversazioni tra Tiziano Renzi e Matteo Renzi nonostante il piccolo dettaglio che il reato per cui è indagato Tiziano non consenta l’utilizzo delle intercettazioni - il dato sconvolgente che emerge dalle cronache e dalle pagine dei giornali è che tutti sembrano essersi rassegnati al fatto che il mondo non possa che andare così e che in sostanza non ci sia nulla da fare per ricoprire la fogna dalla quale ogni giorno emergono schizzi di fango e puzza di gogna. Sappiamo tutti come andrà a finire la storia della telefonata tra Matteo Renzi e Tiziano Renzi e in fondo il copione è una prassi perfettamente consolidata. Un giornalista riceve miracolosamente da un carabiniere o dalla cancelleria di una procura o da un altro qualsiasi San Gennaro giudiziario un’intercettazione considerata penalmente irrilevante dal magistrato che si occupa di quell’inchiesta. L’intercettazione, invece che essere infilata nel gabinetto, viene trascritta, conservata e allungata a un giornalista. Il giornalista, in nome della libertà di stampa e del dovere di cronaca, of course, accetta, a schiena dritta, di diventare la buca delle lettere dei professionisti del pizzino giudiziario e dà alle stampe quella notizia ("lo scoop") sapendo però che pubblicare quella notizia costituisce reato, come previsto dall’articolo 326 del codice penale (rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio). Il giornalista, di solito, se la cava pagando un’oblazione (anche se per un’intercettazione non presente negli atti giudiziari la questione potrebbe essere molto più complicata) e il san Gennaro delle procure, di solito, se la cava sempre perché, in nome del principio canis canem non est, raramente un magistrato punisce chi lavora in altre procure. Tutto questo ormai è prassi. È prassi accettare la distruzione della vita degli altri attraverso la diffusione di intercettazioni irrilevanti. È prassi vedere partiti che in nome dell’onestà (tà-tà) costruiscono battaglie politiche sulla base di intercettazioni diffuse in modo probabilmente illegale. È prassi rassegnarsi al fatto che il giorno dopo la diffusione di intercettazioni che non dovrebbero essere diffuse si discuta del contenuto di quelle intercettazioni e si rinunci a discutere dell’orrore che fa la repubblica della gogna. Tutto questo, come detto, è prassi. Così come è prassi rassegnarsi al fatto che ogni volta che compare su un giornale (di solito è sempre lo stesso) un’intercettazione che "incastra" un potente paradossalmente si allontana la possibilità che venga approvata (o persino discussa (Giorgio Napolitano lo sa bene e anche per questo ieri si è indignato) una legge che possa regolare il meccanismo con cui vengono rese pubbliche le intercettazioni (l’ultima volta che un governo provò a metterci mano, 2007, una procura, con tempismo certamente casuale, indagò la moglie del ministro della Giustizia, e contribuì, in modo certamente casuale, a far cadere quel governo). Alla fine di questo ragionamento si potrebbe pensare, persino giustamente, che l’unica soluzione possibile per evitare di vomitare ogni giorno nell’Italia della melma sia quella di tapparsi il naso e convivere in modo più o meno sereno con quelle che sono le conseguenze della gogna. Si potrebbe fare così e continuare a restare immobili di fronte alle balle di chi spaccia per libertà di stampa quella che in realtà è una semplice libertà di sputtanamento e augurarsi che un giorno un qualche governo modifichi la legge sulle intercettazioni. Oppure si potrebbe fare così e seguire semplicemente quello che ci permettiamo di definire il lodo Foglio: chiudere il rubinetto. Chiudere il rubinetto, al contrario di quello che potrebbe pensare Roberto Saviano e la Repubblica dei post-it, non significa imbavagliare l’informazione: tutte scemenze. Significa rifiutarsi di trasformare il giornalismo giudiziario in una grande buca delle lettere delle veline delle procure (lo ha riconosciuto persino il neo presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte, che proprio su questo giornale ha denunciato la proliferazione di "un giornalismo di inchiesta che non può limitarsi a essere il copia incolla di quello che dice un magistrato o un giudice"). Significa rifiutarsi di partecipare ogni giorno a una grande caccia alle streghe contro l’intercettato di turno. Significa rispettare i princìpi base di un paese democratico ed evitare così che la proliferazione della cultura del sospetto trasformi il nostro paese in una dittatura giudiziaria. Significa capire che quando c’è un’intercettazione che non dovrebbe essere pubblicata non si sta violando solo la privacy di una persona intercettata, ma si sta giocando con i princìpi di uno stato di diritto. Per fare tutto questo non serve una legge (al massimo serve rispettare la legge che già c’è non chiudendo gli occhi quando una procura gioca con la vita degli altri) ma serve solo un po’ di buona volontà. Basterebbe fare quello che da oggi in poi farà sempre il Foglio anche se un domani un san Gennaro di una procura dovesse offrirci una telefonata tra Matteo Messina Denaro e Luigi Di Maio: non pubblicare le intercettazioni durante le indagini preliminari e aspettare quantomeno il dibattimento per capire quali prove (e quali intercettazioni) sono risultate essere solide e quali invece no. Il mercato dell’indignazione, si sa, è un mercato la cui domanda è sempre in crescita e quando c’è la domanda è sempre complicato rivedere l’offerta. Ma se, come si dice, la volontà di pubblicare intercettazioni coincide con la volontà di ricercare la verità (e non di ricercare un modo spiccio per sputtanare qualcuno) non ci sarebbe nulla di male ad aspettare qualche mese prima di capire se ciò che si ha in mano è fuffa o è una prova che ha superato l’esame di un giudice. Permetterebbe di capire meglio se ciò che si ha in mano è una notizia, "uno scoop", o se ciò che si ha in mano è solo un’operazione frutto di una sapiente manipolazione organizzata solo per distruggere la credibilità altrui. E permetterebbe di capire meglio chi spaccia per libertà di informazione la libertà di sputtanare il prossimo. Costerebbe qualche copia di giornale, e qualche punto di audience, ma ci guadagnerebbe la democrazia. Noi per quanto ci riguarda, anche in presenza di una chat tra Matteo Messina Denaro e Luigi Di Maio, nel nostro piccolo faremo sempre così. Chi ci sta? Cyberbullismo, e alla fine arriva la legge. Ok definitivo della Camera Il Dubbio, 18 maggio 2017 Stretta sul web e coinvolgimento delle scuole. Introdotte una serie di misure di carattere educativo e formativo. La legge per il contrasto alle forme di cyberbullismo è stata definitivamente approvata dalla Camera con 432 voti a favore e nessun contrario. Il testo che ha avuto un percorso lungo e accidentato, passando per tre volte dalle commissioni e le aule di palazzo Madama e di Montecitorio dove è arrivato l’ultima volta lo scorso 31 gennaio. Poco prima del voto, la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha voluto salutare Paolo Picchio, il padre di Carolina, la ragazza che si tolse la vita a 14 anni dopo essere stata vittima dei cyberbulli. Paolo Picchio era sulle tribune per assistere al voto del testo per il quale si è impegnato e ha combattuto. È a Carolina e alle altre vittime del bullismo on line - ha detto Boldrini prima di dare il via alla votazione finale - che noi oggi dobbiamo dedicare questo provvedimento, che era un primo passo necessario e doveroso da parte del Parlamento". Non è la "legge migliore possibile" quella definitivamente approvata ieri dalla Camera ma un punto di partenza, come hanno ripetuto diversi deputati dei vari gruppi parlamentari intervenuti in aula, per dare una risposta efficace non solo di repressione, ma anche di educazione e formazione dei giovani a un fenomeno in preoccupante crescita. Limitare gli effetti del provvedimento ai minori o estenderlo ai maggiorenni, è stato questo per due anni il vero nodo della legge. Il testo originario, elaborato dalla senatrice del Pd, Elena Ferrari, era circoscritto ai minorenni ma la Camera in seconda lettura lo ha modificato, allargandolo agli over 18. La legge varata dalla Camera circoscrive il raggio d’azione ai minorenni e conferma l’ultima impostazione adottata al Senato, che privilegia la prevenzione e gli interventi di carattere educativo, rispetto al testo della Camera che alle misure educative affiancava anche strumenti di natura penale. Il testo agisce solo sul fenomeno cyberbullismo, avendo soppresso ogni riferimento al bullismo che pure era presente nella versione elaborata in seconda lettura dalla Camera. Per la prima volta entra nell’ordinamento una puntuale definizione legislativa di cyberbullismo. Bullismo telematico è ogni forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, manipolazione, acquisizione o trattamento illecito di dati personali realizzata per via telematica in danno di minori. Nonché la diffusione di contenuti online, anche relativi a un familiare, al preciso scopo di isolare il minore mediante un serio abuso, un attacco dannoso o la messa in ridicolo. Il minore che abbia compiuto 14 anni e sia vittima di bullismo informatico, nonché ciascun genitore o chi esercita la responsabilità sul minore, può rivolgere istanza al gestore del sito internet o del social media per ottenere l’oscuramento, la rimozione o il blocco di qualsiasi altro dato personale del minore diffuso su Internet che deve essere eseguita entro 48 ore dall’istanza. Viene istituito un tavolo tecnico per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo e prevede l’adozione, da parte del ministero dell’Istruzione - di concerto con il ministero della Giustizia di apposite linee di orientamento prevenzione e il contrasto del fenomeno nelle scuole. In particolare, le linee di orientamento dovranno prevedere una specifica formazione del personale scolastico, la promozione di un ruolo attivo degli studenti e la previsione di misure di sostegno e rieducazione dei minori coinvolti. In ogni istituto scolastico dovrà essere designato un docente con funzioni di referente per le iniziative contro il cyberbullismo, che collaborerà con le Forze di polizia, le associazioni e con i centri di aggregazione giovanile presenti sul territorio in caso di necessità. Le scuole sono chiamate a elaborare interventi di prevenzione e informazione, con la promozione dell’uso consapevole di internet. In caso di episodi di bullismo via web, il questore può ammonire l’autore con un provvedimento analogo a quello adottato per lo stalking: fino a quando non sia stata presentata querela o denuncia per i reati di ingiuria, diffamazione, minaccia o trattamento illecito di dati personali commessi, mediante internet, da minorenni sopra i 14 anni nei confronti di altro minorenne, il questore potrà convocare il minore responsabile (insieme ad almeno un genitore o ad altra persona esercente la responsabilità genitoriale), ammonendolo oralmente ed invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge. Lotta al cyberbullismo, il testo è legge. I ragazzi potranno chiedere oscuramento dei siti di Alessia Tripodi Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2017 Sì definitivo dell’Aula della Camera al disegno di legge sul contrasto dei cyberbullismo. Il testo è stato approvato a Montecitorio all’unanimità: 432 favorevoli ed una sola astensione. Il provvedimento - varato dopo quattro passaggi parlamentari - introduce la possibilità per i minori di chiedere l’oscuramento dei siti dove si consumano le "cyber aggressioni" e, come per lo stalking, stabilisce la "procedura di ammonimento" per i bulli. Le scuole saranno direttamente coinvolte nelle attività di contrasto al bullismo on line. Boldrini: "Legge dedicata a tutte le vittime" - "Questa legge è un primo passo necessario. La dedichiamo a Carolina Picchio e a tutte le altre vittime del cyberbullismo", ha detto nell’Aula della Camera la presidente Laura Boldrini salutando Paolo Picchio, il padre della prima vittima del cyberbullismo, la 14enne che nel 2013 si tolse la vita a Novara dopo un episodio di aggressione on line. Al fianco di Picchio, che ha seguito i lavori dell’Assemblea tra il pubblico, la senatrice Elena Ferrara del Pd, "madre" della proposta di legge a Palazzo Madama e già insegnante di Carolina. Le novità - Il testo introduce per la prima volta nell’ordinamento la definizione legislativa di bullismo telematico, inteso come ogni forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto o furto di identità realizzata sul web a danno di minori. I ragazzi sopra i 14 anni (anche senza che i genitori lo sappiano) potranno chiedere direttamente al gestore del sito l’oscuramento o la rimozione dell’aggressione on line. Nel caso in cui il gestore ignori l’allarme, la vittima, stavolta con il genitore informato, potrà rivolgersi al Garante per la Privacy che entro 48 ore dovrà intervenire. Dalla definizione di gestore sono esclusi gli access provider, i cache provider e i motori di ricerca. Prof anti bullo in ogni scuola - In ogni istituto sarà individuato tra i docenti un referente per le iniziative contro il cyberbullismo. Al preside spetterà il compito di informare subito le famiglie dei minori coinvolti in atti di bullismo informatico e attivare adeguate azioni educative. L’obbligo di informazione è circoscritto ai casi che non costituiscono reato. Il Miur dovrà mettere a punto linee guida per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni, attraverso la formazione del personale scolastico, la promozione di un ruolo attivo degli studenti e di misure di sostegno dei minori coinvolti. Alle scuole spetta, infine, l’educazione alla legalità e all’uso consapevole di Internet. Gli istituti potranno avvalersi della collaborazione delle Forze di Polizia e delle associazioni del territorio. Ammonimento da parte del questore - Come nella legge anti stalking, viene stabilita la "procedura di ammonimento" contro il responsabile degli atti di bullismo: il "bullo" over 14 sarà convocato dal Questore insieme ai genitori e gli effetti dell’ammonimento cesseranno solo una volta maggiorenne. Presso la Presidenza del Consiglio, poi, verrà istituito un tavolo tecnico con il compito di redigere un piano di azione integrato per contrastare e prevenire il cyberbullismo e realizzare una banca dati per il monitoraggio del fenomeno. La ministra Fedeli: "Già al lavoro per attuazione" - "Il cyberbullismo è un tema serissimo. Ritengo per questo molto importante l’approvazione di una legge specifica per il contrasto di questo fenomeno affinché la legge trovi immediatamente piena attuazione". Lo ha detto la ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, commentando l’ok definitivo al disegno di legge. "Ringrazio i colleghi parlamentari, in particolare la Senatrice Elena Ferrara, per l’impegno profuso nel raggiungere questo obiettivo", ha aggiunto Fedeli, spiegando che il Miur "è già al lavoro affinché la legge trovi immediatamente piena attuazione". Va accolta la straniera vittima delle violenze del marito di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2017 La violenza in famiglia è un trattamento inumano e degradante: per questo la donna straniera che ne è vittima ha diritto al riconoscimento della protezione internazionale se lo stato di origine non è in grado di tutelarla in maniera adeguata. La Cassazione accoglie il ricorso di una donna marocchina (sentenza 12333) vittima da anni di abusi e violenze da parte del marito, proseguiti anche dopo il divorzio. L’ex marito era stato "punito" nel suo paese, quasi con una "pacca" sulla spalla: solo con tre mesi di reclusione, con sospensione condizionale della pena. In Italia la Commissione territoriale aveva negato alla signora il riconoscimento della protezione internazionale, con una decisione avallata sia dal Tribunale sia dalla Corte d’Appello, malgrado il suo timore di subire di nuovo delle violenze dopo il rientro in patria. Secondo la corte territoriale, il caso della ricorrente non consentiva l’applicazione dalla protezione internazionale perché si trattava di una vicenda che restava "confinata" nell’ambito del rapporto con il proprio coniuge. Né si poteva dire che lo Stato d’origine fosse rimasto totalmente inerte, avendo consentito alla donna di divorziare e condannando l’uomo in sede penale. Inoltre i giudici avevano valorizzato l’appoggio che la donna aveva trovato nella sua famiglia d’origine: i genitori l’avevano, infatti, accompagnata quando aveva sporto querela. Per la Cassazione la Corte d’Appello ha sbagliato. Quanto accaduto alla ricorrente deve essere qualificato come forma di violenza domestica, come prevista dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne. Una norma sovranazionale che riconduce tale forma di violenza nell’ambito dei trattamenti inumani e degradanti. Condizioni che aprono la strada alla protezione richiesta dalla ricorrente. La Corte d’Appello doveva dunque verificare, anche se la minaccia grave proveniva da un "soggetto non statuale", come l’ex marito se il Marocco era in grado di offrire adeguata protezione. Al contrario i giudici hanno dato peso a elementi - come la condanna penale, il divorzio e l’appoggio dei genitori - che nulla hanno a che fare con una soddisfacente protezione da parte del paese di origine. Cagliari: la Collina e il baratro di Quartucciu due mondi per detenuti minorenni di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 18 maggio 2017 Nel triste carcere minorile, ragazzini che non capiscono neppure l’accusa di traffico umano. Serdiana da una parte. Quartucciu dall’altra. Serdiana è un piccolo comune vicino Cagliari. Lasciando alle spalle il mare e la città, tra filari di ulivi e vitigni, c’è un cancello con sopra una scritta. Si legge, alzando lo sguardo, "La Collina". Una volta entrati è difficile uscirne senza provare gratitudine per don Ettore Cannavera. "La Collina" è un progetto che lui ha messo in piedi qualche decennio fa. È un progetto educativo che ha resistito nel tempo e che si muove nel solco degli insegnamenti di don Lorenzo Milani. Don Ettore ha conosciuto generazioni di ragazzi che hanno avuto problemi con la giustizia. Accoglie tutti: innocenti o colpevoli, italiani o stranieri, quasi bambini e quasi adulti. Se c’è bisogno accoglie anche i criminali non più adolescenti. Da Don Ettore i ragazzi, anche quelli che hanno commesso reati gravi, hanno una chance. Sono educati alla responsabilità. Sono pagati per il loro lavoro nei campi e nella comunità. Hanno uno stipendio con cui contribuiscono alla permanenza alla Collina. Vivono insieme nel rispetto reciproco. Hanno una vita vera. Si fidanzano. L’ho visto con i miei occhi. Crescono, insieme. Pregano, se vogliono. Meditano in silenzio in una cappella dove ci sono le foto, tra gli altri, del vescovo salvadoregno Oscar Romero, ucciso dagli squadroni della morte nel 1980, e di don Tonino Bello, fondatore di Pax Christi. In quella cappella non si celebra messa. In quella cappella si sta in silenzio. Il posto è bellissimo. Lo sguardo dalla "Collina" arriva sino al mare. Nulla nella comunità assomiglia a un carcere, né iconograficamente né nelle pratiche di vita. Tutti i giovedì i ragazzi mangiano insieme ad amici e parenti. Il vino e l’olio che producono sono commercializzati e gli introiti servono a "fare reddito per tutti". Nessuno deve sentirsi "assistito". La comunità non vive di rette ministeriali. Gli ospiti arrivano da esperienze di vita dure. Molti di loro giungono direttamente dal carcere. Nella comunità scontano una misura alternativa oppure sono alla messa alla prova. Il tasso di recidiva è molto basso, quasi vicino a zero. Da qualche mese la Regione Sardegna non onora gli impegni presi. Nonostante vi sia uno stanziamento normativamente previsto, tutto è bloccato in sede amministrativa. Così gli operatori sono finiti in cassa integrazione e il numero di ragazzi ospitati si è pericolosamente ridotto. A Quartucciu, a pochi minuti da Cagliari, vi è un istituto penale per minorenni, ossia un carcere. E di carcere vero e proprio si tratta. Basta guardarlo da fuori per rendersene conto. Una struttura che per collocazione (estrema periferia urbana non servita da mezzi pubblici con danni enormi ai familiari dei detenuti e al personale), sbarre e cancelli, ricorda proprio un carcere per adulti. Tale era nelle intenzioni di chi lo ha costruito qualche tempo addietro, visto che avrebbe dovuto custodire addirittura i terroristi. In mancanza di questi ultimi, piuttosto che farlo andare in rovina è stato riciclato come carcere per ragazzi. A Quartucciu sono più o meno in dieci, con età che vanno dai quattordici ai venticinque anni. Vivono con le regole tipiche del carcere. Tra loro c’era chi si trovava in punizione in stato di isolamento (anche se la legge eufemisticamente lo definisce "esclusione delle attività in comune"), chi camminava triste e solitario, chi vagava senza sapere perché era finito in galera. È indimenticabile quel volto sperduto di ragazzino senegalese accusato di essere trafficante di uomini. Non conosceva una parola di italiano, né di inglese o di francese. È difficile, se non impossibile, trovare a Quartucciu un interprete o mediatore culturale che conosca una lingua di origine africana. Quel ragazzino, al pari di altri reclusi negli istituti penali minorili siciliani e sardi, è accusato di essere trafficante di uomini. La sua età giovane, i suoi occhi sperduti, trasmettevano tenerezza. Non aveva un avvocato di fiducia. Possiamo immaginare che qualcuno gli debba avere passato, in prossimità delle acque italiane, il timone e insieme ad esso tutte le colpe del viaggio della speranza e della vita. È scappato dalla sua terra. I genitori lo avranno messo su un barcone. Ora lui sta in galera accusato di essere uno scafista. A Quartucciu i ragazzi sono trattati, sanzionati, intrattenuti, disciplinati dietro mura alte in un luogo che per sua natura è anti-pedagogico. C’è inoltre la cattiva abitudine a usare le carceri sarde come luogo dove mandare gli indesiderabili, quelli che fanno casino, i detenuti difficili e i ragazzi difficili. Questi ultimi diventano pacchi trasferiti da galera a galera. Don Ettore Cannavera, più o meno due anni fa, si è dimesso da cappellano del carcere di Quartucciu. Un incarico da cui non prendeva soldi visto che ha sempre sostenuto che non fosse giusto che un cappellano fosse pagato dallo Stato. La religione attiene alla coscienza individuale in uno Stato laico. Nella sua lettera di dimissioni scriveva: "Dopo ventitré anni di servizio volontario e di presenza assidua nel carcere di Quartucciu, negli ultimi due ho deciso di diradare gradualmente la mia presenza per l’incapacità di riconoscervi ancora un luogo ove si svolga quell’opera di recupero educativo e di reinserimento sociale che la nostra Costituzione attribuisce alla pena… Nel nostro carcere minorile si pratica una pedagogia penitenziaria che non riesco più a condividere… I ragazzi sono spesso trattati come "pacchi" da destinare a una collocazione più contenitiva, e si trascura di instaurare con loro una relazione educativa che sia "di cura". La struttura sempre più fatiscente rende il carcere di Quartucciu ancora più estraneo all’obiettivo pedagogico che si prefigge". Da Don Ettore - a cui la Coalizione italiana per le libertà civili ha conferito un premio alla carriera nel 2016 - i ragazzi sono invece educati alla vita. Speriamo che la regione Sardegna torni ad aiutare economicamente la Comunità, fiore all’occhiello dell’isola. Speriamo che il sindaco di Cagliari Massimo Zedda metta una fermata di bus vicino al carcere di Quartucciu per romperne l’isolamento. Speriamo che l’istituto di Quartucciu assomigli sempre meno a una galera per adulti. Cuneo: il carcere del Cerialdo tornerà a ospitare detenuti in regime di 41-bis di Lorenzo Boratto La Stampa, 18 maggio 2017 Protocollo varato nel 1992 dopo le stragi di mafia di Capaci e via d’Amelio. Il carcere "Cerialdo" di Cuneo tornerà a ospitare detenuti in regime di 41 bis, il cosiddetto "carcere duro", varato nel 1992 dopo le stragi di mafia di Capaci e via d’Amelio. La vecchia palazzina di quattro piani era vuota dalla scorsa estate: ospitava ancora alcuni detenuti in regime di "alta sorveglianza". Nel palazzo dentro il carcere ci sono 92 celle singole con tutto l’apparato per controllare telefonate e colloqui familiari, oltre alla videosorveglianza negli spazi comuni. Finestre a triplo schermo - Ci sono finestre a triplo schermo: griglia, grata e pannello opaco in plexiglas che limita la diffusione nella cella della luce naturale. Chi era detenuto nella palazzina aveva la posta controllata, gli era vietato ricevere dall’esterno libri e "stampe d’ogni genere"; nel cortile ci sono ancora spuntoni alti tre metri in cemento armato: per impedire tentativi di evasioni con l’elicottero. I "vecchi" detenuti del 41 bis, gli ultimi 20, a inizio 2016 sono stati trasferiti in Sardegna. Quello di Cuneo resta il reparto di 41 bis più grande d’Italia. Lavori - Da alcuni giorni sono impegnati una decina di addetti per tinteggiature, sistemare gli infissi, svolgere la manutenzione ordinaria nella struttura. Il direttore della casa circondariale, Claudio Mazzeo: "Seguiranno dei lavori per certificare gli impianti: da quello elettrico al riscaldamento. Serviranno gare e appalti: dovrebbero concludersi nel giro di qualche mese. L’intenzione è riaprire il reparto il prima possibile. Non abbiamo ancora avuto indicazioni sui trasferimenti da Roma: la Direzione generale dei detenuti e del trattamento non ci ha ancora comunicato nulla". Il "Cerialdo" di Cuneo è sorto negli Anni 60 come carcere di "massima sicurezza", con oltre 400 detenuti. Negli Anni ‘70 aveva iniziato a ospitare anche detenuti "eccellenti". Nel tempo sono stati a Cuneo i boss della mafia Michele Greco e Tommaso Buscetta, capi di celebri bande di rapinatori, come Renato Vallanzasca e Felice Maniero, imputati e condannati di "Mani pulite". Attualmente la casa circondariale di Cuneo conta 230 detenuti comuni, di cui 150 stranieri. Il 41 bis è riservato a chi è condannato o in attesa di giudizio per criminalità organizzata, terrorismo e traffico internazionale di droga. Ed è un regime carcerario da sempre al centro di polemiche, anche criticato dall’Unione europea perché "lesivo della dignità dei detenuti". In Piemonte l’unico altro reparto attivo con 41 bis è a Novara, ma lo stesso Garante delle carceri del Piemonte, il fossanese Bruno Mellano, nella sua relazione annuale due mesi fa aveva esortato a "svuotarlo al più presto". Alba (Cn): entro un mese il cronoprogramma per la riapertura del carcere langheroeromonferrato.net, 18 maggio 2017 Dopo lo sgombero il 5 gennaio 2016, in seguito all’accertamento di 3 casi di legionellosi, per consentire la bonifica dell’impianto idrico e di condizionamento, con il successivo trasferimento di 122 detenuti ivi reclusi, si arricchisce di un nuovo capitolo la vicenda relativa al carcere Giuseppe Montalto di Alba, oggetto di un’interrogazione a risposta immediata nel question time di ieri, alla Camera dei Deputati. Afferma il deputato albese Mariano Rabino, presidente di Scelta Civica: "Il 10 febbraio 2016, il Ministro della Giustizia Orlando, rispondendo ad altro atto di sindacato ispettivo, ha affermato che gli interventi di sanificazione erano stati inseriti dall’amministrazione penitenziaria nel programma triennale 2016-2018; il 15 luglio 2016, la Sottosegretaria di Stato per la Giustizia, rispondendo a una interpellanza, confermò lo stanziamento di 2 milioni di euro e la previsione formulata dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria che ipotizzava il completo recupero dell’istituto per la fine del 2017. Lo scorso 24 gennaio, quindi, da fonti di stampa, si è appreso che, secondo la direttrice del carcere Giuseppina Piscioneri, "l’intenzione pare essere quella di accelerare il più possibile l’apertura del reparto dei collaboratori di giustizia con 38 celle"; l’apertura anche parziale potrebbe comunque far rientrare parte del personale di Polizia penitenziaria attualmente in missione nei diversi istituti del distretto (Asti, Alessandria, Saluzzo). Non si hanno, tuttavia, dettagli su quali saranno le tempistiche di riapertura dell’intera struttura carceraria... Quando tornerà a essere pienamente operativo e quali saranno le fasi della riapertura del carcere di Alba?". Replica Andrea Orlando, Ministro della Giustizia: "Nel gennaio del 2106, presso la casa di reclusione di Alba, si sono verificati 3 episodi di contaminazione dal batterio della legionellosi. Questi reiterati episodi e l’adozione di misure urgenti prescritte dalla competente Azienda Sanitaria Locale hanno imposto la chiusura dell’istituto penitenziario quale condizione indispensabile per pianificare e avviare interventi strutturali risolutivi. L’intera popolazione detenuta è stata pertanto trasferita con modalità e destinazioni tali da non pregiudicare il percorso trattamentale già avviato. Quanto al personale dipendente, lo stesso è stato destinato temporaneamente presso istituti del territorio con servizi di mobilità a carico dell’amministrazione penitenziaria. Un esiguo numero ha continuato a svolgere le proprie mansioni presso l’istituto di Alba per le contingenti necessità della struttura, mentre coloro che avevano già avanzato richiesta di distacco verso istituti di altre regioni, hanno visto accolta la loro istanza. Tutti gli interventi di mobilità del personale sono stati disposti sulla base di criteri stabiliti in accordo con le rappresentanze sindacali. Quanto agli interventi programmati e finanziati per provvedere alla riapertura dell’istituto penitenziario, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ripetutamente sollecitato in questi mesi, ha confermato lo stanziamento delle somme necessarie all’inserimento delle opere nel piano di edilizia penitenziaria per il triennio 2016-2018. Al pronto avvio delle valutazioni tecniche di fattibilità funzionale alla progettazione esecutiva ha fatto seguito, secondo quanto comunicato dal dipartimento, un costante impegno volto alla celere risoluzione delle problematiche di natura tecnica ostative alla riapertura. Su sollecitazione dell’amministrazione centrale è stato dato impulso per la valutazione della riapertura anticipata del reparto di più recente costruzione: un immobile di 2 piani, con 22 camere detentive, che ha una capienza di 39 posti. A tal fine presso la predetta struttura sono state ultimate le opere di adeguamento e ripristino e sono stati effettuati 9 campionamenti di acqua. Si è, allo stato, in attesa dei risultati delle analisi di laboratorio dei campioni, indispensabili per la revoca del provvedimento di divieto di erogazione dell’acqua e dunque per consentire l’apertura del reparto. Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha assicurato di avere ulteriormente sollecitato lo svolgimento delle predette analisi. Quanto ai lavori programmati per la riapertura dell’intero complesso carcerario, trattasi di importanti opere strutturali sull’impianto idrico e di adeguamento dei servizi dei reparti degli ambienti detentivi in relazione alle quali non sono stati forniti elementi di aggiornamento in merito all’avanzamento dei relativi procedimenti. Dedicherò la massima attenzione, come ho fatto in passato, affinché la definitiva riattivazione della casa di reclusione di Alba avvenga in tempi rapidi ed entro un mese sarà definito il calendario specifico". "Si tratta di un’operazione, come è noto, complessa - chiude l’on. Rabino: grazie per l’assunzione dell’impegno da parte sua di arrivare, entro un mese, a un calendario preciso dei lavori. Naturalmente avremmo voluto che questo calendario fosse già manifesto e pronunciatamente pubblico. Sul tema c’è la preoccupazione per un verso nei confronti degli oltre 120 detenuti, riallocati in altre case circondariali, ma c’è anche il tema del personale di Polizia penitenziaria, che girovagano tra Saluzzo, Asti e Alessandria: questo crea molti disagi, oltre che costi in capo all’amministrazione giudiziaria. La invito insieme al Dap e alla sua Amministrazione centrale a individuare con celerità un cronoprogramma risolutivo e conclusivo, perché Alessandro Prandi, garante dei detenuti del carcere albese, Bruno Mellano, garante dei detenuti in Piemonte, insieme all’avvocato Roberto Ponzio, che tutela il personale operativo, e alcune persone che lavorano in carcere e vogliono bene a questa struttura, come Paolo Lorusso e Agostino Giuliano, quotidianamente ci sollecitano. Pertanto vorremmo si arrivasse a una soluzione la più tempestiva possibile". Sassari: delegazione di parlamentari della Commissione antimafia in visita al carcere di Lirio Abbate L’Espresso, 18 maggio 2017 "Ma voi chi siete?" chiede il boss Leoluca Bagarella, accusato di centinaia di omicidi, facendo capolino dalla sua cella del super carcere di Sassari, mentre una delegazione di parlamentari in rappresentanza della Commissione antimafia visita l’istituto di pena. La domanda arriva mentre davanti alla cella del corleonese si trova Claudio Fava, vice presidente della Commissione. Il deputato rivolgendosi al cognato di Totò Riina, dice: "Siamo dell’antimafia". Bagarella lo guarda dritto in faccia e ribatte: "E che siete venuti a fare? Qui mafia non ce n’è...". Negare sempre l’esistenza della mafia è una regola degli affiliati a Cosa nostra. Negano davanti all’evidenza. Anche se in quelle celle del carcere di Bancali a Sassari, realizzato proprio per i boss al 41 bis, si trovano i 90 mafiosi tra i più pericolosi delle mafie italiane. Stanno tutti in questo carcere i migliori rappresentanti delle organizzazioni criminali organizzate. La commissione antimafia presieduta da Rosi Bindi vuole approfondire alcuni aspetti critici della gestione della norma penitenziaria del 41 bis riservato ai mafiosi e per questo ha fatto una missione di due giorni a Cagliari e Sassari. I commissari vogliono approfondire profili critici che sono stati evidenziati da L’Espresso, in particolare sui permessi eccezionali accordati ai boss. E così è stata convocata in audizione il giudice Lisa Diaz, magistrato di sorveglianza del tribunale di Sassari la quale ha spiegato ogni passaggio e ogni azione di sua competenza, senza entrare nel merito di provvedimenti firmati da altri suoi colleghi. La commissione ha acquisito una voluminosa documentazione sui permessi accordati ai detenuti. E per questo motivo la delegazione ha anche visitato la sezione 41 bis di Bancali. Da questo carcere alcuni detenuti hanno ottenuto da un giudice di sorveglianza il permesso di andare a casa. In particolare, come ha raccontato il nostro giornale, il mafioso della ‘ndrangheta Salvatore Pesce, zio di Francesco Pesce, a capo del clan di Rosarno, nella piana di Gioia Tauro. Questo permesso non è stato trattato dal giudice Diaz. Il detenuto è stato trasportato a casa, scortato dalla polizia penitenziaria, per far visita alla figlia ammalata, e qui amici e parenti hanno creato un gran viavai nell’abitazione. La moglie di Salvatore Pesce era anche lei detenuta in regime di alta sorveglianza in un carcere calabrese, ma il giudice di Sorveglianza di Reggio Calabria ha respinto per lei la richiesta di permesso speciale. Mentre il giudice calabrese vieta alla donna di uscire dal carcere, per lo stesso motivo il magistrato di Sassari autorizza il boss a recarsi a Rosarno. Questo caso, come altri, verranno adesso esaminati dalla Commissione antimafia. Perché il 41 bis vieta contatti dei detenuti con l’esterno. I commissari dell’antimafia hanno effettuato un sopralluogo anche nel carcere di Cagliari-Uta, per monitorare lo stato di avanzamento dei lavori dell’ala che dovrà ospitare le celle riservate ai 41 bis, come lo è per Sassari. "È un’indicazione normativa quella di utilizzare soprattutto carceri insulari per i detenuti in 41 bis, per fare in modo che siano lontani fisicamente dal luogo di permanenza. La realizzazione di una struttura 41 bis richiede misure e scelte di estrema attenzione, che non possono essere modificate in corso d’opera. L’esperienza di Sassari da questo punto di vista rappresenta un’eccellenza", ha detto Claudio Fava. Concetto ribadito anche dalla presidente della commissione Rosi Bindi: "Secondo quanto è stato sostenuto dalle persone che abbiamo ascoltato a Cagliari, non si rilevano particolari problemi nelle carceri sarde legati alla presenza di detenuti in regime di 41 bis. Il carcere di Sassari è forse l’unico veramente a norma in Italia, per quanto la popolazione carceraria sia abbastanza numerosa, criticità non ce ne sono". Per quanto riguarda il carcere di Cagliari, la presidente Bindi spiega che "è prevista la costruzione a norma di una parte del carcere anche per l’applicazione del 41 bis. Sono in corso i lavori, verificheremo anche quelli perché è giusto che questa norma venga applicata, nel rispetto dei diritti di ogni persona, anche dei mafiosi, e per la sicurezza di ciascuno di noi. La norma è un caposaldo della lotta alla mafia che va mantenuto nel nostro Paese". Napoli: tra paura e dignità c’è chi dice no al giro della malavita di Antonio Mattone Il Mattino, 18 maggio 2017 Alla Sanità gli autori delle stese sono giovanissimi, si tratta degli eredi dei boss morti ammazzati o finiti in carcere con lunghe condanne sulle spalle o ancora usciti di scena per la scelta di pentirsi. Non tutti vengono da famiglie malavitose e non tutti i figli di carcerati hanno intrapreso la carriera di aspiranti boss. C’è un confine sottile che separa i destini dei giovani della Sanità. Essere orfani è forse l’aspetto che accomuna tutti. È un senso di orfananza che va al di là della perdita effettiva dei genitori, e che riguarda ragazzi che crescono in famiglie e ambienti sociali degradati, che hanno una grande rabbia dentro e mancano di punti di riferimento solidi. Sono giovani senza prospettive e senza identità, con un futuro incerto e precario che la scuola via via ha perso per strada. E allora per emergere, per sentirsi qualcuno o per mancanza di alternative intraprendono la strada senza ritorno della criminalità. Francuccio lo conosco da piccolo, i genitori sono morti per malattia ed oggi vive solo. Dopo essere entrato e uscito dal carcere più volte per piccoli reati oggi tira a campare aiutando un commerciante del quartiere. "Così mi pago la benzina e le sigarette - dice, ma io sogno di essere indipendente, di avere una vita dignitosa". Enzo invece faceva il garzone del bar ma un giorno fu coinvolto in una rissa allo stadio insieme ad altri ragazzi che appartenevano ad un clan emergente. Fu picchiato selvaggiamente, andò via da casa e si unì al gruppo criminale, giurando che gliela avrebbe fatta pagare. Oggi sembra essere uscito dal giro malavitoso ma ha paura di tornare a casa e vive lontano da Napoli. La Sanità è nel cuore della città, è un centro chiuso, separato dal resto come ha scritto Silvio Perrella, dove si fa fatica ad entrare ma anche ad uscire per ricostruirsi un futuro.Tuttavia è sempre stato un luogo di integrazione: dalla presenza antica dei preti cinesi fatti arrivare da Matteo Ripa a quella più recente degli immigrati, gli srilankesi in particolare. Ricordo che alcuni anni fa una ragazzina del luogo faceva da baby-sitter ad una bambina cingalese che abitava in via Cristallini, poiché la madre doveva lavorare e non poteva badare alla piccola. Il quartiere seppur ferito non ha perso la sua umanità. Gli anziani che sono rimasti sono circondati da grande rispetto e c’è ancora tanta solidarietà. Penso all’iniziativa di Ciro Oliva della pizza sospesa offerta agli anziani e ai senza dimora della zona, solo per fare un esempio, ma se ne potrebbero raccontare tante altre. Non credo esista una ricetta unica per far rinascere il quartiere. Accanto al presidio costante delle forze di Polizia, all’installazione delle telecamere che finalmente da oggi saranno accese, mentre nei mesi passati hanno funzionato solo quelle che proteggevano le residenze dei boss, occorrono altre azioni. La scuola dovrebbe intervenire sulle situazioni di abbandono scolastico, gli assistenti sociali dovrebbero tornare a percorrere le strade del quartiere per accompagnare i bambini e gli anziani che vivono un disagio sociale. C’è bisogno che la Sanità si apra alla città in modo permanente per realizzare quella contaminazione culturale e sociale necessaria ad uscire dall’isolamento e dallo stigma che lo contraddistingue. Le straordinarie iniziative messe in campo da padre Loffredo e dalle altre associazioni possono essere un richiamo per i turisti se sostenute e messe a sistema, creando tour turistici con pacchetti attraenti e vincenti. Ma possono anche essere generatrici di posti di lavoro e di germi di speranza. Altre se ne potrebbero realizzare per raggiungere quei ragazzi che sono ancora nel limbo di una scelta non fatta o per far tornare indietro chi ha intrapreso una cattiva strada ma non si è ancora spinto troppo oltre. Perché - non lo dimentichiamo - la delinquenza giovanile non è solo emergenza criminale, ma coglie anche aspetti che riguardano i modelli culturali di riferimento degli adolescenti del mondo occidentale. Quello che bisogna evitare è essere divisi, come nella manifestazione di domani organizzata dalla municipalità per protestare contro la strategia del terrore delle "stese". Il titolare della pasticceria Poppella si è detto contrario perché ritiene che possa alimentare il clima di paura tra i residenti e i visitatori esterni. Forse ha ragione Silvio Perrella, quando dice che "se la Sanità riuscirà a farcela, ce la farà tutta la Città". Una sfida che riguarda tutti, dove ciascuno deve intervenire e fare la sua parte. Milano: il Sindaco Sala "sinistra e sicurezza, il blitz alla stazione non è il nostro modello" di Oriana Liso La Repubblica, 18 maggio 2017 "Sabato saremo tutti per strada, a Milano, e spero davvero ci sia tanta gente. Dal giorno dopo, però, riprenderemo a fare quello che facciamo ogni giorno: lavorare affinché ci sia una vera integrazione, e non solo una generica accoglienza". Sindaco Beppe Sala, a febbraio a Barcellona hanno sfilato 160mila persone nella marcia per i migranti. A Milano, dove ci sarà anche il presidente del Senato Piero Grasso, quante persone si aspetta? "Non faccio pronostici, ma so una cosa: che ci saranno tante persone, tanti milanesi, che pensano che sia giusto esserci. Come mia madre, che ha 86 anni: si è affidata alla sua coscienza e mi ha detto che camminerà con me". La sindaca Ada Colau dice "Vogliamo accogliere" e immagina un network tra città per spingere i governi a migliorare le loro politiche. Si può fare? "Condivido totalmente l’idea che sia necessario e giusto accogliere, non costruire muri. Ma penso che, oltre a farci sentire con i nostri governi, come sindaci dobbiamo provare ad individuare soluzioni concrete. Oggi in prefettura a Milano firmiamo un protocollo che stabilisce i criteri di accoglienza dei migranti nella Città metropolitana: ai comuni che firmeranno verranno indirizzati migranti in una misura pari al 50 per cento della quota prevista dal piano Anci, però i comuni stessi si impegneranno a indicare gli spazi disponibili alla prefettura, che farà da stazione appaltante per i servizi di accoglienza ". Non tutti i sindaci sono d’accordo, e hanno il sostegno del governatore Maroni e di Matteo Salvini. "Certo, ci sono sindaci leghisti che non firmeranno, ma a loro e alla Lega continuo a chiedere: se non vi piace questa soluzione, cosa proponete in alternativa? Le dichiarazioni di principio slegate dalla realtà non risolvono il problema. Questi temi vanno affrontati, non spariscono da soli". Ma al milanese povero che le contesta di pensare più ai migranti, cosa risponde? "Intanto che non è vero, perché con tanti sforzi un pasto caldo e un letto cerchiamo di garantirli a tutti. Soprattutto sono convinto che il momento positivo di Milano si sgonfierebbe rapidamente se non mantenessimo l’apertura internazionale che abbiamo. E non si possono aprire e chiudere le porte a nostro piacimento". Cosa intende? "Che avere un’apertura internazionale vuol dire attrarre gli studenti stranieri nelle nostre università e le grandi multinazionali che aprono sedi da noi, ma vuol dire allo stesso modo accogliere chi scappa dalla fame e dalla guerra. Quelle persone che fanno da badanti ai nostri anziani, imbiancano i muri delle nostre case, lavorano negli ospedali e nelle nostre pizzerie: quanta parte dell’economia di Milano è fatta da loro? Quanto saremmo più poveri senza di loro? Altro che alzare muri". Sabato ci sarà la marcia per i migranti ma il 2 maggio, davanti alla Stazione Centrale, la polizia li caricava sui pullman, tra elicotteri in cielo e ingressi della metropolitana sbarrati. Sicuro che non sia quella, la vera Milano? "Ho condiviso con il questore Cardona la necessità di concordare le modalità con cui intervenire in futuro, tenendo conto delle nostre politiche di accoglienza e della sensibilità di questa città. È quella di sabato prossimo la vera fotografia di Milano, non quella della Centrale: su questo non ho dubbi. Mi auguro che d’ora in poi, pur sapendo che la sicurezza è un tema importantissimo, si trovino formule condivise per gestire i controlli". Dopo un anno da sindaco ha capito se la sicurezza può essere anche di sinistra? "La sicurezza di sinistra è quella che non si vergogna di chiedere più militari, come ho fatto io, ma allo stesso tempo si sforza di gestire con realismo i problemi. Mettere in relazione diretta l’immigrazione con la sicurezza è sbagliato, ma aggiungo - e lo dico proprio a chi specula su questi temi - che la sicurezza aumenta anche se, dopo la prima accoglienza, c’è vera integrazione. Per farlo serve prima di tutto accorciare i tempi per la definizione dello status dei rifugiati. Ne sto parlando con il ministro Marco Minniti: non si possono aspettare due o tre anni per vederselo riconoscere, perché nessuno si può integrare se, in un certo senso, non esiste". Con Minniti sta parlando anche dell’applicazione del decreto sicurezza? Lei userà lo strumento del Daspo urbano? "Di fatto manca ancora il decreto attuativo, ma è evidente che la responsabilità sarà soprattutto in carico alla questura. Noi possiamo agire solo su reati minori e per un tempo molto limitato". Milano: Sesta Opera San Fedele "riconosciuto ruolo volontariato in area penale esterna" giornalemetropolitano.it, 18 maggio 2017 Cambia l’apporto del volontariato carcerario nella delicata fase del reinserimento sociale del detenuto. Lo ha spiegato Guido Chiaretti, presidente confermato dell’Associazione Sesta Opera San Fedele, che sabato 13 maggio ha rinnovato il Comitato di Presidenza. Commentando la Circolare 8/2017 del 13 aprile scorso, Chiaretti ha sottolineato l’importante passaggio che riguarda l’impiego di volontari nell’esecuzione penale esterna. "Dopo tanti anni di insistenza sulla necessità di riconoscere il ruolo del volontariato anche in tale ambito esterno al carcere, finalmente lo Stato ha accolto in pieno la nostra visione e soprattutto le proposte operative per riconoscere e rafforzare la presenza del volontariato anche nella penalità esterna - ha dichiarato Chiaretti -. Si tratta di una risposta sanzionatoria privilegiata: un convincimento che le nostre associazioni hanno da tempo tratto dal pluridecennale diretto contatto con la realtà penitenziaria". Due, in particolare, gli ostacoli che sono stati rimossi dalla Circolare: innanzitutto, la possibilità di nomina dei nuovi volontari direttamente in capo ai direttori degli Uffici inter-distrettuali di esecuzione penale esterna, con una procedura di autorizzazione che non può superare i 3 mesi di tempo (in passato erano 12-15 mesi). In secondo luogo, è stato aggirato il limite della partecipazione come singole persone riconoscendo pienamente il ruolo delle associazioni e dando ampio mandato al volontario perché possa intervenire a tutto campo per contribuire al miglior reinserimento del condannato. "Tutto ciò ci ripaga di anni di faticoso lavoro contro corrente - ha proseguito Chiaretti. Ma ora ci siamo. L’ostacolo normativo è stato finalmente aggirato. Ricordo però che questo importantissimo passo è solo condizione necessaria ma non sufficiente perché il lavoro del volontario sia efficace". A fronte, infatti, di 56mila detenuti e di 45mila persone in comunità, si contano circa 10mila volontari operanti all’interno delle carceri, mentre quelli all’esterno, sono circa un centinaio. Ovvero: 1 volontario ogni 5 detenuti in carcere e 1 ogni 450 nella fase più critica, che è quella del concreto reinserimento sociale. "Sono perfettamente conscio che molte sono le condizioni che spiegano e dettagliano questa differenza, ma la cosa è talmente vistosa da non richiedere ulteriori dati per avviare dinamiche davvero riparative - ha sottolineato Chiaretti. L’accompagnamento di persone ristrette nella libertà, sottoposte al circuito penale, richiede un’operatività entro una rete e una seria formazione specifica. In questa direzione va la Circolare che ci rende fiduciosi per il prossimo futuro. Ora comincia la delicata fase di gestire con sapienza i primi passi attuativi lungo questa strada, iniziando anche da una corretta informazione perché sia corretta la visione distorta che l’opinione pubblica ha di questo tema". Torino: "uno spazio ai baby papà detenuti per vedere i figli" di Gabriele Guccione La Repubblica, 18 maggio 2017 L’appello della Garante delle carceri per il Ferrante Aporti. Gallo: "Ormai i minorenni restano in queste strutture fino a 25 anni: e non hanno un luogo dove poter incontrare i loro bambini". Tanti "baby papà" varcano la soglia del carcere minorile "Ferranti Aporti". Giovani padri dietro le sbarre che, quando chiedono di vedere i loro figli, non hanno a disposizione uno spazio "a misura di bambino" dove poter giocare con i loro piccoli. "Da quando, due anni fa, la soglia per la detenzione negli istituti minorili è stata innalzata fino a 25 anni, tra i reclusi è cresciuto il numero dei padri con figli; una situazione per certi versi inedita - fa notare la garante per i diritti dei detenuti Monica Cristina Gallo - che comporta nuove difficoltà, come quella di avere dei locali adeguati per i colloqui tra questi giovani genitori e i loro piccoli". Nasce da questa nuova esigenza il prossimo progetto che l’ufficio del garante dei detenuti del Comune intende mettere in cantiere, sulla falsa riga di quanto è stato fatto l’anno scorso al carcere "Lorusso e Cutugno", dove è stato realizzato, con il coinvolgimento dei docenti e degli studenti di architettura e con il lavoro dei carcerati e del personale del penitenziario, uno spazio esterno a misura di bambino per i colloqui tra genitori e figli minorenni. La stessa cosa adesso si vorrebbe fare al "Ferrante Aporti" dove, tra i 129 ragazzi transitati nella struttura l’anno scorso (il 78 per cento ha tra i diciotto e i vent’anni e il 22 per cento dai 21 dai ventuno ai ventiquattro) è in aumento il numero di padri detenuti. "Per questo - afferma la garante Gallo - ci impegneremo per creare uno spazio dove i genitori possano stare insieme ai loro bambini". E sempre per dare risposta alle nuove esigenze dei carcerati, la garante dei detenuti ha annunciato ieri, presentando la sua relazione annuale ai consiglieri comunali, riuniti per l’occasione insieme ai detenuti, l’arrivo nel carcere minorile, probabilmente in tempo per il prossimo ramadan, di un assistente religioso per i giovani detenuti musulmani, un imam come quello che da circa un anno anima la preghiera del venerdì alle Vallette. Il carcere torinese continua ad essere sovraffollato, secondo i dati presentati dalla garante Gallo, insieme al presidente del Consiglio comunale Fabio Versaci e al garante regionale Bruno Mellano: all’interno della struttura sono rinchiuse 1.390 persone, quando la capienza sarebbe di 1.137. E il taglio di finanziamenti statali e privati mette a rischio, denuncia la garante, "progetti come quello di accompagnamento alla genitorialità o l’attività di mediazione culturale, che è sempre più importante, o la presenza degli educatori: passati da 20 a 16 nell’ultimo anno". Così, mentre è stato aggiustato il guasto ai montacarichi che, come ha denunciato "Repubblica" a dicembre, ha costretto per sei mesi i detenuti a trasportare a mano per le scale il vitto da distribuire nelle celle, nuovi grane si affacciano sulla soglia del carcere. Come quello dei mediatori culturali. Per rimediare, in questo caso, l’ufficio del garante ha avviato un progetto per usare mediatrici e mediatori culturali in tirocinio formativo all’interno del carcere. Reggio Calabria: progetto di ricerca "Freedom of Religion" con i detenuti di fede islamica ilmetropolitano.it, 18 maggio 2017 Ieri mattina presso il carcere di Reggio Calabria-Arghillà, si è dato corso alla realizzazione del Progetto di ricerca For - Freedom of Religion, presentato dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Brescia, dott.ssa Luisa Ravagnani, dal Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria, avv. Agostino Siviglia e dall’Università degli Studi di Brescia, formalmente autorizzato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Nazionale, nella persona del Dirigente Generale dei detenuti e del trattamento, dott. Roberto Piscitello. Il progetto di ricerca prevede la somministrazione di un questionario ai detenuti stranieri di fede islamica, al fine di analizzarne l’esperienza detentiva. Le domando, per vero, attengono alla condizione detentiva e, più, in generale alla condizione di stranieri in carcere. Alla base della ricerca, dunque, il discusso problema del terrorismo islamico e del fenomeno della radicalizzazione in carcere, considerati strettamente collegati alla professione della fede islamica. Le modalità di svolgimento della rilevazione, già attuate negli istituti della Lombardia, del Lazio, del Triveneto e di Rossano, si sono realizzate, anche ad Aghillà, avvalendosi della collaborazione degli insegnanti e degli educatori dell’area pedagogica, in modo da poter raggiungere i detenuti durante le ore di lezione, riunendoli in un’unica aula e procedendo a spiegare loro le finalità della ricerca: i ricercatori sono sempre rimasti presenti per aiutare i detenuti a meglio comprendere le domande del questionario. Ai detenuti, che spontaneamente hanno deciso di collaborare, è stato garantito l’anonimato ed è stata fornita loro ogni spiegazione relativa alle modalità di elaborazione dei questionari, che confluiranno in un unico database a livello nazionale. L’interesse primario del Ministero della Giustizia che, come detto, ha autorizzato la ricerca, è quello di dare voce a chi vive l’esperienza del carcere, sia per analizzare le tante incongruenze che sul tema si affastellano, sia per comprendere al meglio i bisogni e le istanze dei detenuti di fede islamica al fine di prevenire possibili atteggiamenti devianti, intervenire con tempestività ed efficacia, garantendo l’esercizio dei diritti costituzionali, ed internazionali, riconosciuti agli stranieri detenuti. Per quanto concerne lao svolgimento del progetto Freedom of Religion presso il carcere di Arghillà, va subito segnalato che vi è stata la partecipazione di 20 detenuti stranieri di fede islamica (siriani, tunisini, egiziani, algerini, marocchini e africani) che hanno risposto a tutte le domande poste, volontariamente ed in forma anonima. Insieme al Garante Siviglia, erano presenti i componenti dell’Ufficio del Garante, dott.sse Roberta Travia, Antonia Belgio e Teresa Ciccone, che hanno coadiuvato le attività di somministrazione del questionario, supportando i detenuti nella redazione dello stesso e redigendo un apposito report, a cura della dott.ssa Travia, che verrà trasmesso, senza ritardo, alla Garante di Brescia e, quindi, al Ministero della Giustizia, insieme al plico contenente i risultati della ricerca. Presente inoltre la mediatrice ed interprete Fatima El Almrani che ha svolto un ruolo preziosissimo nel facilitare la somministrazione del questionario. Un grazie particolare va tributato ai referenti dell’Area pedagogica di Arghillà, dott. Domenico Speranza ed dott.ssa Teresa Pollino, oltre che all’insegnate del carcere prof. Ventura ed a tutto il personale di polizia penitenziaria. In ultimo, ma non da ultimo, un sincero ringraziamento alla Direttrice dell’istituto penitenziario, dott.ssa Maria Carmela Longo ed alla sua collega dott.ssa Patrizia Delfino per la disponibilità e sensibilità dimostrate ai fini della migliore realizzazione dell’iniziativa di ricerca. Il Garante Siviglia si è detto estremamente soddisfatto per il coinvolgimento ministeriale ed accademico dell’Ufficio del Garante di Reggio Calabria che, ancora una volta, si proietta all’avanguardia nazionale sul tema dei diritti dei reclusi e sulla delicatissima questione della detenzione degli stranieri ed, in specie, dei detenuti di fede islamica. La ricerca, che avrà rilevanza nazionale ed europea, potrà costituire un riferimento prezioso ed unico, di analisi e studio, per quanti interagiscono con le complesse problematiche della detenzione degli stranieri e del paventato rischio di radicalizzazione, fornendo spunti concreti di riflessione al fine di individuare interventi normativi e prassi operative adeguatamente conformi alla più efficace individualizzazione del trattamento rieducativo. Roma: l’Università Roma Tre per le carceri del Lazio, oggi l’Open Day a Rebibbia ezrome.it, 18 maggio 2017 Oggi, 18 maggio, con inizio alle ore 15,30 (ingresso ore 14,30) l’Università degli Studi Roma Tre presenterà i propri corsi di studio all’istituto penitenziario di Rebibbia. Alla giornata parteciperanno sia i detenuti che stanno terminando i corsi di scuola superiore sia gli studenti di alcuni licei romani. La promozione dello studio universitario negli istituti penitenziari del Lazio è un impegno assunto dall’ateneo Roma Tre, che a tale fine ha stipulato una convenzione con il Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e con l’Ufficio del Garante regionale dei diritti dei detenuti. A questa si accompagna il nuovo Regolamento di Ateneo per gli studenti sottoposti a misure restrittive della libertà personale che prevede alcune importanti semplificazioni burocratiche, anche per l’iscrizione ai corsi universitari, per la prenotazione degli esami, per lo svolgimento delle prove, nonché per l’ingresso di docenti e tutor negli Istituti penitenziari del Lazio. L’obiettivo di favorire lo svolgimento del percorso di studi, agevolato dall’esonero dal pagamento dei contributi universitari, si accompagna alla richiesta di assunzione di responsabilità da parte dello studente, che, secondo quanto deliberato dal Comitato istituito in base alla convenzione, potrà mantenere l’agevolazione iniziale a condizione che consegua un numero minimo di crediti annui. L’Open Day sarà anche l’occasione per illustrare le altre attività svolte da Roma Tre sui temi penitenziari, riassunte nel Progetto Diritti in carcere coordinato dal professore Marco Ruotolo, che mette a disposizione dei detenuti cliniche legali, corsi universitari e alta formazione (con il Master in Diritto penitenziario e Costituzione), tutoraggio degli studenti senior, attività sportive. Oltre al prof. Ruotolo, interverranno le dottoresse Valentina Cavalletti e Roberta Evangelista per presentare i corsi e illustrare le modalità d’iscrizione a Roma Tre. La presentazione sarà seguita dall’anteprima dello spettacolo Hamlet in Rebibbia, con la regia di Fabio Cavalli, le cui prove sono state seguite dagli studenti del Dams di Roma Tre nell’ambito del Laboratorio di Arti dello spettacolo I. Il tema del teatro in carcere è oggetto di studi e ricerche presso il Dipartimento Filosofia, Comunicazione e Spettacolo, in accordo con il Coordinamento nazionale teatro in carcere e con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Di tali attività, che hanno portato anche alla realizzazione del Festival Made in Jail, riferirà la professoressa Valentina Venturini. L’introduzione e il coordinamento dell’incontro sono affidati al rettore Mario Panizza. Diverse le autorità coinvolte nei saluti iniziali: Rosella Santoro, Cosimo Ferri, Santi Consolo, Mauro Palma, Cinzia Calandrino, Stefano Anastasia. Ingresso stampa con accreditamento obbligatorio da chiedere a cc.rebibbianc.roma@giustizia.it. Per accreditarsi è necessario indicare nome, cognome, data, luogo di nascita e residenza. Cosenza: la scrittura strumento di solidarietà che unisce il carcere con Amatrice di Andreina Morrone ottoetrenta.it, 18 maggio 2017 Alcuni detenuti della casa circondariale di Cosenza, allievi del corso di scrittura creativa, hanno deciso di devolvere il gettone di presenza previsto dal progetto ai bambini di Amatrice, in particolare a sostegno del progetto scuola affinché i piccoli possano continuare serenamente a studiare. "Il tempo qui dentro - hanno scritto in una lettera resa noto nell’ultima lezione - scorre lento e ti lascia tanto spazio per pensare, troppo spazio per pensare ai nostri errori". "Conosciamo - hanno aggiunto - le difficoltà, la sofferenza e la lontananza. Soffriamo il distacco dai nostri cari e soprattutto dai nostri figli, dai bambini". "Nel guardare la televisione il disastro che ha colpito le popolazioni del centro Italia, le loro vite distrutte non abbiamo potuto che pensare ai bambini, bambini che avevano perso i genitori, che avevano perso la casa e il diritto di andare a scuola Così dove molti pensano si annidi il male, esiste anche il bene". "Abbiamo deciso di donare la piccola grande remunerazione di questo corso - spiega uno di loro - a quei bambini terremotati per aiutarli ad alimentare le loro speranze, quella speranza che noi facciamo fatica a tenere viva". La missiva è stata letta alla presenza del direttore della casa circondariale, Filiberto Benevento, del presidente dell’associazione "Liberamente" Francesco Cosentini, dal team di educatori guidati da Bruna Scarcello e dei volontari, Giusy Ielitro e Susi Campolongo che si sono alternate seguendo le lezioni tenute dalla giornalista e scrittrice Rosalba Baldino. Il corso di scrittura creativa è inserito nel progetto Liberi di Leggere finanziato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e realizzato in collaborazione con Mor Equal, centro socioculturale Frassati, la casa Circondariale di Cosenza e la Casa circondariale di Paola. Cuneo: presentazione del libro "Fine pena mai" al carcere di Fossano targatocn.it, 18 maggio 2017 Riceviamo e pubblichiamo il commento dei detenuti. Il futuro inizia nel presente. Il modo in cui lottiamo in questo preciso istante, ogni giorno che passa determina il nostro futuro. Questo è l’orientamento mentale, spesso inconsapevole, che prevale nella vita di tutti i giorni. Nel carcere, questa consapevolezza, a una lettura superficiale, sembra che non si realizzi. Tanto che uno straordinario magistrato di sorveglianza, pochi anni fa, scrisse: "L’esecuzione della pena detentiva è la consumazione di un tempo stabilito: al suo termine c’è un tempo irrevocabilmente usato per nulla che non sia il suo passare". La riflessione sul tempo "usato" è stato il momento più intenso della presentazione del bel libro di Elvio Fassone "Fine pena: mai" edito da Sellerio presentato presso la Casa di Reclusione di Fossano. Elvio Fassone è stato magistrato e componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Senatore della Repubblica per due legislature, è autore di numerose pubblicazioni. In un fresco tardo pomeriggio primaverile, all’interno della Casa di Reclusione è avvenuto un evento culturale assolutamente ordinario: la presentazione di un libro, ma che dentro un carcere assume un significato di eccezione. Se poi il tema del libro nasce dalla corrispondenza, durata 26 anni, tra un ergastolano e il giudice che lo ha condannato, l’interesse cresce ancora di più. Quasi cento i partecipanti fra reclusi e ospiti esterni all’evento promosso e organizzato dal Garante Regionale Bruno Mellano, dalla Garante Comunale Rosanna Degiovanni in concerto con la presidente del Consiglio Comunale Rosita Serra. Era presente il lucidissimo autore, 79enne, e con lui il professor Maco Pelissero, docente di Diritto Penale presso l’Università di Torino, il Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano con la Garante di Fossano Rosanna Degiovanni e il Direttore del carcere in missione Domenico Arena. Ha presieduto il dibattito la Presidente del Consiglio Comunale Rosita Serra. "Fine pena: ora" non è un romanzo di invenzione, di fantasia, ma una storia vera, non è un ennesimo saggio sulla carcerazione (di cui non si sente, ora, il bisogno). Non propone acute analisi psicologiche. È, invece, la narrazione di uno straordinario incontro umano fra due uomini. Due uomini, di cui uno avrebbe motivo di odiare l’altro che, invece, mantengono per anni un colloquio continui, un diavolo, a volte, di sentimenti. Ventisei anni in cui Salvatore, l’ergastolano, lottando nel presente per il futuro, coltiva il desiderio di emanciparsi con lo studio, i corsi professionali, il lavoro all’interno del carcere, progettando la vita con Rosi, la fidanzata, investendo il suo tempo in progetti futuri, sogni e desideri. Il secondo, il giudice, si interroga sempre più spesso, sul senso della pena. Il libro, donato alla biblioteca del Carcere dal Comune di Fossano, è passato di mano in mano fra i reclusi. Ha avuto molti lettori. Altri ne sta acquisendo giorno per giorno. È una lettura collettiva che è positivo sottolineare. Considerato il buon esito auspichiamo che altre iniziative simili vengano promosse dall’area trattamentale, vero anello di congiunzione fra il presente e il futuro dei detenuti. Saranno sostenuti da tutti i detenuti di buona volontà. È noto che i mezzi finanziari a disposizioni sono scarsi, gli educatori sono pochi e impegnati su più fronti. Sta alla volontà e alla determinazione dei singoli trovare dentro di sé la forza di vivere il futuro nel presente, anche in carcere, evitando di scambiare la furbizia come intelligenza e i muscoli come virilità. È senza dubbio, cari ragazzi, la più alta dimostrazione di virilità che si possa esprimere: quella di non delegare ad altri la soluzione dei nostri problemi. Per non perdere la dignità di uomini. I detenuti della Casa di Reclusione di Fossano Milano: il Teatro Marco Pannella al carcere di Opera chiude il #PannellaMay Agenpress, 18 maggio 2017 L’inaugurazione del Teatro Marco Pannella al carcere di Opera chiude insieme alla proiezione di Spes contra Spem il pomeriggio al carcere di Bollate il mese di iniziative per ricordare il leader radicale promosse dal Partito Radicale Nonviolento Transpartito Transnazionale. Il 2 maggio scorso infatti Pannella avrebbe compiuto 87 anni, domani sarà un anno dalla sua scomparsa. Questo mentre Sala si è detto favorevole alla proposta di Lucio Berté di piantare un ginko biloba dedicato a Pannella nei giardini di Piazza Aquileia, quelli di fronte a San Vittore e vicini al luogo del più antico cimitero ebraico conosciuto a Milano, e mentre la proposta di dedicare una sala al politico abruzzese è in ufficio di Presidenza in Regione Lombardia. Le iniziative erano partite il 22 aprile con la visita di una delegazione radicale all’Istituto a Custodia Attenuata per detenute Madri (Icam, distaccamento del carcere di San Vittore) in via Macedonio Melloni, 53, accompagnata da Raffaele Cucchi, Sindaco di Parabiago e dalle Assessore di Pioltello Antonella Busetto e Jessica D’Adamo. È seguita il 6 maggio al carcere di Monza la proiezione del docufilm Spes contra spem realizzato da Ambrogio Crespi e Nessuno Tocchi Caino in cui condannati all’ergastolo ostativo (fine pena mai) parlano del loro percorso di rieducazione in carcere. Inoltre 7 maggio alle 1430 si è tenuta la inaugurazione non ufficiale dei Giardini Marco Pannella in Piazza Aquileia in ossequio a quanto chiesto dal Consiglio Comunale il 22 settembre scorso. Tutte queste iniziative oltre a ricordare "Marco", così voleva essere chiamato da chiunque, vogliono anche aiutare il Partito Radicale Nonviolento Transpartito Transnazionale a raggiungere i 3000 iscritti entro quest’anno. Senza i quali la forza politica a cui Pannella ha dedicato tutta la vita fino all’ultimo respiro chiuderà. Napoli: "Un film per evadere", cineforum per i detenuti di Poggioreale pupia.tv, 18 maggio 2017 "Un film per evadere" è un progetto dedicato alla comunità dei detenuti e nato dalla collaborazione tra l’Istituto per gli studi giuridici M&C Militerni e il Comune di Napoli. La rassegna cinematografica, creata selezionando una serie di pellicole che saranno proiettate all’interno delle case circondariali, ha lo scopo di utilizzare il forte potere evocativo del cinema, il quale non costituisce soltanto un mero momento di distrazione e intrattenimento. La visione di un film, infatti, attraverso il processo di identificazione con le storie e i personaggi narrati, stimola emozioni forti, fantasie e memorie. La discussione sulle emozioni e sulle riflessioni suscitate dal film, parte fondamentale del progetto, consente di elaborare i vissuti dei detenuti, di connettere la trama del film ad una parte della trama della propria vita. Ogni proiezione sarà seguita da un dibattito con le psicologhe Ilaria Ricupero e Francesca Scannapieco e ogni detenuto potrà mettere su carta le riflessioni suscitate dalla visione-discussione del film, in brevi elaborati che saranno raccolti in un libro (il ricavato sarà devoluto per la realizzazione di progetti con finalità sociale). Il progetto prevede la proiezione di quattro pellicole con cadenza quindicinale anticipate da una brevissima introduzione e seguite da un dibattito. Al via lunedì 22 maggio, alle 12, con la prima proiezione presso la casa circondariale di Poggioreale. Sono intervenuti: Roberta Gaeta, assessore al Welfare del Comune di Napoli; "Il cinema può essere uno strumento terapeutico per trasformare il tempo del carcere in un percorso di riflessione e cambiamento. Lavorando sulle proprie emozioni si diventa più consapevoli; questo è solo il primo passo per tornare ad essere protagonisti della propria vita e del proprio futuro". Maria Caniglia, presidente Commissione Welfare; "Un film per evadere è una rassegna cinematografica che rende gli spettatori-attori, infatti i detenuti che parteciperanno non si limiteranno ad assistere alla proiezione di una pellicola bensì realizzeranno loro stessi un’opera. Dopo l’attività introspettiva metteranno su carta le loro emozioni che saranno raccolte in un libro, frutto di un personale lavoro, che finanzierà attività di natura sociale". Vincenzo Pirozzi, attore sceneggiatore e regista; "Io vengo dal sociale, nel quartiere Sanità ho messo su un teatro e siamo riusciti a recuperare nell’arco di 10 anni 136 giovani. Perché non tentare di recuperare giovani come i ragazzi del carcere di Nisida o cercare di portare al cambiamento persone attualmente detenute a Poggioreale? Io sono originario della Sanità e ho una situazione familiare non proprio normale, mio padre è recluso in carcere con regime 41 bis attualmente a Terni, ma per la mia esperienza posso dire che il cinema è fonte di cambiamento, per me lo è stato". Antonio Fullone, direttore Casa Circondariale di Poggioreale: "Il tempo passato in carcere è spesso un tempo molto passivo e quindi penso sia importante riempirlo con momenti di riflessione. Di cineforum ce ne sono tanti, di rassegne ce ne sono tante, ma quella presentata stamattina ha un valore aggiunto perché viene proposta da un’istituzione e si tratta una visione assistita, accompagnata. Noi ci stiamo sforzando di fare un carcere un po’ più intelligente e ovviamente sapere di avere le istituzioni nel fare sicurezza e prevenzione ci conforta moltissimo". Siria. Il racconto di Omar: "Così si viveva nella prigione dei forni crematori" giornalettismo.com, 18 maggio 2017 "Eravamo nudi tutto il giorno", "Potevamo andare in bagno solo due volte al giorno e solo per dieci secondi". "I morti erano all’ordine del giorno". È il terribile racconto di un ragazzo siriano, Omar Abu Ras, 28 anni, ex studente di Economia della provincia di Aleppo, nel 2012 arrestato dal regime di Bashar al Assad con l’accusa di aver partecipato a manifestazioni contro il presidente, uno dei detenuti della prigione militare di Sednaya, la prigione dove i prigionieri sarebbero stati impiccati e bruciati in forni crematori. In un’intervista pubblicata oggi su Repubblica, realizzata da Francesca Caferri, il ragazzo ripercorre la sua esperienza, fornendo dettagli sulla drammatica permanenza nella struttura dove sarebbero state uccide anche 50 persone al giorno. Omar sostiene di non aver visto i forni crematori, ma, dice, "metodi per liberarsi dei corpi in tempi rapidi erano necessari". Il giovane sostiene che "mancano all’appello 300mila persone passate per Sednaya in questi 5 anni" E che solo una persona su quattro è sopravvissuta. Tutti venivano torturati: "Sono finito a Sednaya. Non ci sono parole per descrivere l’orrore. Vivevamo in 50 in una cella di 10 metri per cinque. Qualche volta eravamo 70. Cinque giorni a settimana, nel pomeriggio, venivamo convocati per le sessioni di tortura: duravano ore, se eravamo fortunati". E in cosa consisteva la tortura? "A volte solo nel costringerci a stare in piedi. Altre volte eravamo infilati in una ruota, in modo che spuntassero solo mani e piedi: e ci colpivano con cavi elettrici. In condizioni normali si andava dalle 30 alle 40 sferzate. Ma se c’era una sconfitta militare, un avanzamento dei ribelli, le sferzate diventavano centinaia". Come si svolgevano le giornate? "Ci svegliavamo alle 5.30. Ogni cella aveva un capocella responsabile di controllare che tutti fossero in piedi. A quel punto c’era l’appello: alcuni finivano in un ospedale dove avrebbero dovuto essere curati. Ma nessuno è mai tornato da lì. Altri alla tortura. Altri agli interrogatori, che poi erano una forma di tortura. Eravamo nudi, tutto il giorno: potevamo andare al bagno solo 2 volte al giorno, in fila, piegati con la testa sul sedere della persona davanti. Una volta in bagno avevamo dieci secondi: poi ci buttavano fuori. Dovevamo andare al bagno, lavarci e bere, perché non c’era acqua in cella". Stati Uniti. Chelsea Manning rilasciata dal carcere militare di Fort Leavenworth di Stefania Maurizi La Repubblica, 18 maggio 2017 Arrestato nel maggio 2010 in Iraq, mentre era in servizio con l’esercito americano, l’ex soldato Usa, che ha cambiato sesso mentre era in carcere, è stato condannato a 35 anni per avere passato migliaia di documenti riservati a Wikileaks. Ma Obama commutò la pena a sette anni. Quando finalmente sarà libera di parlare e camminare in pubblico, lontana dalle sbarre delle due prigioni che l’hanno tenuta reclusa negli ultimi sette anni, in pochi, forse, potranno riconoscerla. Nessuno sa che viso abbia esattamente oggi Chelsea Manning, perché non una sola foto recente è circolata e pochissimi hanno potuto farle visita in carcere. Eppure tutto il mondo l’aspetta e conosce il suo nome. Il giorno che tutti pensavamo non potesse mai arrivare, come lo chiama il Guardian, è arrivato: Chelsea è libera. E non ci sono dubbi che dobbiamo ringraziare il presidente Barack Obama, che, in una mossa al cardiopalma, alla fine della sua presidenza ha inaspettatamente deciso di commutare la pena di 35 anni ai sette che Manning ha già scontato, rendendola di fatto libera. Una scelta ispirata tanto da ragioni di basica umanità quanto da puro calcolo politico: Obama non voleva certo che la sua eredità storica rimanesse macchiata dall’aver lasciato marcire in carcere un prigioniero di coscienza che ha rivelato il vero volto delle guerre in Afghanistan e in Iraq. E, arrivato alla fine del suo mandato, ha voluto smarcarsi nel modo più netto e plateale possibile dal suo successore Donald Trump, che non fa mistero di voler lanciare una guerra senza quartiere contro chi fa uscire documenti segreti (leaks) nel pubblico interesse. Intelligentissima - a tre anni era in grado di leggere e a quattro di fare le operazioni aritmetiche di base - e con una forza interiore che nessuno immagina possa emanare da un corpo tanto minuto, Chelsea cresce in una famiglia con un padre sbagliato e una madre amata, ma fragile. Ha talento intellettuale, si arruola per permettersi gli studi al college, come fanno tanti americani, e finisce a fare l’analista dell’intelligence in Iraq. È lì che ha la possibilità di leggere centinaia di migliaia di documenti segreti del governo americano, che rivelano la realtà della war on terror, dall’Afghanistan all’Iraq fino a Guantánamo. Ed è proprio in quella base in Iraq che Chelsea decide che tante delle storie lette su quei inaccessibili alla pubblica opinione devono uscire. Il 6 aprile 2010, un video di un elicottero americano Apache che spara su civili inermi a Baghdad, sterminando anche due cameramen dell’agenzia di stampa Reuters, fa il giro del mondo. A pubblicarlo in rete è un’organizzazione conosciuta da pochi: WikiLeaks, fondata da un australiano dai capelli bianchi, misterioso e sfuggente: Julian Assange. Invano la Reuters aveva cercato di ottenere quelle immagini dal governo americano per far luce sulla morte dei suoi giornalisti, WikiLeaks le aveva ottenute e pubblicate, mandando su tutte le furie il Pentagono. Due mesi dopo, a giugno 2010, il mondo viene a sapere che la fonte di quel video è stata arrestata: si chiama Bradley Manning, è un giovane analista dell’intelligence di appena 22 anni. A luglio 2010, WikiLeaks inizia a pubblicare 92mila file sulla guerra in Afghanistan. Passano due settimane e Assange finisce in uno scandalo sessuale in Svezia da cui, ad oggi, non è mai uscito. La sua organizzazione, però, non si ferma: nei mesi successivi pubblica 391mila file segreti sul conflitto in Iraq, 251mila cablo della diplomazia Usa, 779 schede che danno un nome e cognome e informazioni mai uscite prima su tutti i detenuti finiti a Guantanamo. Tutti documenti che, senza il coraggio di Manning, che le ha passate a WikiLeaks, non sarebbero mai uscite o perlomeno sarebbero state desecretate dopo decenni, quando ormai non avrebbero più avuto alcuna rilevanza per il dibattito pubblico e, al massimo, avrebbero appassionato gli storici di professione. La reazione del governo americano all’uscita di quei file è ferina: per nove mesi Manning viene tenuto in una prigione di massima sicurezza in condizioni che lo special rapporteur delle Nazioni Unite sulla Tortura, Juan Mendez, definisce "crudeli e inumane": 23 ore al giorno in isolamento, privato della luce del sole e della possibilità di fare anche solo una camminata all’aperto, denudato per lunghi periodi e costretto a rispondere all’appello delle guardie ogni cinque minuti esatti, ventiquattro ore su ventiquattro, anche durante la notte. Solo una campagna internazionale, riesce a porre fine a quel trattamento e a farlo approdare in un carcere militare meno duro. Per quello che se ne sa, Manning resiste a ogni pressione del governo di fare confessioni a danno di Julian Assange e di WikiLeaks. Nel 2013, inizia il processo davanti alla corte marziale. Il dibattimento conferma le intenzioni nobili di Manning: ha passato i file a WikiLeaks per ragioni etiche, per denunciare gli abusi della war on terror portata avanti dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre, e la pubblicazione di quei file segreti non ha causato un solo morto o ferito in tutto il mondo, come ha dovuto ammettere, Robert Carr, il capo della Task Force creata dal governo Usa per valutare l’impatto delle rivelazioni. Tutta la furia del Pentagono e del governo Usa che avevano subito accusato WikiLeaks - e quindi la sua fonte - di "avere le mani insanguinate" per aver messo a rischio le vite dei soldati americani e dei loro informatori, si rivela esagerata, se non propaganda vera e propria. Manning, comunque, viene condannata a una pena pesantissima: 35 anni di prigione militare, la pena più alta mai comminata a una fonte che passa informazioni a un giornalista. Da quella condanna in poi, la vita di Manning è una miseria: rinchiuso in una prigione maschile con regole rigidissime, inizialmente le viene impedito di accedere alle cure per il cambio di sesso, e le viene consentito di ricevere visite solo da parte di persone che la conoscevano prima del suo internamento. Per due volte tenta il suicidio. Tutto fa pensare che non ce la farà. E invece no, il 17 gennaio scorso, con uno degli ultimissimi atti della sua presidenza, Barack Obama, decide di commutare la sentenza di 35 anni ai sette scontati. Manning, ormai Chelsea, sarà libera. Oggi Chelsea è uscita. Ad aspettarla c’è un’intera comunità di persone che in tutto il mondo ammirano la sua decisione. Mentre una campagna internazionale ha fatto partire una raccolta di fondi per assicurarle di continuare le cure di cui ha bisogno e di realizzare il suo desiderio di poter accedere a un’istruzione (gofundme.com/welcomehomechelsea). Non è chiaro se prima o poi andrà a far visita e a confrontarsi con Julian Assange e il suo staff, che ha già fatto sapere: "Chelsea Manning è un eroina che ha ispirato molti. Non vedo l’ora di incontrarla". Di certo, anche nella sua famiglia incasinata, c’è chi l’aspetta con impazienza: "È così intelligente e di talento", ha detto la madre Susan Manning, "spero che ora abbia la possibilità di andare al college, completare i suoi studi, fare ed essere quella che lei vuole. Il mio messaggio a Chelsea? Solo due parole: Vai, ragazza". Pakistan. Multe e carcere per chi fuma, beve e mangia durante il Ramadan asianews.it, 18 maggio 2017 L’Ehtram-e-Ramazan (Amendment) Bill 2017 approvato dalla Commissione permanente per gli Affari religiosi del Senato. Multe fino a 215 euro per i proprietari di hotel che violano la legge; fino a 4300 euro per cinema e canali tv. Figlia ex premier Bhutto: "Norma ridicola". Chiunque verrà sorpreso a bere, mangiare e fumare durante il mese sacro del Ramadan rischia una sanzione economica e fino a tre mesi di carcere. Lo ha deciso la scorsa settimana la Commissione permanente per gli Affari religiosi del Senato del Pakistan, accogliendo una mozione presentata a gennaio dal senatore Tanveer Khan. La decisione ha scatenato commenti e critiche da parte degli utenti sui social network. Tra questi, emerge quello di Bakhtawar Bhutto-Zardari, figlia dell’ex premier Benazir Bhutto e dell’ex presidente Asif Ali Zardari, conosciuta per aver espresso forti posizioni sui temi caldi del Paese. In un commento su Twitter ha affermato: "Le persone moriranno per i colpi di caldo e per disidratazione grazie a questa ridicola legge. Non tutti sono in buone condizioni fisiche. Questo non è islam". Lo scorso 11 maggio la Commissione ha approvato l’Ehtram-e-Ramazan (Amendment) Bill 2017 che punisce i gestori di hotel che violano la legge con multe da 500 a 25mila rupie (da 4 a 215 euro). Chiunque mangerà durante il periodo del digiuno sacro per i musulmani, dovrà pagare una multa di 500 rupie e potrà essere incarcerato. Secondo la nromativa precedente, la Ehtram-e-Ramazan Ordinance del 1981, il divieto di mangiare e bere in pubblico si imponeva ai musulmani durante le ore diurne del Ramadan, anche se esperti islamici prevedevano la possibilità di interrompere il digiuno durante le ore calde per le fasce più a rischio della popolazione. Ora invece tutti saranno passibili di punizioni, compresi cinema e canali televisivi che potrebbero essere costretti a risarcire fino a 500mila rupie (quasi 4300 euro). Bakhtawar Bhutto-Zardari ha commentato: "Non tutti devono digiunare in Pakistan - per esempio i bambini nelle scuole, gli anziani, le persone con problemi di salute. Dovremmo per caso impedire loro di bere un bicchiere d’acqua?".