Padova. Carcere, indagato per falso l’ex direttore Pirruccio di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 17 maggio 2017 Accusato di aver "declassato" 12 detenuti dall’alta sicurezza al regime comune senza passare per la commissione. Nei guai dopo l’ispezione ministeriale. È indagato per falso in atto pubblico l’ex direttore della casa di reclusione Due Palazzi, Salvatore Pirruccio, 64 anni, alla guida dell’istituto per 13 anni fino all’ottobre 2015, poi trasferito al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto con sede a Padova in qualità di vicario. L’accusa? L’aver predisposto degli atti grazie ai quali sono stati declassati 12 reclusi dal regime di alta sicurezza (riservato ai condannati inseriti nella criminalità organizzata per reati di tipo associativo come mafia, traffico di droga a livello internazionale, sequestri di persona, terrorismo) a quello proprio dei detenuti comuni. Reclusi - alcuni dei quali impegnati nelle cooperative sociali, attive all’interno della struttura penitenziaria come la pasticceria Giotto, guidate da Nicola Boscoletto - che avrebbero dovuto essere trasferiti altrove, in un carcere con la sezione "alta sicurezza" eliminata dal Due Palazzi. Così non è avvenuto e, per far restare a Padova quei detenuti, sarebbe stato riqualificato il regime loro attribuito. L’inchiesta è coordinata dal capo della procura Matteo Stuccilli con il pubblico ministero Sergio Dini. Il reato di falso. Nel novembre 2014 in carcere si presentano gli ispettori del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, uno dei quattro dipartimenti del Ministero della Giustizia che sovrintende tutti gli istituti penitenziari). Nei mesi successivi si discute la chiusura della sezione padovana di alta sicurezza dove si trovano 85 persone sottoposte al regime che prevede una modalità più restrittiva (37, alcuni ex capi mafia) e una più lieve (una settantina). "Chi ha intrapreso un percorso rieducativo-trattamentale, per esempio andando a scuola, frequentando corsi, lavorando, potrebbe essere escluso da trasferimenti come prevede il progetto di chiusura dell’Alta sicurezza" aveva osservato l’allora direttore Pirruccio. Poi il Dap decide: si chiude. E alcuni detenuti dell’alta sicurezza vengono trasferiti altrove, altri restano a Padova. Tra il marzo e l’aprile 2015 il direttore firma i provvedimenti destinati a cambiare il regime per una dozzina di reclusi che passano dall’alta sicurezza a quello comune in base a quanto risulta dagli accertamenti affidati all’Aliquota operativa dei carabinieri guidati dal tenente Quarta. Con quale giustificazione? Il raggiungimento di obiettivi risultati di progressione trattamentale. La procedura violata. Non che un declassamento non sia possibile, ma le regole da seguire sono precise e chiare. Regole che - si contesta a Pirruccio -sarebbero state calpestate. Le norme dell’Ordinamento penitenziario prevedono la valutazione dei singoli casi da parte di una commissione presieduta dal direttore e formata da esperti, come educatori e psicologi. Secondo l’indagine, invece, le commissioni sarebbero state convocate a cose fatte. "Quelli che vengono "declassificati" non sono detenuti restituiti alla libertà. Non significa regalargli chissà quali privilegi, solo trattarli un po’ più da persone e un po’ meno da merci da scaricare da un carcere all’altro" aveva commentato di fronte alla notizia dell’inchiesta in corso la direttrice di Ristretti Orizzonti, Ornella Favero. La denuncia del Dap. Nel 2015 arriva in procura il rapporto del Dap che aveva eseguito l’ispezione, dopo l’inchiesta su un sistema di crimini, abusi e complicità tra alcuni agenti di polizia penitenziaria e un gruppo di detenuti, capaci di trasformare un reparto del carcere in un supermarket fuorilegge dove tutto aveva un prezzo. E un rapporto durissimo sulla direzione Pirruccio condizionato - insiste il Dap - da un lato dalle coop di Boscoletto e dall’altro da Ristretti Orizzonti. Quel documento fa scattare l’inchiesta sul vertice del Due Palazzi con l’arresto (notificato in carcere nel dicembre scorso) dell’ergastolano Mario Pace, siciliano ex esponente del clan Pillera-Cappello condannato per omicidi e mafia. Dal Due Palazzi, dirigeva un traffico di droga proveniente dall’Olanda. Il dirigente: "ho già avuto modo di chiarire" "Devo ancora vedere ancora di che cosa si tratta" risponde l’ex direttore Salvatore Pirruccio a proposito dell’inchiesta nella quale risulta indagato. Eppure venti giorni fa Pirruccio (difeso dall’avvocato Annamaria Marin) è stato interrogato in procura. "Sì", ammette il dirigente ormai prossimo alla pensione (manca un anno), "ho chiarito, ma sarebbe scorretto parlare in questa fase dell’inchiesta". Nessun commento da parte di Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto e attivo da 27 anni in carcere nel portare lavoro fra i detenuti del Due Palazzi: "Dell’inchiesta, non so nulla. E non parlo di ciò che non conosco". Quanto all’ex direttore "per me è una persona onesta e un grande servitore dello Stato". Attualmente della casa di reclusione si trovano circa 650 detenuti. L’8 luglio 2014 l’inchiesta sul "carcere colabrodo" aveva portato al l’arresto di 15 persone ma a un totale di 31 indagati. Al Due Palazzi entrava di tutto (droga, chiavette usb, cellulari e schede sim). Nel marzo scorso sequestrati altri 6 cellulari con schede sim. Padova. L’ex direttore del Due Palazzi indagato per falso di Nicola Muraro Corriere Veneto, 17 maggio 2017 "Favoriva i detenuti che lavoravano nelle coop". Ristretti Orizzonti e la Giotto difendono Pirruccio: "Ha interpretato la natura rieducativa del carcere". L’accusa, falso in atto pubblico, è già pesante di per sé. Ma la frase scritta dagli ispettori del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) sull’ex direttore del Due Palazzi Salvatore Pirruccio lo è ancora di più: il carcere di Padova, secondo il Dap, era in mano alle cooperative e il ruolo del direttore era subalterno rispetto a quello giocato da Nicola Boscoletto e Ornella Favero, rispettivamente responsabili della cooperativa di pasticceria Giotto e di Ristretti Orizzonti che pubblica la rivista del Due Palazzi. È l’ennesima tegola che cade sulla gestione del carcere padovano dopo che nel luglio 2014 un’inchiesta della procura aveva dipinto il Due Palazzi come una sorta di paese del Bengodi per chi poteva e sapeva fare la voce grossa. Le dichiarazioni del Dap e il contesto del Due Palazzi sono diventati il perno di una nuova inchiesta - oggi sul tavolo del procuratore capo Matteo Stuccilli e del sostituto procuratore Sergio Dini - sulla gestione e sul sistema di pesi e contrappesi all’interno del penitenziario padovano, declassato da carcere di massima sicurezza a carcere di media sicurezza nell’aprile 2015. Tutta colpa di quanto svelato dall’indagine che aveva portato all’arresto di alcuni agenti di polizia penitenziaria in combutta con detenuti molto influenti per trasformare i bracci del penitenziario padovano in bazar occulti dove schede telefoniche, cellulari e droga erano all’ordine del giorno nei corridoi della casa di reclusione grazie a strette di mano illecite e accordi sottobanco. Ma quanto scoperto non era che la punta dell’iceberg, secondo gli ispettori mandati dal ministero. Proprio all’esito di quell’ispezione voluta dal Guardasigilli nel novembre 2014 e i cui risultati sono arrivati a palazzo di Giustizia solo nei primi mesi del 2015, la procura si è mossa per aprire un nuovo fascicolo e indagare Salvatore Pirruccio, per tredici anni alla guida del carcere di via Due Palazzi. Secondo l’impianto accusatorio sviluppato dai carabinieri dell’aliquota operativa della compagnia di Padova, agli ordini del tenente Quarta, tutto si sarebbe svolto nei giorni frenetici di marzo e aprile 2015 mentre a Roma si stava discutendo del declassamento del penitenziario di Padova. La scelta di togliere i gradi di carcere di massima sicurezza avrebbe portato in dote il trasferimento in altri penitenziari di carcerati con condanne all’ergastolo per reati di associazione mafiosa o di particolare crudeltà. Un dozzina di loro però è tuttora in cella al Due Palazzi nonostante il carcere sia sprovvisto di una sezione ad alta sicurezza dalla fine di aprile 2015. A tenerli in via Due Palazzi sarebbero stati allora degli ordini di "declassamento del detenuto" firmati tra marzo e aprile 2015 proprio dal direttore Pirruccio, senza che ci fosse stata la riunione della commissione interna di valutazione, come prevede la legge. Secondo l’accusa, non c’era alcun motivo di firmare un provvedimento d’urgenza di questo tipo, se non per la volontà di trattenere quei detenuti a Padova ed evitare loro il trasferimento in un nuovo carcere di massima sicurezza. A solleticare l’attenzione dei carabinieri e della procura il fatto che le commissioni di valutazione erano state istituite tempo dopo, quando il declassamento della dozzina di detenuti era ormai passato dalle parole ai fatti e soprattutto la coincidenza che tutti i detenuti salvati dal trasferimento lavorassero proprio nelle cooperative Giotto e Ristretti Orizzonti. Nelle scorse settimane l’ex direttore (da indagato) è stato anche sentito in procura assieme al suo avvocato Annamaria Marin, ma nulla trapela dalla chiacchierata con il pm Dini. "Non ho nessuna dichiarazione da fare, preferisco non dire nulla - ha commentato ieri al telefono Salvatore Pirruccio. Quando ci saranno cose più concrete magari potrò esprimermi meglio: non si tratta di non voler rispondere alle domande, ma prima devo conoscere gli atti". Nessun commento nemmeno dai vertici delle due cooperative accusate dal Dap di tirare le redini del carcere. "Non ho nulla da dire se non ribadire tutta la stima nei confronti di un servitore dello stato come è stato il direttore Pirruccio - è stata la risposta di Nicola Boscoletto -: stiamo parlando di una persona onesta e corretta come poche ne ho viste. Non conosco le accuse, ma per lui parlano i fatti e la volontà di umanizzare il carcere". Anche Ornella Favero di Ristretti Orizzonti difende l’operato dell’ex direttore. "Il dottor Pirruccio è stato un direttore che interpretato la Costituzione e la natura rieducativa del carcere al meglio". Padova. Avviata un’indagine sugli ergastolani che godono di permessi di Marco Aldighieri Il Gazzettino, 17 maggio 2017 Bufera sulla casa di reclusione Due Palazzi, indagato l’ex direttore Salvatore Pinuccio accusato di aver trasformato dodici carcerati in regime di alta sicurezza in reclusi comuni. È ancora bufera sulla casa di reclusione Due Palazzi di Padova. L’ex direttore del carcere Salvatore Pirruccio, ora vicario del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto, è stato iscritto nel registro degli indagati per falso in atto pubblico. L’indagine è scattata al termine di un’ispezione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: controllo avvenuto a seguito della prima indagine sulla casa di reclusione terminata nel luglio del 2014 con arresti anche di poliziotti penitenziari per l’introduzione nelle celle di droga e telefoni cellulari. L’ispezione è avvenuta nel novembre del 2014 e ad aprile del 2015 il Due Palazzi da carcere di massima sicurezza è stato declassato a penitenziario di media sicurezza. Ed è in questo periodo, secondo l’accusa, che l’ex direttore Salvatore Pirruccio avrebbe "declassato" almeno una dozzina di detenuti in regime di alta sicurezza a reclusi comuni. In questo modo i carcerati per l’accusa hanno potuto godere di un impiego all’interno del penitenziario e di permessi premio. Si tratta di assassini, ergastolani e mafiosi in regime di 41 bis. E così la Procura ha dato mandato ai carabinieri di indagare sul perché e su chi abbia concesso a questa dozzina di carcerati in regime di alta sicurezza di passare a una detenzione molto più morbida. Per la Procura euganea il declassamento dei detenuti, è avvenuto per mano di Salvatore Pinuccio attraverso una serie di commissioni interne al carcere. Ma nella relazione degli ispettori del Dap, consegnata alla Procura solo alla fine del 2015, c’è molto di più. È stato scritto nero su bianco che "...La casa di reclusione Due Palazzi è comandata dalle cooperative, e la posizione del direttore del carcere è subordinata a queste cooperative...". Un’accusa molto pesante e che ha indotto il sostituto procuratore Sergio Dini, sotto la super visione del procuratore capo Matteo Stuccilli, a fare scattare le indagini. L’ex direttore del carcere è già stato interrogato e avrebbe smentito categoricamente di essere stato succube delle cooperative. Ma per l’impianto accusatorio Salvatore Pirruccio, quel declassamento di una dozzina di detenuti lo ha effettuato, incappando nel reato di falso in atto pubblico, per fare rimanere i reclusi nel carcere di Padova a proseguire il loro lavoro all’interno della cooperativa "Giotto" e di "Ristretti Orizzonti". Il presidente della prima è Nicola Boscoletto, che ormai da quasi trent’anni porta avanti progetti di lavoro per i detenuti. L’attività della cooperativa sociale "Giotto" è iniziata con la cura e la manutenzione del verde, ma il progetto più conosciuto a livello nazionale e internazionale è legato alla pasticceria con i famosissimi panettoni. Come si legge sul sito ufficiale "il consorzio dà lavoro attraverso le consociate a quasi 450 persone, di cui il 35% circa in condizioni di svantaggio, per un fatturato aggregato di circa 20 milioni di euro nel 2012". E poi c’è la rivista "Ristretti Orizzonti" e l’associazione "Granello di Senape" delle quali è direttrice e presidente Ornella Favero. L’associazione gestisce il centro di documentazione all’interno del carcere che dà vita a diverse iniziative, come la pubblicazione appunto della rivista "Ristretti Orizzonti", ma anche la rassegna stampa interna e il "Tg 2 Palazzi". Padova. "Carcere in mano alle cooperative". Ex direttore indagato di Marco Aldighieri Il Gazzettino, 17 maggio 2017 L’ex direttore della casa di reclusione Due Palazzi Salvatore Pirruccio, ora vicario del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto, è stato iscritto nel registro degli indagati per falso in atto pubblico. L’indagine, coordinata dal sostituto procuratore Sergio Dini sotto la super visione del procuratore capo Matteo Stuccilli, è incentrata sul declassamento di una dozzina di detenuti pericolosi. Tutto è scattato al termine di un’ispezione del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria), dalla quale è emerso che "...Il carcere di Padova è comandato dalle cooperative...". Il Dap, a seguito della prima indagine sulla casa di reclusione Due Palazzi terminata nel luglio del 2014 con arresti anche di poliziotti penitenziari per l’introduzione nelle celle di droga e telefoni cellulari, ha deciso di effettuare un’ispezione nel carcere di massima sicurezza. Il controllo è avvenuto nel novembre del 2014, e ad aprile del 2015 il Due Palazzi da carcere di massima sicurezza è stato declassato a penitenziario di media sicurezza. Ed è in questo periodo, secondo l’accusa, che l’ex direttore Salvatore Pirruccio difeso dall’avvocato Annamaria Marin avrebbe declassato almeno una dozzina di detenuti in regime di alta sicurezza a reclusi comuni. In questo modo i carcerati hanno potuto godere di un impiego all’interno del penitenziario e di permessi premio. Si tratta di assassini, ergastolani e mafiosi in regime di 41 bis. E così la Procura ha dato mandato ai carabinieri dell’Aliquota operativa della Compagnia di Padova di indagare sul perché e su chi ha concesso a questa dozzina di carcerati in regime di alta sicurezza di passare a una detenzione molto più morbida. E, per il pubblico ministero Sergio Dini, il declassamento dei detenuti è avvenuto per mano di Salvatore Pirruccio attraverso una serie di commissioni interne al carcere. Ma nella relazione degli ispettori del Dap, consegnata alla Procura solo alla fine del 2015, c’è molto di più. È stato scritto nero su bianco che "...La casa di reclusione Due Palazzi è comandata dalle cooperative, e la posizione del direttore del carcere è subordinata a queste cooperative...". Un’accusa molto pesante e che ha costretto la Procura a fare scattare le indagini. Alcune settimane fa l’ex direttore del carcere è stato interrogato dal sostituto procuratore Sergio Dini, e avrebbe smentito categoricamente di essere stato succube delle cooperative. Ma per l’impianto accusatorio l’ex direttore Pir-ruccio, che ha lasciato il carcere Due Palazzi nell’ottobre del 2015 dopo tredici anni, quel declassamento di una dozzina di detenuti lo ha effettuato, incappando nel reato di falso in atto pubblico, per fare rimanere i reclusi nel carcere di Padova a proseguire il loro lavoro all’interno della cooperativa "Giotto" e di "Ristretti Orizzonti". A dicembre dell’anno scorso Salvatore Pirruccio aveva dichiarato, in merito alle inchieste sul suo ex carcere "Periodo difficile ma ormai abbastanza superato". Quanto alla trasformazione del carcere di alta sicurezza, almeno nei numeri, l’ex direttore aveva parlato di una giusta ristrutturazione. "Dipende dalle politiche del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria". E sul suo lavoro all’interno del carcere aveva detto "Ho sempre lavorato con lo spirito dell’ordinamento penitenziario, l’aspetto più positivo è che io, insieme ai miei collaboratori, sono riuscito a condurre tanti detenuti sulla via del recupero". Padova. Dalla pasticceria al tg in cella: i due ideatori del reinserimento di Massimo Zilio Il Gazzettino, 17 maggio 2017 Nicola Boscoletto è il patron della pluripremiata "Giotto" Ornella Favero dirige la rivista "Ristretti Orizzonti". Nicola Boscoletto e Ornella Favero sono due nomi importanti nel quadro del lavoro e del volontariato in carcere, non solo a Padova. Entrambi infatti pur operando all’interno del Due Palazzi portano avanti dei progetti di portata nazionale. Nicola Boscoletto è il presidente della cooperativa sociale Giotto, che porta avanti da ormai tre decenni progetti di lavoro per i detenuti. Tutto è iniziato con l’attività di cura e manutenzione del verde, anche se senza dubbio il progetto più conosciuto e preso a esempio è quello della pasticceria Giotto, con i celeberrimi panettoni e non solo. Negli anni ottanta Boscoletto, assieme ad alcuni colleghi appena laureati in agraria e scienze forestali, crea la cooperativa sociale di tipo B Giotto, per dare lavoro a persone svantaggiate e in particolare ai detenuti. Nel 1991 iniziano i primi corsi di giardinaggio all’interno del carcere, poi l’attività si diversifica e diventa sempre più articolata. Nel 2004 inizia l’attività di ristorazione con la mensa interna alla case di reclusione e quindi con la pasticceria qualche mese dopo. Pasticceria che diventerà in pochi anni celeberrima soprattutto per i panettoni di alta pasticceria. L’attività, che non coinvolge solo i detenuti, continua a crescere e si affiancano altre cooperative, coordinate da un consorzio, chiamato prima Rebus e poi Consorzio Giotto. Accanto alla rinomata pasticceria e alle attività di manutenzione del verde nascono così un call center, i laboratori di montaggio valige, la gioielleria, quindi quello per la realizzazione di pen drive e l’assemblaggio biciclette. Come si legge sul sito ufficiale "il consorzio dà lavoro attraverso le consociate a quasi 450 lavoratori, di cui il 35% circa in condizioni di svantaggio, per un fatturato aggregato di circa 20 milioni nel 2012". Grazie a queste esperienze Nicola Boscoletto diventa un punto di riferimento sul tema del lavoro in carcere e in generale delle attività volte a evitare le recidiva per le persone detenute. Impegno portato avanti anche da Ornella Favero, direttrice della rivista Ristretti Orizzonti e presidente dell’associazione Granello di Senape. L’associazione gestisce il centro di documentazione all’interno del carcere che dà vita a diverse iniziative, come la pubblicazione appunto della rivista Ristretti Orizzonti, ma anche la rassegna stampa interna e il "Tg 2 Palazzi", telegiornale di tema carcerario. Centro di tutte le attività è Ornella Favero, che è animatrice di molte battaglie come quella per la continuità degli affetti in carcere e contro l’ergastolo ostativo. L’attività con i detenuti è spesso rivolta anche all’esterno, con una serie di convegni che negli anni hanno portato a parlare all’interno del Due Palazzi persone come Gherardo Colombo, Agnese Moro, Ilaria Cucchi. In carcere però entrano, nell’ambito dei progetti portati avanti dall’associazione, anche le scuole, che incontrano i detenuti che raccontano le loro storie all’interno del Due Palazzi. Tante attività nate all’interno del carcere si sono sviluppate e sono cresciute quando il direttore era Salvatore Pirruccio, da sempre molto attento all’aspetto rieducativo della pena: "Ho piena fiducia di Pirruccio, uomo di grande onestà" commenta Boscoletto. Chiusi gli Opg, ora mai più manicomi di Franco Corleone* Il Manifesto, 17 maggio 2017 L’11 maggio 2017, l’ultimo internato del manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto ha lasciato la struttura infernale per antonomasia e ha trovato accoglienza in una comunità terapeutica di Modica. Questa data ha un significato storico. Finalmente si è chiusa l’era dell’internamento nelle istituzioni totali per eccellenza e i tristi nomi di Aversa, Montelupo, Reggio Emilia, Secondigliano sono destinati alla memoria di un passato che non deve tornare. Anche Castiglione delle Stiviere dovrà percorrere la strada della riforma che ha deciso la chiusura degli Opg e l’abbandono della logica manicomiale. L’Italia può essere orgogliosa di essere all’avanguardia in Europa e nel mondo; dopo la chiusura grazie alla legge 180 del manicomio civile, ora inizia la prova ancora più difficile della cancellazione dell’orrore del manicomio criminale. La legge 81 del 2014 ha indicato un percorso che ora segna un punto di non ritorno. La "rivoluzione gentile" si è affermata in questi due anni e nonostante le resistenze e le incomprensioni di parti della magistratura, della psichiatria e dell’informazione e si è consolidata sulla base della passione, dell’impegno e dell’entusiasmo di tutto il personale che si è sentito protagonista di una bella avventura. Purtroppo il Governo e il Parlamento invece di affrontare le criticità segnalate nelle relazioni dell’attività di commissario e quindi di mettere in campo una modifica radicale delle misure di sicurezza secondo le line emerse nei tavoli degli "Stati Generali del carcere" e di cancellare le norme del Codice Penale ormai obsolete e in contrasto con la riforma, hanno lasciato passare nella discussione in Senato della legge delega sul processo penale e sull’Ordinamento penitenziario, un emendamento risibile che però ripropone a livello concettuale un ritorno indietro, configurando le Rems come nuovi Opg. Immediatamente è scattata la mobilitazione perché questa vergogna fosse cancellata. Dal 12 aprile StopOpg ha organizzato un digiuno a staffetta che oggi è giunto al trentaseiesimo giorno con la partecipazione di oltre centocinquanta persone, tra cui deputati e senatori, psichiatri, operatori dei servizi, avvocati, giornalisti, militanti delle associazioni dei diritti civili e sociali. La catena durerà fino alla approvazione del provvedimento con la speranza della modifica di una norma figlia della improvvisazione. La Conferenza delle regioni ha espresso una netta opposizione; il Csm ha approvato una delibera che dà indicazioni ai magistrati perché la riforma sia implementata e non osteggiata e nel frattempo si è costituito un Coordinamento delle Rems per monitorare lo sviluppo delle buone pratiche attraverso la raccolta dei dati e lo scambio di esperienze. Questa iniziativa dal basso sarà presentata giovedì 18 maggio a Bologna all’interno della Riunione Scientifica Siep presso l’Aula Magna dell’Ospedale Maggiore. La chiusura degli Opg ha rimesso in moto la discussione sulla salute mentale nel paese e sugli obiettivi da perseguire nei Dipartimenti, nelle Asl e nelle Regioni. Al centro della riflessione deve essere messo il tema della cura e delle alternative alla detenzione per i detenuti con patologie psichiatriche o con disturbi psichici o comportamentali. È una partita che va affrontata e vinta per tutti i soggetti coinvolti e in tutti i luoghi della sofferenza. Una rivalutazione del sistema di welfare deve partire proprio dall’anello più debole, abbandonando le catene simboliche e materiali e riproponendo il principio che la libertà è terapeutica. Diritti e dignità sono il fondamento della Costituzione ma si devono inverare nelle prassi quotidiane. *Franco Corleone è stato nominato Commissario unico del Governo per le procedure necessarie al definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) con il completamento delle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) nelle Regioni Abruzzo, Calabria, Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto Orlando: "Continuare sulla strada tracciata da Marco Pannella" di Valentina Stella Il Dubbio, 17 maggio 2017 Messaggio del Guardasigilli al concerto di Luca Barbarossa lunedì a Rebibbia. "Marco sei andato via senza dirci niente. Ma poi penso che sarai sempre qui con noi perché sei sempre stato uno di noi, da te abbiamo imparato a non arrenderci": queste parole sono tratte da una poesia scritta da Francesco Cecchetti, detenuto nel carcere romano di Rebibbia che ha voluto, a nome di tutti i reclusi, rendere omaggio a Marco Pannella a un anno dalla sua scomparsa. Le ha pronunciate lunedì sera, all’apertura del concerto di Luca Barbarossa, organizzato dal Partito Radicale, proprio nell’istituto di pena della Capitale per ricordare il leader radicale morto il 19 maggio 2016. Una serata ricca di emozioni per le centinaia di detenuti e detenute sedute in platea ad ascoltare le note del cantautore romano, al loro fianco da molto tempo, per chiedere la garanzia dei loro diritti e il rispetto della dignità attraverso la partecipazione a partite di calcio giocate insieme tra le mura carcerarie e con concerti suonati nelle case circondariali. "Marco Pannella è sempre stato una spina nel fianco della coscienza della nostra società", ha raccontato Barbarossa ai cronisti: "aveva un orologio che andava una decina di anni avanti rispetto agli altri ha aggiunto - e ha difeso diritti in periodi in cui sembrava anche impensabile difenderli. Il rapporto che ha creato con i detenuti e le strutture carcerarie è stato importante". Con la comunità penitenziaria, come una grande famiglia che si incontra per una festa, c’erano gli esponenti del Partito Radicale, tra cui Sergio D’Elia, Rita Bernardini, Antonella Casu, Maurizio Turco, Maria Antonietta Farina Coscioni. In prima fila la direttrice del carcere Rossella Santoro e il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Santi Consolo. "Marco Pannella ha fatto alleanze con tutti i partiti per raggiungere quelli che erano i sui obiettivi - ha raccontato il responsabile del Dap -. Lo faceva perché aveva una profonda fiducia nell’uomo, nella sua sensibilità. Ha fatto riflettere tutti sia sulle libertà civili sia sulle nuove battaglie che bisogna portare avanti. Se vogliamo veramente bene a Marco dobbiamo farlo vivere con una nuove sensibilità che porti avanti quelle sue battaglie". Consolo ha poi condiviso con tutti i presenti il messaggio del ministro della Giustizia Andrea Orlando il quale, per un imprevisto dell’ultimo momento, non ha potuto presenziare al concerto: "la consapevolezza della scomparsa di Pannella deve trovare una sua collocazione nella volontà di proseguire le sue battaglie, mantenendo viva la sua immensa eredità politica" ha scritto il Guardasigilli, che ha invitato "a mantenere alta l’attenzione sulla sua principale preoccupazione: garantire diritti civili e umani ai detenuti, rendere la detenzione un periodo utile a ripensare alla propria esperienza e ricondurre questa nell’alveo di una nuova partenza, potendo contare su strumenti adeguati che accompagnino in un concreto reinserimento socialè. Orlando, citando proprio Pannella, ha ricordato che "il carcere non può essere una struttura di persecuzione sociale per la soluzione di due problemi che non si sa altrimenti come affrontare, il consumo di droga e l’immigrazione". Parole di una "drammatica attualità", le ha definite il ministro, "che devono indurci a perseguire il compito che ci è stato sollecitato da Marco Pannella: migliorare le condizioni della detenzione e restituire alla pena il senso di umanità che la Costituzione gli assegna". Rita Bernardini ringrazia Orlando e sostiene di apprezzare gli sforzi fatti dal suo ministero ma vuole precisare che "la situazione non è semplicemente da migliorare; Marco Pannella, pronunciando la parola amnistia, per molti scomoda e scandalosa ma che è scritta nella nostra Costituzione, chiedeva il rientro nella legalità da parte delle nostre istituzioni che significa, per quanto riguarda le carceri, ad esempio non morire in prigione perché non si è curati come si dovrebbe, in quanto purtroppo il detenuto non viene creduto quando dice di stare male". Limature al reato di tortura, oggi voto finale al Senato Il Dubbio, 17 maggio 2017 "Salvo" chi infligge sofferenze "solo per eseguire misure". Accolte le modifiche preparate dai relatori D’Ascola e Buemi. Sulla precisazione per chi effettua arresti, Gasparri dice: "le forze dell’ordine vanno rassicurate". L’aula di Palazzo Madama ha concluso ieri l’esame degli emendamenti presentati al disegno di legge sulla tortura, ma le dichiarazioni di voto e il voto finale del provvedimento slittano ad oggi. L’assemblea ha approvato le modifiche messe a punto dai relatori Nico D’Ascola ed Enrico Buemi, mentre sono stati respinti quasi tutti i subemendamenti. Tra le novità: la pena minima passa da 3 a 4 anni, mentre la massima resta fissata a 10; non si prefigura il reato di tortura se le "sofferenze" risultano "unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti". Una "sottolineatura" considerata da opposizioni e parte della maggioranza "inutile" o "ultronea", ma comunque accolta anche perché, come spiega più volte il forzista Maurizio Gasparri, "l’importante è mandare un messaggio rassicurante alle forze dell’ordine, far capire che questo non è un disegno di legge contro di loro". Alla fine la modifica passa con 181 sì, 18 no e 26 astenuti. In più, per- ché si possa parlare di "istigazione" alla tortura, tale istigazione deve avvenire in modo "concretamente idoneo": non sarebbero dunque punibili ordini con cui i vertici delle forze di polizia sollecitassero genericamente il ricorso alle maniere forti. Via libera all’articolo 1 del ddl, quello che definisce il reato di tortura e ne stabilisce la pena, con 178 sì, 16 no, 29 astenuti. L’articolo 2 invece non si vota perché non cambiato. Sull’articolo 4 solo un piccolo ritocco, ora il testo recita "non può essere riconosciuta alcuna forma di immunità agli stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati per il reato di tortura in altro Stato o da un Tribunale internazionale", mentre nel testo uscito dalla commissione Giustizia si parlava solo di "immunità diplomatica". I cambiamenti introdotti ieri al Senato, si osserva nell’opposizione, rendono il testo "più vicino a quello uscito dalla Camera". Dove si tornerà in ogni caso per la quarta "navetta". In Senato vogliono rendere inutile il reato di tortura di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2017 In stallo dal 2014, il disegno di legge sulla tortura, reato che l’Italia ancora non ha introdotto nel suo ordinamento, nonostante abbia firmato le relative convenzioni oltre trent’anni fa, da ieri è in votazione al Senato. In aula è approdato un testo modificato rispetto a quello della Camera, "se possibile, un testo peggiorativo rispetto a quello di Montecitorio". È categorico Felice Casson, senatore di Mdp, che abbiamo sentito dopo il suo intervento a Palazzo Madama, dove ha presentato una sua proposta, bocciata dalla maggioranza. Il suo obiettivo, come quello di Corradino Mineo e degli altri senatori che l’hanno firmata, era almeno di arginare i danni e non far passare una modifica strategica presentata dai relatori Nico D’Ascola (alfaniano di Ap) ed Enrico Buemi (socialista del Gruppo Misto) "per rendere una corsa a ostacoli la condanna per il reato di tortura", ci dice senza fronzoli diplomatici, Felice Casson. La questione è molto tecnica, ma è sulle singole parole che si gioca la vera introduzione del reato di tortura in Italia oppure la sua comparsa di pura facciata, come sembra stia per accadere oggi. Recita l’emendamento, approvato, dei relatori: il reato di tortura si configura "se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la persona". Ecco, la parola chiave: "Più condotte". Casson ci spiega che avrebbe voluto venisse trasformata in "una o più condotte" perché "altrimenti non sarà quasi mai punibile. Fa il paio con il testo della commissione Giustizia del Senato che prevedeva violenze reiterate e poi quel reiterate è sparito". Insomma, voler introdurre che si è punibili solo se siano state commesse più condotte, prosegue Casson, "è una ingiustificata modifica per impedire che questo reato diventi qualcosa di concreto". Nel ddl si fa riferimento anche a "verificabile trauma psichico", ma - spiega il senatore, che è stato a lungo giudice istruttore e pm - "è un elemento praticamente impossibile da riscontrare a livello processuale". Dal testo approdato in aula sparisce pure il riferimento alle confessioni estorte, alle pressioni, alla tortura per motivi di discriminazione: "Si mo di fronte - conclude amaro Casson - a un completo aggiramento delle convenzioni internazionali, in particolare quella Onu del 1952, quella firmata a New York nel 1984 e la convenzione di Strasburgo del 1987". Al Senato, poi, è stato presentato un secondo emendamento "politico" D’Ascola-Buemi in cui si specifica (anche se il codice lo prevede già) che non si può parlare di tortura nel caso di "sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative dei diritti". "Se magari l’agente - ha spiegato Buemi - rompe il braccio a uno mentre lo arresta, non si può far rientrare nella tortura". Nelle varie letture che ci sono state, il reato - per un costante compromesso al ribasso -è passato da "proprio" a "comune": contrariamente a quanto stabilito dalle convenzioni internazionali, il fatto che possa essere commesso da un agente delle forze di polizia diventa solo un’aggravante. In più, sono state ridotte le condanne: il poliziotto che ha commesso una tortura rischia da 5 a 12 anni, mentre nel testo uscito dalla Camera la pena era dai 5 ai 15 anni. Per cittadini comuni, invece, la pena va dai 4 ai 10 anni. Il disegno di legge ha avuto un iter travagliato per le barricate della destra e dei centristi che hanno sempre voluto un testo annacquato per "proteggere", a modo loro, le forze di polizia anche se - ha detto Casson in aula - "non ne hanno bisogno. Non è contro di loro, ma contro chi commette violenze". Fu il senatore del Pd Luigi Manconi a presentare un testo, approvato il 5 marzo 2014, ma ammorbidito, tanto da essere criticato dallo stesso senatore. Alla Camera, modificato, fu approvato il 9 aprile 2015, dopo la condanna di Strasburgo nei confronti dell’Italia per il comportamento delle forze di polizia durante l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, al G8 del 2001, quando ci fu una "macelleria messicana". Oggi Amnesty International è definitiva: "Testo impresentabile". Intercettazioni, la Procura di Roma manda un segnale di Barbara Alessandrini L’Opinione, 17 maggio 2017 Oggi c’è una vera notizia. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo a carico de "Il Fatto quotidiano" per violazione del segreto istruttorio e per pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale. "Il Fatto" ha pubblicato l’altro ieri, come professione ormai impone a chi voglia fregiarsi del titolo di "bravo giornalista", l’intercettazione di una telefonata, risalente al 2 marzo scorso tra Matteo Renzi e il padre Tiziano intercorsa a ridosso dell’interrogatorio del padre dell’ex premier nell’ambito dell’inchiesta Consip e che con ovvio intento pubblicitario anticipa quanto riportato nel libro di Marco Lillo, "Di padre in figlio" a breve nelle edicole. Dicevamo, la notizia. Non è certo quella dell’ennesima pubblicazione di un’intercettazione. E non perché si stia indebolendo il minoritario fronte di chi denuncia il malcostume e la tirannia di un malinteso diritto di cronaca ormai da tempo dedito all’esercizio della gogna e autolegittimatosi a violare tutti gli altri diritti e garanzie che entrano in gioco nell’ambito di qualsiasi scenario procedimentale a carico di chicchessia, in sintesi del diritto all’equo processo. No, al contrario, forse l’insistenza di chi non intende arretrare di fronte alla tutela delle garanzie individuali alla fine sta aprendo qualche piccola breccia. La notizia di ieri è infatti che una Procura, quella di Roma, finalmente, si è mossa a sorpresa e concretamente in una direzione che, nel caso fosse seguita da altre procure, inizierebbe a incrinare il perverso sodalizio tra Pm e soggetti inquirenti da una parte e redazioni e giornalisti dall’altra. E lo ha fatto semplicemente applicando il Codice di procedura penale che stabilisce agli articoli 114 e 115 sia il divieto di pubblicare atti coperti da segreto ma anche atti non più coperti da segreto fino al termine delle indagini e, se si procede al dibattimento, fino alla sentenza di primo grado e per il fascicolo del Pm fino alla sentenza in appello. Sia l’obbligo che la Procura che venga a conoscenza di tale violazione da parte di chi esercita una professione che richiede abilitazione dallo Stato, come i giornalisti, apra un fascicolo per illecito disciplinare di cui informa l’organo titolare del potere disciplinare. Ehilà, allora il Cpp è ancora considerato legge? Pare di sì anche se la decisione della Procura romana è un’arma in realtà spuntata tanto che Marco Lillo si è serenamente abbandonato all’ironia dichiarando, "mi consegno, la Procura è qui vicino". Un illecito disciplinare, insomma, non fa tremare nessuno tanto più se giustificato anzi santificato da quello che viene considerato la madre di tutti i diritti: il diritto di cronaca e la libertà di informazione che dà licenza di piegare alle proprie necessità, come avviene costantemente, principi consolidati nella giurisdizione europea e nella nostra costituzione come il rispetto della dignità, il diritto di difesa, alla formazione della prova e della verità e delle responsabilità individuali davanti al giudice e solo in sede di contraddittorio, mai prima a mezzo stampa. La decisione della Procura di Roma dunque rappresenta forse solo un timido segnale che non si è perso del tutto il senso di cosa sia la civiltà giuridica e l’effettivo stato di diritto. La notizia diventerebbe un’ottima notizia se quel fascicolo fosse diretto anche a indagare su chi, all’interno del circuito investigativo, a partire dagli uffici della polizia giudiziaria fino alle procure medesime, passa gli atti di indagine ai giornalisti, seguitando a irrorare il perverso sodalizio tra Pm, uffici di polizia giudiziaria e redazioni, fondato sulla reciproca utilità e visibilità e sulle aspettative di un’opinione pubblica ormai vittima inconsapevole della propria ingordigia colpevolista. Quella legge sull’omofobia bloccata al Senato da anni di Andrea Carugati La Stampa, 17 maggio 2017 Era il 19 settembre del 2013 quando la Camera approvò la legge contro l’omofobia. A palazzo Chigi c’era Enrico Letta, alla guida del Pd Guglielmo Epifani. Il relatore del testo, che estende le aggravanti previste dalla legge Mancino anche alle condotte ispirate a omofobia e transfobia, era Ivan Scalfarotto, deputato dem e attivista per i diritti Lgbt. Oggi, giornata mondiale contro l’omofobia, quasi quattro anni dopo, la legge è ancora parcheggiata in commissione Giustizia al Senato, bloccata da diverse centinaia di emendamenti di Forza Italia e di ex Ncd come Carlo Giovanardi. Ma non basta l’ostruzionismo delle forze di centrodestra, denunciato con forza dal Pd, per spiegare tre anni e mezzo di freezer per una legge tra le prime ad essere esaminate a inizio legislatura. Una legge brevissima, di 2 soli articoli. Quel testo, un punto di mediazione dentro il Pd e con l’alleato Scelta civica (Ncd non c’era ancora, in maggioranza c’era ancora il Pdl che votò contro), ebbe un parto molto travagliato. E finì per essere subito disconosciuta dalle associazioni Lgbt, con Scalfarotto oggetto di insulti e bollato come "traditore". Una legge impopolare, sgradita ai soggetti interessati, alla destra e anche alla sinistra. "Ma comunque un passo avanti", spiegò a più riprese Scalfarotto. "Abbiamo allargato l’intera legge Mancino - che condanna l’istigazione all’odio e alla violenza - a omofobia e transfobia, finalmente equiparate a razzismo, xenofobia e antisemitismo". Perché questo "fuoco amico"? Alla Camera passò l’emendamento della discordia, firmato da Gregorio Gitti, allora di Scelta civica e oggi del Pd. Una modifica che mirava a salvare dalle maglie della legge chi esprime opinioni in odore di omofobia. Si legge nel testo: "Non costituiscono discriminazione, né istigazione alla discriminazione, la libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino all’odio o alla violenza, né le condotte conformi al diritto vigente ovvero anche se assunte all’interno di organizzazioni che svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione ovvero di religione o di culto, relative all’attuazione dei princìpi e dei valori di rilevanza costituzionale che connotano tali organizzazioni". Una formula che Walter Verini, capogruppo Pd in commissione Giustizia alla Camera, difende ancora oggi: "È stato un passo avanti, e fu approvata a larghissima maggioranza, compresi i cattolici del Pd", spiega. "Quell’emendamento pone un confine tra chi esprime una opinione, anche sbagliata, e chi incita alla discriminazione per motivi di orientamento sessuale". "Siamo davanti allo stesso percorso della legge sulle Unioni civili: per avere anche la stepchild adoption si rischiò di far saltare tutto. Sull’omofobia è la stessa cosa: abbiamo approvato un testo di mediazione, un primo passo importante". Al Senato però la legge è inabissata in Commissione. E non pare avere molte speranze di vedere la luce. "Ci vorrebbe il coraggio di portarla direttamente in Aula, saltando l’ostruzionismo in commissione", spiega il senatore Pd Sergio Lo Giudice. "Ma è evidente che il testo uscito dalla Camera non ha i voti in Senato". Le destre infatti sono contrarie. Mentre a sinistra viene considerato da molti un testo "svuotato e inefficace", come spiega Monica Cirinnà. "Si potrebbe andare in aula con un testo modificato e provare ad approvarlo con il M5S", dice Lo Giudice. "Certo, pesa il precedente negativo delle Unioni civili, quando i Cinque stelle si tirarono indietro. Ma sul testamento biologico la collaborazione con loro sta funzionando". Ai piani alti del gruppo dem nessuno si sbilancia. "Ci sono molte leggi per noi prioritarie, come lo ius soli. Ma il tempo stringe", spiegano. "Abbiamo fatto il nostro dovere, e ci proveremo ancora. La colpa è tutta di chi fa ostruzionismo", spiega Giuseppe Lumia, capogruppo Pd in commissione Giustizia a palazzo Madama. Che non nasconde difficoltà con l’alleato Ncd, che non fa le barricate ma di certo non si spende per questa legge. Rosaria Capacchione, la relatrice, pare rassegnata: "Non si arriverà da nessuna parte. Manca il tempo, ma non è solo questo: il testo arrivato dalla Camera non funziona, introduce nell’ordinamento una sorta di tolleranza verso condotte inaccettabili e discriminatorie". Perché non cambiarlo? "Ncd non vuole, e anche il M5S è diviso al suo interno. Uscirne è praticamente impossibile". Sulle Unioni civili alla fine si uscì dall’impasse con il voto di fiducia: "Non credo che questo scenario si ripeterà", ammette Lo Giudice. "Sono mosse che puoi fare una volta in una legislatura…". Eco-reati, nebbia sui controlli Italia Oggi, 17 maggio 2017 Sono 1.215 i controlli effettuati dalle forze dell’ordine nel 2016 sui crimini ambientali, quasi un quarto rispetto a quelli segnalati (erano 4.700) nei primi otto mesi di vita della legge 68/15. Si tratta di una differenza di 3.500 verifiche: infatti, mancano all’appello quelle compiute dal corpo forestale, che dal 1° gennaio 2017 è stato accorpato all’arma dei carabinieri. È quindi un quadro parziale quello offerto da Legambiente con il dossier "Eco-reati nel Codice penale: numeri e storie di una legge che funziona", presentato ieri durante un convegno dedicato nell’aula del senato, in cui ha messo a fuoco l’applicazione nel 2016 della legge "Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente", in vigore dal 29/05/2015. A seguito dei 1.215 controlli sono stati contestati 574 eco-reati, denunciate 971 persone fisiche e 43 persone giuridiche, emesse 18 ordinanze di custodia cautelare e sequestrati 133 beni per un valore pari a 15 milioni di euro. Sulla totalità dei reati individuati solo 173 riguardano specificatamente i nuovi delitti: 143 i casi di inquinamento ambientale (art. 452-bis), 13 di disastro ambientale (art. 452-quater), 6 di impedimento di controllo (art. 452-septies), 5 i delitti colposi contro l’ambiente (452-quinques), 3 di omessa bonifica (art. 452-terdecies) e 3 i casi di aggravanti per morte o lesioni come conseguenza del delitto di inquinamento ambientale (art. 452-ter). I restanti 401 reati sono contravvenzionali e non hanno cagionato danno o pericolo di danno. A livello regionale la Campania ha il numero più alto di eco-reati contestati durante lo scorso anno, precisamente 70, seguita dalla Sardegna con 67 e dall’Umbria con 66. La Sardegna ha registrato il record di denunce di persone fisiche (126), mentre l’Abruzzo quello di persone giuridiche (16). Invece la Calabria ha totalizzato il maggior numero di sequestri (43). I dati elaborati da Legambiente sono stati raccolti col supporto del comando tutela dell’ambiente dell’arma dei carabinieri, della guardia di finanza e delle capitanerie di porto. "Questa legge fondamentale per il paese sta funzionando bene e i numeri confermano la sua efficacia", ha dichiarato Ermete Realacci, primo firmatario del provvedimento. Ma per Legambiente non è che "il primo anello, di un’importanza epocale, di una catena più lunga che va costruita con l’obiettivo di innalzare i controlli ambientali e di tutelare l’ambiente, la salute e le imprese sane". L’associazione ha dichiarato il proprio apprezzamento sia per la legge che ha istituito il Comando unità per la tutela forestale ambientale e agroalimentare (Cutfaa), sia per la legge 132/2016 che ha omogeneizzato il sistema dei controlli a tutela dell’ambiente. Ma individua quattro interventi necessari per rendere più incisiva l’azione repressiva contro i crimini ambientali: formazione specializzata per tutti gli operatori del settore, la definizione di linee guida per l’applicazione omogenea della legge 68/15, la rimozione della clausola di invarianza dei costi per la spesa pubblica prevista dalla disciplina e la costruzione di un meccanismo per far confluire le sanzioni pagate dai responsabili dei reati contravvenzionali. Magistrati onorari. I precari della giustizia contro il "porcellum" di Orlando di Antonio Sciotto Il Manifesto, 17 maggio 2017 Stop alle udienze per un mese e sciopero della fame. Con la riforma presentata dal ministro i nuovi giudici guadagnerebbero solo 600 euro netti al mese, poche o nulle le tutele sociali. "Tradite le promesse fatte alle primarie Pd e alla Camera". Questa volta il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, l’ha davvero fatta grossa: tanto che l’ultimo suo provvedimento - un decreto legislativo varato dal Consiglio dei ministri del 5 maggio scorso - ha causato la ribellione nei tribunali. Un mese di sciopero (niente udienze), anche della fame: incrociano le braccia gli oltre 5 mila giudici onorari, di pace e viceprocuratori, che con il blitz inaspettato del ministero si sono viste improvvisamente ampliate le competenze ma nel contempo quasi azzerate le buste paga. Altro che l’agognata stabilizzazione: per loro si disegna un futuro da precari a vita con 600-700 euro al mese. E dire che il ministro aveva promesso a più riprese, negli ultimi mesi, di risolvere la questione: facendo campagna per le primarie del Pd, ma anche in sedi ufficiali. "Aveva risposto a una interrogazione parlamentare del gruppo Possibile - spiega Stefania Cacciola, giudice onoraria a Catania e vicepresidente Unimo - Ma ora ci ha delusi, siamo arrabbiati". Archiviata la sfida con Renzi ed Emiliano, insomma, è arrivata la doccia gelata del decreto. Oggi la magistratura onoraria è formata da circa 4 mila giudici e viceprocuratori, a cui si aggiungono 1500 giudici di pace. Le prime due categorie sono un po’ i "paria" della giustizia, retribuiti a cottimo: molti di loro lavorano nei tribunali - affiancando i magistrati ordinari - anche da 20-25 anni, quindi spesso superano i 50 anni di età. In molti casi aggiungono la professione di avvocato a quella di giudice (ma per legge devono farlo in un distretto diverso) e guadagnano (retribuiti solo per le udienze, ma non per altri compiti) dai 500 ai 900 euro netti al mese. I giudici di pace, al contrario, hanno mensilità più alte: dai 2500 fino ai 5 mila euro netti. Insomma, parliamo di una sorta di lavoratori autonomi - non hanno contratti, vengono retribuiti per "indennità" - ma che mandano avanti un pezzo del nostro Stato. Una funzione essenziale, sia nel civile che nel penale: così hanno deciso uno sciopero di un mese (fino all’11 giugno) contro quello che l’Associazione nazionale giudici di pace ha definito un "porcellum giudiziario". La riforma prevede infatti, spiega la stessa associazione, "un aumento notevole delle competenze del giudice di pace, che lo porteranno a trattare circa il 90% del contenzioso", e nel contempo un "sostanziale azzeramento delle retribuzioni, con tagli dell’80%, incidendo sull’autonomia e indipendenza del giudice e sul diritto dei cittadini a un giustizia efficiente". Il decreto Orlando, "nega il diritto alla maternità e non prevede tutele previdenziali e assistenziali". La riforma dispone che si lavori massimo due giorni a settimana - bisognerà cercarsi necessariamente una seconda professione - e insieme prevede di selezionare altri 8 mila giudici che si dovrebbero fare carico di parte dell’attuale lavoro. Il tutto per 16.410 euro lordi l’anno, che - tolte le tasse, la Cassa previdenza e l’assicurazione - si riducono appunto a circa 600 euro netti al mese. Al contrario, Orlando aveva più volte affermato di voler stabilizzare i precari attuali, "seguendo la strada offerta dal Consiglio di Stato" (sua risposta al question time alla Camera del 17 aprile scorso): e cioè assumendo i giudici a 2500 euro netti al mese e con tutte le tutele, limitandoli però solo al primo grado per evitare onerosi avanzamenti di carriera; così come era stato fatto nel 1974 per gli allora vicepretori. Un compromesso che piaceva alle associazioni. E invece, pare perché adesso si sia accorto che non ci sono le risorse, il ministro ha fatto dietrofront. Carcere, lo spazio minimo per detenuto non comprende il letto di Laura Piras masterlex.it, 17 maggio 2017 Corte di Cassazione, Sezione Prima penale, sentenza n. 22929/2017. Carcere sì, ma nel limite del rispetto di un trattamento umano e non degradante del detenuto. È il concetto ancora una volta ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza in commento che parla di "spazio vitale minimo" individuale del carcerato nell’ambito di una cella collettiva. Ci si riferisce, invero, alla superficie della camera fruibile dal singolo ed idonea al movimento. Tale spazio non può che ricomprendere, afferma la sentenza, "non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi, ma anche quello occupato dal letto". Il principio affermato è frutto di una lunga evoluzione giurisprudenziale che sfocia nella nota sentenza Torreggiani della Corte Edu che ha precisato che anche il letto, che normalmente nelle celle cumulative è a castello, non può che essere considerato un elemento "ingombrante" e come tale non può che incidere, in termini di metratura, nello spazio minimo vitale del carcerato all’interno della camera detentiva. Non è ammissibile, dunque, che tale tipo di superficie, che evidentemente è occupata per finalità di riposo o, comunque, per attività "sedentaria", rientri nel concetto di spazio vitale. D’altra parte, la circostanza che al detenuto venga offerta una consistente permanenza fuori dalla camera detentiva, non è elemento che incide o riguarda la identificazione dello spazio minimo vitale. Tale circostanza, al più, può essere tenuta in considerazione solo al fine di verificare la sussistenza di un riequilibrio, ove lo spazio minimo vitale offerto sia inferiore alla quota limite dei tre metri quadrati per detenuto. Pertanto, quando lo spazio vitale scende sotto i tre metri quadrati, tale mancanza è considerata talmente grave che sussiste una presunzione di violazione dell’art. 3 della Cedu (che proibisce la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante). In tali ipotesi, lo Stato citato dinanzi la Corte Europea ha l’onere di dimostrare la temporaneità del trattamento, evidenziando l’esistenza di fattori che siano in grado di compensare la mancanza di spazio vitale (brevità, occasionalità della riduzione di spazio, nonché lo svolgimento di adeguate attività all’esterno della cella, ad esempio). Nelle ipotesi in cui, quindi, gli arredi fissi ingombranti, come i servizi igienici e gli altri mobili tendenzialmente fissi come il letto riducano lo spazio in cui il detenuto possa muoversi all’interno della camera sotto il limite dei tre metri quadrati, questi ha certamente diritto, ai sensi dell’art. 35-ter O.P., ad uno sconto di pena pari a un giorno di detenzione per ogni 10 trascorsi in condizioni contrarie a quanto stabilito dalla CEDU, se queste si sono protratte per almeno 15 giorni, ovvero la somma di € 8,00 per ogni giorno qualora il fine pena è tale da non consentire la detrazione dell’intero periodo vissuto in tali condizioni. Quindi, carcere si, ma senza dimenticare che a starci dentro sono uomini. La giustizia non impone "valori" di Beppe Lopez Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2017 La Corte di Cassazione ha confermato, lunedì, la multa di 2.000 euro inflitta a un indiano sikh che andava in giro a Goito (Mantova) con un pugnale, il kirpan, sacro per la sua religione e lungo circa 20 centimetri. Ieri, improvvisamente, la questione-immigrati è riesplosa nel Paese delle contrapposizioni radicali (preferibilmente immotivate). Non bastavano i 68 arresti per il Cara di Capo Rizzuto. Ci si è messa anche una sentenza di Cassazione, lanciata come benzina sul fuoco delle polemiche e delle strumentalizzazioni: gli indiani sikh non possono circolare avendo alla cintura un coltello, il kirpan, come vorrebbe la loro religione. Stavolta, a fare da grancassa alla forzatura sino quasi alla manipolazione, sono state le due maggiori testate, ambedue con la prima pagina e le due successive. E con gran giubilo di leghisti, post-fascisti e forzitaliani. "Migranti, sentenza sui doveri" sparava il Corriere della Sera. L’occhiello, più correttamente, riportava la notizia e ridimensionava: "Un indiano non potrà portare il pugnale sacro: sicurezza da garantire prima di tutto". Ma il catenaccio sanciva la storicità dell’evento: "La Cassazione: gli stranieri hanno l’obbligo di conformarsi ai nostri valori". Anche Repubblica apriva così: "La Cassazione sui migranti: si conformino ai nostri valor i". E metteva in campo l’editoriale di Chiara Saraceno e ben quattro interviste (il capo della comunità sikh, la scrittrice "anti nozze combinate", il costituzionalista Mirabelli e l’immancabile Bonino). Certo, altri giornali hanno evitato di montare artificiosamente la sentenza. Ma Il Messaggero titolava in prima: "I migranti seguano i nostri valori". Liberonon usava mezzi termini: "Immigrato, vuoi stare qui? Fai l’italiano". Occhiello: "Sentenza sacrosanta: chi arriva deve con formarsi. Ciao Boldrini". Ancora più sbrigativa La Gazzetta del Mezzogiorno: "Migranti, fate gli italiani". E cioè: "Dovete uniformarvi a nostri valori, non ai vostri". Ora, nella sentenza compare almeno tre volte la parola "valori ". Nel primo caso per affermare che "è essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale"(comunque, non sic et simpliciter di "conformarsi ai nostri valori"). Nel secondo e terzo caso per ricordare che "la decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha la consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza, ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel Paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante". Pur con questi sovrabbondanti riferimenti ai "valori", la Cassazione conferma precedenti sentenze e ribadisce il rispetto dell’art.9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, individuando semplicemente "la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e a tal fine pone il divieto del porto d’armi e di oggetti atti a offendere". Dice nella sostanza all’indiano che pretendeva di camminare per le strade di Goito con un coltello di venti centimetri (e di non pagare l’ammenda di duemila euro alla quale era stato condannato a Mantova), che non può farlo (e deve pagare). Punto. Potrà valere per tutti coloro che volessero circolare con il kirpan. Ma non per chi non si conformi, genericamente, ai "nostri valori". Non solo. La sentenza afferma che per l’immigrato - come peraltro per il cittadino italiano - "il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante". E che "l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 della Costituzione che valorizza il pluralismo sociale". Altro che conformarsi ai nostri valori. Sardegna: "stop al trasferimento dei detenuti di Alta sicurezza nelle carceri isolane" cagliaripad.it, 17 maggio 2017 Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", rivolgendo un appello "affinché si limitino i trasferimenti nell’isola di detenuti in regime di Alta Sicurezza". "La presenza della Commissione presieduta dall’on. Rosy Bindi è un importante segnale per la Sardegna. Un’occasione per avere rassicurazioni in merito all’organizzazione del sistema penitenziario e per chiedere un’attenzione particolare alla gestione dei Penitenziari dove la grave carenza di Direttori e di Vice Direttori determina situazioni particolarmente difficili per l’intero comparto. Basti pensare che la Casa Circondariale di Cagliari-Uta è priva di due Vice Direttori e attualmente la responsabilità grava su un Direttore con altri due incarichi a Isili e Lanusei". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", rivolgendo un appello "affinché si limitino i trasferimenti nell’isola di detenuti in regime di Alta Sicurezza e si favorisca la valorizzazione delle Case di Reclusione all’aperto". "Operatori e Agenti insufficienti, scarse occasioni di lavori, eccessiva distanza dal centro abitato delle nuove strutture rendono spesso l’esperienza detentiva - sottolinea - esclusivamente contenitiva laddove la riabilitazione e il reinserimento sociale sono indispensabili per la sicurezza e sanciti dalle norme. Occorre dunque investire per chi esce dal carcere affinché le mafie non abbiano terreno fertile per facili raccolti". Lombardia: l’Assessore Gallera "tavolo regionale sui servizi sanitari nelle carceri" Quotidiano Sanità, 17 maggio 2017 Il tavolo dovrà occuparsi delle prestazioni offerte ai detenuti ma valutare anche la possibilità di attivare servizi a favore degli agenti di Polizia penitenziaria. L’assessore, infatti, nel corso di una visita al carcere di Opera di Milano, ha raccolto l’appello degli agenti che chiedevano un servizio di supporto psicologico a loro dedicato. "Istituiremo un Tavolo per affrontare il tema dei servizi sanitari erogati da Regione Lombardia all’interno degli istituti di pena regionali. Un lavoro che dovrà vedere coinvolti, da un lato i rappresentanti delle strutture carcerarie, dall’altro quelli dell’ Asst a cui esse afferiscono". Lo ha annunciato ieri l’assessore al Welfare di Regione Lombardia Giulio Gallera nel corso di una visita al carcere di Opera (Milano) accompagnato dal direttore Giacinto Siciliano e dal comandante della Polizia penitenziaria Amerigo Fusco. Il titolare regionale della Sanità, che nel corso del sopralluogo ha avuto modo di incontrare anche i detenuti impegnati nelle attività lavorative svolte all’interno del carcere, ha tenuto a sottolineare al direttore dell’istituto che "è assolutamente necessario un coordinamento tra tutte le strutture coinvolte al fine di migliorare l’efficienza delle prestazioni sanitarie, sia quanto riguarda quelle offerte ai detenuti, sia per quelle che immaginiamo di poter attivare per gli agenti di polizia penitenziaria". Durante la visita, infatti, l’assessore ha ascoltato anche le esigenze degli agenti di polizia penitenziaria e in particolare sulla necessità di attivare un servizio a loro dedicato di supporto psicologico. "Il lavoro che voi svolgete - ha evidenziato Gallera - è di straordinaria importanza, molto faticoso dal punto di vista psicologico, soprattutto se si considera che non avete avuto una formazione ad hoc per svolgerlo. Pertanto, come già avviato per vostri colleghi dislocati in altri penitenziari della regione, cercheremo di attivare anche qua un servizio che possa aiutare il vostro lavoro anche sotto il profilo psicologico". Roma: accordo tra Comune e Tribunale, 500 detenuti ai lavori sociali di Anita Sacconi Leggo, 17 maggio 2017 Saranno impiegati per la manutenzione di ospedali di cura, ville e giardini. O magari in attività di soccorso in caso di calamità naturali, prevenzione di incendi boschivi o volontariato. In ogni caso fuori dal carcere. È quanto previsto nella Convenzione per lo svolgimento dei lavori di pubblica utilità, l’accordo siglato ieri tra l’assessore comunale alla Persona, Scuola e Comunità solidale, Laura Baldassarre, e il presidente del Tribunale ordinario di Roma, Francesco Monastero. "La Convenzione - scrive il Comune - riguarda i casi in cui il giudice può applicare, anziché pene detentive e pecuniarie, quella del lavoro di pubblica utilità in favore della collettività, o su richiesta dell’imputato, può sospendere il procedimento e disporre la messa alla prova sulla base di un programma di trattamento predisposto dall’Ufficio Inter-distrettuale Esecuzione penale esterna". La Convenzione, che durerà 5 anni, impegna l’amministrazione ad accogliere 550 persone (100 in più), in attività non retribuite in favore della collettività, in strutture o sedi capitoline e municipali, enti e associazioni di volontariato e della cooperazione sociale. In sostanza potranno essere impiegati nella manutenzione e nel decoro di ospedali e case di cura, giardini, ville e parchi. Nella protezione civile per il soccorso in caso di calamità naturali, di tutela del patrimonio ambientale e culturale. Nella tutela della flora e della fauna, attività a favore di organizzazioni di assistenza sociale o volontariato nei per alcoldipendenti, tossicodipendenti, disabili, malati, anziani, minori o stranieri. "L’obiettivo - sottolinea Monastero - è consentire il ritorno alla collettività di ciò che le è stato sottratto con le condotte illegali: attraverso il lavoro gratuito di condannati e imputati a favore dei cittadini in settori di particolare interesse". "Ampliamo il numero delle persone da accogliere - dichiara Baldassarre. La costruzione di una comunità solidale passa anche attraverso lo sviluppo di una rete istituzionale volta a favorire forme di collaborazione attiva". Paola (Cs): Radicali e studenti Unical visitano l’istituto penitenziario cosenzainforma.it, 17 maggio 2017 Questa mattina una Delegazione composta da Radicali Italiani e Studenti del Corso di Diritto Penale dell’Università della Calabria, ha fatto visita alla Casa Circondariale di Paola. La Delegazione, che è stata autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, è stata ricevuta dal Direttore dell’Istituto Caterina Arrotta, dal Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria, Commissario Maria Molinaro e dagli Ispettori Capo Attilio Lo Bianco ed Ercole Vanzillotta, sottufficiali in forza al Reparto di Paola. Per i Radicali Italiani c’erano Emilio Enzo Quintieri e Valentina Anna Moretti mentre gli Studenti dell’Unical erano accompagnati dal Prof. Mario Caterini, Docente di Diritto Penale, che ha fortemente voluto far conoscere la realtà carceraria degli Istituti esistenti nella Provincia di Cosenza. Nel Carcere di Paola, al momento della visita, erano presenti 196 detenuti, 91 dei quali stranieri, a fronte di una capienza di 182 posti (14 in esubero), con le seguenti posizioni giuridiche: 15 giudicabili, 16 appellanti, 17 ricorrenti e 148 definitivi di cui 5 ergastolani. 2 detenuti si trovavano in permesso premio ex Art. 30 ter O.P. concesso dal Magistrato di Sorveglianza Paola Lucente ed 1 detenuto lavora in Art. 21 O.P. 82 sono le persone detenute alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, un numero abbastanza elevato rispetto alle altre Carceri calabresi. Tra la popolazione ristretta vi sono 24 tossicodipendenti, di cui 5 in terapia metadonica, 40 con patologie psichiatriche e 1 con disabilità motorie. Nel corso del 2017 si sono verificati 2 tentati suicidi, 5 atti di autolesionismo e 3 aggressioni nei confronti del personale di Polizia Penitenziaria. La Delegazione ha visitato tutto lo stabilimento penitenziario, dagli Uffici, ai locali in comune, alle sale colloquio, agli spazi esterni, alle camere di pernottamento, intrattenendo anche colloqui diretti con i detenuti e gli Operatori per rendersi conto delle condizioni di vita detentiva e chiedere notizie sulla conduzione e gestione dell’Istituto. Sono stati visitati tutti e 5 i Reparti detentivi (2 Sezioni Circondariali e 3 Sezioni di Reclusione) nonché il Padiglione a custodia attenuata, separato dal resto dell’Istituto, in cui sono presenti 34 detenuti rispetto ad una capienza di 48 posti, con un trattamento differenziato rispetto al resto della popolazione detenuta. Come al solito abbiamo trovato un clima abbastanza sereno, commenta il radicale Quintieri, e questo ci fa molto piacere. A Paola, così come in tanti altri posti, il personale penitenziario opera con molta professionalità e tantissima umanità, cercando di fare il possibile nonostante la cronica carenza di organico. A seguito delle nostre continue sollecitazioni ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria centrale e periferica, conclude l’esponente radicale, si sta procedendo ad una revisione dell’organizzazione custodiale dell’Istituto, per passare dal modello operativo tradizionale della custodia chiusa a quello moderno che prevede la custodia aperta, c.d. "sorveglianza dinamica". Manterremo alta la vigilanza affinché, al più presto, si concludano le procedure per l’attivazione della sorveglianza dinamica in maniera tale da adeguarsi al resto degli altri penitenziari d’Italia. Martedì 23 dalle ore 9,30 in poi, una delegazione di Radicali Italiani e dell’Università della Calabria, farà visita anche alla Casa di Reclusione di Rossano. Livorno: il "senza glutine" arriva in carcere, a Porto Azzurro apre panificio per celiaci di Gabriella Meroni Vita, 17 maggio 2017 L’idea è venuta al direttore del carcere, Francesco D’Anselmo, dopo aver condotto una ricerca che ha stabilito il numero delle persone intolleranti che si recano sull’isola durante l’anno e nella stagione turistica. Per loro i detenuti produrranno pane, schiacciate e dolci. Un nuovo panificio dove produrre pane senza glutine per celiaci: è questo l’ultimo progetto che si realizzerà a breve nel carcere di Porto Azzurro. L’idea, spiega il direttore del carcere, Francesco D’Anselmo, è nata dopo aver fatto una piccola ricerca che ha stabilito il numero delle persone intolleranti sull’isola durante l’anno e nella stagione turistica. Non verrà prodotta una grande quantità, ma "dato che il pane per i celiaci è generalmente surgelato, lo faremo con il lievito madre che quindi durerà qualche giorno in più". D’estate, inoltre, verranno preparate schiacciatine senza glutine per i turisti e, successivamente, anche dolci. A insegnare ai due detenuti che lavoreranno all’interno del laboratorio sarà un panificatore dell’isola, e i prodotti saranno distribuiti in tutti i supermercati e panifici dell’Elba. "Credo sia un servizio che rendiamo all’isola perché portare il pane fresco per celiaci è una novità e sicuramente non entreremo in conflitto con le imprese del posto". Una filiera produttiva dop: oltre al panificio, infatti, è in programma, in accordo con l’assessore all’Agricoltura della Regione Toscana e il viceprefetto di Livorno, Daveti, l’apertura di un mattatoio pubblico nella vecchia porcilaia del carcere. Un altro modo per dare un servizio alla comunità: oggi, infatti, chi vuol macellare un animale deve recarsi sul Continente. Inoltre, in accordo col Parco e la Regione Toscana, si sta pensando di creare una filiera produttiva vendendo il cinghiale dop dell’Elba. Dulcis in fundo, nella falegnameria del carcere i detenuti progettano e producono delle arnie innovative, per la produzione del miele. Si tratta di strutture autoproducenti che verranno vendute a tutte le strutture carcerarie che vogliano iniziare una produzione di miele. Inoltre in accordo con l’Ente Parco, sono stati costruiti una serie di nidi per gli uccelli selvatici. Forlì: "Casa della speranza" per ex detenuti, un Comitato di residenti contro la Diocesi forlitoday.it, 17 maggio 2017 A dare il suo punto di vista è il comitato dei firmatari della petizione dei contrari al progetto della Diocesi che prevede di portare a Malmissole una casa di accoglienza. Non è un no al progetto della "Casa delle Speranza", ma un no principalmente alla sua ubicazione nella ex canonica della piccola frazione di Malmissole. A dare il suo punto di vista è il comitato dei firmatari della petizione dei contrari al progetto della Diocesi che prevede di portare a Malmissole una casa di accoglienza per detenuti a fine pena e quindi con possibilità di uscire dal carcere a fini di riabilitazione sociale. Spiegano i firmatari in una nota: "Si vogliono mettere a residenza dei detenuti nei locali della canonica, situata nell’unico posto centrale a tutta la, seppur ridotta, vita sociale dei residenti della frazione, cattolici e non cattolici". Ed ancora: "A volte ci si dimentica che viviamo in uno stato dove, per fortuna, i non cattolici hanno sì gli stessi doveri ma pure gli stessi diritti dei cattolici e non per questo devono sentirsi per forza persone spregevoli. Nelle immediate vicinanze della canonica e della Chiesa si trova il cimitero, dove per accedervi si sarebbe perciò costretti a passar davanti ai detenuti, con tutti i timori che ne conseguirebbero. Subito accanto si trova poi il circolo Acli della frazione dove le persone alla sera si incontrano e dove quasi tutti i sabato sera si svolge la consueta tombola di paese e dove si tiene ogni anno l’ormai imminente Festa d’Estate della durata di 5 giorni consecutivi. Ancora più vicino poi c’è la così detta "Sala della Musica" dove si ritrovano giovani per suonare o registrare brani musicali, insomma non ci sembra proprio il classico posto tranquillo e isolato che abbiamo potuto vedere a Saludecio in provincia di Rimini dove sono collocate realtà come questo progetto vorrebbe attuare". "Per ora un risultato i fautori di questo progetto l’hanno già ottenuto, purtroppo hanno già creato una spaccatura all’interno della frazione che sarà difficilmente sanabile, gente che già si è tolta il saluto, persone che a loro detta "salutano solo le persone intelligenti" come a far intendere che l’intelligenza alberghi solo nelle menti di chi è favorevole al progetto, addirittura ci è stato narrato di presunti casi di intimidazioni da parte di catechisti nei confronti di cresimandi accusati di aver come genitori dei cattivi cristiani, solo perché sono contrari al progetto. Anche se il progetto si tenta di farlo apparire come atto di carità e misericordia noi sappiamo bene, invece, che in realtà è volto ad un ben più veniale motivo di risanamento e ristrutturazione dei locali della canonica a spese di associazioni che così se ne ritroverebbero l’usufrutto per diversi anni per i loro scopi più o meno con fini di lucro, anche se le stesse tengono invece a precisare che sarebbe tutto volontariato lasciando intendere quindi che i detenuti sarebbero sotto il controllo di personale non professionista". Ed ancora i sostenitori della petizione per il no al progetto: "Risanamento e ristrutturazione della canonica con l’aiuto di associazioni come le varie Diocesi hanno tentato di imporre prima a Civitella di Romagna poi a Santa Maria in Monte nel Comune di Saludecio dove pure in queste realtà si è mobilitato il paese con sollevazioni popolari più o meno agguerrite. Evidentemente queste associazioni e la Diocesi stessa che insieme vogliono ridurre le recidive degli errori altrui non riescono proprio ad imparare neppur dai loro di errori. Ci chiediamo inoltre se abbia senso dar vita ad un progetto di questo genere in una realtà come Forlì dove si sta ultimando un carcere che sicuramente sarà tra le strutture più innovative del sistema penitenziario italiano ed avrà tutto l’occorrente per far in modo che i detenuti seguano tutti i loro percorsi rieducativi previsti". "Chiediamo quindi alle Istituzioni preposte e alla Diocesi un totale ripensamento del progetto e un più attento ascolto del malumore che sta montando nella nostra frazione, malumore che non può che nascere e svilupparsi quando una maggioranza di persone si sente prevaricata da una minoranza che, spalleggiata dalla Diocesi, vuole imporre il suo volere sul territorio che come ricordato appartiene a tutti noi", conclude la nota. Sul caso interviene anche l’ex vicesindaco di Forlì Giancarlo Biserna: "I cittadini di fronte a temi sensibili non possono più essere informati a cose decise, anche se avvallate da buone intenzioni. I cittadini devono essere coinvolti prima di prendere le decisioni e bisogna sempre fare i conti con le loro ragioni. Non si può avviare un progetto del genere senza avere larghissima condivisione tra la gente; insomma non va fatto con queste divisioni che emergono. Inoltre dovevano essere valutate diverse localizzazioni e poi presentarle tutte, dicendo perché era stata preferita Malmissole, bisognava arrivare lì all’assemblea senza avere deciso nulla; bisognava chiarire ombre, dubbi e necessità su tutte (e dico tutte) le motivazioni reali dell’ operazione; bisognava dire concretamente come il progetto si sostenesse economicamente con quali contributi, spese e da chi; bisognava presentare i detenuti, chiarendo chi erano, cosa avevano fatto e cosa dovevano fare. E sugli educatori, evidenziare la loro professionalità e la loro capacità nel garantire sicurezza al territorio circostante". Torino: la Garante "ancora sovraffollamento nelle carceri, ripristinare i fondi tagliati" di Cinzia Gatti torinoggi.it, 17 maggio 2017 "Necessari sforzi per evitare ghettizzazione stranieri". Problema sovraffollamento: 1.390 detenuti per una capienza di 1.150 posti: "Gli stranieri sono più del 30%, bisogna evitare l’emarginazione". Un appello a tutte le istituzioni, sia pubbliche che private, a collaborare insieme anche a ripristinare i fondi dove siano stati tagliati. È questo il messaggio lanciato da Monica Gallo, garante dei detenuti del Comune di Torino, che oggi ha presentato la relazione annuale sullo stato delle carceri sabaude. All’interno sono rinchiusi 1.390 detenuti, su 3.900 di tutto il Piemonte, per una capienza di 1.150. Numeri che evidenziano un sovraffollamento, purtroppo in linea con il contesto nazionale, dove sono presenti 56 mila carcerati per 45 mila posti. Diverse le criticità segnalate. "Attualmente gli stranieri", spiega Monica Gallo, "rappresentato più del 30%, persone con un’altra lingua, di differenti culture e diversi credo religiosi. È evidente che sono necessari sforzi maggiori per evitare l’emarginazione e la ghettizzazione". "Sarebbe necessario poter ricorrere all’utilizzo delle housing sociali", ha proseguito, "per consentirne l’utilizzo alle persone in detenzione per le quali sia prevista la possibilità di fruizione di misure alternative". "Necessario porre attenzione verso i programmi di prevenzione, in particolare a favore di donne e bambine", ha concluso la Gallo. "Ripristinare i fondi tagliati" - Un appello a tutte le istituzioni pubbliche e private a lavorare sempre più insieme, anche ripristinando fondi laddove sono stati tagliati, per far sì che il carcere sia davvero riabilitativo e uno strumento per rientrare nella società, attraverso il lavoro, la formazione, il diritto all’alba salute e a spazi di condivisione, la mediazione culturale. È quello fatto oggi dalla garante dei detenuti della Città di Torino, Monica Cristina Gallo, che oggi ha voluto presentare l’annuale relazione dentro il carcere, ai detenuti e ai capigruppo del consiglio comunale insieme al presidente Fabio Versaci e al garante regionale Bruno Mellano. Fra le problematiche evidenziate dalla garante, il taglio di fondi che mette a rischio, ad esempio, "progetti come quello di accompagnamento alla genitorialità o la mediazione culturale che è sempre più importante". In questo senso sarà introdotta a breve la presenza dell’Imam anche al carcere minorile dove, dice la Gallo, "stiamo anche studiando con il direttore la creazione di spazi adatti in cui i detenuti padri, che sono sempre di più visto che oggi quel carcere accoglie ragazzi fino ai 25 anni, possano incontrare i figli". I due Garanti hanno poi sottolineato la necessità di mantenere e aumentare progetti di formazione e di lavoro evidenziando anche l’importanza del discorso abitativo, ad esempio col ricorso all’housing sociale. La garante ha quindi sottolineato gli sforzi del direttore del carcere Domenico Minervini e la collaborazione con la Città. "L’iniziativa di oggi - ha detto Versaci - è un segnale che la Città ha voluto dare a una parte di città spesso dimenticata e da parte nostra c’è la massima disponibilità a lavorare insieme per dare nuove opportunità a chi ha sbagliato". Torino: imam nell’Ipm Ferranti Aporti, per battere la radicalizzazione di Andrea Rossi La Stampa, 17 maggio 2017 Dopo l’accordo tra Stato e Unione delle comunità islamiche, l’istituto minorile Ferranti Aporti chiede la collaborazione di guide spirituali: arriveranno nei giorni del Ramadan. Il primo varcherà il portone del Ferrante Aporti a giugno, in occasione del Ramadan. Anche il carcere minorile di Torino ha deciso di avvalersi della collaborazione di un imam per supportare i giovani detenuti di fede islamica e accompagnarli nel loro percorso di detenuti. Una guida spirituale. "Un’esigenza che i ragazzi hanno", spiega Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti della Città. Soprattutto una rete di sostegno in grado di evitare che qualcuno sbandi, si radicalizzi e finisca nelle maglie della propaganda che inneggia alla jihad. È forse la prima volta che succede, in un carcere minorile italiano. Al Lorusso e Cutugno gli imam sono arrivati anni fa, come in molte carceri per adulti. Un percorso in un primo momento avviato solo in alcuni istituti ma che nel 2015 è stato sancito da un accordo tra l’amministrazione penitenziaria e l’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia, siglato proprio per prevenire e combattere la radicalizzazione nelle celle. "A Torino il progetto sta funzionando", rivela la garante. "Si riesce a garantire la preghiera una volta alla settimana, il venerdì. Resta il problema degli spazi: purtroppo i detenuti di fede islamica sono costretti a pregare in palestra o in teatro". Nel carcere minorile è questione di poche settimane: sono in corso le ultime verifiche burocratiche sulla documentazione degli imam cui dovranno essere rilasciati i permessi di ingresso alla struttura. La cui presenza sembra necessaria, almeno a giudicare dai numeri. Oltre il 50% dei detenuti stranieri del Ferrante Aporti è originario del Nord Africa e, dunque, quasi sempre di fede islamica: rispetto al 2016, parliamo di circa quaranta persone. Del resto il carcere minorile è un luogo delicato. Nel 2015 ha registrato 111 ingressi, con un aumento del 16% rispetto all’anno precedente. Nel 2016 gli ingressi sono ulteriormente aumentati, 129 ingressi, di cui 87 stranieri e 42 italiani. Anche il periodo di permanenza media è cresciuto: da 88 a 91 giorni. La maggior parte dei ragazzi proviene dai centri di prima accoglienza o dalle comunità; e spesso arriva da queste strutture per via di un aggravamento della misura cautelare, disposto dal giudice in seguito a gravi e ripetute violazioni delle prescrizioni imposte o per allontanamento ingiustificato. Al 31 dicembre 2015, i giovani adulti rappresentavano il 61,22% del totale dei detenuti; in particolare, l’80% aveva un’età tra i diciotto e i venti anni e il 20% dai ventuno ai ventiquattro anni. La stessa percentuale si è confermata nel 2016: il 78% aveva un’età tra i diciotto e i venti anni e il 22% dai ventuno ai ventiquattro anni. Napoli: i lavori di ceramica dei detenuti di Poggioreale in mostra al Consiglio regionale Ansa, 17 maggio 2017 I lavori in ceramica realizzati dai detenuti del carcere di Poggioreale, a Napoli, in mostra nella sede del Consiglio regionale della Campania. Sono lavori creati da 15 detenuti dell’istituto di pena che hanno partecipato al corso di ceramica organizzato dall’associazione "La Mansarda" e la cooperativa "Il Quadrifoglio". Il report di chiusura del secondo corso, dopo l’edizione dello scorso anno, è stato presentato oggi con l’esposizione dei lavori. "Ormai è diventata una prassi di cui io sono felice - ha affermato Rosa D’Amelio, presidente del Consiglio regionale della Campania - perché come Consiglio regionale abbiamo deciso di aprire le nostre porte alle tante cose interessanti che si fanno in questa regione, a cominciare dalla passione per l’iniziativa ‘Ragazzi in aulà, che quest’anno ha coinvolto tantissimi giovani". "Siamo al secondo anno della mostra - ha sottolineato - prestiamo attenzione alla sofferenza, alle carceri. Dobbiamo mettere in campo iniziative per l’integrazione dei detenuti perché si lavora bene se, oltre alla pena, si ha la capacità, come istituzione, di insegnare un mestiere affinché una volta usciti questi corsi possano essere un’occasione di occupazione". Samuele Ciambriello, presidente dell’associazione La Mansarda ha ricordato che è dal 1989 che "operiamo all’interno delle carceri". "Questi corsi aiutano i detenuti a ritrovarsi - ha detto - Al detenuto va tolto il diritto alla libertà, non alla dignità. Sono dunque un’occasione per vivere delle ore alternative". "Cose come un corso di ceramica sono momenti importanti - ha concluso Ciambriello. Per il secondo anno, abbiamo fatto insieme con la cooperativa il Quadrifoglio, il corso di ceramica e lo ripeteremo a breve anche con il terzo corso sempre per i detenuti del carcere di Poggioreale". Torino: con "Letter@21" carcere, diritto allo studio e immigrazione al Salone del Libro lettera21.org, 17 maggio 2017 Per il terzo anno consecutivo Letter@21 è presente al Salone Internazionale del Libro. Questa volta l’occasione per passare a trovarci non è solo quella di scoprire e sfogliare la rivista in edizione cartacea, ma riflettere su alcuni temi di stretta attualità come carcere, diritto allo studio e immigrazione. Lo stand della cooperativa Eta beta SCS, vedrà la presenza della redazione di Letter@21 per l’intero arco temporale (18-22 maggio 2017) della manifestazione. Mentre venerdì 19 maggio alle ore 19:00 presso la Sala Argento parleremo direttamente con alcuni protagonisti della rivista e con rappresentanti del Moas (Ong che opera nel Mediterraneo) e dell’Onu (nello specifico Unhcr e Unicri). Letter@21 cambia look, nuova veste grafica e nuovo numero in occasione del Salone del Libro (scaricabile gratuitamente su queste pagine al seguente link https://goo.gl/D2Y2Cu) e un evento per "Varcare il confine: oltre pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni". Nella rivista di maggio: Stranieri in carcere: approfondimenti su dati e normativa - Immigrazione e reato di clandestinità - Bruno Mellano: intervista al Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale - Giovani e stranieri tra discriminazione e integrazione: indagine in un liceo torinese - Le opportunità di studio per chi è recluso - Narrazioni: i racconti di chi i confini li ha varcati e ne ha incontrati di nuovi - "La prima meta". intervista alla regista Enza Negroni e molto altro ancora. Nel convegno di venerdì 19 maggio, oltre ai temi della rivista con interventi del Dott. Bruno Mellano (Garante regionale dei detenuti), del Dott Domenico Minervini (direttore della Casa circondariale "Lorusso e Cutugno"), dei Giovani Redattori e del Prof. Degrandi del Liceo Berti, un focus su immigrazione, sbarchi e accoglienza. Verrà proiettato un filmato di Regina Catrambone fondatrice del Moas, una delle Ong impegnate nel soccorso nel Mediterraneo, parteciperanno inoltre la Dott.ssa Elena Atzeni dell’Unhcr, Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, che chiarirà quali sono le condizioni e le procedure per il riconoscimento del diritto di asilo, e la Dott.ssa Marina Mazzini dell’Unicri, Agenzia Onu, che ha studiato i temi legati alla tratta dei migranti. VI aspettiamo allo stand dell’Alleanza delle Cooperative Italiane (Stand D12 - E11 - Pad/Pav 1) Dentro e fuori il carcere, il fallimento di un’istituzione totale di Nicola Gratteri* e Antonio Nicaso** La Repubblica, 17 maggio 2017 Prefazione del libro "Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi" (Carocci Editore) nel quale si ragiona sulla detenzione penitenziaria. Il compito della giustizia non è la vendetta, ma il ravvedimento, la rieducazione e, in caso di successo, il reinserimento sociale. Per questo la galera deve poter essere il luogo dove riflettere su se stessi, dove ritrovare la voglia di esistere e darsi delle regole. È un libro che coniuga con grande efficacia lo studio scientifico della società con il lavoro quotidiano della Polizia penitenziaria. Uno spaccato a più voci su "quello che c’è dentro", uno sguardo negli abissi della natura umana. Chi non è mai entrato in un carcere immagina i detenuti come tanti dannati dell’Inferno dantesco, schiacciati dal peso dell’errore commesso. I giornali parlano di sovraffollamento e Papa Francesco ricorda continuamente l’importanza di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana. Chi come noi è convinto dell’origine ambientale del male, pensa che non esistano persone geneticamente predisposte al delitto, ma persone psicologicamente più fragili, spesso spinte al crimine da fattori esterni, come la famiglia, la cultura, il disagio sociale o psichico. Se si accetta questo presupposto scientifico, si è consapevoli che il compito della giustizia non è la nemesi, la vendetta, ma il ravvedimento, la metanoia, e dunque la rieducazione e, in caso di successo, il reinserimento sociale. Bisogna provarci, anche se ci sono detenuti che sfuggono alla possibilità del ravvedimento, avendo giurato fedeltà a un’organizzazione mafiosa che non consente deroghe alla dissoluzione anticipata del contratto di status. Più volte, è stata proposta l’idea di impegnare i detenuti in attività lavorative, suggerendo la modifica della legge sul lavoro stipendiato nelle carceri. Ma, nonostante le statistiche confermino l’importanza dell’occupazione sia come garanzia di riabilitazione sia come calo delle recidive, sono ancora proposte ignorate. Purtroppo, quasi l’80% dei detenuti continua a guardare il soffitto della cella. Una brava giornalista come Milena Gabanelli, durante una puntata di Report, ha suggerito di cambiare la norma, "ispirandosi ad alcune felici esperienze del Nord America, dove l’amministrazione penitenziaria calcola lo stipendio, ma lo trattiene a compensazione delle spese di mantenimento, lasciando [ai detenuti alcune decine di dollari] per le piccole necessità e concedendo [loro] benefici e sconti di pena". Un sistema che ha incentivato il detenuto a darsi da fare, favorendone il reintegro attraverso l’apprendimento di un mestiere, e consentendo al sistema carcerario di non gravare esclusivamente sulle casse dello Stato. Di lavoro da fare nelle carceri ce n’è tanto, così come ce n’è in tanti altri ambiti sociali, soprattutto quello del volontariato. Le stesse attività artistico-ricreative sono altrettanto importanti per il reintegro sociale, come ha confermato la felice esperienza di alcuni detenuti del carcere di Rebibbia nel film con cui i fratelli Taviani hanno vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino nel febbraio del 2008. Sono modelli esemplari di rieducazione del condannato nel paese di Cesare Beccaria, il cui spirito è stato pienamente raccolto nel nostro dettato costituzionale: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" (art. 27). In questo manuale, necessario per capire "quello che c’è dentro", gli autori riflettono sul sistema carcerario e lo fanno dando voce ai detenuti. Le lettere, le istanze presentate al comandante della Casa circondariale di Taranto diventano materiale di studio, di confronto, verso cui orientare l’attenzione del lettore. La drammaticità delle parole, in alcuni casi, viene accompagnata dalla leggerezza, dal sorriso di un desiderio, di un sogno, di una necessità che può sembrare trascurabile per la vita di una donna o di un uomo libero ma che nel contesto della detenzione assume la salienza del bisogno, della gratitudine, della consapevolezza che cambiare sia ancora possibile. Il libro prova ad entrare all’interno del sistema carcerario per renderlo più comprensibile, per spiegarlo a chi non conosce le sue trame, la sua organizzazione, la sua burocrazia, il lavoro quotidiano di tanti operatori. Il cittadino libero deve sapere, deve cercare di capire per potersi sottrarre egli stesso all’indifferenza, alla facile condanna. Il dialogo ad un certo punto del libro si allarga e non sono più due voci ma tante, tutte diverse eppure simili, così sorprendentemente vicine all’essere e ai bisogni delle donne e degli uomini liberi. Perché dialogare si può. Perché, forse, si deve. Possiamo dire che l’Italia è uno dei paesi europei con il più alto tasso di sovraffollamento a cui corrispondono da una parte la volontà di ampliare il numero di posti disponibili, dall’altra, e si tratta della minoranza, di accedere con maggiore facilità alle misure alternative. Quanto queste due posizioni nel tempo hanno provato ad incontrarsi e non a prevaricarsi? Quanto il tempo trascorso in carcere riduce la sensibilità rispetto all’afflittività della pena carceraria? Quanto la durata della carcerazione incide sull’effetto di intimidazione della pena detentiva? Forse è da queste domande, ma più ancora dalla necessità di porsele, che una riflessione reale dovrebbe partire sull’intero sistema carcerario italiano. C’è bisogno di un senso più profondo di responsabilità. Il carcere deve poter essere il luogo dove riflettere su se stessi, dove ritrovare la voglia di esistere e darsi delle regole. Chi è recluso è una persona. Chi garantisce la sicurezza deve sentirsi persona tra le persone. Luogo di detenzione e luogo di lavoro, il carcere non può essere inteso solo in chiave coercitiva. Per quello che resta, per quello che ancora può essere, per quello a cui ognuno di noi è chiamato a contribuire. *Nicola Gratteri è un magistrato e saggista italiano, dal 2009 procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria. Dal 2016 procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro. Attualmente è uno dei magistrati più conosciuti della dda. Impegnato in prima linea contro la ‘ndrangheta, vive sotto scorta dall’aprile del 1989. **Antonio Nicaso è un giornalista, saggista e consulente italiano. È componente dell’International Advisory Council dell’Istituto italiano di Studi strategici Niccolò Machiavelli (Italia) e del Comitato scientifico del "Nathanson Centre on Transnational Human Rights, Crime and Security", all’Università di York (Canada). Nel 2012 è stato nominato codirettore del Centro di semiotica forense presso il "Victoria College" dell’Università di Toronto. Insegna presso la Scuola Italia del Middlebury College a Oakland, California e alla Queen’s University a Kingston, Canada. È autore di numerosi bestseller internazionali. No a corridoi umanitari per migranti. "Ma sulle Ong non ci sono indagini" di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 17 maggio 2017 Le conclusioni (approvate all’unanimità) della commissione difesa del Senato: "Solo Trapani indaga su singoli casi". Crollano gli arrivi nella Ue (-84%) ma non in Italia (+33). Bruxelles pronta a sanzionare chi non accoglie i richiedenti asilo. Non è possibile ipotizzare corridoi umanitari gestiti dalle Ong per gestire l’arrivo dei migranti in Italia; ma d’altro lato l’azioni dei volontari sul mare resta meritoria: lo conferma il fatto che al momento non esiste alcuna indagine della magistratura su violazioni commesse dalle Ong. È la doppia conclusione a cui è giunta la commissione difesa del Senato al termine di del lungo tour di audizioni che hanno visto deporre, tra gli altri anche il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, il primo a ipotizzare un legame tra scafisti e Ong (legame per il quale Zuccaro stesso ha ammesso non esistono prove). Italia unico punto di approdo - Il traffico di esseri umani attraverso il Mediterraneo resta comunque un problema senza sosta e anzi si sta scaricando per intero sull’Italia. La conferma arriva dai dati più recenti di Frontex. Il numero dei migranti arrivati illegalmente in Ue nei primi quattro mesi del 2017 è stato di 47.000, l’84% in meno rispetto allo stesso periodo del 2016, ma l’Italia continua a vedere numeri in crescita. Ad aprile sono stati 12.900 i migranti sbarcati in Italia attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, con un aumento del 19% rispetto a marzo. In tutto sono oltre 37.200 i migranti arrivati in Italia nei primi quattro mesi dell’anno, il 33% in più rispetto allo stesso periodo del 2016. Chiusa dunque la rotta terrestre che attraversa i Balcani (anche per via della "barriera" dei campi di accoglienza in Turchia), l’unico percorso praticato resta quello che dal Nord Africa arriva in Italia. "indagini su singoli, non sulle Ong" - Come il recente dibattito ha messo in mostra un ruolo oggettivo nel soccorso e nel trasferimento dei migranti è svolto dalle navi delle Ong che incrociano nel mediterraneo e operano sotto il coordinamento della Guardia Costiera italiana. Le audizioni di queste settimane in Senato (magistrati, vertici delle forze dell’ordine, responsabili delle associazioni private) hanno portato la commissione difesa di Palazzo Madama innanzitutto a un punto fermo: "Non vi sono indagini in corso a carico di Organizzazioni non governative in quanto tali ma solo un’inchiesta della Procura di Trapani concernente, tra gli altri, singole persone impegnate nelle operazioni". È il passaggio chiave del documento conclusivo della commissione, approvato all’unanimità. Gli accertamenti in sede politica però non sono conclusi, tant’è vero che proprio domattina il procuratore di Trapani deporrà davanti a un’altra commissione, quella che si occupa dell’attuazione dell’accordo di Schengen. Sempre la commissione difesa ha però stabilito che al momento non è possibile concedere mano libera alle Ong nel controllo del flusso dei migranti: "Non può essere consentita la creazione di corridoi umanitari" gestiti autonomamente dalle ong, trattandosi di un compito che spetta agli Stati o agli organismi internazionali. Le ong che fanno soccorsi devono poi essere certificate e la loro presenza in mare deve essere fin dall’inizio coordinata dalla Guardia costiera italiana. Queste le principali indicazioni della relazione. L’ultimatum Ue ai paesi dell’Est - Gli arrivi sulle coste italiane, come è facile intuire, rappresentano solo un capo del problema; l’altro è il ricollocamento dei richiedenti asilo nell’intero territorio della Ue, che anche nell’ultimo anno è andato avanti con estrema lentezza (18mila trasferimenti da Italia e Grecia contro i 160mila preventivati). Ma ora la Ue minaccia sanzioni contro gli Stati inadempienti. "Gli Stati che non hanno ancora accolto" richiedenti asilo da Italia e Grecia, "o quelli inattivi da quasi un anno", inizino i trasferimenti "entro il prossimo mese", si legge nella dodicesima relazione sui ricollocamenti. "Se non lo faranno, a giugno" la Commissione discuterà sulla possibilità di aprire le procedure di infrazione. Ungheria, Austria, e Polonia non hanno ancora accolto un singolo profugo, mentre la Repubblica Ceca è inattiva da quasi un anno. "Non è un ultimatum, è una scadenza", ma "le due parole hanno lo stesso significato dal punto di vista legale", ha detto il commissario europeo all’immigrazione Dimitri Avramopoulos. "Abbiamo esaurito tutti gli altri mezzi. Abbiamo aspettato la loro risposta per un anno e siamo sulla linea di arrivo" del programma di relocation. "È una questione di credibilità istituzionale e politica, anche rispetto a chi ha rispettato le regole", ha spiegato Avramopoulos. "Ong utili, ma ora basta corridoi umanitari privati" di Carlo Lania Il Manifesto, 17 maggio 2017 La commissione Difesa del Senato chiede regole più rigide per chi salva i migranti. Serve un maggiore coordinamento con la Guardia costiera e soprattutto non si può dar vita a corridoi umanitari "privati", non organizzati dai governi, ma quello svolto dalle organizzazioni umanitarie che salvano i migranti nel Mediterraneo è comunque un lavoro prezioso. Dopo sei settimane di sedute e 23 audizioni - nelle quali sono ascoltati i procuratori di Catania, Siracusa e Trapani, i responsabili delle missioni militari e rappresentanti di otto Ong - sono le conclusioni raggiunte dalla commissione Difesa del Senato che ha voluto capire quanto accade nel Mediterraneo dopo il rapporto dell’agenzia europea Frontex e le esternazioni del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro. Conclusioni abbastanza generiche da permettere a tutti i membri della commissione di votarle, raccogliendo l’unanimità soprattutto sulle proposte di nuove regole per le Ong da seguire per i salvataggi in mare. Magari convincendole a prestare soccorso ai barconi carichi di migranti con a bordo un agente di polizia giudiziaria, come proposto dallo stesso procuratore Zuccaro. "Pur comprendendo la posizione delle Ong che non vogliono la presenza di polizia a bordo - spiega il presidente della commissione Nicola Latorre - non vedo perché dovrebbero rifiutarsi di condividere delle nuove regole". Decisamente più categorico il giudizio del senatore Mdp Federico Fornaro, per il quale l’indagine ha comunque permesso di "fare chiarezza che non esistono complotti orditi dalle Ong, né ruoli oscuri, ma anche che tutte le attività delle Ong si sono svolte con il consenso della Guardia costiera". Nelle 31 pagine della relazione finale si sottolinea come in aggiunta alle navi militari e ai mercantili, i due soggetti tradizionalmente considerati dalle convenzioni internazionali come i protagonisti dei salvataggi in mare, dal 2014 si siano aggiunte anche le navi delle Ong. "Ci troviamo di fronte a profili nuovi non contemplati dalle legislazioni internazionali che però hanno una presenza stabile" nella acque internazionali di fronte alla Libia, ha spiegato Latorre. Un "affollamento" che in alcuni casi avrebbe intralciato le indagini sui trafficanti di uomini. Un esempio di queste difficoltà è emerso dalle audizioni dei tre procuratori, che hanno ricordato come i telefoni satellitari utilizzati dai trafficanti di uomini "vengono buttati in mare se i soccorsi sono fatti dalle navi militari, mentre nel caso di intervento di navi delle Ong, i telefonini vengono recuperati per essere riutilizzati in altre traversate", ha proseguito Latorre. Basta questo per ipotizzare presunte collusioni tra Ong e scafisti? Naturalmente no, anche perché l’ipotesi è stata smentita da tutte i responsabili militari ascoltati in commissione. Non a caso la relazione ricorda come, fatta eccezione per quelle condotte dalla procura di Trapani su singole persone, "non vi sono indagini in corso a carico di organizzazioni non governative in quanto tali". Per la commissione con la loro attività le Ong hanno di fatto dato vita a una sorta di corridoi umanitari e questo - è spiegato nella relazione - è "un compito che compete esclusivamente agli Stati e alle organizzazioni internazionali o sovrannazionali" e non a "soggetti privati" come sono le Ong. Resta da capire perché, stando così le cose, non sia direttamente l’Italia a prendere l’iniziativa vista la presenza in Libia di un esecutivo voluto dall’Onu e i continui viaggi a Tripoli di esponenti del governo italiano. Dalla commissione arrivano invece proposte che mirano soprattutto a regolamentare ulteriormente l’attività delle Ong. A partire dalla creazione di un registro delle organizzazioni che dovranno dichiarare la provenienza dei finanziamenti, consentendo inoltre di verificare l’adeguatezza delle imbarcazioni e la composizione degli equipaggi, visto che spesso si tratta di persone che non appartengono alla Ong. Le operazioni di salvataggio dovranno rientrare infine sotto il coordinamento della Guardia costiera dalla quale dipenderanno anche "le modalità di svolgimento del servizio, oltre che l’area nella quale posizionarsi". L’ultimo richiamo la relazione lo riserva infine a Malta e Tunisia, due paesi che non intervengono nelle rispettive aree di salvataggio lasciando così all’Italia il compito di coprire un’area di mare vastissima. Ong processate perché salvano i migranti di Luigi Manconi Il Manifesto, 17 maggio 2017 Il quadro che emerge dal documento della commissione difesa del Senato non tiene conto di quanto emerso nel corso delle audizioni. Così come non considera tutte le inequivocabili argomentazioni portate dai più alti gradi della Marina militare, della Guardia costiera e della Guardia di finanza, che smentiscono definitivamente la Grande Menzogna sul soccorso in mare. Corridoi umanitari privati non consentiti: questa la conclusione, approvata all’unanimità, al termine di quella che, sulla carta, doveva essere un’indagine conoscitiva di una commissione parlamentare. Ma che - nei toni e nei contenuti - si è rivelata una sorta di pubblico processo nei confronti delle Ong. Con tanto di raccomandazioni finali che, qua e là, sembrano piuttosto le motivazioni di una sentenza. Peccato che il quadro che emerge dal documento della commissione difesa del Senato non tenga conto di quanto emerso nel corso delle audizioni che la stessa commissione ha condotto. Così come non tiene conto di tutte le inequivocabili argomentazioni portate dai più alti gradi della Marina militare, della Guardia costiera e della Guardia di finanza, che smentiscono definitivamente la Grande Menzogna sul soccorso in mare. Nel documento della commissione si parla insistentemente di un’attività disordinata che rende "necessaria una razionalizzazione della presenza delle Ong" e un "coordinamento permanente curato dalla Guardia costiera". Ma, guarda un po’, tutte, proprio tutte le autorità militari hanno confermato che è esattamente quanto già ora succede e hanno negato che la presenza delle imbarcazioni delle Ong abbia mai intralciato le operazioni delle missioni militari. La Guardia costiera, poi, ha ribadito di avere il pieno controllo di quanto avviene nelle operazioni Sar (Ricerca e Salvataggio) svolte da ciascuna imbarcazione. Ma tutto ciò, in realtà, porta la commissione ad auspicare la "riduzione delle relative imbarcazioni nell’area, peraltro dalle caratteristiche tecniche molto variegate". Ecco, dunque, il vero obiettivo. Bisogna fermare le Ong perché offrono soccorso ai migranti in pericolo, mettono loro a disposizione "corridoi umanitari" cosa che "in nessun modo può ritenersi consentita dal diritto interno e internazionale, né peraltro desiderabile". Desiderabile?! Ancora, si chiede alle Ong di "conformarsi ad obblighi e requisiti che le abilitino allo svolgimento di tali compiti", con "forme di accreditamento e certificazione che escludano alla radice ogni sospetto di scarsa trasparenza organizzativa e operativa": ciò al fine di rendere "pubbliche nel dettaglio le proprie fonti di finanziamento, oltre che i profili e gli interessi dei propri dirigenti e degli equipaggi". Si chiede quindi alle Ong di provare la liceità dei finanziamenti ricevuti perché "sospetti di scarsa trasparenza" senza che siano emersi elementi in merito nel corso delle audizioni e nonostante il procuratore di Trapani abbia smentito recisamente l’esistenza di qualsiasi forma di finanziamento da parte dei trafficanti. Viene così totalmente trascurato il fatto che le Ong sono già ora regolate da norme precise; e obbligate, attraverso lo strumento del bilancio, a rendicontare il totale delle donazioni ricevute e l’impiego di esse; e che non si può pretendere la pubblicità sulle donazioni, per rispetto della privacy di chi le compie. Spetterebbe semmai all’autorità giudiziaria, in caso di indagine, avere accesso a questo tipo di informazioni. Si punta poi alla piena collaborazione con le autorità libiche nelle operazioni Sar in modo che riportino sulle proprie coste i migranti salvati. Si dimentica che, in mancanza di un’autorità statale riconosciuta a tutti i livelli, la guardia costiera libica non sia in grado di assicurare il controllo delle coste e abbia una capacità d’azione limitatissima, come prova l’alto numero di morti che non si è potuto evitare nei giorni scorsi. I superstiti potrebbero così sbarcare non più in Italia ma, "in territorio libico, tunisino e maltese, sotto l’egida dell’Onu, dell’Unhcr e dell’Oim". Verrebbe ribaltato, di conseguenza, nel caso della Libia e, in parte, della Tunisia, il concetto stesso di "Paese sicuro" come definito dalle convenzioni internazionali. Quasi che non fossero sufficienti i racconti terribili delle crudeltà che, da anni, riportano i profughi, una volta condotti in salvo. A leggere bene tra le righe, emerge chiaramente la volontà di lanciare un messaggio preciso: non ci sono prove per condannare le Ong ma di fronte ai sospetti non possiamo non prendere misure nei loro confronti: salvando vite umane, non fanno altro che aumentare il numero di persone da accogliere e proteggere nel nostro Paese. Siria. Prigionieri uccisi a Saydnaya, la Siria respinge le accuse Usa di Michele Giorgio il manifesto, 17 maggio 2017 "Le asserzioni di Washington fanno parte di una storiella ideologica staccata dalla realtà", dice una fonte del ministero degli esteri siriano. Secondo l’Amministrazione Trump decine di prigionieri verrebbero impiccati ogni giorno e poi bruciati per non lasciare traccia. Damasco nega "categoricamente" le accuse lanciate dagli Stati Uniti sulle "esecuzioni di massa" che avverrebbero nel carcere di Saydnaya (Damasco), dove le vittime, afferma Washington, verrebbero addirittura bruciate in un "forno crematorio". "Le asserzioni dell’Amministrazione americana sul cosiddetto crematorio della prigione di Saydnaya fanno parte di una storiella ideologica staccata dalla realtà", ha commentato una fonte del ministero degli esteri siriano. Damasco ha sempre smentito di commettere massacri di detenuti politici e il presidente Bashar Assad in più occasioni ha parlato di "epoca delle false notizie". Non si può fare a meno di notare che la denuncia statunitense è giunta, casualmente, mentre Donald Trump è al centro delle polemiche per il licenziamento del capo dell’Fbi James Comey e per aver rivelato una informazione segreta sull’Isis al ministro degli esteri russo Lavrov e all’ambasciatore di Mosca Kisliak. Altrettanto casualmente l’accusa americana è arrivata alla vigilia di una nuova sessione di colloqui indiretti, ieri a Ginevra, tra i rappresentanti del governo siriano e dell’opposizione. Colloqui dove la Siria, secondo i suoi nemici, avrebbe una posizione "intransigente", con Assad che respinge la condizione dell’opposizione di una sua immediata uscita di scena. Un’idea precisa su come mettere subito fuori gioco Assad sembra averla il ministro israeliano dell’edilizia ed ex generale Yoav Galant secondo il quale "È giunto il tempo di eliminare Bashar Assad", colpevole a suo dire di "genocidio". Galant in realtà minacciava l’Iran più che il presidente siriano poiché ha paragonato l’eliminazione di Assad al "taglio della coda del serpente. Dopo questo ci possiamo concentrare sulla testa, che si trova a Teheran". Stuart Jones, alto diplomatico Usa per il Medio Oriente, l’altro giorno ha sostenuto che il governo di Damasco "sarebbe sprofondato in un nuovo livello di depravazione" con il sostegno di Russia e Iran. Jones ha mostrato le foto satellitari del presunto forno crematorio in Siria ricavato, ha detto, modificando un edificio di Saydnaya. Immagini scattate durante vari anni, a partire dal 2013 che non costituiscono una prova chiara. In una foto presa nel gennaio del 2015, ad esempio, si vede soltanto un’area del tetto dell’edificio con la neve che si scioglie. Ma per gli americani basta a confermare la loro tesi. "Noi crediamo che il regime siriano abbia installato un crematorio nella prigione e che potrebbe disfarsi dei resti dei detenuti per nascondere l’ampiezza delle esecuzioni di massa", ha detto Jones, aggiungendo che molti corpi sarebbero gettati in fosse comuni. A sua volta il Dipartimento di stato afferma che nella prigione verrebbero impiccati circa 50 detenuti al giorno. Accusa simile a quella formulata in un rapporto presentato lo scorso 7 febbraio da Amnesty sempre contro Saydnaya in cui, secondo l’Ong dei diritti umani, sarebbero stati impiccati non meno di 13.000 prigionieri dal 2011 al 2015. Washington ora mette in forte dubbio l’intesa che ha appena raggiunto con la Russia sulla creazione di zone cuscinetto in Siria, concordata nei colloqui di Astana tra Mosca, Ankara e Teheran. "Alla luce del fallimento dei precedenti accordi per il cessate il fuoco, abbiamo motivo di essere scettici" ha detto Jones. Ogni volta che Trump finisce sotto accusa per i suoi rapporti con Mosca poi l’Amministrazione si danna l’anima per dimostrare che il presidente e i suoi uomini in realtà fanno uso del pugno di ferro contro la Russia e i suoi alleati. La portavoce del Dipartimento di Stato, Heather Nauert, ad esempio, ha ricordato che il Segretario di Stato Rex Tillerson è stato "fermo e chiaro" nel suo recente incontro con l’omologo russo Lavrov, ribadendogli che Mosca "deve usare il suo potere per tenere a bada il regime di Assad". Nessuno intanto parla delle oltre 20 vittime civili fatte in Siria da un bombardamento della coalizione a guida Usa rivelato dall’Osservatorio nazionale siriano per i diritti umani, una Ong vicina all’opposizione. La stessa ong riferisce inoltre che è diminuito fino al 94% il grado di violenza in Siria nelle "zone di de-escalation" definite dall’accordo di Astana. Honduras. Centinaia di detenuti trasferiti in carcere di massima sicurezza euronews.com, 17 maggio 2017 In Honduras, un trasferimento di detenuti organizzato come una vera e propria operazione militare. Le autorità del Paese dei Caraibi hanno trasportato 773 prigionieri verso il carcere di massima sicurezza di Moroselì, nell’Est del Paese. Si tratta in particolare di appartenenti ai due gruppi criminali della Mala Salvatrucia e del Barrio 18. L’operazione denominata "Arpia III" fa parte di una vasta politica perseguita dal governo per la lotta alla criminalità organizzata. Il Presidente Juan Orlando Hernandez: "Continueremo ad impedire che i detenuti s’organizzino e pianifichino ogni tipo di atti criminali. Abbiamo già constatato come il trasferimento dei prigionieri a San Pedro Sula abbia creato un nuovo contesto" ha detto il Capo dello Stato. Per l’operazione sono stati mobilitati 3.000 agenti di polizia, 245 veicoli e 5 aerei. La prigione di destinazione, ribattezzata "El Pozo", è stata costruita seguendo standard di sicurezza internazionali. Il trasferimento avviene a una settimana dalla fuga di 18 detenuti dall’Istituto Nazionale Penitenziario. Una notizia resa pubblica due giorni dopo i fatti e senza fornire dettagli sulle modalità della fuga. Messico. Ucciso il giornalista Javier Valdez: raccontava la guerra dei narcos di Omero Ciai La Repubblica, 17 maggio 2017 L’agguato a Culiacan, capitale dello stato del Sinaloa. Il reporter era famoso per le sue inchieste, condotte sul settimanale Riodoce, sul crimine organizzato e i legami tra i cartelli della droga e le istituzioni. Javier Valdez Cárdenas, 50 anni, uno dei più importanti e famosi giornalisti messicani, è stato assassinato ieri a Culiacan, capitale dello Stato di Sinaloa, quello del Chapo. Valdez era uno dei grandi esperti delle vicende dei narcotrafficanti del cartello di Sinaloa. Corrispondente a Culiacan del quotidiano messicano La Jornada, aveva fondato 14 anni fa una delle maggiori riviste, il settimanale Riodoce, che si occupa di narcotraffico e dove scriveva un editoriale, sempre molto informato, intitolato "Malayerba" (erba cattiva). Valdez è stato assassinato a pochi metri dalla sede della rivista dalla quale era appena uscito. Il killer lo ha raggiunto mentre prendeva la sua auto per tornare a casa, dalla sua famiglia, e ha sparato numerosi colpi. Il corpo di Javier Valdez è rimasto disteso sul selciato con il volto coperto dal cappello di paglia che portava sempre. Valdez è il sesto giornalista messicano assassinato dall’inizio del 2017. La sua morte è un messaggio chiaro alla stampa e l’ennesimo avvertimento ai colleghi di Javier. La scorsa settimana alcuni reporter impegnati a coprire una notizia sul campo, nello stato di Guerrero, erano stati circondati da un gruppo di persone armate che includeva anche bambini, ed erano stati costretti a consegnare tutte le attrezzature. Sempre la settimana scorsa i killer di un cartello avevano assassinato in casa, nello stato del Tamaulipas, Miriam Rodriguez, leader di un movimento di famiglie di desaparecidos, madre di una ragazza che era stata rapita e uccisa nel 2012. Conoscere Javier Valdez era un privilegio per qualsiasi giornalista si occupasse di Messico e di narcotraffico. Sapeva tutto, anche i dettagli più ignoti. Nato a Culiacan il 14 aprile del 1967, aveva studiato sociologia all’Università iniziando poi la carriera giornalistica in un canale tv locale, Canal 3, dove si specializzò nei reportage di inchiesta sui legami tra i narcos, la criminalità organizzata, e le alte sfere della politica e del mondo imprenditoriale. Considerato una "eminenza" fra i giornalisti che si occupano di narcotraffico, era anche uno dei più coraggiosi e un punto di riferimento fondamentale per chiunque volesse conoscere la storia dei narcos messicani. Gentilissimo, sempre disponibile, anche a fare da guida e scorta per le vie di Culiacan, non abbandonò mai la sua città neppure nei momenti più drammatici delle guerre di mafia. Autore di numerosi libri sul narcotraffico - da Miss Narco del 2009 all’ultimo Narcoperiodismo, uscito l’anno scorso - era stato premiato nel 2011 con il "Maria Moors Cabot" dalla Columbia University che aveva definito "eroico" il lavoro suo e quello dei redattori della rivista Riodoce.