La crociata dell’Espresso per inasprire il carcere duro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 maggio 2017 Scrive sull’Espresso il giornalista Lirio Abbate: "I capimafia detenuti in base alla speciale norma penitenziaria del 41-bis, dal 2009 ad oggi vengono sempre più spesso accompagnati a casa. In questo modo possono riabbracciare parenti e familiari, grazie ad uno speciale permesso che viene accordato dal magistrato di Sorveglianza il quale accoglie le richieste del detenuto. Non ci sono vetri divisori o stanze isolate come previsto dal 41-bis. Il boss lascia per alcune ore il carcere di massima sicurezza per andare a casa. E qui inizia il viavai. Come in una processione". Questa è la tesi dell’Espresso. Possiamo riassumerla così: troppa indulgenza, troppe concessioni. L’Espresso parla di casi dove i boss reclusi al 41-bis avrebbero "raggirato" la carcerazione speciale istituita nel 1992 in risposta alle stragi mafiose. Una carcerazione che trova le proprie radici già in una legge del 1977 che prevedeva un regime di carcerazione speciale istituito ad hoc per l’emergenza terrorismo che incendiava l’Italia in quegli anni. Ma è vero - come dice l’Espresso - che ai detenuti reclusi al 41-bis viene concesso facilmente un permesso? Assolutamente no. Il regime del carcere duro esclude a priori qualsiasi tipo di beneficio che è invece appannaggio dei carcerati "classici", tipo la possibilità di accedere agli arresti domiciliari, semilibertà, permessi o possibilità di lavorare all’esterno del carcere. In aggiunta a queste, altre sono le misure restrittive imposte dal 41 bis e criticate per la loro eccessiva durezza dal senatore Luigi Manconi che, per la prima volta, aveva fatto redigere un dossier ben dettagliato dalla commissione dei diritti umani da lui preseduta. Allora perché l’Espresso parla di permessi concordati dal magistrato? La motivazione sta nel fatto che per motivi familiari gravi - lutto o grave malattia da parte dei parenti più prossimi - il magistrato di sorveglianza può concedere un permesso speciale. Si tratta del "permesso di necessità" ed è contemplato dall’articolo 30 dell’ordinamento penitenziario, il quale recita che "nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, ai condannati e agli internati può essere concesso (o.p. 30- bis) dal magistrato di sorveglianza (o.p. 68) il permesso di recarsi a visitare, con le cautele previste dal regolamento (reg. es. 64), l’infermo". Permessi che vengono eseguiti con tanto di capillare controllo e scorta da parte della polizia penitenziaria. Inoltre tali permessi non vengono concessi in automatico e sono innumerevoli i casi di richieste respinte. L’articolo dell’Espresso esordisce con l’esempio di Francesco Pesce - boss della ‘ndrangheta arrestato nell’agosto del 2011 e sottoposto al 41-bis, che avrebbe usufruito di un permesso per riabbracciare solo per qualche ora i suoi parenti e amici. Il Dubbio ha raggiunto l’avvocato Guido Contestabile - uno dei difensori del detenuto calabrese - il quale ha smentito categoricamente che il suo cliente abbia ricevuto il permesso: in realtà è stato ininterrottamente al 41-bis prima a Cuneo e da qualche anno nel carcere di Sassari. In merito all’articolo de L’Espresso interviene anche l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini. Raggiunta da Il Dubbio spiega senza mezzi termini che "quando scrive di 41-bis, Lirio Abbate sistema le cose a suo comodo, spingendo nella direzione di ulteriori inasprimenti del carcere duro temendo (forse) che prima o poi qualche Corte superiore si pronunci contro quel regime di detenzione che da non pochi giuristi viene definito una vera e propria tortura". L’esponente radicale continua: "Abbate proprio non può sopportare che i magistrati di sorveglianza (o il Gip per chi sta in 41-bis in attesa di giudizio) possano decidere di concedere un permesso di necessità e si guarda bene dal precisare che tale tipologia di permessi riguardi solo fatti drammatici per il detenuto che ne usufruisca, come la morte di uno stretto congiunto. Da come scrive Abbate, invece, sembra che i boss mafiosi scorrazzino per la penisola a loro piacimento per andare ad impartire ordini nei loro territori". Rita Bernardini poi affronta la reale situazione del 41-bis: "Qualcuno prima o poi dovrà spiegarmi che ordini potesse impartire a suo tempo dal 41-bis Provenzano immobilizzato in un letto, incapace di intendere e di volere e di compiere gli atti quotidiani della vita oltre che alimentato artificialmente. Così come mi piacerebbe conoscere le motivazioni del 41-bis di tre ultranovantenni detenuti attualmente a Parma, uno dei quali malato di Alzheimer, o il fondamento del carcere duro per un Vincenzo Stranieri che la galera già se l’è fatta ma che è condannato (per non si sa quanto tempo ancora) alla misura di sicurezza al 41-bis, seppure sia stato appena operato da un tumore maligno alla gola". Proposta di legge Ucpi. "Un doppio Csm: uno per i giudicanti, l’altro per i requirenti" di Marzia Paolucci Italia Oggi, 16 maggio 2017 Giocheresti una partita arbitrata dal fratello del tuo avversario? Alla domanda provocatoria, in due giorni hanno detto no quasi 7 mila cittadini. Tante sono state le firme per la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti raccolte dalle Camere penali nelle scorse giornate del 4 e 5 maggio. Da quel primo weekend l’Unione ha iniziato a raccogliere adesioni alla sua proposta di legge costituzionale tra i cittadini interessati alla separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente. L’iniziativa prevede che i banchetti adibiti all’iniziativa promossa sul sito separazionecarriere.it del Comitato promotore Ucpi per la separazione delle carriere nella magistratura, vengano allestiti davanti ai tribunali di oltre cento sedi giudiziarie in cui le Camere sono rappresentate. Dopo le 40 città italiane raggiunte in un colpo solo nella giornata del 4 maggio, si è proseguito il 6 maggio con Bolzano, Merano, Milano, Genova, Ascoli Piceno e Rieti per arrivare il 9 a Bologna, Ferrara. Mairi sponsor dell’iniziativa Beniamino Migliucci, presidente Ucpi e dello stesso comitato promotore della riforma. Prossimi appuntamenti a Milano e Pescara il 10 e l’11 maggio, super rappresentata la Sicilia tra Palermo il 20 maggio e Catania il 12 maggio, Tempio Pausania, Termini Imerese e una sfilza di comuni da Caccamo a Corleone per due mattine a settimana di qui ai 5 mesi e mezzo che restano per trasformare la propria iniziativa legislativa in una proposta di legge costituzionale da discutere e votare in Parlamento. Come aderire - "La tua firma perché tra giudice e pm le carriere siano separate", così recita lo slogan dell’iniziativa nata per sensibilizzare l’opinione pubblica alla raccolta delle 50 mila firme necessarie a far passare la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare concepita dalle Camere penali. Per le adesioni, l’Unione ha messo in campo attraverso le sua Camere territoriali, un’erratica campagna di raccolta firme da Bolzano a Catania. I moduli per la raccolta sono scaricabili direttamente dal sito e ottenibili via mail scrivendo all’indirizzo di posta del comitato promotore ma non si firma solo ai tavoli in strada o nelle piazze che perché si può farlo anche presso le cancellerie dei tribunali e presso i segretari comunali che sono tenuti alla raccolta e autentica delle firme. La proposta - Il testo di appena dieci articoli prevede un doppio Csm, uno per la magistratura giudicante e uno per la requirente e allo stesso modo doppi concorsi divisi per ruolo. Una rivoluzione, insomma visto che più che separarne solo le carriere, come da più parti auspicato in passato, punta a una separazione dei ruoli ab origine. In particolare, si segnala, la riforma dell’articolo 112, comma 1 della Costituzione che dopo le parole "Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale" aggiunge "nei casi e nei modi previsti dalla legge". In altre parole una remissione dell’azione penale in capo al Parlamento che sarebbe chiamato a circoscriverla. Lo scontro - Un tema che brucia sotto la cenere quello della separazione delle carriere, trito e ritrito dal dibattito giuridico e politico ma di lunga memoria per un paese che ogni qualvolta si riaffaccia all’orizzonte delle riforme strutturali da fare, lo rimette in piedi, salvo rimangiarselo alle prime avvisaglie di scontro tra politica, magistratura e istituzioni. Stavolta ci ha pensato Magistratura Indipendente, la corrente moderata delle toghe che sul punto ha chiesto un’immediata presa di posizione dell’Associazione nazionale magistrati contro ogni intervento sul principio dell’obbligatorietà dell’azione penale definito "un grave vulnus all’indipendenza della magistratura". Per l’avvocato Migliucci, invece, "l’unico vero vulnus", risponde, "è rappresentato dall’unicità delle carriere che si pone in contrasto con i principi del giusto processo che prevede un giudice terzo per garantire l’imparzialità della decisione". Giudici di pace. In arrivo 400mila processi, ma solo tra quattro anni di Antonello Cherchi e Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2017 Saranno circa 400mila i processi che usciranno dai tribunali per finire sulle scrivanie dei giudici di pace. Ma per prepararsi al "trasloco" gli operatori della giustizia hanno più di quattro anni. Il decreto legislativo di riforma della magistratura onoraria, ora al vaglio del Parlamento, traccia infatti una road map che arriva al 30 ottobre 2021. Si dovrebbero invece applicare da subito ai magistrati che saranno reclutati dopo l’entrata in vigore del decreto le nuove disposizioni che dettano i tempi e i modi di lavoro dei giudici onorari di pace (che sostituiranno gli attuali giudici di pace e giudici onorari di tribunale e saranno destinati a esercitare la giurisdizione civile e penale o ad affiancare i togati nell’ufficio del processo) e dei vice procuratori onorari. Mentre si stabilisce un percorso ad hoc per i magistrati già in servizio: le nuove disposizioni perlopiù saranno operative per loro tra quattro anni. Il decreto respinge le richieste di stabilizzazione dei giudici di pace, chiarendo che i magistrati onorari avranno un incarico "inderogabilmente temporaneo", di quattro anni, con conferma possibile per altri quattro e fino a 65 anni di età (i magistrati in servizio potranno essere confermati per quattro quadrienni e fino a 68 anni di età). E deve trattarsi di un "secondo lavoro", che occupa per non più di due giorni alla settimana. Il primo passo per far partire la riforma è la revisione delle piante organiche. Lo farà il ministero della Giustizia, sentito il Csm, entro sei mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo. Saranno quindi reclutati nuovi giudici onorari di pace che dovranno affrontare un tirocinio di sei mesi e lavorare per due anni nell’ufficio del processo. È proprio per aspettare che il sistema vada a regime che si è deciso di rendere operativo l’ampliamento delle competenze solo a partire dal 30 ottobre 2021. Un aumento notevole, effetto di una interpretazione estesa della delega. Dal 2021, quindi, i giudici onorari decideranno non solo sulle cause in materia di condominio, ma anche, tra l’altro, sul risarcimento dei danni da incidenti stradali fino a 50mila euro, sulle liti che riguardano beni mobili fino a 30mila euro, per molte cause su diritti reali "minori" (ad esempio, usufrutto ed esercizio delle servitù) e per le espropriazioni forzate di cose mobili. In tutto, secondo la relazione al decreto, si tratta di 400mila cause civili in un anno, mentre quelle penali non sono stimate perché il loro aumento non è "apprezzabile". Se le competenze si ampliano, non così le retribuzioni. È prevista un’indennità fissa (di poco più di 16mila euro lordi annui, che si riducono a quasi 13mila durante la permanenza nell’ufficio del processo o in quello dei vice procuratori onorari) e un’indennità di risultato, calcolata in una misura tra il 15 e il 30% della prima. Oggi il giudice di pace più lavora più guadagna: percepisce 36 euro lordi a udienza (con un tetto di 110 udienze in un anno), 56 a sentenza, 10 a decreto ingiuntivo e la retribuzione media lorda annua è di 50mila euro. Dunque, in futuro i redditi diminuiranno quasi del 70% (ma è anche vero che l’incarico di giudice non sarà più preminente). Novità - insieme a quelle sulla previdenza, che resta a carico dei magistrati - che agli onorari non piacciono. Per questo i giudici di pace scendono in sciopero da oggi fino all’11 giugno (ma garantendo un’udienza alla settimana): "Senza contare - aggiunge Gabriele Di Girolamo, presidente dell’Associazione nazionale giudici di pace - che con le nuove competenze sarà impossibile smaltire il lavoro in due giorni la settimana". Legge cyberbullismo verso l’ok di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2017 Sul contrasto al cyberbullismo si punta all’approvazione senza modifiche alla Camera. Anche perché se il testo dovesse tornare al Senato il successo sarebbe tutt’altro che certo. Ieri si è svolta la discussione generale e il provvedimento è oggi all’ordine del giorno dell’Aula. Il testo alla fine, nel passaggio a Palazzo Madama, ha lasciato per strada gli strumenti di natura penale che ne inasprivano l’impianto. È rimasto, parzialmente tradotto da quanto previsto per lo stalking, l’ammonimento da parte del questore, da esercitare nei confronti del minore autore di atti di bullismo digitale per invitarlo a cambiare la propria condotta. "Finalmente": così il ministro dell’Istruzione, Valeria Fedeli, commenta l’appuntamento in Aula alla Camera. "Questa legge rafforza il ruolo e il lavoro che noi stiamo facendo come ministero che è quello di contrastare il cyberbullismo con la formazione dei docenti e degli studenti" ha spiegato al Sole 24 Ore il ministro ricordando che per combattere questi comportamenti "bisogna imparare a riconoscere i segnali in modo da poter intervenire per prevenire forme più pesanti di bullismo". Al disegno di legge si affianca un ulteriore lavoro del ministero che è quello di dare le linee guida per tutte le scuole su come ci si comporta di fronte a ragazze e ragazzi che subiscono atti di cyberbullismo. "C’è ovviamente la prevenzione - ha spiegato il ministro - ma poi ci sono anche strutture di aiuto per le vittime, come il Centro multidisciplinare dedicato al disagio adolescenziale del Fatebenefratelli di Milano". Non linciate Woodcock, non è l’unico colpevole di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 16 maggio 2017 Il suo caso può essere utile per dire che anche un pubblico ministero può sbagliare e che si tratta di uno sbaglio senza conseguenze se chi è chiamato ad un ruolo di garanzia fa il suo dovere. Le immagini di Woodcock, che in motocicletta, con il casco a padella ed atteggiamento sbarazzino arriva un tempo alla procura di Potenza e alla procura di Napoli, sono state in prima pagina su tutti i quotidiani italiani ed hanno riempito pagine e pagine nei magazine. Inutile sottolineare, poi, la compiaciuta meticolosità con cui i giornali hanno dato conto di tutti gli scandali privati, che le indagini di Woodcock hanno fatto emergere, e il soddisfatto clamore con cui è stata data notizia di tanti arresti. Oggi tutti a tirare calci, sottolineando, come premessa, l’insuccesso di alcune di quelle inchieste, alle quali proprio la stampa aveva dato rilievo. La vicenda Consip appare come l’occasione, finalmente giunta, al di là di ogni valutazione di merito, di potergli tirare dei calci. Dunque, Woodcock il pm dei casi che non esistono e degli innocenti mandati ingiustamente in galera. E così si sono tutti lavati la coscienza per la gogna ingiusta con cui tante persone sono state distrutte. Ma, se si ha un momento di onestà intellettuale, si deve ammettere che questa ondata di pubblica esecrazione è del tutto fuori luogo. Colpisce chi non ha responsabilità o, se le ha, è comunque il meno responsabile. Ognuna delle inchieste che oggi sono addebitate a Woodcock ha visto coinvolti tutti i ruoli di garanzia che prevede l’ordinamento processuale. Quando sono intervenute le misure cautelari, che gli vengono contestate, si dimentica che l’ordinanza di custodia cautelare è stata firmata da un Gip che, oggi possiamo dubitare, non ha svolto con coscienza e diligenza il suo ruolo di garanzia. E gli stralci di telefonate, irrilevanti per il processo ma che hanno alimentato il gossip dei giornali, erano, in larghissima misura, tratte proprio dalle ordinanze dei Gip. Che dire, poi, dei Tribunali del riesame che hanno ascoltato le difese degli imputati, poi risultati innocenti, con il fastidio riservato a chi disturba il manovratore? Per non parlare, infine, della Corte di Cassazione che ha inventato la valutazione dinamica della prova per poter dire che qualunque sospetto, visto in chiave dinamica, legittima l’adozione delle misure cautelari. E, poi, a seguire, perché il Giudice dell’Udienza preliminare non ha fermato i processi inutili e palesemente infondati? Vi è tutta una filiera di soggetti, dietro l’immagine sbarazzina di Woodcock, con responsabilità e ruoli molto maggiori dei suoi, che non hanno fatto con scrupolo e dignità il loro dovere. Ai quali va aggiunta anche la stampa, che della fine ingloriosa di alcuni processi neppure ha dato notizia o, se l’ha data, l’ha fatto in poche righe nascoste nelle ultime pagine, dopo che il massacro mediatico aveva occupato le prime pagine. Pensare, ora, di lavare la coscienza di tutti i soggetti menzionati mettendo Woodcock sulla graticola mediatica è un non senso e, anzi, è profondamente ingiusto. Quest’ultimo, come tutti sanno, è un pubblico ministero. A lui è richiesto di cercare i reati. E non è vero che abbia collezionato solo insuccessi: nella stessa inchiesta Consip sembra che un passaggio di mazzette, sia pure ad un funzionario, sia restato confermato. Tuttavia, è anche successo che ha preso lucciole per lanterne, come può succedere a tutti. Per questi casi, però, non è tanto Woodcock che non ha funzionato. Sono stati coloro che erano chiamati a svolgere un ruolo di garanzia che non hanno fatto il loro dovere. Il caso Woodcock può essere utile per dire che anche un pubblico ministero può sbagliare e che si tratta di uno sbaglio senza conseguenze se chi è chiamato ad un ruolo di garanzia fa il suo dovere. Ma se il ruolo di garanzia è vissuto senza dignità e coscienza, è ovvio che quell’errore ha conseguenze devastanti. Si può chiedere di comportarsi con serietà, dignità, equilibrio ed una sana dose di scetticismo a chi condivide con il pubblico ministero la stessa carriera? "Non punibile chi ha paura e spara ai ladri in casa". Il Veneto vota la sua legge Corriere di Verona, 16 maggio 2017 Passa la proposta (simbolica) che punta a modificare il codice. "Sappiamo bene che le proposte di legge statali che partono dai consigli regionali una volta arrivate in parlamento poi finiscono nel nulla. Ma è altrettanto vero che spesso vengono riprese, nelle loro linee generali e nei loro principi ispiratori, nell’ambito dei lavori d’aula, finendo talvolta per influenzarli in modo importante". E allora quale momento migliore di questo, col Senato pronto a mettere mano al contestato testo uscito dalla Camera, per presentare qualche suggerimento in tema di legittima difesa? Sergio Berlato, capogruppo di Fratelli d’Italia ma soprattutto paladino dei cacciatori e degli appassionati di armi di tutto il Veneto, non s’è fatto sfuggire l’occasione e con la sponda determinante della Lega e della Lista Zaia è riuscito a far approvare ieri dal consiglio regionale la sua proposta di modifica dell’articolo 52 del codice penale (30 voti a favore, 6 contro, 7 astenuti). Un inasprimento giocato su tre piani. Spaziale, con l’allargamento, dalla casa e l’impresa alle "immediate adiacenze" delle stesse, "se risulta chiara e sia in atto l’intenzione di introdursi violentemente o di volersene allontanare senza desistere dall’offesa". Temporale, per cui "il pericolo di aggressione è presunto quando l’offesa ingiusta avviene in ore notturne (concetto al centro dello scontro politico e delle ironie del web sul testo licenziato da Montecitorio, ndr), o con modalità atte a creare uno stato di particolare paura e agitazione nella persona offesa". E soggettivo, sicché "non risponde di eccesso colposo nella legittima difesa chi ha agito in stato di paura scusabile o per uno stato emotivo non rimproverabile di panico". Nella terra di Graziano Stacchio ed Ermes Mattielli, di Franco Birolo e Walter Onichini, che ha ospitato a Verona il 25 aprile scorso la grande manifestazione della Lega dedicata alla "difesa sempre legittima", è facile immaginare quale dibattito abbia scatenato la proposta Berlato, che l’ha spiegata così: "Se lo Stato non è in grado di garantire la sicurezza dei suoi cittadini, deve consentire ai suoi cittadini di difendere loro stessi, i loro famigliari e la loro proprietà privata, che in tutto il resto del mondo è sacra e inviolabile. Nessun far west - ha voluto precisare l’esponente di Fratelli d’Italia - vogliamo soltanto sottrarre alla discrezionalità del giudice, sempre libero di interpretare la norma, gli aspetti più controversi della legge del 2009, specie per quel che riguarda il concetto di "proporzionalità". Si tratta di chiarire meglio alcuni concetti, partendo da un principio che per noi è sacrosanto: la vita dell’aggressore e quella dell’aggredito non sono sullo stesso piano. Invece di disarmare gli italiani, disarmiamo i delinquenti". Nel Pd, se il capogruppo Stefano Fracasso ha contestato proprio il concetto alla base del ragionamento di Berlato, quello per cui le due vite in gioco "peserebbero" in modo diverso sulla bilancia della giustizia, Alessandra Moretti ha invece ammesso che la legge in discussione in parlamento "va modificata" perché "è scritta male e può generare fraintendimenti". E ha aggiunto: "La sicurezza non è affatto un tema "di destra" e lo sta ben dimostrando il ministro dell’Interno Minniti con i suoi provvedimenti in materia di immigrazione e sicurezza urbana. Provvedimenti che stanno creando una nuova cultura anche nel centrosinistra, senza che questo significhi, come invece vorrebbe la Lega, sparare liberamente sempre e comunque". Perplessità sono state espresse da Erika Baldin del Movimento Cinque Stelle ("Facciamo attenzione a non danneggiare proprio le persone più fragili che vorremmo difendere") mentre assolutamente contrario si è detto il controrelatore della proposta di legge statale, Piero Ruzzante di Mdp, che ha marcato vigorosamente la distanza dagli ex compagni di partito del Pd: "Una vita umana vale più di un bene di proprietà, sempre". Quindi ha ironizzato: "La legge non funziona? Il codice Rocco fu scritto in epoca fascista, la legge di modifica è stata approvata dal Governo Berlusconi… dovreste fare mea culpa". Per chiudere con una stilettata alla Lega: "Se la sicurezza è davvero l’emergenza di cui parlate, perché dal 2008 al 2016 la Regione ha tagliato il 95% dei fondi dedicati a questo capitolo del bilancio?". La Cassazione sugli immigrati: integrazione sui valori di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 15 maggio 2017 n. 24084. C’è un nucleo comune di regole nel quale società di accoglienza e immigrati si devono potere riconoscere. Ed è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica del Paese ospitante. Lo sottolinea la Corte di cassazione, con la sentenza n. 24084 della Prima sezione penale depositata ieri. La pronuncia ha così confermato la condanna a un uomo di religione Sikh, sanzionato con un’ammenda di 2.000 euro perché "portava fuori dalla propria abitazione senza un giustificato motivo, un coltello della lunghezza complessiva di 18,5 centimetri idoneo all’offesa per le sue caratteristiche". La difesa dell’imputato aveva sostenuto che il possesso del coltello era giustificato dal credo religioso. Quel particolare tipo di pugnale infatti, il kirpan, rappresenta uno dei simboli della religione monoteista Sikh e in questo senso a essere invocato in chiave difensiva era stato l’articolo 19 della Costituzione, sulla libertà di confessione religiosa. Una linea bocciata dalla Cassazione, con parole nette: "In una società multietnica, la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere". È vero che l’integrazione non ha come conseguenza l’abbandono della cultura di origine, e su questo punto è la sentenza a valorizzare un articolo della Costituzione, il 2, che valorizza il pluralismo sociale; tuttavia il limite non può che essere costituito dal rispetto dei diritti dell’uomo e della civiltà giuridica della società ospitante. E allora è "essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina". L’immigrato, mette in evidenza la Cassazione, deve essere conseguente con la scelta fatta di stabilirsi in un altro Paese, deve avere consapevolezza che i valori di riferimento saranno diversi da quelli di provenienza e che il loro rispetto non è oggetto di scambio. Non è possibile che l’attaccamento ai propri valori di origine conduca alla trasgressione delle leggi della società in cui si è liberamente scelto di vivere. "La società multietnica è una necessità - affermano ancora i giudici -, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali confliggenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro Paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto d’armi e di oggetti atti ad offendere". Non vengono, in questo modo, posti ostacoli alla libertà di religione. A confermarlo è proprio una corretta lettura dell’articolo 19 della Costituzione che prevede la legittimità di limiti, per esempio, per ragioni di ordine pubblico. Coerente anche il riferimento giuridico a quanto avviene all’estero. La Convenzione dei diritti dell’uomo ammette limiti oltre che per ordine pubblico anche per salute e morale. E la giurisprudenza della Corte di giustizia europea, infine, si muove anch’essa su questa linea, ammettendo, nel caso del velo islamico, una compressione della libertà di manifestazione religiosa, se l’uso di quella libertà va a confliggere con altri diritti. Pochi giorni fa però, a dire il vero, la stessa Cassazione (sentenza 22708) aveva legittimato la concessione delle attenuanti generiche ad alcuni rom colpevoli di un’aggressione, mettendone in evidenza la comune "subcultura", elemento fondamentale per valutarne la personalità. Calunnia, non scatta la falsa testimonianza per chi mente anche nel processo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2017 Corte d’Appello di Taranto - Sentenza 20 marzo 2017 n. 163. Ai fini della commissione reato di falsa testimonianza, non rileva che il teste abbia rilasciato dichiarazioni non veritiere all’interno del procedimento partito dalla sua stessa denuncia e successivamente rivelatosi calunnioso. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Taranto, con la sentenza del 20 marzo 2017 n. 163, affermando che in questo caso si applica la scriminante prevista dall’articolo 384 del codice penale secondo la quale non è punibile chi abbia mentito per esservi stato costretto dalla necessità di salvarsi da un grave nocumento. Il ricorrente ha appellato la decisione che l’aveva ritenuto responsabile di calunnia e falsa testimonianza, in continuazione tra loro, condannandolo alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione, perché in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, con denunzia querela e attraverso dichiarazioni rese nel corso del procedimento, "incolpava falsamente un terzo di essersi indebitamente appropriato di 10 effetti cambiari per un valore di 25.000 euro, rifiutando di restituirli, pur consapevole della innocenza della persona offesa e rendeva anche falsa testimonianza sul medesimo punto". All’esito del giudizio di primo grado, infatti, l’imputato "era stato assolto, in ragione dell’inverosimiglianza e incongruenza logica" delle dichiarazioni rese dal denunciante, "anche a seguito della presentazione di alcuni documenti tali da comprovare la falsità dell’incolpazione relativa all’appropriazione da parte dello stesso degli effetti cambiari indicati". Per il giudice di secondo grado, l’appello merita accoglimento con riferimento "al ritenuto delitto di falsa testimonianza, ove si consideri che, ai sensi dell’art. 384 c.p., non è punibile per il reato di cui all’art. 372 c.p. chi renda falsa testimonianza per sottrarsi al pericolo di essere incriminato per il reato di calunnia precedentemente commesso, anche se al momento della deposizione non sussistevano ancora indizi di reità in ordine a quest’ultimo fatto" (Cass. 30830/2013). "Non rileva cioè - prosegue la Corte - che il teste renda false dichiarazioni nel procedimento che trova la sua genesi in una denunzia da lui stesso sporta e rivelatasi, poi, calunniosa, non potendo revocarsi in dubbio che ricorra per il delitto di falsa testimonianza la causa di non punibilità anzidetta". "Diversamente opinando - argomenta il Collegio, si violerebbe il principio fondamentale nemo tenetur se detegere, nel senso che colui che abbia formulato una falsa accusa, chiamato poi a deporre come teste nel processo instaurato a carico dell’incolpato, sarebbe costretto a confessare la calunnia antecedentemente commessa; consegue, quindi, che, in tale specifica situazione, il persistere nel mendacio non può essere sanzionato penalmente" (Cass. n. 3427/2008). Per cui in riforma della sentenza di primo grado la Corte di appello ha assolto il ricorrente dal reato di cui all’art. 372 c.p. perché non punibile ai sensi dell’art. 384 c.p., mentre ha dichiarato non doversi procedere per il reato di cui all’art. 368 c.p. perché estinto per prescrizione. Niente reato di mancato mantenimento se il padre in ritardo versa il doppio di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 15 maggio 2017 n. 24050. Non sussiste il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare quando l’ex, tenuto al versamento, non si sia attenuto ai tempi del versamento, ma che in definitiva con saltuari raddoppi di quanto dovuto mensilmente, abbia corrisposto il quantum per il mantenimento del figlio. Euro più, euro meno. Questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza 15 maggio 2017 n. 24050. La vicenda - La Corte si è trovata alle prese con una vicenda in cui il Tribunale di Ascoli Piceno aveva riconosciuto la responsabilità penale di un padre per non aver corrisposto l’assegno alla moglie separata. L’uomo non aveva versato interamente l’importo mensile prossimo ai 600 euro alla moglie e non aveva partecipato a spese straordinarie legate a spese mediche e sportive. La Corte di appello di Perugia, invece, ha riformato la decisione di primo grado e ha assolto il padre perché il fatto non costituiva reato. Di qui l’impugnazione della donna in Cassazione con riferimento all’articolo 570 del codice penale, assumendo la ricorrente di non aver tenuto in debito conto la Corte d’appello la reiterazione del reato, il bisogno del minore relativo al momento del mancato mantenimento previsto dalla sentenza civile, per una mancata contribuzione totale di circa 1400 euro. La posizione della Corte - La Cassazione ha rigettato la richiesta della ex in quanto - sulla base della ricostruzione effettuata dai giudici di seconde cure - rimaneva fuori soltanto la spesa di 30 euro per un certificato medico. E così l’esiguità dell’inadempimento a fronte peraltro di un arco temporale decisamente ampio e lo spontaneo raddoppio del versamento in alcuni mesi dell’anno hanno indotto i giudice di merito a escludere che si trattasse di un inadempimento tale da non poter avere una rilevanza penale. La Cassazione ha enunciato pertanto il principio secondo cui "deve escludersi ogni automatica equiparazione dell’inadempimento dell’obbligo stabilito dal giudice civile alla violazione della legge penale e, nell’ipotesi di corresponsione parziale dell’assegno stabilito in sede civile per il mantenimento, il giudice penale deve accertare se tale condotta abbia inciso apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che il soggetto obbligato è tenuto a fornire ai beneficiari, ivi compresa l’oggettiva rilevanza del mutamento di capacità economica intervenuta, in relazione alla persona del debitore". Conclusioni - Nel caso di specie - si legge poi nella sentenza - la Corte d’appello non ha valutato l’esiguità degli inadempimenti per escludere l’elemento materiale del reato ma per escludere la volontà dell’imputato di rendersi inadempiente giacché fondata anche sulla considerazione dell’arco temporale del procedimento oltre che dei doppi versamenti talvolta effettuati, ritenuti poco compatibili con la volontà di non adempiere agli obblighi di mantenimento posti a carico dell’ex marito. Non integra vizio di legittimità la diversa valutazione delle risultanze processuali Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2017 Impugnazioni penali - Ricorso in Cassazione - Misure cautelari personali - Sindacato di legittimità - Ambito esplicativo - Limiti. In riferimento ai limiti del sindacato di legittimità in materia di misure cautelari personali, il giudice di ultima istanza è senza dubbio privo del potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, nonché del potere di rivalutazione dei conseguenti apprezzamenti di merito, rientranti entrambe nel novero dei compiti esclusivi del giudice che ha disposto la misura e del Tribunale del riesame. Il controllo di legittimità, infatti, è limitato all’esame del contenuto dell’atto impugnato e alla verifica delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato, oltre che dell’assenza di illogicità evidente, comprensiva dell’adeguatezza e della congruenza della motivazione addotta in ordine agli elementi indizianti: pertanto, la semplice prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze delle indagini non può integrare un vizio di legittimità. • Corte cassazione, sezione II penale, sentenza 12 maggio 2017 n. 23456. Impugnazioni penali - Ricorso per cassazione - Art. 606 c.p.p. comma 1 lett. e - Motivazione - Vizi - Elementi di fatto posti a fondamento della decisione - Provvedimento. In conformità al disposto dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), il difetto di motivazione valutabile in cassazione può consistere solo in una mancanza o in uno dei difetti enunciati dalla lettera e) dell’articolo 606 cod. proc. pen. e perciò non può costituire vizio che comporti controllo di legittimità la mera prospettazione di una diversa e, per il ricorrente in tesi più adeguata, valutazione delle risultanze processuali. Esula, infatti, dai poteri della corte di legittimità quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, potendo e dovendo, invece, la Corte accertare se quest’ultimo abbia dato adeguatamente conto, attraverso l’iter argomentativo seguito, delle ragioni che l’hanno indotto a emettere il provvedimento. • Corte cassazione, sezione I penale, sentenza 10 ottobre 2016 n. 42804. Misure cautelari - Misure cautelari (in genere) - Corte di cassazione - Elementi di fatto - Rilettura - Valutazione - Giudice di merito - Risultanze processuali. Esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali. • Corte cassazione, sezione III penale, sentenza 17 giugno 2015 n. 25353. Impugnazioni penali - Ricorso per cassazione - Non può dedursi vizio di motivazione per avere il giudice di merito trascurato uno o più elementi di valutazione che avrebbero potuto o dovuto portare a una diversa valutazione. Non può dedursi vizio di motivazione per avere il giudice di merito trascurato uno o più elementi di valutazione che ad avviso del ricorrente avrebbero potuto o dovuto portare a una diversa valutazione, perché ciò si tradurrebbe in una rivalutazione del fatto preclusa in sede di legittimità. • Corte cassazione, sezione II penale, sentenza 1 febbraio 2012 n. 4266. Misure cautelari - Personali - Impugnazioni - Cassazione - Motivi - Insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari - Rilevabilità - Limiti. In tema di impugnazione delle misure cautelari personali, il ricorso per cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito. • Corte cassazione, sezione VI penale, sentenza 22 marzo 2012 n. 11194 La sinistra riscopra la "sicurezza dei diritti" di Giuliano Pisapia La Repubblica, 16 maggio 2017 LA conseguenza delle nuove norme sulla sicurezza rischia di trasformarsi in un vero e proprio boomerang in vista delle prossime elezioni: si offre infatti al centrodestra l’occasione di strumentalizzare la giusta esigenza di sicurezza dei cittadini e, in particolare, di quelli appartenenti alle fasce più deboli. Esigenza che, si badi, non va sottovalutata: la sinistra non può trascurare la questione sicurezza proprio perché le conseguenze della criminalità vengono subite soprattutto dai più deboli, economicamente e socialmente. Ma si debbono rispettare i princìpi e i valori della democrazia". Penso a quello che sta succedendo in questi giorni e rileggo queste righe che avevo scritto in un articolo a commento del pacchetto sicurezza nell’anno Duemila. È passato molto tempo, le ideologie si sono scolorite, i problemi concreti sono cambiati, ma ci sono dei temi che continuano ad essere motivo di preoccupazione di tutti. Uno di questi è la sicurezza e proprio per questo ritengo necessario fare una precisazione: io continuo a credere che esista una profonda differenza tra destra e sinistra. E penso che questa differenza emerga in modo prepotente nell’affrontare i temi legati alla sicurezza. E che il punto di partenza non possa essere che quello di rispettare i princìpi della nostra Costituzione per evitare la lesione di diritti individuali e collettivi. Quello che mi preoccupava nel Duemila, e ancora oggi mi preoccupa, è che la sinistra si accontenti di proporre semplicemente le ricette che sembrano più "popolari". E che sulla sicurezza, ma anche sulla legittima difesa e sui migranti, vi siano state, in Parlamento e nel Paese, ulteriori divisioni anche all’interno della sinistra e del centrosinistra. Con iI ministro Minniti che ha parlato del pacchetto sicurezza come di un provvedimento di sinistra e Roberto Saviano che lo ha definito degno "della peggiore destra". Non credo che le norme approvate recentemente siano di sinistra, come sostiene il ministro Minniti. Ma sono anche certo che se avessimo una maggioranza di destra la situazione sarebbe certamente peggiore. Tanto per rinfrescare la memoria: ci ricordiamo le leggi "ad personam", l’introduzione del reato di immigrazione clandestina, la Bossi-Fini che aveva cancellato proprio gli articoli della legge Turco- Napolitano che favorivano la legalità e il reinserimento sociale e lavorativo degli extracomunitari? Il fatto è che la destra, che con le sue leggi non ha risolto i problemi della sicurezza, continua a strumentalizzare per finalità esclusivamente elettorali situazioni non facili da affrontare. C’è un principio invalicabile, fissato dall’art. 2 della Costituzione: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo … e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale". Articolo che non si riferisce - come in altre parti della Costituzione - solo ai diritti dei cittadini, ma a quelli universali, senza alcuna distinzione. Chi fa proposte conoscendo i dati della realtà, sa che quella dell’insicurezza è soprattutto una percezione, che contrasta con il fatto oggettivo che i reati sono calati. Il che non significa ignorare il problema, ma essere consapevoli che è sempre miope cavalcare le strumentalizzazioni del centrodestra rischiando un vero e proprio effetto boomerang. Perché, ad esempio, modificare, e peggiorare, la legge sulla legittima difesa che si è dimostrata in grado di garantire il diritto di difendersi dalle aggressioni e di evitare ingiuste condanne o ulteriori pene per le vittime di aggressioni? E se è vero, oltre che indispensabile e urgente, trovare una soluzione per accorciare i tempi delle decisioni relative al riconoscimento dello status di rifugiato, non sarebbe stato meglio eliminare le commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, che non garantiscono la terzietà e imparzialità della giurisdizione, e mantenere i tre gradi di giudizio? Non sarebbe stato più utile incrementare l’organico della magistratura anziché assumere 250 "unità a tempo indeterminato" per le Commissioni ministeriali? A maggior ragione se si considera il numero elevato di annullamento delle decisioni delle Commissioni da parte della magistratura giudicante. Per quanto riguarda il cosiddetto "pacchetto sicurezza" vi sono certo norme positive richieste dai sindaci che spesso non hanno gli strumenti per contrastare il degrado urbano, ma non si può confondere il degrado con la sicurezza o l’ordine pubblico. Sono questioni diverse la cui responsabilità deve essere affidata a chi ha le giuste competenze e professionalità. Un conto è la collaborazione tra diverse istituzioni che le nuove norme tendono giustamente a rafforzare, altro è l’intervento repressivo che, invece, non può essere di competenza di chi ha un ruolo amministrativo. Nel confronto parlamentare il decreto legge è stato, in alcune parti, migliorato rafforzando il tema della prevenzione e della coesione sociale, ma le criticità e i rischi di un uso improprio dei nuovi poteri da parte di chi ha il compito di amministrare certamente esiste. Un più attento esame da parte del Parlamento, reso impossibile dai tempi per la conversione di un decreto legge, sarebbe stato non solo utile ma anche necessario per evitare il rischio di un uso meramente repressivo delle nuove norme, come già è avvenuto da parte di alcuni sindaci leghisti. E per evitare i rischi denunciati da Roberto Saviano, da molti parlamentari di sinistra e dalle associazioni quotidianamente impegnate nell’aiutare i soggetti più deboli. So bene quanto è difficile governare una città e posso immaginare quanto sia difficile governare un Paese, soprattutto quando le diseguaglianze aumentano giorno dopo giorno, ma anche per questo sono convinto che un confronto più sereno e costruttivo a sinistra, soprattutto su temi così delicati e difficili, non può che contribuire a trovare le soluzioni più equilibrate e più giuste, oltre che più efficaci. Livorno: il carcere di Porto Azzurro sfornerà pane e dolci senza glutine di Domenico Cavazzino corrierelbano.it, 16 maggio 2017 Una pregevole iniziativa vede coinvolti i detenuti del carcere di Porto Azzurro. All’interno della struttura carceraria elbana, infatti, verrà presto inaugurato un panificio dove verrà prodotto pane per i celiaci. Chi soffre di celiachia, infatti, non è in grado di sintetizzare il glutine presente nelle farine e, per evitare ogni contaminazione, chi produce pane senza questa proteina deve dotarsi di laboratori sterilizzati dove non ci sia alcun tipo di contatto con farine di grano. L’idea, spiega il direttore del carcere, Francesco D’Anselmo, è nata dopo aver fatto una piccola ricerca che ha stabilito il numero delle persone intolleranti sull’isola durante l’anno e nella stagione turistica. Non verrà prodotta una grande quantità ma "dato che il pane fresco per i celiaci, è generalmente surgelato, lo faremo con il lievito madre che quindi durerà qualche giorno in più". D’estate, inoltre, verranno preparate schiaccine senza glutine per i turisti e, successivamente, verranno preparati anche dolci. A insegnare ai due detenuti che lavoreranno all’interno del laboratorio sarà un panificatore dell’isola. I prodotti, saranno distribuiti in tutti i supermercati e panifici dell’Elba. "Credo sia un servizio che rendiamo all’isola perché portare il pane fresco per celiaci è una novità e sicuramente non entreremo in conflitto con le imprese del posto". Una filiera produttiva dop - "Non di solo pane vive l’uomo", dice il proverbio. Oltre al panificio, infatti, è in programma, in accordo con l’assessore all’Agricoltura della Regione Toscana e il viceprefetto di Livorno, Daveti, l’apertura di un mattatoio pubblico nella vecchia porcilaia del carcere. Un altro modo per dare un servizio alla comunità: oggi, infatti, chi vuol macellare un animale deve recarsi sul Continente. Inoltre, in accordo col Parco e la Regione Toscana, si sta pensando di creare una filiera produttiva vendendo il cinghiale dop dell’Elba. La presenza sull’isola di ungulati come cinghiali e mufloni, specie non autoctone, crea molti problemi all’ambiente. I capi uccisi, per diminuirne il numero, verrebbero così macellati e venduti. Arnie e nidi - Dulcis in fundo, nella falegnameria del carcere i detenuti progettano e producono delle arnie innovative, per la produzione del miele. Si tratta di strutture autoproducenti che verranno vendute a tutte le strutture carcerarie che vogliano iniziare una produzione di miele. Inoltre in accordo con l’Ente Parco, sono stati costruiti una serie di nidi per gli uccelli selvatici. Caserta: si è svolto in convegno "Figli e genitori detenuti, un legame oltre le sbarre" Il Mattino, 16 maggio 2017 Un legame che non si interrompe e che può diventare anche strumento e occasione di riscatto: è quello fra figli e genitori detenuti. Un rapporto complesso che è anche un diritto per entrambi. Da questo assunto è nato il convegno, organizzato dal club di Caserta del Soroptimist International, su "Figli e genitori detenuti, un legame oltre le sbarre" e la realizzazione di uno spazio verde nel carcere di Carinola destinata ai colloqui con i minori. Ad introdurre il tema del convegno, la presidente del club di Caserta, Rita Muto che ha sottolineato l’importanza di una sensibilizzazione della società sull’importanza del legame. "Che - come ha precisato la psicologa Alessandra Ragozzino - è fondamentale per lo sviluppo armonico del minore". "Perciò il Soroptimist - ha spiegato Rita Muto - per rendere il carcere, il luogo nel quale i bambini incontrano il proprio genitore detenuto, meno estraneo e minaccioso ha riqualificato, l’area destinata ai colloqui dei minori, come hanno già fatto altri club in altre zone d’Italia". Un approccio attento al quale non si sottraggono le forze dell’ordine. "La Polizia è vista spesso, solo nella sua funzione repressiva, ma il nostro impegno va anche verso la prevenzione, l’aiuto e il sostegno a quanti si trovano in difficoltà", ha ricordato il questore di Caserta, Antonio Borrelli. Della necessità dell’istituzione di uno sportello sociale presso gli istituti penitenziari ha parlato Cesare Romano, garante regionale dell’infanzia presso il Consiglio della Campania. "Oggi per tutelare i ragazzi in situazione di difficoltà è efficace un approccio multidisciplinare e la creazione di una rete capace di offrire sostegno a loro e supporto agli adulti. Insomma - ha spiegato - solo interventi integrati posti in essere in sedi decentrate e la collaborazione di un team di specialisti può garantire adeguata operatività". Il riscatto e il ritorno alla vita sociale passa spesso attraverso l’affettività. "In questi anni ho potuto verificare la forza dell’amore", è la testimonianza di Adriana Tocco, garante delle persone sottoposte a misure restrittive. "Anche in situazioni gravi, dove i protagonisti sembrano scarsamente sensibili, l’amore può aiutare il cambiamento". Ora le cose sono cambiate. "anche perché è ormai ben chiaro che - ha aggiunto la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Adriana Pangia - i detenuti hanno come sanzione la privazione della libertà ma conservano tutti gli altri diritti". La voglia e l’impossibilità di fare è stata manifestata dall’assessore alle politiche sociali del Comune di Caserta, Carmela Corvino, che si è appellata alle associazioni di volontariato perché affianchino gli enti locali nella lotta al disagio sociale. Agrigento: giornalisti a confronto sul tema della vita in carcere di Francesca Magrì sikelianews.it, 16 maggio 2017 Identità personale e diritto all’oblio (ex Carta di Milano): questo l’argomento del corso di formazione per giornalisti professionisti e pubblicisti tenutosi ieri mattina all’interno dell’aula Luigi Giglia, del Palazzo della Provincia. I relatori hanno affrontato il delicato argomento dell’esecuzione della pena in carcere e il diritto del cittadino al reinserimento in società, dopo che questo ha scontato la sua pena. Moderatore dell’incontro è stato Stelio Zaccaria, capo servizi della redazione di Agrigento del giornale La Sicilia. Il giornalista ha introdotto l’argomento e presentato gli altri relatori dell’incontro: Salvatore Pennica, avvocato penalista del foro di Agrigento, Michelangelo Capitano, direttore del carcere Malaspina di Palermo, Teresa di Fresco, vicepresidente dell’ordine dei giornalisti di Sicilia, mentre Salvatore Cuffaro, ex presidente della Regione ha raccontato la sua esperienza in carcere. Ad aprire il dibattito è stata Teresa di Fresco che ha illustrato nei particolari il testo dell’ex Carta di Milano, stilata nel 2013 e che adesso, insieme alle altre carte deontologiche, fa parte del testo unico dei doveri del giornalista. La Carta di Milano, infatti, come ha detto la vicepresidente dell’Odg Sicilia, è il protocollo deontologico per i giornalisti che trattano notizie concernenti carceri, detenuti o ex detenuti, quindi tutte le regole che il giornalista deve tenere presente quanto parla, o scrive, di questi argomenti. Dopo di lei, l’avvocato Salvatore Pennica ha condiviso con i presenti alcune sue personali esperienze, sottolineando quanto sia importante il lavoro del giornalista che parla dei detenuti o ex detenuti, considerando soprattutto di quanto sia difficile per loro il reinserimento in società, dopo il carcere. "Chi sbaglia in Italia, è marchiato a vita" - ha concluso così il suo intervento il penalista. Sulla stessa scia, si è espresso il direttore dell’Istituto di pena minorile, Michelangelo Capitano che ha affrontato il punto di vista di un minore detenuto, che spesso viene aiutato attraverso lo svolgimento di un lavoro. Il direttore si è anche soffermato sui molti suicidi che purtroppo ogni giorno avvengono in carcere e che coinvolgono non solo i detenuti ma anche molti agenti di Polizia, fatti che spesso rimangono nel silenzio. Alla fine l’ex presidente della Regione siciliana, Totò Cuffaro, che nel dicembre 2015 ha finito di scontare la sua pena in carcere per i fatti noti a tutti, ha condiviso con i giornalisti presenti la sua esperienza in carcere. Secondo quanto detto da Cuffaro, che comunque ha parlato sia degli aspetti negativi della condizione di detenuto ma anche dell’esperienza da lui definita feconda, è necessario che si prendano piccoli accorgimenti per rendere migliore la vita dei carcerati. Cuffaro ha raccontato di come ha saputo dare un senso a questa parentesi di detenzione, scrivendo libri, acquisendo un’altra laurea e cercando di capire a pieno i veri valori della vita. Stelio Zaccaria, che ha concluso l’incontro, ha ribadito che la pena che un detenuto sconta ha sempre un valore riabilitativo e non di condanna, per cui chi ha già pagato il suo conto con la giustizia è una persona che non deve essere discriminata. Roma: "Open Day Rebibbia", l’università va in carcere (e viceversa) coreonline.it, 16 maggio 2017 Il 18 maggio Roma Tre sarà a Rebibbia per il diritto allo studio delle persone private della libertà, nell’ambito del progetto "Diritti in carcere". Una nuova iniziativa del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre per le carceri del Lazio: giovedì 18 maggio alle 15:30, presso la Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso, l’ateneo presenterà i propri corsi di studio all’istituto penitenziario. Parteciperanno sia i detenuti che stanno terminando i corsi di scuola superiore sia gli studenti di alcuni licei romani. Parte del progetto "Diritti in carcere" coordinato dal Prof. Marco Ruotolo - che include cliniche legali, corsi universitari e alta formazione per gli operatori penitenziari, supporto allo studio in carcere e attività sportive - l’iniziativa rientra nella convenzione siglata con il Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e con l’Ufficio del Garante regionale dei diritti dei detenuti per garantire il diritto allo studio delle persone private della libertà. Anche il nuovo Regolamento di Ateneo per gli studenti sottoposti a misure restrittive della libertà personale prevede alcune importanti innovazioni: prima fra tutte l’esonero dal pagamento dei contributi - il cui mantenimento è condizionato all’acquisizione di un numero minimo di crediti annui - per facilitare l’accesso agli studi universitari a chi si trovi in condizioni di detenzione. Allo stesso scopo sono previste alcune facilitazioni anche sul piano burocratico per l’iscrizione ai corsi, la prenotazione e lo svolgimento degli esami, nonché per favorire l’ingresso di docenti e tutor nelle carceri regionali. Dopo i saluti delle autorità (oltre al Rettore di Roma Tre Mario Panizza e alla direttrice di Rebibbia NC Rosella Santoro parteciperanno il Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri e il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà Mauro Palma) docenti e ricercatori illustreranno opportunità e modalità di iscrizione ai corsi. La presentazione sarà poi seguita dalla rappresentazione in anteprima dello spettacolo Hamlet in Rebibbia, con la regia di Fabio Cavalli - già regista del Giulio Cesare rappresentato nel pluripremiato film dei fratelli Taviani Cesare deve morire - le cui prove sono state seguite dagli studenti del Dams di Roma Tre nell’ambito del Laboratorio di Arti dello spettacolo I: di tali attività, che hanno portato anche alla realizzazione del Festival Made in Jail, riferirà la Professoressa Valentina Venturini. L’iniziativa sarà trasmessa in streaming dall’emittente Radio Radicale. Ostia (Rm): "Oltre le sbarre", domani al via la XIV edizione della Festa della vita ostiatv.it, 16 maggio 2017 Appuntamento mercoledì 17 maggio presso il liceo scientifico Antonio Labriola in occasione della Festa della vita organizzata dal Gruppo studentesco di iniziativa sociale "Lello Romano". "Oltre le sbarre" è il tema conduttore della Festa della Vita di quest’anno - giunta alla XIV edizione - che vuole far riflettere - soprattutto attraverso testimonianze dirette - sulla realtà del carcere come parte integrante di ogni comunità cittadina. Appuntamento mercoledì 17 maggio dalle 9.30 alle 11.30 presso il liceo scientifico Antonio Labriola di Ostia in occasione della Festa della vita organizzata dal Gruppo studentesco di iniziativa sociale Lello Romano. "Vorremmo accendere i fari su questa realtà non per una curiosità che accompagna in genere luoghi per lo più nascosti agli occhi della cittadinanza, ma per sentirci cittadini partecipi di una medesima comunità civile", spiegano gli organizzatori. "Vorremmo innanzitutto dire che chi sbaglia rimane sempre una persona con potenzialità di cambiamento, con dei sentimenti, delle emozioni e tanto amore. Vorremmo invitare ad andare oltre le sbarre per conoscere, comprendere e risollevare. Vorremmo collaborare con l’Istituzione affinché emerga sempre di più la caratteristica della persona, quale sede di potenzialità insperate avviando un percorso che sia rieducativo piuttosto che punitivo", prosegue la nota degli organizzatori. "Vorremmo condividere momenti oltre le sbarre attraverso eventi sportivi, teatrali o cinematografici… dove si crea una vera e propria zona franca di incontro da parte dei detenuti con il tessuto cittadino. Vorremmo che la giustizia che esprime la sua condanna attraverso la sospensione della libertà per un tempo proporzionato alla pena, la stessa giustizia continui ad esprimere se stessa anche nel riconsiderare la persona che ha scontato il proprio debito, come una "persona nuova"!". Il Gruppo Studentesco di Iniziativa Sociale collabora con l’Ass. L’Alternativa Onlus nel Progetto "Accanto ai detenuti" per esprimere anche in questa particolare situazione della vita umana il valore profondamente vissuto e condiviso della "centralità della persona". È un valore che non guarda in faccia a nessuno per quanto di diversità possa apparire agli occhi nostri: ogni uomo mantiene in sé la dignità della persona al di là degli errori o delle apparenze; al di là della diversità di sesso, religione, razza o situazione sociale. Alcune domande - qui di seguito proposte - avranno certamente le loro esaurienti risposte dalle testimonianze delle persone autorevoli che saranno presenti alla festa. 1. Un uomo può veramente cambiare dopo aver scontato la sua pena? 2. In questa società individualista siamo in grado di riaccogliere gli ex-detenuti nella nostra quotidianità? È più funzionale educare i carcerati alla vita sociale o insegnare alla società a non vivere di pregiudizi? Napoli: "Un film per evadere", il progetto dedicato ai detenuti di Poggioreale Il Mattino, 16 maggio 2017 Oggi, martedì 16 maggio alle 11, nella Sala Cirillo di Palazzo Matteotti sarà presentato "Un film per evadere", progetto dedicato alla comunità dei detenuti e nato dalla collaborazione tra l’Istituto per gli studi giuridici M&C Militerni e il Comune di Napoli. La rassegna cinematografica partirà il 22 maggio a Poggioreale, a conclusione sarà pubblicato un libro con le riflessioni dei detenuti coinvolti e il ricavato sarà usato per progetti con finalità sociale. Alla presentazione parteciperanno Roberta Gaeta, assessore al Welfare del Comune di Napoli, Maria Caniglia, presidente Commissione Welfare, Manuela Militerni, avvocato e direttore dell’Istituto per gli studi giuridici M&C Militerni, Ignazio Senatore, psichiatra e psicoterapeuta del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università Federico II, Vincenzo Pirozzi, attore sceneggiatore e regista, e Antonio Fullone, direttore della casa circondariale di Poggioreale. Napoli: una gita a Pietrelcina con i detenuti di Samuele Ciambriello La Repubblica, 16 maggio 2017 Per noi dell’associazione La Mansarda occupa un posto centrale nel nostro modo di pensare ed agire il concetto di persona umana, con la sua dignità inalienabile e la sua libertà. La persona umana: dono e missione. Con questo spirito operiamo dal 1989 nelle carceri campane. Il nostro è un amore civile, politico. Un umanesimo sociale e cristiano, un nuovo sguardo, per non restare inerti, per liberare e liberarci. Ecco perché per noi nelle carcere ci sono reclusi, ma non esclusi. Persone che entrano perché hanno commesso un reato, ma rischiano di uscirne dopo aver subito un reato. Eppure il carcere serve a rieducare, e alla persona che sbaglia deve essere tolta la libertà, ma non la dignità. In tutte le iniziative che promuoviamo con i reclusi l’ultimo tratto distintivo della persona è la sua carica progettuale, di responsabilità, di affidabilità, di risarcimento per le persone e la società che ha offeso. Le nostre iniziative, la nostra presenza sono sempre foriere di sogno, artigiane di futuro, accompagnatrici di speranza. Nel carcere di Secondigliano operiamo nel reparto Mediterraneo (iniziative sportive, film-terapy, teatro, giovedì prossimo la rappresentazione de "Il Ciclope" di Euripide, che vede protagonisti undici i detenuti), nell’alta sicurezza del reparto Adriatico con l’iniziativa "La lettura libera" e nel reparto di articolazione psichiatrica con il progetto "La città di Laputa". Abbiamo pensato di portare in gita quattro detenuti del reparto di articolazione psichiatrica, dove alcuni di loro devono mendicare un alito di affetto relazionale, perché abbandonati dalle famiglie, o perché senza famiglie. Quindi ancora più esclusi. I giudici di sorveglianza, la direzione del carcere hanno accettato questa sfida, questa nostra "missione" e li hanno autorizzati a vivere una "giornata speciale" con noi, da uomini liberi, in una gita a Pietrelcina, paese di padre Pio, apostolo della misericordia. E in questi luoghi semplici, del silenzio e dell’ascolto, dell’amore e della carità, a Pietrelcina sulle orme di San Pio abbiamo vissuto una bella giornata che inevitabilmente è stata un atto sociale. E nella limpida semplicità di Pietrelcina, sui passi della fede e dell’onestà laboriosa della sua famiglia, abbiamo gioito tutti insieme, giocato, pregato e vissuto "un’agape fraterna", un pranzo conviviale. Dalle 9,30 alle 17,30 oltre il carcere di Secondigliano. E sentire e vedere la gioia, dopo otto anni, nel mangiare patatine fritte o un gelato a tre gusti, ci ha portato a valorizzare cose dal valore non quantificabile. E per noi non contavano i loro reati, o la gravità degli stessi. Camminando, andando avanti, uniti come fratelli, per ritrovarci, per convertirci, per provare l’emozione del sentirsi bene. Così vale la pena. Una gita, un pellegrinaggio, una giornata speciale, la gioia di un incontro. Oltre l’indifferenza. Libri. Premiato a InediTo giovane detenuto del carcere minorile Ferrante Aporti Ansa, 16 maggio 2017 Sarà l’attrice e scrittrice Lella Costa la madrina della cerimonia della XVI edizione del Premio InediTo - Colline di Torino 2017, punto di riferimento in Italia tra i concorsi letterari dedicati alle opere inedite. L’evento si svolgerà il 21 maggio al Salone del Libro di Torino e, a seguire, a Casa Martini di Pessione-Chieri (TO), storica sede della Martini & Rossi. Quest’anno il premio ha registrato il numero record di iscritti, 628 con 687 opere pervenute anche dall’estero, in particolare da Usa, Svizzera, Francia, Slovacchia, Spagna, Inghilterra, Albania, Turchia. A Lella Costa è affidato il reading delle opere vincitrici accompagnata dalle musiche dei jazzisti Furio di Castri al contrabbasso e Emanuele Francesconi al piano. Tra vincitori, menzionati e riconoscimenti speciali verranno premiati 33 autori, tra cui anche un giovane detenuto del carcere minorile di Torino, Ferrante Aporti, che si è iscritto alla sezione testo canzone e che riceverà il premio speciale "InediTo Young". Teatro. "Attraversate i cancelli, entrate!" di Monica Cristina Gallo* La Repubblica, 16 maggio 2017 Immagini da "Metà. Meditazioni sul Cantico dei Cantici", con in scena nel teatro del carcere detenuti e detenute che sviluppano una riflessione sulla privazione degli affetti e invitano il pubblico ad "attraversare i cancelli" e ascoltare. Per la prima volta recitano le detenute sotto la guida del regista Claudio Montagna. Alcune studentesse interpretano le voci, i giudizi e le inquietudini della società civile. Il pubblico è misto, così come gli attori sopra il palco. C’è chi tra le mura e le sbarre del carcere ci vive tutti i giorni e chi, invece, per partecipare a "Metà-Meditazioni sul Cantico dei Cantici" deve superare i controlli agli accessi e le tante porte che separano il teatro del carcere dal resto di Torino. La recitazione è, da tempo, uno degli strumenti di liberazione più potenti per i detenuti, ma lo spettacolo che va in scena, fino a martedì, nella Casa circondariale Lorusso e Cutugno è una straordinaria rappresentazione di donne e uomini detenuti che celebrano i loro affetti lontani, divisi dai muri e dalle troppe sbarre del carcere. Con loro sul palco, ma con incursioni anche tra il pubblico, ci sono le studentesse di Giurisprudenza dell’Università di Torino. Una meditazione che porta in scena vissuti di solitudine, quelli dei corpi incarcerati, vissuti di dolore, rabbia e ricordi che vengono raccontati con determinazione e delicatezza a un pubblico che ha il divieto di applaudire sino alla conclusione dello spettacolo. Per la prima volta sul palco anche le donne detenute del reparto femminile. Sono donne che svolgono in modo molto naturale le loro parti e da loro emerge la confessione che anche dietro le sbarre si possono avere dei desideri, ma che le cose non possono cambiare perché stanno cosi: separate da tutto il resto. È il tormento degli affetti spezzati dalla detenzione che sale sul palco in questo spettacolo con cui il regista Claudio Montagna e la compagnia "Teatro e Società" proseguono l’attività avviata nel 2012 insieme alla cattedra di Sociologia del Diritto del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino con cui hanno realizzato già altri quattro spettacoli, finanziati dalla Compagnia di San Paolo. Quella di quest’anno è un’indagine profonda sulla lontananza dagli affetti: "Perdere l’altra metà, chiunque essa sia, genitori, figli, amici, amori, "dimezza" nell’anima e forse nel corpo. E poi chissà se a fine pena, pur ritrovando l’altro, riusciranno a ritrovare la parte di sé che avevano perduto? Se no, che faranno di sé? E che farà la società?" si domanda il regista Montagna offrendo con queste parole la poetica di "Metà", ma dando anche uno spunto di riflessione alla società che ascolta questi detenuti- attori. Per ogni replica i posti sono 120, una trentina sono riservati ai detenuti (chi invece volesse provare a prenotarsi per l’ultimo spettacolo di martedì prossimo può contattare dalle 9 alle 13 la segreteria al numero di telefono 3922906760, dove troverà indicazioni sulla disponibilità dei posti e le modalità di accesso), e finora sono più di 700 le persone che vi hanno assistito. Ad accogliere il pubblico ci sono le parole di chi il carcere lo vive, e lo vivrà ancora a lungo: "A volte sento l’odore della vecchiaia avvicinarsi, come quando con malinconia osservo le crepe di un palazzo datato" è l’incipit della "lettera a un’amica che non potrò incontrare prima del 2037" che viene consegnata a ogni spettatore e che è stata scritta da uno dei detenuti che allo spettacolo ha dato un grande contributo, ma che è stato trasferito in un altro carcere prima di potervi assistere. "Metà" è una rappresentazione che celebra l’amore umano in tutte le sue sfaccettature, attraverso le quali gli attori detenuti si appellano al pubblico interpretando il cercarsi, il ricordarsi, il desiderarsi. Il terreno diventa comune attraverso il dialogo e innesca senza ombra di dubbio riflessioni autentiche sulla privazione dell’affettività in carcere, anche grazie agli interventi della voce della società civile, con i suoi giudizi, le ragioni e le paure rispetto alla realtà carceraria. A interpretare questa voce sono le studentesse universitarie che, tra il pubblico in sala, si alzano e iniziano a recitare. Lo spettacolo si articola in tre parti, accompagnate da versi tratti dal Cantico dei Cantici, alternate alle performance movimentate frutto degli interventi di acrobati vestiti di rosso che attraverso il loro movimento completano inaspettatamente l’ambiente spingendosi anche fra il pubblico. La prima parte, "Ristretti, separati", propone il sogno di chi è recluso e la deformazione della solitudine che oscura l’anima. Nella seconda si intravvede una possibilità soluzione: "Attraversate i cancelli, entrate!" è l’invito che i detenuti-attori rivolgono a chi assiste alla messa in scena, comunicando il sollievo di poter raccontare i propri sogni. La conclusione viene lasciata alla speranza: "Il sogno più bello, una fiaba". *Garante per i detenuti del Comune di Torino Televisione. "I miei 60 giorni all’inferno". Intervista a Nicolai Lilin di Lara Gusatto kataweb.it, 16 maggio 2017 L’autore di "Educazione Siberiana" racconta l’esperimento di 9 volontari incarcerati da innocenti negli Stati Uniti. Il programma in onda su Sky mostra la realtà dietro le sbarre: "I criminali non sono extraterrestri, sono parte di noi, della nostra società, sono il nostro riflesso". Ci sono la moglie di un ex detenuto, una guardia carceraria, il figlio di un galeotto, un marine e un insegnante tra i nove volontari che partecipano alla terza stagione di I miei 60 giorni all’inferno, programma in onda su Crime+Investigation (canale 118 di Sky) da mercoledì 17 maggio alle 22. Nove innocenti rinchiusi in una delle prigioni più controverse degli Stati Uniti d’America: la Fulton County Jail di Atlanta. Il motivo? Capire e mostrare cosa significa vivere dietro le sbarre. Ogni episodio verrà introdotto dallo scrittore russo Nicolai Lilin, autore del best seller Educazione Siberiana, che nel corso della sua vita ha provato l’esperienza carceraria nella Russia post-sovietica. E proprio lui, che ammette di non voler ripetere l’esperienza della galera neppure per motivi sociologici, ci racconta questo esperimento e cosa sia secondo lui il vero inferno. Cosa significa vedersi sottratta la libertà? È una delle cose peggiori che esistano, per qualsiasi individuo. La libertà spesso è un concetto astratto però, quando una persona fisicamente viene chiusa in uno spazio stretto e gli viene impedita la possibilità di svolgere cose semplici come una passeggiata, diventano subito reali. Persone che per molti anni vivono in queste condizioni affermano che è meglio morire: un individuo che pensa, che sente il mondo, prende la privazione della libertà come una tortura. I protagonisti di "60 giorni all’inferno" sono degli innocenti rinchiusi, come percepiscono la reclusione rispetto a chi è veramente colpevole? In carcere gli innocenti non esistono e allo stesso tempo sono tutti innocenti. Mi spiego. Nel momento in cui anche il peggior criminale viene punito attraverso un sistema, se questo sistema riesce a colpire la persona nel suo intimo, a toccare la sua sensibilità scatta un meccanismo all’interno della coscienza che lo fa riflettere e pentire di quello che ha fatto; quando si pente, si trasforma in innocente che sconta una pena all’interno di una struttura che in qualche modo rovina le vite delle persone. Io parlo della mia stessa esperienza: all’epoca del crollo dell’Unione Sovietica sono finito in un carcere minorile nella sezione di massima sicurezza con una condanna brutta e lì ho potuto capire che in questo ambiente tutti sono innocenti e colpevoli allo stesso tempo, anche chi non ha commesso crimini perché per sopravvivere deve atteggiarsi in un certo modo. Io ero uno di quelli che già subito dopo il tribunale avevo capito che volevo andare lontano dalla strada e dagli ambienti a rischio, io ero uno di quelli divenuti innocenti subito dopo la condanna. Certo questo vale per alcuni, alcuni vanno in carcere perché sanno che il carcere è una sorta di università del mondo criminale, che ti permette di ottenere contatti, alzare il grado nella gerarchia criminale, ottenere punti, è il luogo in cui l’attività criminale vive una propulsione, come in Russia, qui non si parla di innocenza ma di atti di crimine, e il sistema carcerario aiuta a trasformarsi in un criminale ancora più abile. È giusto trasformare in un programma tv la sofferenza di tante persone? Non è intrattenimento, è un importante esperimento sociale per vedere e toccare i limiti generati dalla nostra società. Una società che genera cose belle come consumo, divertimento e lusso, siamo concentrati su queste cose e cerchiamo di abbellire tutto, anche gli ambienti degradati, la realtà viene trasformata ed è importante che in questo oceano di menzogne appaia qualcosa di serio che mostri la realtà. Se ti piace atteggiarti da delinquente, devi sapere qual è l’ambiente dove spesso i delinquenti finiscono, e non lo devi vedere in un film. Questo ambiente spesso azzera gli uomini. È un po’ forte dirlo ma programmi come questo portano un po’ di sano in una società malata. Dobbiamo essere consapevoli che i criminali non sono extraterrestri, sono parte di noi, della nostra società, sono il nostro riflesso. I volontari non sono showman, sono ricercatori. Spero che sia utile socialmente questa trasmissione, non c’è divertimento nel guardare come i delinquenti si ammazzano in carcere, o come un innocente sopravvive tra i criminali. Può essere reale o il fatto stesso che ci siano le telecamere inibisce i comportamenti e quindi lo rende fiction? I sistemi di rilevamento sono quelli fissi e spesso carcerati e guardie non fanno neppure caso a queste telecamere. La tensione dura per qualche tempo, poi passa e si scordano della videosorveglianza. Tu lo faresti? Io spesso vado in carcere per parlare con i detenuti, per presentare libri, per partecipare a programmi organizzati dall’amministrazione o dai detenuti stessi. Ho fatto un programma in passato dove ho girato e vissuto in carcere qualche giorno e questo mi è servito per capire le dinamiche, per raccontare la gente che sta dentro, per scoprire i modi di rimanere umani all’interno di un carcere. Però non so se sarei in grado di fare come i volontari di "60 giorni all’inferno", l’esperienza del carcere minorile mi ha un po’ toccato. Non so se mi sentirei così coraggioso… Il programma si intitola "I miei 60 giorni all’inferno", ma la galera è il vero inferno? L’inferno nasce sempre legato all’esistenza del paradiso, da solo non può esistere. Ciò che è un inferno per noi, può essere percepito come il paradiso per altri. Il carcere è uno specchio, è una parte della nostra società civilizzata, si trova qui da noi, fa parte del nostro mondo. Si gioca con la parola inferno ma è comunque il nostro inferno, l’inferno di una società benestante. Nel carcere dove si svolge il programma si vivono situazioni estreme, però non sono le situazioni che io chiamerei "un inferno" dal quale non si può tornare. Se faccio un paragone con la società moderna penso alle guerre, ai grandi oligarchi del nostro mondo che oramai superano i poteri degli stati sovrani e organizzano guerre, giocano con l’immigrazione, distruggono paesi a proprio piacimento facendo piovere sulla testa degli innocenti le bombe e raccontando che in questo modo portando il concetto di democrazia: ecco, quello è il vero inferno, non il carcere. Il vero inferno è l’Africa che si trova in uno stato di degrado totale, ricchissima ma corrotta e con persone incapaci di governare perché frutto di esperimenti sociali avvenuti nei secoli scorsi attuati da chi ha derubato quella terra. L’inferno è nascere in un paese degradato dell’America Latina dove un bambino nasce e lotta per vivere in una società dove sarà schiavo, come i bambini minatori boliviani che scavano a mani nude masticando foglie di coca e bevendo alcol puro o le bambine cilene costrette a cercare pietre preziose nelle pozzanghere, impossibilitate ad andare a scuola e che a 25 anni avranno i reumatismi come gli anziani. Hai pubblicato da poco un nuovo libro "Favole Fuorilegge", quale favola tradizionale siberiana dedicheresti ai protagonisti del programma? Sono tante le favole che sarebbe possibile dedicare a chi viene privato della libertà. La Siberia è sempre stato un luogo dove è sempre stato difficile creare un unica visione dell’apparato sociale e tanti finivano fuori dai limiti ritenuti legali dalle autorità, insomma era molto facile diventare fuorilegge in Siberia. Penso ad una favola in particolare però: Elena e l’artiglio della tigre, la storia di una ragazza di un villaggio siberiano che viene avvicinata da un potente rappresentate dello zar. Lui vorrebbe sposarla ma lei si rifiuta. Allora lui per costringerla fa arresta il padre di lei, manipolando la legge. In questa storia c’è una riflessione sull’ambiguità di alcune leggi che trasformano le persone libere in delinquenti. Migranti, falsità e razzismo di Tonino Perna Il Manifesto, 16 maggio 2017 Prima Mafia-Capitale, adesso ‘ndrangheta-crotonese, sembra che la gestione dei migranti sia solo appannaggio di ladri e mafiosi. È chiaro che se l’opinione pubblica italiana viene bombardata con queste notizie senza avere un quadro complessivo della situazione e delle responsabilità, dati circonstanziati, consegniamo l’Italia al più becero razzismo. Sarà facile far circolare espressioni quali "lo Stato finanzia le mafie grazie ai migranti" oppure "l’accoglienza dei migranti serve solo alle mafie ed alla corruzione". Partiamo da un fatto: ci sono migliaia di volontari in Italia che accolgono i migranti quando sbarcano, soprattutto nei porti siciliani e calabresi, senza guadagnarci un soldo e spesso con grande dispendio di energie. Così come ci sono migliaia di assistenti sociali, mediatori culturali, insegnanti, che lavorano negli S.p.r.a.r e che fanno un ottimo lavoro per l’integrazione culturale e sociale dei migranti. Andate a Riace ed oltre, sulla costa jonica calabrese e potete vedere con i vostri occhi in decine di paesi, grandi e piccoli, il lavoro che stanno facendo associazioni collegate con Re.Co.Sol. (Rete dei Comuni Solidali). È l’accoglienza diffusa che funziona, crea integrazione e ripopola Comuni e terre abbandonate, fa riaprire le scuole elementari, le farmacie e gli uffici postali: grazie al sistema di accoglienza diffuso dei migranti abbiamo assistito alla rinascita di Comuni desolati, dove solo pochi anziani erano rimasti a vederne la fine. E poi ci sono i Cara (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo) come quello di Sant’Anna, che sono tutti veri e propri lager, con condizioni di vita estreme per i migranti che dovrebbero essere ribattezzati come Casi (Centro Affaristico Sfruttamento Immigrati). In particolare il Casi di Sant’Anna era ben noto alle autorità politiche e anche alla magistratura perché sono almeno dieci anni che giornalisti coraggiosi ed esponenti di associazioni umanitarie hanno denunciato questa orrenda e vergognosa situazione. Speriamo che non bisogna aspettare il prossimo scandalo per scoprire che ci sono tanti Casi come quello di Isola Capo Rizzuto. Così come non bisogna più ignorare le condizioni dei migranti che le Prefetture mandano negli alberghi, dove vengono abbandonati a se stessi, sovente in posti isolati. Le Prefetture si giustificano col fatto che i Comuni disposti a sottoscrivere uno Sprar sono pochi e quindi devono trovare alternative. Ma sicuramente non si possono abbandonare 80 giovani migranti in posti come Gambarie d’Aspromonte, per citare solo un caso tra i tanti, a mille e trecento metri d’altezza, a non far niente tutto l’inverno, sotto la neve in un posto che si popola solo la domenica e ad agosto. È necessario ed urgente che le Prefetture rivedano questa procedura e affidino ad associazioni e cooperative sane ed efficienti (e sono tante) la gestione dei bisogni di questi nuovi migranti. Soprattutto, è necessario ripensare tutto il sistema dell’accoglienza migranti. Abbiamo lanciato come paese i "corridoi umanitari", grazie all’accordo tra governo italiano e libanese ed all’impegno economico e solidale della Federazione delle Chiese Evangeliche e della Comunità di Sant’Egidio. Finora sono giunti così in Italia poco più di 800 profughi, per lo più siriani, e sono stati accolti in tante località diverse con percorsi di integrazione culturale, sociale ed economica che già stanno dando i loro frutti. Si tratta di potenziare questo strumento che potrebbe servire da deterrente a chi rischia la vita salendo su un barcone: se ho la speranza di poter entrare legalmente in Italia, posso aspettare anche qualche anno prima di rischiare vita e denari. Bisognerebbe che anche le altre nazioni europee aderissero ai "corridoi umanitari" (la Spagna per esempio lo sta già facendo) per creare una massa critica che funzioni davvero come un deterrente ai viaggi della morte. E, prima di ogni altra cosa, si tratta di non stancarsi di informare i cittadini di questo paese che usano la parola "invasione" e non sanno di che parlano. Ci allarmiamo per duecentomila migranti l’anno quando il Libano ne è accolto fino a un milione e mezzo con una popolazione locale di meno di cinque milioni o la Tunisia, durante la guerra occidentale contro Gheddafi, ne accolse più di un milione, pur essendo una nazione povera e in una situazione di grave turbolenza politica. La nostra classe politica accusa l’Europa di aver lasciato da sola l’Italia di fronte ai nuovi flussi migratori, ma nessuno dice che fino all’anno scorso alla maggioranza dei migranti non venivano prese le impronte, come per un tacito accordo, dandogli l’opportunità di andare nel nord Europa. Quanta ipocrisia e quante falsità, quanti numeri inventati: come chi sostiene che il business della gestione dei flussi migratori rende alle mafie più del traffico della cocaina. È una palla enorme, ma è difficile bucarla perché è politicamente utile a chi, e sono tanti, sulla paura dei migranti ha scommesso il proprio successo elettorale. Migranti. ‘Ndrangheta, non Ong: milioni sulla pelle dei rifugiati di Silvio Messinetti Il Manifesto, 16 maggio 2017 Con 68 arresti, incluso un prete, sgominata la ‘ndrina degli Arena Gestiva il Cara di Isola Capo Rizzuto, il più grande d’Europa. L’inchiesta, durata anni, intercetta una rete che va da Crotone a Lampedusa all’ombra del Viminale. Pareva un fortino inespugnabile. All’interno dell’ex aeroporto militare di Isola Capo Rizzuto, una distesa di 16.200 metri quadri avvolta dalle torrette e dal filo spinato, si è consumato per anni un business sulla pelle dei migranti. Convenzioni stipulate e rinnovate, una teoria di ministri e sottosegretari a far passerella, e un impero di intoccabili. Fino a ieri. Il castello edificato negli anni dal parroco e dal governatore si è sgretolato all’alba di una giornata di maggio, il mese mariano. E in questa storia di mafia, religione e imprenditoria corsara, tutto non nasce per caso. Era l’8 maggio quando guidava la processione della Madonna greca, l’icona che si suppose provenir dalla Grecia via mare, divenendo presto copiosa sorgente di "miracoli" e attirando masse di pellegrini e laute donazioni. "È il momento di unità e di raccoglimento della nostra comunità", esclamò don Edoardo Scordio, aprendo l’omelia innanzi a cinquemila fedeli. Arrivato sulle rive dello Jonio nel 1978, rosminiano, orgogliosamente anticomunista, Scordio è a capo di una vera holding: scuole materne, elementari e medie, centri per anziani, una polisportiva, le feste mariane, un cinema, una quota dell’aeroporto e il santuario della Madonna, luogo internazionale di turismo per pellegrini. Ma gli introiti maggiori provengono dalla gestione del Centro di accoglienza per richiedenti asilo (già Cie e Cpt), il S. Anna, il più grande d’Europa, con cui transita nelle casse comunali e in quelle della confraternita delle Misericordie, un esorbitante flusso di denaro. Col suo piglio di padre padrone, Scordio è correttore spirituale ed eminenza grigia delle Misericordie. In una terra moribonda come il crotonese, il Cara di Isola può dirsi l’ultima cosa "viva". Soprattutto è un pozzo di denaro, una torta di milioni, erogati dalla prefettura per il mantenimento degli asilanti, ma anche un serbatoio di clientele, dove riesci anche ad eleggere un sindaco se vuoi, e luogo di processione, molto laica, di deputati e senatori (cfr il manifesto del 10 marzo 2010, "La parrocchia di Di Girolamo"). Tutto intorno a loro. A quei milleduecento migranti (al massimo dovrebbero starcene 800) di una dozzina di nazionalità, tutti in attesa di un destino che viene deciso nel settore blindato della commissione territoriale. In silenzio oppure animando fiere. Come quella del 13 luglio del 2015, con la 106, la statale Jonica, occupata, i lacrimogeni a lambire l’aeroporto di fronte, i voli cancellati, le cariche, il sangue dei migranti sul selciato. L’operazione "Johnny", che ha smantellato la cosca degli Arena con 68 affiliati, disegna un quadro a tinte fosche. Il centro d’accoglienza era cosa loro. Su 103 milioni di euro di fondi europei ben 36 hanno ingrassato "la bacinella" della ‘ndrina. Agli arresti, oltre a don Scordio, anche Leonardo Sacco, governatore calabro-lucano delle Misericordie. Entrambi in carcere con l’accusa di associazione mafiosa. Sarebbero loro, secondo la Dda di Catanzaro, i promotori di un business illecito che nel solo 2009 ha permesso di stornare qualcosa come 6 milioni sui 13 a disposizione della Fraternità di Misericordia di Isola, in virtù di convenzioni stipulate con il Viminale. Sacco avrebbe stretto accordi con il parroco per accaparrarsi tutti i subappalti del catering e di altri servizi. Grazie a lui gli Arena sarebbero riusciti a metter le mani sui fondi girati dal governo non solo per la gestione del Cara calabrese e di due progetti Sprar aperti nella zona, ma anche per quella dei centri di Lampedusa. Un affare senza freni: i cibi da preparare, gli operatori chiamati a lavorare nel centro, le lavanderie industriali per pulire lenzuola e tovaglie. Ma non si capisce il business del Cara di Isola, se non si capisce Crotone. Una città senza presente e senza futuro. Senza autostrada e, da poco, anche senza aeroporto. Da decenni senza stazione ferroviaria, dove si smontano i binari, tanto non ci arriva più nessuno. Tranne loro, ancora loro, i migranti, ma di una categoria diversa, i "dublinanti", quelli che non sostano al Cara perché un permesso ce l’hanno e sono costretti a ritornare a Crotone, alla questura di arrivo, per rinnovarlo, e nel mentre bivaccano vicino la ferrovia. L’ultima apparizione pubblica, don Scordio l’ha fatta proprio al Duomo di Crotone per portare l’olio santo della Madonna greca ai fedeli crotonesi, davanti ad autorità plaudenti. Proprio dietro al Duomo, nella sede dell’Arci, esprimono soddisfazione gli antirazzisti per una operazione che "colpisce il "secondo livello" della criminalità mafiosa, quel connubio oligarchico che agisce nell’ombra, che abbiamo sempre denunciato in solitaria - ci dice Filippo Sestito - mentre le istituzioni comunali, regionali e i governi tacevano. Questo tipo di gestione dell’immigrazione è strutturalmente permeabile dalle mafie, a differenza del modello d’accoglienza diffusa sul modello Riace. Questa vicenda valga come monito". Misericordia, così i clan hanno guadagnato 100 milioni col business dell’accoglienza di Giovanni Tizian L’Espresso, 16 maggio 2017 L’inchiesta della procura antimafia di Catanzaro e del Ros dei Carabinieri svela come la ‘ndrangheta ha avuto in mano la gestione del centro per migranti più grande d’Europa. Dalle intercettazioni i retroscena di un impero fondato sull’emergenza. Con Leonardo Sacco ras nazionale del settore. Per la ‘ndrangheta sono semplicemente "negri". Termine razzista, che ricorre spesso negli atti dell’inchiesta antimafia sui signori dell’accoglienza. Un lessico dispregiativo dietro il quale, però, si nasconde uno dei più grossi affari della mafia calabrese. Un business da oltre 100 milioni di euro, puliti e col timbro dello Stato. A Isola Capo Rizzuto, provincia di Crotone, i migranti sono roba loro. Un affare da gestire in famiglia, che qui si chiama Arena. Così Leonardo Sacco è diventato il ras nazionale del settore gestendo per oltre 10 anni il più grande hub dell’accoglienza d’Europa. Sacco è il governatore della Misericordia di Isola, già vicepresidente nazionale della confraternita che ha visto la luce nel lontano 1244 e oggi conta su 800 cellule sparse per l’Italia. Sacco è inoltre presidente regionale della medesima associazione. Uomo di potere, relazioni e, ipotizzano gli inquirenti, di mafia. Il suo book fotografico comprende varie personalità della politica: da Matteo Renzi ad Angelino Alfano, passando per Matteo Salvini. Nulla di penalmente rilevante, ci mancherebbe, sono solo scatti durante eventi pubblici. Tuttavia sono utili per comprendere il personaggio Sacco. Mr Misericordia è tra i 68 fermati dell’inchiesta "Jonny" coordinata dalla procura antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri e condotta dal Ros dei Carabinieri - il reparto comandato dal generale Giuseppe Governale- e dalla Guardia di Finanza di Catanzaro per quanto riguarda tutto il filone tributario. Insieme a Leonardo Sacco, indagato per associazione mafiosa, è finito nella rete degli inquirenti anche il parroco don Edoardo Scordio, il fondatore della locale Misericordia, anche a lui il procuratore aggiunto dell’antimafia Vincenzo Luberto contesta il reato associativo. Nell’elenco degli arrestati c’è, poi, l’imprenditore Antonio Poerio, che, secondo i detective del Ros, è una delle pedine centrali del sistema messo in piedi dalla Misericordia di Isola. "Il Centro di accoglienza e la Misericordia sono il bancomat della ‘ndrangheta", ha spiegato ai giornalisti durante la conferenza stampa il generale del Ros Governale. Un quadro agghiacciante, quello emerso dall’inchiesta dei suoi uomini. La cosca Arena avrebbe scelto Sacco, il cavallo su cui puntare per spartirsi l’affare del secolo. "Su 100 milioni di euro, 32 sono andati alla cosca Arena. Pensate che il prete, solo in un anno, ha percepito 150mila euro per l’assistenza spirituale dei migranti" ha detto invece il procuratore aggiunto Vincenzo Luberto. "Questi neri girano per Isola Capo Rizzuto… di conseguenza tutto ciò che li riguarda è competenza nostra", aveva le idee chiare Antonio Poerio, altro grande protagonista dell’accoglienza calabrese che compare nello scatto insieme all’allora ministro degli Interni Angelino Alfano e all’amico governatore delle Misericordia. Poerio è un imprenditore noto nel settore del catering. Nell’informativa ormai ingiallita del 2007 firmata dai carabinieri del Ros veniva già indicato come in contatto con una famiglia della ‘ndrangheta locale, gli Arena. Dopo molti anni, nel 2016, Poerio continuava a esprimersi alla stessa maniera: "ai negri gli toccano due euro e cinquanta al giorno". Utilizzava parole di disprezzo per i migranti, salvo poi lucrare sulla loro pelle. Fino al 2011 Poerio con la sua impresa - la Vecchia Locanda- riforniva ufficialmente la struttura d’accoglienza gestita dalla Misericordia. Questo fino a quando la prefettura di Crotone non è intervenuta sospendendo il certificato antimafia alla società di Poerio. Un incidente di percorso che ha obbligato la Misericordia a rescindere il contratto. Al suo posto è subentrata la Quadrifoglio Srl, che fornisce i pasti anche nel centro di Lampedusa. Il proprietario si chiama Pasquale Poerio, cugino del Poerio della Vecchia Locanda. Pasquale è anche consigliere comunale di Isola Capo Rizzuto, area centrodestra, e appoggia l’attuale sindaco. Alcune foto raccontano la vita pubblica di Sacco. Altre invece ne rivelano il lato più controverso. Come lo scatto che lo immortala al battesimo del figlio di un personaggio del clan Arena. Sacco è lì in veste di padrino. Un indizio, è la tesi dei detective, della vicinanza di Sacco alla criminalità organizzata. La foto è stata sequestrata per caso nel 2010, durante il blitz dei carabinieri di Modena che ha portato all’arresto di Fiore Gentile in un’indagine dell’antimafia di Bologna su un giro di riciclaggio tra Calabria, Emilia e Svizzera. Sacco versione padrino di battesimo assume ancora più importanza agli occhi degli investigatori se legato a un’altra immagine fino ad allora poco valorizzata. Si tratta di una riunione del 2005 tra importanti personaggi del clan Arena. Tra i presenti c’era Pasquale Tipaldi, che verrà ucciso la vigilia di Natale dello stesso anno. Davanti al bar dove gli uomini degli Arena si erano riuniti, al fianco di Tipaldi, i carabinieri riconoscono Leonardo Sacco. Un legame solido, quello tra Tipaldi e il governatore della Misericordia di Isola. A tal punto che la protezione civile della Misericordia utilizza il capannone che fu di Paquale Tipaldi, oggi intestato a suoi parenti. È lo stesso fabbricato dove viene ucciso il 24 dicembre di dodici anni fa dai killer della cosca avversaria. Il merito di Sacco, perciò, è aver trasformato la solidarietà in un’industria moderna dell’accoglienza. Il centro per migranti è gestito almeno a partire dal 2007 da mister Misericordia. L’indotto attorno è strepitoso: i cibi da preparare, giovani operatori da assumere, lavanderie industriali per pulire lenzuola e tovaglie. Subappalti, posti di lavoro, forniture. Tuttavia sarebbe stato semplice per i controllori (Prefettura e Viminale) bloccare l’infiltrazione denunciata dal Ros ormai 10 anni fa. Intanto Leonardo Sacco ha coronato un successo dietro l’altro. Da tre anni ha ottenuto anche i finanziamenti per la gestione di due Sprar, in pratica gli appartamenti in cui i rifugiati alloggiano una volta ottenuto il riconoscimento. Ulteriori somme che entrano in cassa: gli enti locali sborsano 35 euro al giorno per i maggiorenni, 54 per i minori. "Ma vedi che non è che teniamo la fotografia con Totò Riina" dice un Antonio Poerio molto preoccupato per la pubblicazione sull’Espresso della foto insieme al ministro Alfano, "Io tengo la fotografia con un Ministro... ma chi cazzo non la vorrebbe una fotografia con un Ministro, compà ma stiamo coglioneggiando? E poi dove ce l’ho sta condotta macchiata?" si chiede Poerio. Le cimici piazzate dagli investigatori del Ros registrano lo sfogo di Poerio dopo la pubblicazione a febbraio scorso dell’articolo sul settimanale. Lo stesso imprenditore fornisce alcuni particolari di quell’evento a cui ha partecipato con Leonardo Sacco: "Noi a quella cosa, a quella cena che siamo andati, prima di andare, dieci giorni prima abbiamo mandato i nostri documenti...il loro ufficio accertano chi sono io, chi è quello, quello e quell’ altro". Il suo interlocutore risponde, sereno, "evidentemente non c’era niente", un assist per Poerio che aggiunge: "E hanno visto che io ero buono". In realtà su Poerio già allora, era il 2014, c’era più di qualche indizio sull’opacità delle sue frequentazioni. Monopolio dell’accoglienza gestito per anni in regime di emergenza, con chiamata diretta, quindi. Poi, però, Sacco è rimasto sulla scena anche quando la prefettura si è decisa a scegliere i gestori del centro con i bandi pubblici. Prima e dopo, c’è sempre il gruppo di Mr Misericordia. Chi doveva controllare? Su questo punto è probabile che le indagini proseguano. Nel decreto di fermo i magistrati si soffermano su alcune intercettazioni che riguardano la commissione aggiudicatrice, l’organo, cioè, che ha dato il via libera alla Misericordia di Sacco & Co. In alcuni dialoghi emerge il terrore per un eventuale assegnazione ad altre organizzazioni che non fossero la Misericordia. "Gli avvocati della Misericordia come esco fuori mi ammazzano", avrebbe riferito un componente della commissione in una delle riunioni riservate in prefettura. I pm aggiungono: "Il processo decisionale o meglio i commissari "locali" - a differenza di quelli provenienti da fuori regione - hanno paura o peggio, risultano condizionati dalle interferenze dei gestori la Misericordia". C’è un altro episodio inquietante, che ha per protagonista sempre Leonardo Sacco. A detta dei Poerio, Mr Misericordia era stato a Roma e qui aveva appreso dell’esistenza di un’informativa su di loro, ma era certo del fatto di aver neutralizzato le investigazioni. Tuttavia per sicurezza, Antonio Poerio "invitava Fernando a prendere sempre più le distanze dagli Arena, nel senso dio evitare contatti diretti con esponenti della criminalità organizzata isolana". "Spendevano pochissimo attesa la qualità e la quantità del cibo che propinavano agli extracomunitari, gonfiando i costi per il tramite di fatturazioni per operazioni inesistenti la somministrazione del vitto sia stata realmente inferiore a quella rendicontata e chiesta a pagamento" si legge nel decreto di fermo. Dalle telecamere posizionate dalla guardia di finanza all’interno dei locali del centro di accoglienza è emerso che "i quantitativi somministrati giornalmente sono inferiori al numero ordinato-previsto dalla Convenzione, in quanto molte volte i contenitori delle pietanze venivano interamente svuotati nel corso della distribuzione che normalmente non avveniva nei confronti di tutti i migranti presenti, tanto che, in alcuni casi, gli utenti ancora in fila rimanevano senza mangiare. In rare occasioni, le pietanze rimaste venivano "diligentemente" ricoperte e riportate con i furgoni presso le cucine, per un probabile reimpiego il giorno successivo". Non solo, dalle intercettazione tra un dipendente del centro di accoglienza e la vicedirettrice, Caterina Ceraudo, si capisce che la qualità del cibo fornito ai migranti è di pessima qualità. I due parlano di pollo "minuscolo, piccolo, brutto" e che il problema è stato "ammucciato" (nascosto) perché, in sostanza, ai subfornitori "non gliene frega niente". E ancora: "il pollo con cattivo odore, diciamo va bene? A me mi è capitato solo oggi e non ti dico: gli ospiti stavano facendo di nuovo la rivolta... a calci e... vabbè... ho rimediato che sono andato di là e mi sono fatto fare le cotolette". Oppure: "il pollo mezzo crudo". L’indagine comunque continua. "Ancora non siamo appagati" ha avvertito il procuratore Nicola Gratteri che ha sottolineato come più avanti "si vedranno i rapporti di Sacco con altri pezzi delle istituzioni". I migranti devono conformarsi a nostri valori. Il caso del pugnale sacro indiano di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 16 maggio 2017 È obbligo essenziale se vogliono vivere in mondo occidentale. I giudici della Cassazione: "La società multietnica è una necessità, ma la sicurezza pubblica è un bene da tutelare". Con una sentenza che già divide gli entusiasti dai perplessi, i giudici della Cassazione stabiliscono dei parametri all’integrazione: la rinuncia da parte degli immigrati ai propri simboli religiosi o culturali se in contrasto con la tutela della sicurezza. Respingendo l’istanza di un indiano sikh di Mantova a girare con il kirpan (coltello di circa 18 centimetri) infilato nella cintura, i togati sottolineano: "Intollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel Paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante". E ancora: "La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali confliggenti a seconda delle etnie che la compongono". Specie, dicono, se quegli "arcipelaghi" sono in contrasto con il bene collettivo della sicurezza pubblica. Il sikh mantovano dovrà dunque scendere a patti con le proprie abitudini nel rispetto della nostra normativa che "individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e a tal fine pone il divieto del porto d’armi e di oggetti atti a offendere". La condanna della Cassazione - E qui la Cassazione porta anche argomenti della giurisprudenza europea: "Nello stesso senso", scrive, "si muove anche l’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che stabilisce che "la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica o per la protezione dei diritti e della libertà altrui"". "Conformi i valori al mondo occidentale" - Non sarebbe la prima volta, affermano i togati, che lo Stato limita la libertà di manifestare una religione "se l’uso di quella libertà ostacola l’obiettivo perseguito di tutela dei diritti e delle libertà altrui, l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica". Applaude Luca Zaia (Lega). Per Mara Carfagna (Fi): "Chi sceglie l’Italia deve integrarsi, rispettando non solo le nostre leggi, ma anche i nostri valori, la nostra cultura e le nostre tradizioni". Mentre per Emanuele Fiano (Pd): "È una sentenza da non usare come una clava". "La sentenza è molto equilibrata", sottolinea Giancarlo Perego direttore di Migrantes, fondazione della Cei, "e sottolinea anche il valore di diversità e multiculturalità e la necessità di un cammino di integrazione degli immigrati. Ora, però, la politica non strumentalizzi". Dal velo alle trasfusioni. Quando limitare la libertà? di Elena Tebano Corriere della Sera, 16 maggio 2017 L’uso del velo nei luoghi pubblici è ciclicamente oggetto di dibattito. A marzo la Corte di giustizia della Ue ha stabilito che le aziende private possono vietare alle loro dipendenti di indossare indumenti che siano "segni religiosi". È il paradosso della moderna società democratica: ha come caposaldo la libertà individuale, in primis quella religiosa, ma fedi e tradizioni diverse finiscono a volte per confliggere proprio con i principi che regolano la democrazia. E allora dove porre il limite? Legge e tribunali si sono espressi di volta in volta in modo diverso a seconda dei valori investiti. Tolleranza generale - "In tutte le società c’è una costante non applicazione di alcune norme nell’ambito di una tolleranza generale: pensi se ogni funzionario sanzionasse sempre quello che è sanzionabile", nota Alessandro Simoni, professore di Diritto privato comparato all’Università di Firenze. "È successo anche per la possibilità di tenere il velo islamico nelle foto de documenti, posta una ventina di anni fa dalle donne musulmane e poi estesa al turbante Sikh. La legge dice che le foto vanno fatte senza copricapo, ma il ministero dell’Interno li ha permessi perché ci si è resi conto che alle suore da sempre si faceva tenere il velo". Il caso del "kirpan" - Nel caso del "kirpan", il coltello religioso dei Sikh, c’era già stata lo scorso anno una sentenza della prima sezione della Cassazione che lo vietava. "La legge prevede il divieto di portare determinate armi salvo che non ci sia un giustificato motivo. E i supremi giudici avevano stabilito che la religione non lo fosse", dice Alberto Guariso, avvocato milanese dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. "Anche la Convenzione europea dei diritti umani stabilisce che si possano porre limiti alla libertà di manifestazione del pensiero se sono necessari per proteggere l’ordine pubblico e quindi la sicurezza. Per questo era inutile il passaggio sulla necessità di tener conto dei valori dominanti della nostra società contenuto nel nuovo pronunciamento della Cassazione". Bilanciare i principi fondamentali - Il problema è sempre bilanciare principi fondamentali: "L’esercizio di un diritto costituzionale come la libertà religiosa non può voler dire sacrificare un’altra libertà di pari grado, il diritto alla sicurezza, all’integrità fisica, alla salute, né recare danno agli altri", spiega Marco Parisi, professore dell’Università del Molise e coautore per Laterza di Diritto civile e religioni. "Per questo se c’è pericolo di vita il giudice può costringere i testimoni di Geova a subire una trasfusione. Anche se poi se nella pratica si cerca sempre un compromesso, per esempio usando gli emoderivati che sono permessi da quella religione". Deroghe alle norme sanitarie sono consentite invece per la macellazione rituale ebraica e islamica in nome della libertà religiosa: "anche se - chiarisce Parisi - si fissano dei paletti: per non superare certi livelli di brutalità nel trattamento degli animali". L’infibulazione al contrario è sempre vietata perché è una pratica invalidante (a differenza della circoncisione) e lede il diritto all’integrità fisica e la dignità umana. Il velo - Più spinoso il caso dei minori costretti dalla famiglia a portare il velo: "Il principio dirimente - dice Parisi - è quello della volontarietà: se la bambina è abbastanza consapevole per decidere se accettare o rifiutarlo, non può essere costretta. D’altronde si chiede il consenso dei 15enni anche per l’ora di religione". Sul valore culturale dei simboli confessionali si è infine pronunciata la Corte europea dei diritti umani: ha stabilito che l’Italia può decidere di tenere nelle classi il crocifisso. E che ciò non viola la laicità dello Stato perché ormai la croce ha un valore "culturale". Cannabis. Almeno togliamo alle mafie l’affare delle droghe leggere di Andrea Ponzano L’Unità, 16 maggio 2017 Per chi sostiene la legalizzazione il giro di affari per lo Stato sarebbe di circa 8 miliardi l’anno. Il ddl bipartisan è fermo da tempo alla Camera e spacca gli schieramenti. A favore parte del Pd, M5S e Sinistra Italiana. È la sostanza proibita più consumata in Europa. Legalizzarla, secondo ì favorevoli, sarebbe la fine del proibizionismo, darebbe una mazzata al giro d’affari della criminalità organizzata e potrebbe far incassare allo Stato fino a 8 miliardi di euro. I detrattori invece sostengono che il consumo di cannabis sia dannoso, crei dipendenza e che le mafie continuerebbero a guadagnare su quella venduta illegalmente. L’oncologo ed ex ministro della Salute Umberto Veronesi nel 2000 aveva proposto di utilizzare oppiacei e cannabinoidi nella terapia del dolore. E si era scontrato anche lui contro il dilemma: legalizzare la cannabis oppure no? Presentata il 16 luglio del 2015 alla Camera, la proposta di legge che regola la coltivazione, lavorazione e vendita della cannabis e dei suoi derivati, ha spaccato la politica, la magistratura e la società civile. Un burrascoso iter parlamentare. Duemila emendamenti sul testo che l’aula dì Montecitorio aveva rimandato all’unanimità alle commissioni congiunte Giustizia e Salute per un esame più ponderato. Un palleggio della politica sospesa nel limbo dell’attesa. Gli ex-Ncd ora Area popolare si schierano compatti contro il provvedimento. "Noi non voteremo mai la legalizzazione della cannabis" dice il ministro degli Esteri Angelino Alfano. Sfavorevoli anche Lega e Fratelli d’Italia. Forza Italia invece si divide tra gli ortodossi e i possibilisti. D’accordo sul progetto di legge, la maggioranza dei deputati Pd, il M5S e Sinistra italiana. Dalla coltivazione della cannabis all’uso personale, dalle pene alla vendita in luoghi pubblici fino all’uso terapeutico. Un progetto di legge, primo firmatario il deputato del Partito Democratico Roberto Giachetti, che nasce da un’intesa iniziale condivisa da oltre 100 parlamentari bipartisan. I dettagli della legge - È consentita la coltivazione personale fino a 5 piante di sesso femminile. I maggiorenni possono detenere fino a S grammi lordi innalzati a 15 per la detenzione nel domicilio privato. Un limite che può essere superato nel caso di finalità terapeutica ma con prescrizione medica. Per quanto riguarda le pene c’è distinzione tra ì tipi di sostanze stupefacenti. Coltivazione, preparazione e vendita sono soggette al monopolio di Stato e le risorse destinate al Fondo nazionale di intervento per la lotta alla droga. Una lotta che comincia da lontano. Il giro di vite sul commercio e sull’uso personale degli anni 80 fu superato dal referendum popolare abrogativo che mitigò l’impianto sanzionatorio distinguendo per la prima volta la diversa pericolosità sociale e sanitaria delle droghe. Bisogna arrivare al 2014 perché la Consulta dichiari illegittima la discussa legge Fini-Giovanardi che cancellò l’equiparazione tra gli stupefacenti leggeri come hashish e marijuana e quelli pesanti come l’eroina, gli oppiacei, la cocaina, le anfetamine e gli allucinogeni. Il dibattito sulle droghe leggere continua a dividere. La Direzione nazionale antimafia, nella sua ultima relazione al Parlamento, dice sì alle proposte di legge che mirano a legalizzare, coltivare, lavorare e vendere la cannabis e i suoi derivati. Marijuana. Negli Stati Uniti la legalizzazione è un grande business di Maurizio Ricci La Repubblica, 16 maggio 2017 Crescono a due e tre cifre i valori delle aziende usa legate alla vendita di cannabis per uso terapeutico. E ora gli Stati iniziano a permettere anche quello ricreativo, la stessa proposta tornata d’attualità in Italia. Ne parlano di più - e spesso con entusiasmo - magistrati e poliziotti che industriali e consumatori. Anche in questi giorni, in cui il dibattito in Italia si è riacceso, l’attenzione rimbalza fra commissariati, tribunali e carceri. Ma la legalizzazione della marijuana è molto di più. C’è chi dice che sarà la Big Tobacco del XXI secolo e chi spia, nei segnali che vengono dai paesi in cui la vendita è già legale, la sopravvivenza della cultura libertaria a cui l’hanno associata i baby boomers. In ogni caso, è un boom in attesa di esplodere. L a mutazione genetica del commercio di una droga, ancora ieri, messa al bando, però, è già iniziata. Come quella dei suoi protagonisti. Niente a che vedere con personaggi coloriti e sinistri, come El Chapo. Qui sono tutte persone serissime, molto rispettabili. C’è un medico inglese, che ha dedicato tutta la vita alla ricerca. Un miliardario indiano, pur molto chiacchierato per le sue scorrerie finanziarie. Due canadesi: un piccolo genio dell’elettricità e il presidente di una società di pattinaggio. E un americano di Boston, finito nel gruppo per aiutare un amico. Nessuno di loro accetterebbe di essere definito un boss. Sono i presidenti, fondatori, leader di società quotate in Borsa anche per miliardi di dollari, in testa alle classifiche di chi smercia e tratta, in modo assolutamente legale, marijuana. Se mai ci sarà, sulle orme di Big Tobacco, una Big Maria, o Big Pot, come la chiamano gli americani, i protagonisti bisognerà cominciare a cercarli qui. Il più grosso è Geoffrey Guy, il medico inglese alla testa di Gw Pharmaceuticals, che in Borsa vale quasi 3 miliardi di dollari, secondo la classifica stilata da Viridian Capital Advisors. Poi c’è il canadese Bruce Linton, quello della società di pattinaggio, che guida Canopy Growth, quasi 800 milioni di dollari (Usa) di capitalizzazione alla Borsa di Toronto. Il terzo è il miliardario indiano John Kapoor, fino a pochi mesi fa ufficialmente alla guida di Insys Therapeutics, 664 miliardi di dollari di valore in Borsa. E un altro canadese, Terry Booth, una lunga esperienza nell’elettricità e nel software e ora alla guida di Aurora Cannabis, 433 miliardi di dollari (Usa) di capitalizzazione alla Borsa di Toronto. Il più rampante e il più ambizioso, però, è l’ultimo arrivato, Tim Keogh, un allampanato bostoniano, che, frustrato per non essere riuscito ad aiutare con la terapia antidolore un amico malato, ha creato AmeriCann. Nel mondo anglosassone lo chiamano il "cannabusiness". Non solo è in Borsa: gli hedge fund fiutano l’affare. Tribeca, il fondo che nel 2016 ha battuto, come rendimento, tutti gli altri al mondo, ha appena investito in Cann Group, coltivatore australiano di marijuana. E, se volete le notizie sul web il Marijuana Business Daily segue il settore a ciclo continuo. Naturalmente, bisogna fare distinzioni: se uno dicesse a Geoffrey Guy che tratta "erba" storcerebbe il naso e forse firmerebbe una querela. Perché queste società esistono, sono legali, stanno sul mercato in quanto i loro prodotti hanno un uso medico, fino ad un attimo fa l’unico consentito. Sia le medicine anti-epilessia di Guy, che quelle per i malati di tumore e di Aids di Kapoor si basano su marijuana priva di componenti psicoattivi: è inutile provare a fumare l’Epidiolex o il Syndros. Ed è possibile che Gw o Insys restino nel mercato medico. Ma gli altri si stanno preparando a cavalcare un’onda di consumi. Siamo all’anno zero. Fra il 2017 e il 2018, fumare marijuana per lo sfizio di fumare marijuana diventerà legale, sia pure con norme assai diverse, per centinaia di milioni di persone: dall’Uruguay, al Canada, a metà Stati Uniti. L’Uruguay l’ha legalizzata da anni, ma solo da luglio la si potrà comprare in farmacia. Sarà un mercato regolato in modo assai stretto, almeno nelle intenzioni. Prezzo fisso (1,30 dollari a grammo), quantità razionata (10 grammi a settimana), qualità garantita (componente psicoattiva fra il 3,3 e l’11%). In Canada, la legalizzazione partirà un anno dopo: chiunque sia maggiorenne potrà comprare marijuana a uso ricreativo nei negozi di liquori o altri negozi specializzati, secondo regole dettate a livello statale. Negli Usa, i referendum che hanno accompagnato l’elezione di Trump hanno fatto scattare una legalizzazione a largo raggio, scadenzata secondo i diversi Stati. Il più grosso, la California, aprirà la vendita nell’estate 2018. Il paradosso è che la marijuana resta proibita a livello federale, ma metà degli Stati ha deciso di autorizzarne la vendita e l’uso. Non si parla di Big Maria per caso. In Canada, gli esperti calcolano che il mercato legale farà sparire 7,5 miliardi di dollari dalle tasche del crimine organizzato. Nel 2015, il giro d’affari della marijuana medica in California è stato appena inferiore ai 3 miliardi di dollari. Secondo la società di ricerche Arcview, il fatturato dell’erba legale in tutti gli Usa è stato di 7 miliardi. Con la legalizzazione a tappeto, ci si aspetta una impennata: 22 miliardi di dollari nel 2020, 50 miliardi nel 2026. Metà del giro d’affari americano delle sigarette di Big Tobacco. E i protagonisti si attrezzano. Canopy Growth, la società di Bruce Linton, produce nella sua serra grande quanto otto campi da calcio, vicino alle cascate del Niagara, più marijuana di chiunque altro. I concorrenti di Aurora Cannabis, l’azienda di Terry Booth, stanno costruendo, però, una serra grande il doppio, 16 campi da football, dentro l’aeroporto di Edmonton, nell’Alberta. Produrrà 100 tonnellate di erba l’anno. Ma è qui che entrano in gioco Tim Keogh e AmeriCann. Sempre di serre, data la latitudine, si parla, ma la megaserra in costruzione nel Massachussetts è un quarto più di Edmonton, 20 campi da football. Quella annunciata da GFarms in California, dieci volte più piccola, è quasi un mini-impianto. Questo gigantismo è il prologo della nascita di un oligopolio della marijuana, poche grandi aziende unite in un patto di ferro, come Big Pharma o Big Tobacco, Big Maria, appunto? Secondo John Hudak e Jonathan Rauch che, al tema, hanno dedicato un apposito studio per l’autorevole Brookings Institution ("Worry about bad marijuana - not dollari. Applicando lo stesso parametro all’Italia, dove, dallo scorso luglio, il progetto di legalizzazione della marijuana è in Parlamento, si arriva a circa 7 milioni di potenziali fumatori. In buona misura, adolescenti. Per scoraggiare i più giovani, dicono Jacobi e Sovinsky, bisognerebbe quadruplicare il prezzo con le tasse. Ma in Italia, la marijuana legale a 40 euro al grammo significherebbe ridare spazio al mercato nero. Da questo punto di vista, il parametro più difficile da individuare, nel dossier della marijuana legale, è proprio il prezzo: troppo alto riapre il mercato ai criminali, troppo basso rischia di favorire l’uso da parte dei consumatori più deboli. Ma il prezzo è l’elemento chiave del dossier anche perché dipende dalle tasse: la legalizzazione, per il fisco, è un affare non da poco. Negli Usa come in Italia. Ipotizzando una tassa del 25 per cento (quella americana, non il 75 per cento che in Italia si applica ad alcool e tabacco) il fisco italiano incasserebbe fra mezzo miliardo di euro e un miliardo e mezzo. A cui, però, bisogna aggiungere, sottolineano gli economisti favorevoli alla liberalizzazione, i risparmi nelle operazioni di polizia contro la criminalità e, soprattutto, lo svuotamento delle carceri, dove oggi, un terzo dei detenuti è costituito da spacciatori. Il risparmio, per l’Italia, secondo gli studiosi, sarebbe fra 1,5 e 2 miliardi di euro l’anno. Big Marijuana") non è una ipotesi credibile. Il mercato farmaceutico è regolato in modo rigido dalle agenzie governative con cicli di investimento fra ricerca, brevetto, esaurimento del brevetto, finanziariamente assai costosi. Un’occhiuta vigilanza pubblica sui prodotti è improponibile per la marijuana a uso ricreativo. Ma Hudak e Rauch non credono neanche che possa affermarsi il modello di business di Big Tobacco: troppo diversificata l’offerta (dalla serra a chilometri zero alla farmacia all’azienda media a quella grandissima) per consentire il consolidamento in due-tre giganti come per le sigarette. A meno che non si vada verso regolamentazioni e controlli troppo stretti - che, aumentando le barriere all’entrata favoriscono le concentrazioni - il panorama della marijuana, dicono con qualche ottimismo i due studiosi, sarà largamente decentrato, come decentrata Stato per Stato è la normativa che sta entrando in vigore. Per la marijuana, il futuro secondo Brookings, è più simile a quello dell’alcol: il vino con le sue mille fattorie, ma anche la birra, con la competizione fra le grandi aziende e la miriade di birre artigianali. Ma quello che nessuno è in grado di dire oggi è cosa accadrà fra i consumatori, nel momento in cui la marijuana legale sarà arrivata al negozio all’angolo. Due ricercatrici, Liana Jacobi e Michelle Sovinsky, hanno provato ad applicare un modello econometrico alla legalizzazione degli spinelli. Se pensate che la marijuana sia pericolosa quanto l’alcool, i risultati non sono rassicuranti. Lo studio ("Marijuana on Main Street") calcola che la marijuana legale farebbe aumentare i consumatori di spinelli del 50 per cento. Per gli Usa significano circa 50 milioni di consumatori. Da qui l’idea di un giro d’affari legale da decine di miliardi di dollari. Siria. A Sednaya il mattatoio del regime, 50 impiccagioni al giorno di Giordano Stabile La Stampa, 16 maggio 2017 Nella prigione rinchiusi militari disertori e oppositori del dittatore. Le esecuzioni nella notte. Molti detenuti morti per torture e stenti. Il "mattatoio" di Bashar al-Assad ora è anche "forno crematorio". Un dettaglio che avvicina ancora di più gli orrori della guerra civile siriana a quelli dell’Europa nazista. Il luogo è sempre quello, la prigione di Sednaya. Trenta chilometri a Nord-Est di Damasco. Il nome della località viene da Saydna, Nostra Signora, perché il punto più alto delle alture che culminano a 1500 metri è dominato da uno dei più belli e importanti santuari dedicati alla Madonna in Siria. Luogo millenario di pellegrinaggi. Più in basso, alla periferia della cittadina, si trova però la più famigerata delle carceri del regime. Dal paradiso all’inferno. Il mattatoio è cominciato nel 2012. Il complesso si distingue per due edifici. La "divisione rossa", per i civili, e la "divisione bianca", per i militari. Sednaya è soprattutto una prigione dell’esercito, ma con lo scoppio della guerra civile deve far fronte a un flusso di prigionieri sempre più massiccio. La maggior parte sono soldati e ufficiali disertori. Le condizioni peggiorano rapidamente. I primi a farne le spese sono gli ammalati. Vengono portati all’ospedale di Tishreen, a Damasco, solo per essere lasciati morire senza cure, come hanno raccontato alcuni sopravvissuti alle organizzazioni umanitarie. Una delle prime testimonianze è quella di un ex ufficiale delle forze speciali, raccolta dal Syrian Observer, vicino all’opposizione. L’uomo ha assistito alla morte di quattro compagni, tanto che "più nessuno voleva essere portato all’ospedale, preferivano morire in cella". Spesso i compagni, e qualche volta anche lui, "speravano che morissero in fretta, in modo di poter prendere il loro cibo e i loro vestiti". Con l’intensificarsi della guerra e della repressione la "Divisione rossa" si riempie all’inverosimile. È un edificio a forma di stella a tre punte, a cinque piani, due sotterranei. Ogni piano ha 60 camerate, ciascuna può ospitare fino a 50 prigionieri. In tutto possono starci circa 15 mila persone. Manca il cibo, i detenuti si indeboliscono e si ammalano. Molti vengono semplicemente "lasciati andare", ma per altri ci sono i processi sommari e le esecuzioni. Il rapporto di Amnesty - È quello che ha ricostruito un’indagine di Amnesty International, pubblicata lo scorso febbraio. Migliaia di corpi, secondo l’inchiesta, sono stati sepolti "in fosse comuni" nei dintorni di Damasco. Per cinque anni esecuzioni e sepolture si sono svolte di notte. Ogni giorno verrebbero impiccate 50 persone. Amnesty ha raccolto 84 testimonianze, ricostruito il percorso di morte di 31 uomini, sia della "Divisione rossa" che della "Divisione bianca". Il rapporto testimonia che molti altri, ammalati, sono morti all’ospedale militare di Tishreen e sepolti in terreni dell’esercito a Nahja, a Sud di Damasco, e nella cittadina di Qatana. Il rapporto, redatto da Nicolette Waldman, non fa però cenno ai "forni crematori". La necessità di bruciare corpi si è manifestata probabilmente nell’ultimo periodo. Un modo per nascondere le esecuzioni, evitare sospetti. Per Waldman, "non ci sono ragioni di credere che le impiccagioni si sono fermate". Le ha definite "una politica di sterminio". I processi durano "pochi minuti". Le condanne sono sottoscritte dal ministro della Difesa. La fine della de-escalation - Ora le rivelazioni sui "forni crematori" aggiungono orrore all’orrore. La denuncia arriva in un momento positivo per il regime. I ribelli di due quartieri periferici di Damasco, Qabun e Barzé, si sono appena arresti, e l’evacuazione dei combattenti è cominciato ieri. Fra poco toccherà a Yarmouk e a quel punto i ribelli controlleranno solo la zona del Ghouta. La fine dell’insurrezione a Damasco, dopo Aleppo. L’opposizione ridotta a qualche frangia di territorio al confine con la Turchia e la Giordania. Per Jones, assistente del Segretario di Stato, la terribile scoperta getta cattiva luce anche sull’intesa raggiunta ai colloqui di pace di Astana per l’istituzione di "zone sicure" e la "de-escalation" del conflitto. Gli Stati Uniti restano "scettici". Turchia. 891 arresti in una settimana di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 16 maggio 2017 Mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si prepara a partire per gli Stati Uniti ed incontrare il suo omologo Donald Trump continuano in Turchia gli arresti dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio: soltanto nell’ultima settimana, secondo il bollettino reso noto dal ministero degli Interni, sono state 891 le persone arrestate. La maggior parte dei sospetti (767) è accusata di legami con la presunta rete golpista di Fethullah Gulen. Nelle carceri turche si trova da diversi giorni Mesale Tolu, una collega di Deniz Yucel, il giornalista turco-tedesco in attesa di essere processato per terrorismo. Anche Tolu è accusata "propaganda terroristica" e di essere addirittura membro di un’organizzazione sovversiva. A Washington la visita di Erdogan, che è prevista per il 16 maggio, non si preannuncia facile. Sul tavolo c’è la richiesta di estradizione del predicatore islamico su cui Ankara continua a insistere senza ricevere altro che vaghissime risposte e il recente annuncio da parte della Casa Bianca di voler fornire armi ai curdi siriani del Pyd-Ypg, alleati di Washington nella lotta all’Isis, ma considerati terroristi da Ankara.