Scioperano i giudici di pace: fino all’11 giugno un mese di stop alle udienze La Repubblica, 15 maggio 2017 Protesta contro la riforma (definita "umiliante") della magistratura onorario. In alcuni distretti i giudici faranno anche sciopero della fame a staffetta. Un mese intero di stop alle udienze. Da lunedì 15 maggio a domenica 11 giugno i giudici di pace attueranno la protesta più dura contro la riforma "umiliante" della magistratura onoraria: incroceranno le braccia e in alcuni distretti di Corte d’appello, a partire da quelli di Firenze e Napoli, faranno anche lo sciopero della fame a staffetta. Gli effetti della protesta potrebbero essere pesanti: lo stop riguarderà infatti non solo i processi ma anche il deposito di sentenze e decreti ingiuntivi. E se le loro richieste resteranno ancora inascoltate, i 1300 magistrati di pace in servizio sono anche pronti alle "dimissioni di massa con effetto immediato", come minaccia l’Associazione nazionale dei giudici di pace. Nel mirino c’è dunque la riforma che riguarda tutta la magistratura onoraria. Un universo di cui fanno parte oltre ai giudici di pace, quasi 4mila tra giudici onorari di tribunale e vice procuratori onorari. Tutti insieme oggi smaltiscono il 60% dei processi civili e penali di primo grado. Un carico destinato ad aumentare con lo schema di riforma approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri il 5 maggio scorso, che affida alle toghe onorarie, secondo i calcoli dei sindacati di categoria, l’80% del contenzioso civile e penale di primo grado, e che prevede la loro utilizzazione anche nell’ufficio del processo di recente istituzione. Paradossalmente a questa crescita di competenze si accompagneranno una "riduzione delle dotazioni organiche" e "un abbattimento delle indennità" percepite "pari al 75%". Nel futuro i giudici di pace dovranno lavorare come schiavi tutti i giorni, non meno di 10-12 ore quotidiane, per percepire emolumenti netti mensili intorno ai 600-700 euro, somme che neppure basterebbero per pagare le bollette e le spese di sopravvivenza", denuncia l’Unione nazionale dei giudici di pace. Tutto questo "senza congedi retribuiti di maternità o per motivi di salute, senza assicurazione per infortuni sul lavoro, senza trattamento di fine rapporto". In gioco c’è anche l’efficienza del sistema giudiziario:" con una riforma che assegna ai giudici di pace ed ai pubblici ministeri onorari l’80% del contenzioso civile e penale di primo grado, costringendoli a svolgere contemporaneamente altre attività lavorative per sopravvivere, che tipo di risposta, in termini di qualità della giurisdizione e di ragionevole durata dei processi, potranno mai offrire nel futuro gli uffici giudiziari?". È anche per questo che i giudici di pace hanno rivolto un appello al capo dello Stato: intervenga, forte del suo ruolo di "garante della Costituzione e dell’indipendenza della magistratura", perché "il Paese non può subire una riforma che ha il solo scopo di cancellare la magistratura onoraria e mettere in ginocchio l’intero sistema giudiziario". Tra i giudici e le polizie dei Paesi Ue collaborazione più stretta di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2017 Decreto legislativo 52 del 5 aprile 2017. Si rafforza la collaborazione tra le autorità giudiziarie e le polizie dell’Italia e degli altri Stati Ue. Il decreto legislativo 52/2017, che attua la Convenzione di Bruxelles del 2000 sull’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati Ue, è infatti entrato in vigore venerdì 12 maggio (ma le nuove norme hanno effetto dalla ratifica della Convenzione, avvenuta con la legge 149/2016). Il nostro Paese si unisce così agli altri Stati dell’Unione (tutti tranne Croazia, Grecia e Irlanda) in un importante sistema di collaborazione giudiziaria e investigativa già attivato in altri settori, come nell’ambito Schengen. La notifica degli atti - L’assistenza è ora possibile per notificare gli atti di un procedimento penale o amministrativo nei confronti di chi risiede o dimora abitualmente in altro Stato membro. Regola generale, in questo caso, è la notifica a mezzo del servizio postale o, quando possibile, della Pec e solo quando ciò non sia possibile, si procede, previe ricerche, alla notificazione con modalità diverse dell’atto, che deve essere tradotto nella lingua dello Stato richiesto, se il destinatario non conosce la lingua italiana. Da parte italiana, organo dell’assistenza è il procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto in cui la notifica deve essere fatta. L’attività probatoria - Per l’assistenza in materia di attività probatoria, le richieste sono trasmesse - con mezzi idonei a garantire l’autenticità della documentazione e della provenienza - direttamente dall’autorità giudiziaria italiana a quella competente dello Stato estero insieme alle indicazioni relative alle forme e ai modi previsti dalla legge per l’assunzione dell’atto richiesto. Per le richieste provenienti dalle autorità degli Stati membri è competente il procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto nel quale devono essere compiuti gli atti (o il maggior numero o il più rilevante di essi), che formula le richieste al Gip e interloquisce con l’autorità richiedente. È consentito lo scambio diretto e spontaneo di informazioni e atti con l’autorità competente di un altro Stato membro, utilizzabili nei limiti fissati dall’autorità trasmettente. È possibile inviare una richiesta di assistenza per accertamenti in procedimenti per violazioni per cui è prevista una sanzione amministrativa. La richiesta deve essere fatta tramite il ministero della Giustizia all’autorità competente di un altro Stato Ue. La restituzione di beni - Forme specifiche di assistenza giudiziaria riguardano: la restituzione di beni all’avente diritto, che il procuratore della Repubblica dispone se non vi sono dubbi sulla titolarità del bene stesso e se questo non deve essere trattenuto a fini di prova o di confisca; il trasferimento temporaneo di un detenuto - previo consenso di quest’ultimo - in Italia (se ristretto all’estero) o in un altro Stato membro ai fini di indagine. Da parte italiana, il trasferimento all’estero è autorizzato, per gli imputati, dal giudice che procede (articolo 279 del Codice di procedura penale) e dal magistrato di sorveglianza per detenuti o internati. È possibile, a certe condizioni, l’audizione di testimoni o periti mediante videoconferenza nel rispetto dei principi fondamentali del diritto nazionale dello Stato richiesto e l’effettuazione di consegne sorvegliate nel proprio territorio, su richiesta di un altro Stato membro, nel quadro di indagini penali relative a reati per i quali è possibile l’estradizione. Le intercettazioni - Specifiche disposizioni sono infine stabilite in tema di intercettazioni, la cui richiesta, se disposte in Italia, è formulata dal procuratore della Repubblica al giudice competente. Nei casi di urgenza, vengono disposte con decreto motivato, comunicato entro 24 ore al Gip per la convalida entro le successive 48 ore. Se non è necessaria l’assistenza tecnica dello Stato in cui è presente il soggetto intercettato, è comunque obbligatorio informare sull’attività. Raffaele Guariniello: "vi dico perché ho indagato mezza Italia" di Lucia Esposito Libero, 15 maggio 2017 "Le notizie di reato si cercano, non si aspettano. Le inchieste non servono solo a condannare ma a eliminare storture". È amato e odiato. C’è chi lo vede come un Robin Hood che rende giustizia ai deboli e chi come un Don Chisciotte che insegue - anzi crea - delle cause perse. Da poco più di un anno non fa più il magistrato. Ha lasciato la Procura di Torino ma, come dice, lui "la mia è una missione". Ha indagato sulla Fiat e sulla Juve ma anche sull’amianto nelle aziende e sul rogo alla Tyssenkrupp, sulle mozzarelle blu, sulla farina di castagna, sulle caraffe filtranti... Non ha mai chiuso il codice penale ("non lo farò mai", assicura lui) e ora pensa alle vittime dell’amianto come consulente della Camera dei Deputati per i militari morti. Dottor Guariniello, salga sul banco degli imputati. I suoi detrattori la accusano di essere nell’ordine: un rompiballe, un esibizionista, uno che insegue chimere, un perditempo. Provi a difendersi. Cominciamo dall’inizio: è un rompiballe? "Sì. Ma per me è un complimento". Ama finire sui giornali? "Un magistrato che fa delle cose e finisce sui giornali è meglio di quello che non fa. E poi essere conosciuto qualche volta mi ha aiutato. Come quando ho chiesto all’allora ministro del Lavoro, Roberto Maroni, più ispettori per fare controlli". Sulle cause perse cosa dice? "Se cominci un’indagine hai già ottenuto dei risultati". Detta così sembra uno slogan, faccia degli esempi. "L’indagine sulla pericolosità dei cellulari per la salute ha sensibilizzato le aziende che li producono. L’indagine sull’amianto nei vagoni ferroviari ha spinto le Ferrovie, prima ancora di arrivare alla fine del processo, a bonificare le carrozze. Quella sul cinema Statuto di Torino (dove nel 1983 si sviluppò un incendio che uccise 64 persone, ndr) ha sollevato il problema della sicurezza nei luoghi pubblici...". È vero che c’è lei anche dietro l’annuncio delle hostess che ci ricordano di spegnere il cellulare in aereo? "Sì, dopo che nel 1996 si verificarono alcuni strani episodi di apparecchiature elettroniche degli aerei che improvvisamente andavano in tilt". Ora che è in pensione e non può più indagare ha, tra le altre cose, scritto un libro: "La giustizia non è un sogno" (Rizzoli). Quali sono i problemi della giustizia? "I processi che ho fatto hanno toccato gli interessi delle persone più deboli, non erano mai stati fatti prima, le leggi c’erano ma non venivano applicate, erano quindi processi molto complessi, che spesso finivano in prescrizione. Ma questo non deve scoraggiarci e farci smettere di credere nella giustizia che resta uno strumento di tutela dei deboli". Per evitare la prescrizione bisognerebbe allungarne i tempi come dicono molti? "Il familiare di una vittima del lavoro non può aspettare vent’anni per avere giustizia. Servono risorse organiche e strutturali. Il rischio è che se la giustizia non funziona i magistrati perdono l’entusiasmo". Dopo 48 anni lei non ha perso l’entusiasmo, ha aperto oltre 30mila fascicoli... "Non ho tenuto la contabilità. Da giovane pretore facevo 2500 sentenze all’anno, ovviamente molte di queste erano molto semplici". È vero che aveva la chiavi di Palazzo di giustizia e che di notte lavorava? "Sì... Ma, vede, per me fare il magistrato non un è mestiere ma una missione. E non l’ho mai fatto per la carriera, ma per tutelare i più deboli. Forse perché vengo da una famiglia modesta, contadini, panettieri, calzolai, camionisti che mi hanno insegnato, senza volerlo, la dignità del vivere e del lavorare. Non sopporto l’umiliazione e quando so che qualcuno si è ammalato o è morto per lavorare, credo sia un’ingiustizia enorme, un colpo alla sua dignità". Alcuni suoi colleghi la deridevano, dicevano che i veri processi erano quelli che riguardano la criminalità organizzata e che lei si occupava di argomenti minori... "La salute dei cittadini, la dignità dei lavoratori, la sicurezza sul posto del lavoro per me vengono prima di tutto. E poi, una volta ho risolto anche un omicidio in pochi giorni". Quando disse ai suoi colleghi: "Vedete che lo so fare anch’io!"? "Vedo che è preparata...". Ha indagato un paio di volte sulla Fiat. Anzi la sua prima inchiesta, è stata sulla schedatura degli operai... Un esordio col botto: tornò dalle ferie estive per fare una perquisizione a sorpresa. "Era il 1971, feci un blitz artigianale. Andai a cavallo di una bici, ma dimenticai di avvisare i superiori. Il procuratore capo non la prese bene. Ma intanto scoprii 354mila schede segrete su altrettanti operai. Descrivevano la vita privata, i costumi, gli orientamenti politici e perfino le inclinazioni sessuali". Com’è finita? "Il processo fu trasferito a Napoli, non si poteva fare a Torino. Il Tribunale condannò la Fiat in primo grado poi arrivò la prescrizione. Ma, ecco, questo è uno di quei casi in cui eliminare la patologia è più importante di arrivare a una condanna". Perché? "Perché da allora non l’hanno più fatto. Nessuno l’ha più fatto. Più dello Statuto dei Lavoratori quest’inchiesta ha fatto capire che cosa si rischia ad adottare certi sistemi". E con la Juve come è andata? Lei, che non ha mai negato la fede bianconera, è stato il primo a indagare sulla Juve e su tutto il calcio. "La fede legale è più forte di quella sportiva! Quell’inchiesta è rimasta nella memoria di tutti, tanto che quando vado in giro non mi associano all’amianto ma al doping". Come mai aprì il fascicolo? "Dopo aver letto un’intervista dell’Espresso a Zdenek Zeman in cui lui parlava delle farmacie nel calcio. Lo convocai, ma il colloquio con lui non fu facile. Non aggiunse altro a quanto già detto pubblicamente. Raccontò dei dépliant delle case farmaceutiche ricevuti La copertina del libro in ritiro che garantivano aumenti vertiginosi delle prestazioni dei giocatori sulla base dei loro prodotti". Quel processo è finito con una prescrizione dell’accusa di doping e frode sportiva. "Sì, ma ha portato all’approvazione di una legge". Che cosa l’ha colpita del mondo dello sport? "Che non ci sono i pentiti come nei processi di mafia. Gli atleti si trovano spesso nelle stesse condizioni dei lavoratori che temono di perdere il posto". Cosa è cambiato nello sport dopo la sua inchiesta, oltre all’approvazione della legge? "La nostra legge è bellissima, ma bisogna applicarla". Anche l’inchiesta Stamina nasce da un articolo di giornale, il famoso "metodo Guariniello". Ce lo spiega? "È il metodo previsto dal nostro codice: il pm non può limitarsi a ricevere le notizie di reato dalla polizia e dai cittadini ma deve, dovrebbe, anche cercarle. Dai giornali, dalle conferenze, parlando con la gente ma anche leggendo sentenze della Cassazione. Dal 1988 leggo tutte le sentenze della sezione penale via via che vengono depositate". Il suo metodo è stato molto criticato. "Lo so, ma questo è sempre stato il mio modo di intendere e fare il pm". Negli ultimi anni lei era arrabbiato perché il suo "pool" era stato smantellato. "Colpa della regola della decennalità che impone ai magistrati una permanenza massima di dieci anni nel loro gruppo. Così si buttano via anni di studio, di esperienza. Io credo nella specializzazione. Vorrei la creazione di una Procura nazionale che si occupi dei delitti ambientali e sul posto di lavoro. Mi sono battuto per questo, senza avere grandi riscontri". Ma qualche soddisfazione l’avrà avuta... "Tante. La più importante è sicuramente la condanna della Cassazione per i manager e i dirigenti della ThyssenKrupp. Per altri Paesi questa sentenza è un punto di riferimento". Il rimpianto maggiore? "I processi che non sono riuscito a finire: quello Eternit per gli omicidi, quello per il giovane morto dopo un Tso. Sono figli che ho abbandonato". La famosa inchiesta sulla mozzarella blu come è finita? "Con un rinvio a giudizio a Torino. In altre città con un’archiviazione. È singolare che in uno stesso Stato di diritto si sia arrivati a soluzioni diverse dello stesso problema". Lei è stato corteggiato dai grillini: la Raggi le ha chiesto di fare il capo di gabinetto. "Credo nelle competenze. Sono un magistrato, un tecnico, quel lavoro non avrei saputo farlo". È tentato dalla politica? "No, finora ho rifiutato tutte le proposte che mi sono arrivate". Cosa pensa dei magistrati che fanno politica? "Che non dovrebbero tornare indietro". Si è fatto un’idea dell’inchiesta sulle Ong? "Non conosco le carte". E della sentenza della Cassazione sul mantenimento della ex moglie? "Non ho letto le motivazioni". Da grande cosa farà? "Adesso faccio il consulente della Camera dei Deputati per i militari morti d’amianto". C’è un’inchiesta che aprirebbe oggi? "Sì, sulla tutela del consumatore dalle industrie alimentari e farmaceutiche". C’è un nuovo Guariniello? Risata. "No, basto io". L’umiltà delle toghe e gli algoritmi, ma la verità resta solo "processuale" di Roberto Tanisi Quotidiano di Puglia, 15 maggio 2017 Qualche giorno fa, in un incontro con gli studenti di giurisprudenza, mi è capitato di commentare un film dei primi anni settanta, "In nome del popolo italiano", diretto da Dino Risi ed interpretato da due "mostri sacri" del nostro cinema, Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman. Per chi non lo ricordi o non ne abbia mai sentito parlare, vi si narra di un giudice istruttore rigoroso ed integerrimo (Tognazzi), profondamente amareggiato della corruzione che dilaga nel nostro Paese, e di un imprenditore cialtrone e disonesto (Gassman), elargitore di tangenti e avvelenatore di fiumi, palazzinaro e deturpatore dell’ambiente. Una reciproca antipatia, ideologica e politica, divide i due, quando, indagando sull’omicidio di una ragazza che si guadagna da vivere facendo la escort, il Giudice si accorge che gli indizi convergono verso l’imprenditore disonesto. L’indagine diventa serrata, ma quando il giudice pensa di aver raggiunto la prova della colpevolezza del suo indagato, casualmente gli perviene la prova della sua innocenza: la ragazza si è suicidata ingerendo un farmaco, come dalla stessa annotato nel suo diario, prima di compiere il gesto fatale. Il giudice ne legge le pagine camminando per strada, mentre improvvisamente, in seguito alla prima vittoria della nazionale italiana di calcio con l’Inghilterra, tutt’intorno si scatena il tifo più becero e violento. Nel volto dei tifosi il giudice rivede quello dell’imprenditore, emblema di un Paese irredimibile. Così, preso da sconforto, butta il diario della ragazza nel rogo di un’auto inglese data alle fiamme dai vandali, sancendo, "in nome del popolo italiano", la possibile condanna di un innocente. Un film graffiante e, per certi versi, ancora attuale, in cui il personaggio peggiore non è l’imprenditore ma l’incorruttibile giudice, che si lascia corrompere non dal denaro ma dalla propria ideologia e dalla propria morale, fino a violare le leggi e la verità, strumentalizzando la tragedia di un suicidio per punire un uomo che detesta. Un film che fa riflettere: sul potere, sui giudici, sul rischio e sul peso della decisione giudiziaria, ma anche sulla sua ineluttabilità, posto che dei giudici, comunque, non si può fare a meno. "Potere odioso e terribile" lo definiva Condorcet, anche perché, al suo tempo, i giudici erano niente più che fedeli esecutori degli ordini del sovrano. Oggi per fortuna non è più così, anche perché qui da noi si è affermata la figura di un giudice "consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali della Costituzione" (così nella mozione finale del Congresso A.N.M. di Gardone, nel 1965). Alla connotazione "verticale" dei poteri dello Stato, quale delineata nell’originario schema di derivazione illuministica (che vedeva in posizione leggermente sovraordinata il potere legislativo) si è andata progressivamente sostituendo, grazie alla Costituzione, una connotazione di tipo "orizzontale", di sostanziale equivalenza, pur nella diversità, dei poteri. Peraltro, come già evidenziato in un precedente articolo su questo stesso giornale, l’aumentato tasso di "liquidità" del sistema e l’accresciuto rilievo della giurisprudenza, rendono oltremodo necessarie quelle che Giovanni Canzio ha definito "isole di stabilità", rinvenibili nell’interpretazione nomofilattica della Cassazione e nella professionalità dei magistrati, essenziali perché non resti un mito il principio della certezza del diritto. Resta, tuttavia, il rischio della discrezionalità giudiziaria e la necessità che questa non sconfini in arbitrio. Qualcuno ha pensato di risolverlo ricorrendo all’informatica. Negli Stati Uniti, per esempio, è sempre più frequente il ricorso agli strumenti informatici nel campo della pubblica sicurezza e dell’amministrazione della Giustizia. Così nello stato del Wisconsin Eric Loomis, imputato per una sparatoria senza vittime, è stato condannato ad una lunga pena detentiva (sei anni) perché giudicato "ad alto rischio di ripetizione del crimine" grazie non alla valutazione di un Giudice, ma di un algoritmo, frutto di un software in uso negli uffici giudiziari americani e messo a punto, peraltro, da un’azienda privata, che non ne ha neppure rivelato il funzionamento all’Amministrazione della Giustizia, per ragioni di privativa industriale. Loonis ha presentato ricorso alla Corte suprema del Wisconsin, lamentando la violazione dei suoi diritti di imputato, ma la Corte ha rigettato il ricorso e così il caso approderà a breve alla Corte Suprema degli Stati Uniti (tanto più che qualche Giudice ha avanzato il dubbio che l’algoritmo utilizzato contenga una sorta di discriminazione verso i neri). Vedremo quale sarà la decisione. Ma l’uso dell’informatica ed il ricorso a tecniche predittive sta cambiando anche il modo di operare degli sceriffi e della Polizia, dal momento che accade sempre più spesso che gli investigatori si facciano dire dai computer i luoghi in cui, secondo alcuni software, è più elevata la percentuale di commissione dei crimini, così da predisporre una sorveglianza più efficace; sicché può accadere che un giovane di 18 anni, solo per essere stato notato sostare per lungo tempo all’interno di un’auto, in un luogo che il computer ha qualificato come "predective hot spot", ossia particolarmente a rischio quale possibile teatro di un crimine, venga fermato e malmenato brutalmente per non aver dato una soddisfacente spiegazione circa la sua presenza in quel luogo. Qualcuno ricorderà "Minority report", il film di Steven Spielberg tratto da una novella di Philip K. Dick, in cui grazie proprio al ricorso a tecniche predittive rese possibili dal sistema informatico denominato "precrimine", la polizia era posta in grado di arrestare i colpevoli ancor prima che commettessero dei reati. Sappiamo, poi, come va a finire: anche quel sistema poteva essere manipolato dal Potere, per cui, alla fine del film, viene sterilizzato e messo da parte. Quale, allora, la conclusione? Il processo tecnologico certamente non può essere fermato, per cui ben venga l’ausilio degli strumenti più avanzati e sofisticati. Ma per quanto tali possano essere, essi non potranno mai sostituirsi al cervello dell’uomo, la "macchina" più sofisticata che esista. Mi paiono giuste, pertanto, le proteste degli avvocati americani e delle associazioni per i diritti civili, che contestano l’ambizione dell’Amministrazione della Giustizia di impedire il crimine ricorrendo all’intelligenza artificiale, vedendo in essa una possibile causa di indebolimento dei diritti degli imputati. Meglio, allora, il buon vecchio giudice, purché abbia la piena consapevolezza che il suo è, pur sempre, il potere di un uomo che decide su un altro uomo e che, proprio per questo, richiede di essere esercitato col massimo rigore, con grande professionalità e con l’umiltà di riconoscere che quella che viene fuori dal processo è solo una verità "processuale", che può anche non coincidere con la verità assoluta, umanamente irraggiungibile. I tempi delle toghe e quelli dei credito di Fabio Bogo Affari & Finanza, 15 maggio 2017 La vicenda del presunto interessamento dell’allora ministro per le riforme istituzionali Maria Elena Boschi al salvataggio di Banca Etruria, della quale il padre è stato vicepresidente, riporta il calendario indietro di quasi due anni, a quel novembre 2015 in cui il governo tentò, avviando la risoluzione di quattro istituti minori, di arrestare la valanga di credibilità che evidentemente percepiva potesse rovesciarsi sul sistema creditizio e sul Paese. L’operazione non riuscì. Scoperchiate Etruria, Marche, Chieti e Ferrara i riflettori si sono accesi sui buchi di Vicenza e Montebelluna, sulle malversazioni di Carige, sul pozzo nero del Monte Paschi e anche su Unicredit, costretta a chiedere al mercato un aumento di capitale di ben 13 miliardi. Come raccontiamo nelle pagine di questo numero di Affari & Finanza, Etruria è stata quindi, anche a causa delle sue implicazioni politiche, il paziente zero di un contagio che ha toccato il sistema del credito, la sua affidabilità e il ruolo di controllo delle autorità di vigilanza. Un sistema fondamentale per la credibilità di una nazione. E non a caso infatti la scorsa settimana la Commissione Ue, pur promuovendo i conti pubblici italiani, ha insistito nel rimarcare le due principali debolezze di Roma: la discontinuità nelle riforme e l’elevato carico di crediti deteriorati nella pancia delle banche, entrambi elementi decisivi nel frenare la crescita. Luigi Einaudi, che prima di essere presidente della Repubblica fu governatore della Banca d’Italia, nel 1920 scriveva a proposito degli scandali bancari di quel periodo: "La banca deve essere un’istituzione cristallina, la quale ispira fiducia perché si sa che gli amministratori curano solo gli interessi degli azionisti". Così spesso non è stato negli ultimi anni, ma non tutti hanno pagato il conto per i danni provocati. Su quel fronte c’è ancora strada da fare e soprattutto poco tempo da perdere. Il bilancio dei recenti casi in cui la finanza ha incontrato la giustizia non risponde ai criteri di severa rapidità che la gravità dei casi imporrebbe, e racconta di una pesante condanna per Giovanni Berneschi di Carige (8 anni e 2 mesi, più di quanto chiesto dall’accusa); di due salate multe comminate dalla Consob a Gianni Zonin ed Emanuele Sorato; dell’arresto di Vincenzo Consoli per aggiotaggio, ora tornato in libertà. A qualcuno sembra poco. Ancora Luigi Einaudi scriveva: "Chi ha rotto deve pagare, qualunque sia la sua posizione sociale e finanziaria. E se il reato fu commesso da qualcuno di coloro che il volgo chiama miliardari, a maggior ragione conviene si proceda senza pietà per essi". E bene che tutti gli attori di queste partite lo ricordino. Liberazione anticipata per l’ergastolano già ammesso alla "condizionale" giurisprudenzapenale.com, 15 maggio 2017 Cassazione Penale, Sezione I, 22 marzo 2017 (ud. 29 novembre 2016), n. 13934. Presidente Di Tomassi, Relatore Boni. Ammissibilità della liberazione anticipata ex art. 54 o.p. per il detenuto ergastolano (già ammesso alla liberazione condizionale) in regime di libertà vigilata. Con sentenza del 29 novembre 2016 (dep. 22 marzo 2017), la prima sezione della Corte di Cassazione ha affermato il principio di diritto per cui "la liberazione anticipata può essere concessa ai condannati alla pena dell’ergastolo con riferimento ai periodi trascorsi in liberazione condizionale con sottoposizione alla liberta vigilata, al fine di conseguire l’anticipazione della cessazione della misura di sicurezza e dell’estinzione della pena, ai sensi dell’art. 177 c.p.", allineandosi così agli orientamenti della giurisprudenza di merito, di cui, peraltro, si è dato conto, su questa Rivista con riferimento all’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Potenza del 6 aprile 2016. La sentenza in commento offre degli importanti spunti di riflessione sull’istituto della liberazione anticipata ex art. 54 o. p. e della sua compatibilità rispetto al regime della liberazione condizionale, i sensi degli artt. 176 e 177 c.p. e della loro applicabilità al condannato alla pena dell’ergastolo. (1) Sull’interpretazione dell’inciso "condannato a pena detentiva" dell’art. 54 o.p. Il primo nodo da sciogliere ruota intorno alla corretta esegesi dell’espressione "condannato a pena detentiva", con cui si indica il soggetto legittimato alla proposizione della domanda per l’accesso alla liberazione anticipata ex art. 54 o.p. (ai sensi del quale, infatti, si stabilisce la detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata "al condannato a pena detentiva" che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione). A fronte di un orientamento interpretativo più restrittivo della giurisprudenza di legittimità avallato dalle Sezioni Unite, con due pronunce (cfr. Cass. pen., SS. UU., 18 giugno 1991, n. 15 e n. 16), per cui l’istituto presuppone che lo "status detentionis" sia in atto e che sia in corso l’osservazione della personalità ed un programma di trattamento all’interno del carcere, al fine di poter valutare la partecipazione del soggetto alla finalità rieducativa sottesa alla stessa concessione della misura premiale, il Collegio si richiama ad un successivo orientamento espresso proprio dalla Prima Sezione, con cui, superando l’indirizzo precedente, si ribadisce il principio generale secondo il quale solo "l’intervenuto esaurimento del rapporto esecutivo per effetto di espiazione dell’intera pena inflitta, oppure per estinzione della stessa perché condonata, esclude i presupposti di ammissibilità della domanda di liberazione anticipata", essendo invece ammessa, in tutti gli altri casi, la proposizione della richiesta di ammissione alla misura con riguardo a periodi di detenzione pregressa, sempre che "il rapporto esecutivo sia tuttora pendente e sia concretamente praticabile la valutazione della partecipazione all’opera di rieducazione, condotta nel corso dei semestri già scontati". Sulla scorta di tali premesse, il Collegio ha riconosciuto l’accesso al beneficio della liberazione anticipata rispetto (a) al condannato all’ergastolo che nel corso dell’esecuzione ammesso all’affidamento in prova al servizio sociale o alla detenzione domiciliare, quando la richiesta fosse riferita a un periodo detentivo già scontato e la concessione della misura fosse finalizzata a scomputare la riduzione ottenibile dalla durata della pena ancora da eseguire, secondo le modalità proprie della misura alternativa che di per sé non fa venir meno il rapporto esecutivo (cfr. Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2001, n. 30302; Cass. pen., Sez. I, 22 dicembre 1999, n. 7318)[1]; (b) al soggetto, il quale, avendo trascorso un apprezzabile periodo in stato di custodia cautelare, si trovi in attesa di essere sottoposto all’esecuzione della pena residua ed intenda avvalersi della liberazione anticipata per evitare la carcerazione definitiva (cfr. Cass. pen., Sez. I, 24 novembre 2011, n. 5831; Cass. pen., Sez. I, 28 aprile 1997, n. 3005). Con riguardo a quest’ultima ipotesi, è significativo come il legislatore, introducendo con il d.l. 1° luglio 2013, n. 78 (conv. con modifiche con l. 9 agosto 2013, n. 94, il comma 4-bis all’art. 656 c.p.p., abbia valorizzato la concedibilità della liberazione anticipata al soggetto in stato di libertà, ritenendola applicabile ai pregressi periodi di custodia preventiva o di espiazione di pena dichiarata fungibile rispetto a quella da eseguire, con il fine di utile di impedire il materiale reingresso in carcere del condannato. Sulla base di tale orientamento, è possibile affermare come "per poter beneficiare della libertà anticipata, non è richiesto che la detenzione sia in atto e comporti la segregazione all’interno di un istituto penitenziario, essendo piuttosto preteso il mancato esaurimento del rapporto di esecuzione penale in corso, sulla cui protrazione temporale l’istituto vada ad incidere in senso favorevole al condannato, anticipandone la cessazione". (2) Sull’ammissibilità della liberazione anticipata a favore di chi abbia già ottenuto la liberazione condizionale e non versi in una situazione di detenzione (perché sottoposto alla misura della libertà vigilata). Secondo costante giurisprudenza di legittimità, è pacifica l’ammissibilità della riduzione di pena per liberazione anticipata rispetto al condannato già ammesso alla liberazione condizionale: ciò si desume dalla stessa finalità pratica sottesa alla richiesta del condannato, in termini di concretezza ed attualità, essendo finalizzata ad ottenere la cessazione in via anticipata della misura della libertà vigilata, a cui il soggetto ammesso al regime di liberazione condizionale è sottoposto ai sensi dell’art. 230 c.p. Si è dunque riconosciuta l’applicabilità della liberazione anticipata tanto con riguardo ai periodi di carcerazione antecedenti all’applicazione del beneficio, sofferti in stato di custodia cautelare, quanto ai periodi di pena sofferti in esecuzione di pena detentiva definitiva, per abbreviare la durata della pena e la misura di sicurezza. L’affermazione di tale principio ruota attorno ad un passaggio fondamentale, evidenziato anche dalla Corte costituzionale, con sent. n. 282 del 1989: per quanto, infatti, la liberazione condizionale sia un istituto strutturalmente differente rispetto alla misura della libertà anticipata, entrambe sono "comunque accomunate dall’effetto limitativo della libertà individuale che comportano e dalla funzione rieducativa che perseguono, da considerarsi prevalente sulle esigenze punitive e social-preventive". In altri termini, secondo la giurisprudenza di legittimità, è possibile ricondurre anche la libertà vigilata nel novero delle misure alternative alla detenzione e considerare il relativo periodo come "esecuzione della pena a tutti gli effetti". (3) L’applicazione del principio al detenuto ergastolano. Un tanto deve ritenersi applicabile anche nei confronti del condannato alla pena dell’ergastolo, nella misura in cui - argomenta la Corte - "nella perdurante esecuzione della pena con le modalità meno afflittive della sottoposizione congiunta a misura alternativa ed a misura di sicurezza, e nell’astensione del condannato dalla commissione di ulteriori delitti o contravvenzioni della stessa indole o dalla trasgressione delle prescrizioni inerenti la libertà vigilata, il decorso del tempo per una frazione cronologica delimitata dal legislatore e diversamente parametrata in corrispondenza della durata della pena inflitta per quelle temporanee ed in anni cinque per quella perpetua, fa sì che la liberazione condizionale estingua la sanzione e revochi le misura di sicurezza personali". L’effetto estintivo ex art. 177 c.p. si produce "in modo assolutamente identico per qualsiasi pena, a prescindere dalla sua entità, se limitata o illimitata", sicché, aderendo ad un’interpretazione costituzionalmente orientata del combinato disposto 54 o.p., 177 c.p. si deve concludere - secondo il Collegio - per un’estensione applicativa della liberazione anticipata anche al condannato alla pena dell’ergastolo già ammesso al regime della liberazione condizionale, nella misura in cui la concessione della misura premiale consente di conseguire la cessazione della libertà vigilata in tempi più brevi rispetto a quelli previsti in via ordinaria dalla legge, con la riduzione della sua durata e l’estinzione della pena. [1] Ipotesi giurisprudenziale poi trasfusa dal legislatore con l’introduzione nel testo dell’art. 47 ord. penit. del comma 12-bis (ex art. 3 l. 19 dicembre 2002, n. 277). Possibile il concorso di reati tra malversazione e truffa per erogazioni pubbliche di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 10 aprile 2017 n. 17937. Il reato di malversazione in danno dello Stato(articolo 316-bis del Cp) concorre con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (articolo 640-bis del Cp). Lo hanno chiarito le sezioni Unite penali della Cassazione con la sentenza n. 20664 del 28 aprile 2017. La Corte, risolvendo un contrasto di interpretazioni, argomenta la propria conclusione partendo dalla considerazione dei principi vigenti in materia di concorso apparente di norme che ricorre ove, attraverso un confronto degli elementi strutturali, più fattispecie risultino applicabili al medesimo fatto, onde, ai sensi dell’articolo 15 del Cp, "la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito". Da tale disposizione si trae, secondo il giudice di legittimità, il principio generale che, ove si escluda il concorso apparente, è possibile derogare alla regola del concorso di reati solo quando la legge contenga l’espressione delle clausole di riserva, le quali, inserite nella singola disposizione, testualmente impongono l’applicazione di una sola norma incriminatrice prevalente che si individua seguendo una logica diversa da quella di specialità. Ciò detto, la Corte si impegna a dare significato operativo concreto al concorso apparente di norme, ribadendo consapevolmente che questo va rinvenuto esclusivamente nel criterio di specialità e, quindi, sulla conseguente comparazione delle fattispecie astratte (prescindendo, peraltro, dalla qualificazione, penale o amministrativa, degli illeciti da porre a raffronto). In ossequio a tale ricostruzione, le sezioni Unite argomentano nel senso dell’insussistenza di un rapporto di specialità tra la malversazione ex articolo 316-bis del Cp e la truffa aggravata ex articolo 640-bis del Cp, sul rilievo che trattasi di fattispecie che presentano differenze strutturali pur in presenza, talvolta, di possibili interferenze tra le condotte: cosicché, esemplificando, possono verificarsi le diverse ipotesi del privato che ottiene un finanziamento illecitamente e successivamente lo utilizza per scopi privati, del privato che ottiene con mezzi fraudolenti l’erogazione, ma la destina effettivamente a opere o attività giustificanti il sostegno economico richiesto, del privato, infine, che ottiene legittimamente il finanziamento, ma omette di destinarlo all’attività o all’opera di pubblico interesse per cui era stato erogato; sono ipotesi che, all’evidenza, a seconda dei casi, sono inquadrabili in una o nell’altra delle dette ipotesi incriminatrici ovvero ammettono il concorso di entrambe. Proprio tale diversità di situazioni, porta la Corte a concludere nel senso che tra le due fattispecie, quando di entrambe ricorrano i presupposti, non può che ravvisarsi il concorso materiale dei reati, eventualmente unificabili nel vincolo della continuazione. Del resto, argomenta ulteriormente la Corte, proprio la diversità strutturale dei due reati (che si consumano fisiologicamente in tempi diversi) non consentirebbe di concludere per l’assorbimento della malversazione nella più grave truffa neppure nei casi in cui la prima si atteggiasse come naturale prosecuzione della condotta truffaldina. Truffa in vendita prodotti online: aggravante se c’è distanza tra luogo del reato e vittima di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 10 aprile 2017 n. 17937. Nella truffa commessa attraverso la vendita di prodotti online è configurabile l’aggravante di cui all’articolo 640, comma 2, numero 2-bis, del Cp, con riferimento al luogo del commesso reato, in quanto il luogo fisico di consumazione della truffa (individuabile nel luogo in cui l’agente consegue l’indebito profitto) in tal caso possiede la caratteristica peculiare costituita dalla distanza che esso ha rispetto al luogo ove si trova l’acquirente che del prodotto venduto, secondo la prassi tipica di simili transazioni, ha pagato anticipatamente il prezzo. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 17937 del 2017. Proprio tale distanza tra il luogo di commissione del reato da parte dell’agente e il luogo dove si trova l’acquirente è l’elemento che pone l’autore della truffa in una posizione di forza e di maggior favore rispetto alla vittima, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi comodamente alle conseguenze dell’azione: vantaggi, che non potrebbe sfruttare a suo favore, con altrettanta facilità, se la vendita avvenisse de visu. I precedenti orientamenti - In termini, di recente sezione II, 29 settembre 2016, Proc. Rep. Trib. Bergamo in proc. Cristea, secondo cui la distanza tra il luogo di commissione del reato da parte dell’agente e il luogo dove si trova l’acquirente è l’elemento che consente all’autore della truffa di porsi in una situazione di maggior favore rispetto alla vittima, di schermare la sua identità, di fuggire comodamente, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente. L’aggravante, si è così sostenuto, risulta integrata dalla distanza tra i suddetti luoghi, cui si aggiunge l’utilizzo di clausole contrattuali che prevedono il pagamento anticipato del bene venduto: circostanze di cui l’agente consapevolmente approfitta, e che qualificano la condotta illecita per la presenza di un quid pluris esterno rispetto agli artifici e raggiri del reato di truffa semplici, qui individuabili nel fatto che l’agente finge di vendere un bene che non ha o del quale non si vuole privare. La sentenza 17937/2017 - In linea con queste premesse, qui la Corte di cassazione, accogliendo il ricorso del pubblico ministero, ha annullato con rinvio l’ordinanza con la quale il tribunale della libertà aveva invece esclusa l’aggravante e, per l’effetto, aveva respinto l’appello del pubblico ministero proposto avverso l’ordinanza del Gip che, a sua volta, aveva respinto la domanda cautelare in relazione a una pluralità di delitti di truffa contestati come aggravati dalla minorata difesa. La revocabilità della richiesta di patteggiamento cessa con il perfezionarsi dell’accordo Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2017 Procedimenti speciali - Patteggiamento - Richiesta - Accordo tra le parti - Recesso - Esclusione - Impugnazione del procuratore speciale - Inammissibilità. In tema di patteggiamento, l’accordo tra le parti sulla pena non può essere oggetto di recesso ed è, pertanto, inammissibile l’impugnazione del procuratore generale fondata su censure che si risolvono in un recesso dall’accordo, non potendosi riconoscere ad altro ufficio del pubblico ministero, nonostante la sovra ordinazione gerarchica e la titolarità di un autonomo potere di impugnazione, un potere che non spetta alle parti. • Corte cassazione, sezione VI penale, sentenza 3 maggio 2017 n. 21126. Procedimenti speciali - Patteggiamento - Ricorso del procuratore generale - Censure che si sostanziano in recesso dall’accordo - Inammissibilità. Il procuratore generale non può sostituire la propria volontà a quella già manifestata, in forza della conoscenza diretta degli elementi concreti acquisiti al processo, dal p.m. che ha partecipato al patteggiamento e non può proporre, come motivi di ricorso, censure che si sostanziano in un recesso dall’accordo. (Fattispecie in cui la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore Generale che si doleva del riconoscimento dell’attenuante di cui all’articolo 73, comma quinto, del Dpr n. 309 del 1990). • Corte cassazione, sezione III penale, sentenza 7 ottobre 2013 n. 41137. Procedimenti speciali - Patteggiamento - Richiesta di patteggiamento - Formazione dell’accordo tra le parti - Revocabilità - Esclusione. La richiesta di patteggiamento non è più revocabile dal momento in cui si forma il consenso tra le parti e non è configurabile il recesso dall’accordo dal momento in cui le parti danno vita all’accordo stesso manifestando la propria volontà. Neppure rileva la circostanza che il consenso sia stato espresso dal procuratore speciale dell’imputato invece che dall’imputato personalmente, poiché la procura speciale è prevista proprio per garantire che la volontà del procuratore speciale sia perfettamente corrispondente a quella dell’imputato (che, peraltro, nel caso di specie, non ha negato che la sua volontà, al momento del consenso al patteggiamento, fosse proprio quella espressa dal suo procuratore speciale, mentre ha sostenuto soltanto di avere modificato la volontà a causa del passaggio del tempo). • Corte cassazione, sezione I penale, sentenza 13 gennaio 2009 n. 1066. Procedimenti speciali - Patteggiamento - Richiesta - Accordo tra le parti - Poteri del Procuratore generale - Limiti - Censure che si risolvono in un recesso - Inammissibilità. Il procuratore generale, nonostante la supremazia gerarchica e l’autonomia del potere di impugnazione, in omaggio alla regola costituzionale di parità delle parti, non può, una volta intervenuto l’accordo, sostituire la sua volontà a quella manifestata dall’ufficio del pubblico ministero, proponendo con i motivi di ricorso censure che si risolvono in un recesso dall’accordo, recesso che, non essendo consentito alle parti, non può essere riconosciuto ad altro ufficio del pubblico ministero. •Corte cassazione, sezione II penale, sentenza 30 gennaio 2006 n. 3622. Procedimenti speciali - Patteggiamento - Richiesta - Revocabilità fino al perfezionarsi dell’accordo - Regola generale - Previsione di cui all’art. 447, comma terzo, c.p.p. - Carattere particolare e circoscritto. La parte che abbia avanzato richiesta di applicazione della pena, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., può sempre revocarla, fino a che l’altra parte non abbia espresso il proprio consenso, salvo che nella particolare e circoscritta ipotesi prevista, per il caso di richiesta formulata nel corso delle indagini preliminari, dall’art. 447, comma terzo, cod. proc. pen. • Corte cassazione, sezione V penale, sentenza 23 aprile 2004 n. 19123. Roma: "Fine pane mai", i detenuti del carcere di Rebibbia diventano panettieri di Emiliano Moccia Corriere della Sera, 15 maggio 2017 Il carcere è un po’ la sua "seconda casa". Per questo, l’unico posto in cui aprire una panetteria non poteva che essere all’interno della Terza casa circondariale di Rebibbia a Roma. Perché Claudio Piunti il carcere lo conosce bene e lo ha frequentato a lungo. "Ci ho dormito per 23 anni". Ex terrorista appartenente alle Brigate Rosse, condannato a 32 anni, Piunti nel 2001 ha ricevuto la condizionale e nel 2005 ho finito di scontare completamente la pena. Una volta saldato il conto con la giustizia ha iniziato a lavorare come cuoco. Per questo, non poteva essere che lui il coordinatore e l’anima de "La Terza bottega: fine pane mai", la prima panetteria in Italia e forse in Europa nata tra le mura di un carcere con vendita aperta al pubblico. I prodotti, infatti, vengono realizzati direttamente dai detenuti coinvolti nel progetto in un modernissimo laboratorio allestito nel penitenziario di Rebibbia e venduti ai clienti che accedono nel carcere accorciando così le distanze tra il mondo di fuori e quello di dentro. "Vogliamo farci cercare per le cose buone - ha detto Piunti - e avvicinare la gente del quartiere a queste mura di cinta, per annullare le distanze tra buoni e cattivi. Ma chi saranno i buoni e chi i cattivi?". Il progetto "Fine pane mai", che già attraverso il nome prova a rovesciare l’espressione usata per la condanna all’ergastolo nella necessità di non terminare mai il pane né per chi lo mangia, né per chi lo produce, ha impiegato più di due anni per realizzarsi. Ma dallo scorso mese di aprile, in via Bartolo Longo 82, proprio tra le mura del struttura penitenziaria, otto detenuti sono impiegati nella panetteria con regolare contratto di lavoro. Anche se l’obiettivo è di incrementare il fatturato e di assumere venti unità, coinvolgendo come commesse anche le detenute della sezione femminile. L’iniziativa, del costo complessivo di oltre 2 milioni di euro, è stata finanziata con 800 mila euro della Cassa delle ammende del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Il rimanente è stato raccolto con un cofinanziamento tra i Panifici Lariano e Farchioni Olii, che si occupano degli stipendi, di fornire le materie prime e si sono occupati del punto vendita. Prima di aprire e lavorare nella bottega di "Fine pane mai", i detenuti "hanno frequentato per sei mesi un corso per panificatori e poi i successivi aggiornamenti", ha spiegato suor Primetta Antolini, della Congregazione Francescane Alcantarine, che attraverso la sua associazione "Mandorlo in fiore" ha fortemente sostenuto questo progetto. L’attività in panetteria inizia sin dalle prime luci dell’alba, quando, all’interno del laboratorio, gli otto detenuti si mettono al lavoro per l’impasto, la preparazione e la cottura di pane, pizza, primi e biscotti, che saranno poi rivenduti al pubblico durante la giornata. "È giusto che chi sbaglia debba pagare - ha evidenziato Valentino Petrone, proprietario da tre generazioni della Panifici Lariano - ma una volta pagato bisogna fare il possibile per aiutarli a reinserirsi in società. L’obiettivo di questa iniziativa sociale è dare formazione e lavoro, per permettere ai detenuti di ricostruirsi una vita". Latina: da detenuti ad arbitri, il progetto per imparare i valori dello sport in carcere ilcaffe.tv, 15 maggio 2017 Insegnare i valori fondanti dello sport, come il rispetto delle regole e la lealtà. Diventare arbitri e quindi non solo conoscere i regolamenti ma anche saper farli rispettare. Sono questi i pilastri del progetto che l’Unione sportiva Acli della provincia di Latina, in collaborazione con quella della Capitale, hanno attivato dal 19 aprile scorso nel carcere di Velletri. Due appuntamenti settimanali, pensati sia per i detenuti che per gli stessi operatori carcerari. Uno dedicato allo sport e all’attività fisica, l’altro più teorico, in cui a un gruppo selezionato di detenuti vengono insegnati i fondamentali del calcio e le norme che regolano il gioco. "Il fine del corso - ci spiega la psicologa Roberta Longo, coordinatrice del progetto - non è tanto quello di rilasciare loro l’attestato da arbitro (le realtà sportive più importanti non permettono l’esercizio di quel ruolo in caso di precedenti penali - ndr) quanto dare sempre più forza a quella funzione rieducativa che deve avere la pena detentiva. Questi uomini se sono in carcere è perché hanno sbagliato ma anche attraverso questi percorsi riescono a imparare il valore delle regole, che conoscono e padroneggiano tanto da essere in grado di farle attuare". Un progetto che parte da lontano quello dell’Us Acli, che già nel dicembre del 2016 aveva inviato nella struttura di detenzione un proprio iscritto per arbitrare un torneo di calcetto. Un programma sinergico che vede la presenza di un arbitro di calcio e di un preparatore atletico, coordinati e assistiti dalla psicologa responsabile. Interessante anche il coinvolgimento degli operatori carcerari: "Spesso ci si dimentica del loro ruolo fondamentale e dello stress che un lavoro del genere comporta, dal punto di vista fisico ma soprattutto mentale - spiega ancora Longo - stiamo parlando comunque di uomini e donne che passano la gran parte della loro giornata in un luogo di detenzione". Il progetto, costato solo due mila euro con i fondi che sono stati ricavati da quelli raccolti dalla Acli attraverso il 5 per mille, si concluderà nel mese di giugno con i responsabili intenzionati a riproporlo anche nella casa circondariale di Latina. Benevento: migranti, detenuti e cittadini insieme per ripulire Capodimonte dal degrado ntr24.tv, 15 maggio 2017 Ieri mattina seconda tappa delle "Giornate Ecologiche" organizzate dal Comune. Il sindaco ha ribadito la scarsa disponibilità di risorse economiche destinate al verde pubblico e ha invitato tutti a collaborare. Non mancano, però, le polemiche. Migranti, detenuti, scout, cittadini e rappresentanti del Comune, tutti insieme per ripulire il quartiere Capodimonte da degrado e incuria. Nel segno della collaborazione e dell’integrazione. Questo il messaggio lanciato stamattina in occasione della seconda tappa delle Giornate Ecologiche a Benevento. Un’occasione da parte dell’amministrazione comunale targata Mastella per ribadire la scarsa disponibilità di risorse economiche destinate al verde pubblico in conseguenza del dissesto finanziario dell’Ente, ma anche per invitare i beneventani a tenere puliti gli spazi pubblici avendo a cuore l’immagine e il decoro della città. Non sono però mancate le polemiche. L’associazione Io x Benevento è intervenuta sul posto per stigmatizzare - come scrive in una nota il presidente Giuseppe Schipani - la "chiara e strategica attività politica promossa" con questa iniziativa. "La Città di Benevento - ha aggiunto - ha bisogno di servizi, i cittadini onorano tariffe tra le più onerose d’Italia e il Sindaco deve chiarire il proprio ruolo, deve dire alla Città se si è candidato per fare il presidente della Proloco organizzando feste e passerelle, se vuole essere un volontario di un’associazione o fare l’amministratore, e quindi occuparsi di risolvere i problemi che attanagliano la Città con gli strumenti istituzionali". Dello stesso avviso l’Assemblea Popolare Rione Libertà che parla di ennesima pantomima, aggiungendo che il dovere degli amministratori è quello di garantire servizi. Palermo: dal carcere Pagliarelli la storia del riscatto di una detenuta di Ambra Drago meridionews.it, 15 maggio 2017 "Spero che i miei sbagli siano da monito per altri". Tra corsi di cucina e di teatro, con una recita prevista al Biondo per l’1 giugno, dalla casa circondariale di Palermo si mira alla risocializzazione. Una ragazza romena che sta scontando una pena di undici anni e mezzo racconta la sua biografia. Col desiderio di riabbracciare i suoi genitori e avere un lavoro onesto. "Inizialmente lavoravo i campi, raccoglievo arance, carciofi per pochi euro. Poi, la voglia di sentirmi come le altre ragazze della mia età, mi ha fatto commettere un reato terribile, un sequestro e per questo ho già scontato nove anni. Ancora prima di riabbracciare il mondo esterno dovrò attendere ancora due anni e mezzo". Così inizia il racconto a Meridionews di una delle tante detenute, una ragazza romena di 30 anni, che si trovano nella sezione femminile del carcere del Pagliarelli, struttura costruita negli anni ‘80 e consegnata nel 1996. "Sono entrata a giugno dell’anno scorso - continua la giovane - dopo aver girato Lecce e Catania. Devo dire che qui mi trovo bene, sia con le mie compagne di cella, siamo in tutto quattro, sia con le agenti della polizia penitenziaria che non mi hanno mancato mai di rispetto e che seguono me e le altre detenute nelle nostre attività quotidiane". All’interno della casa circondariale si svolgono tante attività che mirano alla risocializzazione del detenuto ed è in questa occasione che questa ragazza dalla corporatura esile e dai capelli molto lunghi ha raccontato la sua storia e la sua voglia di cambiamento. "Io ho partecipato a molti corsi, tra gli ultimi quello caseario e il mercoledì quello di teatro - il 1 giugno reciteremo al Biondo -, sono utili per aiutarci nella risocializzazione e per farci maturare. Adesso attendo con ansia il corso di riflessologia plantare, mi incuriosisce molto. Grazie a queste attività possiamo sentirci in qualche modo liberi". È un fiume inarrestabile di parole e di emozioni. "Per me è importante parlare di quello che ho commesso in passato che possa servire da monito per gli altri affinché non facciano scelte sbagliate. Io per un colpo di testa mi trovo qui tra queste mura. Ma voglio precisare che ho capito i miei sbagli e voglio trovare un lavoro onesto, guadagnato con il mio sudore". Prima di essere accompagnata nella sua cella grande poco più di 9 metri, con un gran sorriso svela il suo più grande sogno una volta conquistata la libertà. "Non desidero né uno smart-phone né un biglietto per fare un viaggio intorno al mondo. Il mio più grande desiderio - conclude la ragazza - è tornare a vivere con la mia famiglia in campagna che adoro perché mi ricorda la mia terra di origine, coltivando un mio giardino e circondandomi di tanti animali e poi completare il mio percorso scolastico conseguendo il diploma". Bolzano: Università, la nuova casa dentro il vecchio carcere di Paolo Campostrini L’Alto Adige, 15 maggio 2017 Il nuovo penitenziario che sarà realizzato a Bolzano sud libera spazi in via Dante Caramaschi: "Il centro sarà percorso da una direttrice urbana della cultura". La Lub (la libera Università di Bolzano fondata nel 1997) finirà in carcere. È questa l’idea su cui si sta lavorando in Provincia. No, non si tratta di inchieste giudiziarie ma di un progetto urbanistico che prevede, una volta conclusi i lavori del nuovo polo carcerario a Bolzano sud, di installare in via Dante una nuova facoltà e (forse) uno studentato. Entusiasta Renzo Caramaschi: "Il centro storico sarà percorso da una direttrice urbana della cultura che da via Cassa di Risparmio, col nuovo museo in arrivo, toccherà il Museion e, prima di ponte Druso, l’Università". Il progetto sta accelerando. E il perché è legato a due ragioni, tutte contrattuali. La prima è che è stato sbloccato l’iter ministeriale per il project financing, il partenariato pubblico-privato (costo 72 milioni per 18mila metri quadri e concessione agli aggiudicatari) che sta alla base dello scambio Stato-Provincia: quest’ultima costruirà il nuovo carcere, Roma cederà l’area del vecchio. Il piano nazionale prevedeva la consegna dell’opera nel 2016 ma alcuni ricorsi delle ditte che avevano partecipato al bando indetto da palazzo Widmann e lo storno dei finanziamenti governativi l’hanno fatta slittare. Ora, finalmente c’è una data certa: giugno 2018. L’altra ragione risiede nella parallela accelerazione dei piani di intesa per la cessione delle aree militari alla Provincia. "Stiamo per concludere positivamente il passaggio di molte caserme dal ministero della Difesa a noi" conferma Thomas Mathà, che dirige la ripartizione provinciale che si occupa di contratti pubblici, l’agenzia degli appalti. Per Bolzano significa che diverrà patrimonio territoriale la caserma Huber di viale Druso. È in questa prospettiva che, alcune settimane fa, il rettore della Lub, Paolo Lugli, aveva immaginato di portare lì la nuova facoltà di Ingegneria. Un corso ritenuto strategico dalla Provincia stessa: "È così - argomenta Mathà - per una semplice ragione: Innsbruck non la possiede e Bolzano potrebbe aumentare la sua attrattività internazionale". Sì a Ingegneria e sì ai necessari nuovi spazi pubblici per ospitarla, dunque. Ma con una variante in corso d’opera: l’installazione avverrà in via Dante e non in via Druso. Con due motivazioni di fondo. La prima è che l’area di via Dante si libererà prima: se nel 2018 è prevista la consegna del nuovo polo carcerario, è probabile che già dall’anno successivo si potrà avviare la ristrutturazione delle vecchie celle. La Huber, invece, passerà alla Provincia in uno scenario più lontano e i suoi spazi verrebbero ritenuti funzionali ad operazioni immobiliari legate a edifici di tipo sociale tanto che l’Ipes ha inserito l’area nei suoi possibili programmi costruttivi a lunga scadenza. La seconda ragione è logistica. Un conto è alloggiare gli studenti in fondo a via Druso, un altro in pieno centro. Che la Provincia stia posizionando tutti i tasselli per offrire un contenuto prestigioso al contenitore ultimamente degradato in fondo a via Dante, era forse già scritto. Basta rileggersi il profilo urbano e storico che ne aveva tratteggiato il ministero a Roma quando si era trattato di avviare, nel lontano 2010, l’iter del piano carceri: "Si tratta - scrive la nota - di un edificio austro-ungarico che risale alla fine dell’Ottocento, situato in pieno centro storico ma che, alla luce del piano stesso, non possiede spazi per sale di socialità e ambienti per lavorazioni". Un luogo, insomma, che col carcere non c’centra nulla. Ma invece molto adatto ad ospitare, per la sua raffigurazione storica e urbana, istituzioni legate alla vita culturale della città. Milano: recita teatrale al carcere di Opera per costruire una scuola a Cascia Corriere della Sera, 15 maggio 2017 I detenuti del Teatro Stabile metteranno in scena due opere di Pirandello. L’iniziativa in collaborazione con la Fondazione Rava per aiutare i bambini colpiti dal terremoto in Centro Italia. Il carcere accende le luci e apre porte al teatro per beneficenza. Mercoledì 24 maggio la casa di reclusione di Opera ospiterà una serata intensa e ricca di contenuti: i detenuti del Teatro Stabile del carcere metteranno in scena due opere di Pirandello - "La patente" e "Bellavita" - in una iniziativa di solidarietà il cui ricavato sarà devoluto a favore della Fondazione Francesca Rava per la costruzione della scuola media di Cascia, nell’ambito dell’impegno di ricostruzione di scuole per i bambini colpiti dal terremoto in Centro Italia e per i bambini disabili della Casa Nph in Repubblica Dominicana. Un’occasione straordinaria di entrare in un carcere di massima sicurezza come l’istituto di Opera, il quale ospita circa 1.300 detenuti, prevalentemente definitivi con pene residue superiori ai cinque anni e all’interno del quale sono previste diverse attività scolastiche, lavorative, sportive, di formazione professionale, culturali, artistiche sportive e teatrali. La serata suggella anche la collaborazione tra la Fondazione Francesca Rava e la casa di Reclusione di Milano. Già nel dicembre 2010, infatti, il Teatro del carcere aveva aperto le proprie porte per una serata speciale a favore della Fondazione per i bambini di Haiti colpiti dal devastante terremoto. Lo spettacolo del 24 maggio, diretto da Francesco Guerrieri, psichiatra e regista, rappresenta un percorso di crescita umana e artistica dei detenuti, per i quali il teatro rappresenta un luogo terapeutico e privilegiato per sperimentare ed esprimere relazioni. L’accesso alla struttura è previsto a partire dalle 19: il personale della polizia penitenziaria accompagnerà gli ospiti nelle zone allestite per l’occasione all’interno della struttura. La partecipazione alla serata richiederà il rigoroso rispetto di alcune regole per l’ingresso all’interno del carcere. È necessario registrarsi all’ingresso arrivando muniti del documento di identità ed è necessario avere aderito in precedenza alla serata (entro e non oltre venerdì 19 maggio), avere comunicato i propri dati anagrafici e avere effettuato la donazione di 20 euro. Per info e prenotazioni : eventi@nph-italia.org, tel.02/5412 2917. Roma: a Fiumicino l’incontro "Vite Sospese. Minori in carcere e carceri minorili" evensi.it, 15 maggio 2017 Vite sospese. Un percorso di conoscenza tra detenzione e libertà. "L’Alternativa Onlus" e il "Movimento Nonviolento - Centro territoriale del Litorale romano", in collaborazione con l’Autorità Garante per i diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza del Comune di Fiumicino, propongono un ciclo di seminari aperto a tutte e tutti alla scoperta di un mondo poco conosciuto: quello delle carceri e delle persone che vi sono detenute. Questo, dedicato al tema "Minori in carcere e carceri minorili" è il quarto incontro e vedrà come ospiti esperti delle associazioni "Antigone", "Il Viandante" e "Punto D" tutte impegnate a vario titolo in ricerche e progetti specifici accanto ai detenuti. "Vite Sospese" tra la libertà e la detenzione, tra il perdono e l’esclusione. Sospese in un limbo che è insieme temporale, fisico, psicologico. Attraversate le sbarre, la libertà, prima negata, non viene poi sempre riconquistata: il peso della detenzione può divenire un fardello troppo opprimente: c’è chi sceglie la morte in prigione, chi cade in depressione fuori. Inoltre, più di due terzi delle persone che escono dal carcere commettono nuovi reati. Tutti fattori che denunciano nella maniera più evidente il fallimento dell’istituzione carcere. Si può trovare un’alternativa? Cosa sappiamo delle vite sospese? Cosa avviene all’interno delle carceri e quali sono i diritti dei detenuti? Può la società stipulare con loro un patto di reciproca responsabilità? Domande impegnative, ma riteniamo che qualsiasi risposta debba partire da un principio comune: "L’essere umano è degno perché tale, e non per quel che fa o ha fatto". Dare voce alla dignità di queste vite sospese. Di donne e uomini, detenute e detenuti, costretti alla reclusione tra muri delle carceri; isolati e alienati - ma soprattutto colpevolmente dimenticati - dalla società fino all’espiazione del proprio reato. Iniziare a conoscere e far conoscere il significato di una "vita sospesa" nel momento in cui, riconquistata la sua libertà, essa fa nuovamente ingresso in una società con la quale erano stati abbattuti ogni ponte, ogni possibilità di contatto. Questi sono i principali motivi che ci hanno reso persuasi della necessità di dar vita al ciclo di seminari che qui presentiamo, nei quali saranno nostri ospiti diverse personalità, figure istituzionali e realtà associative che operano nel campo. Per non poter dire, un giorno: "Noi non sapevamo". Per immaginare coralmente metodi e iniziative per ricostruire ponti e legami tra detenzione e libertà. Migranti. Il virus invisibile del razzismo di Federico Tulli Left, 15 maggio 2017 Probabilmente, se il 7 maggio scorso il giovane maliano di 31 anni non avesse deciso di suicidarsi lungo i binari in prossimità della Stazione centrale di Milano, davanti a centinaia di passeggeri dei treni in transito, la sua morte non sarebbe finita sui giornali. Era uno dei tanti cittadini stranieri "invisibili" che vivono in Italia nei centri di accoglienza con il permesso di soggiorno per protezione internazionale (circa 180mila, fonte "Rapporto Osservasalute 2016"). Le cronache riportano che la sua identificazione è stata possibile grazie al rilievo delle impronte digitali. Era nel nostro Paese da almeno un anno e mezzo. E il suo permesso di soggiorno per motivi umanitari era in corso di rinnovo a Modena. Si era lasciato alle spalle un Paese che dal 2012 è lacerato da un conflitto alimentato, specie al nord e da qualche tempo anche al centro, da gruppi di miliziani jihadisti legati ad Al Qaeda. L’invisibile di Milano era un migrante forzato, uno degli oltre 5mila cittadini maliani arrivati in Italia tra il 2015 e i primi mesi del 2016 per fuggire alle atrocità della guerra. La cause del gesto estremo sono ignote ma fanno inevitabilmente pensare a una grave depressione ed è lecito chiedersi se poteva essere evitato e se il disagio del ragazzo era stato intercettato e adeguatamente seguito nelle strutture in cui ha vissuto. La salute - compresa quella mentale - non è solo un diritto costituzionale, è un diritto umano. Peraltro è pur vero che a volte la diffidenza e la paura di essere rimpatriati, alimentate da campagne stampa xenofobe, nonché una scarsa conoscenza del nostro sistema sanitario, spinga gli stranieri in difficoltà lontano da chi potrebbe curarli. Per fare chiarezza su quali siano le problematiche da affrontare nell’approccio medico con i migranti rifugiati o richiedenti asilo, Left ha rivolto alcune domande a Rossella Carnevali, psichiatra e psicoterapeuta. Certe esperienze possono minare la salute di un individuo in misura molto profonda? "Certo, ma questo non basta altrimenti i migranti che arrivano in Italia dopo aver sfiorato la morte ogni secondo del loro viaggio dovrebbero ammalarsi tutti, invece non è così. A seconda della storia di vita e dello sviluppo dell’identità, ogni essere umano è in grado di resistere in misura maggiore o minore agli eventi avversi o traumatici o alle delusioni e quindi cadere o meno nella malattia. La migrazione, in quanto cambiamento radicale della vita dell’individuo, rappresenta di per sé un fattore stressante ma la reazione a tale evento non è sempre patologica e dipende da diversi fattori, individuali e non". Ciò detto, aggiunge Carnevali, "gli immigrati hanno una vulnerabilità alle patologie mentali maggiore rispetto a quella della popolazione ospitante: un rifugiato su 10 soffre di disturbo postraumatico da stress (Ptsd), uno su 20 di depressione, e maggiore è anche l’incidenza di schizofrenia tra gli immigrati di I ma soprattutto di II generazione". Migranti. Da Roma e Berlino un segnale importante di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 15 maggio 2017 Il messaggio è fin troppo esplicito: l’Ue deve inviare una missione alla frontiera fra Niger e Libia per contrastare gli ingressi illegali in Europa. Il contenuto è certamente rilevante, ma ancor più significativa appare la decisione di muoversi insieme. Perché la lettera firmata dai ministri dell’interno tedesco Thomas de Maizière e italiano Marco Minniti inviata l’11 maggio alla Commissione europea, segna una svolta nei rapporti di forza all’interno dell’Unione. Mai era accaduto che i due Paesi prendessero un’iniziativa congiunta in materia di immigrazione senza coinvolgere altri Stati. E soprattutto mai era successo che fosse la Germania a proporre all’Italia di muoversi in tandem. Anzi. Sinora da Berlino era più volte arrivata una presa di distanza da Roma, con ripetuti "richiami" a fare di più nell’assistenza ai profughi. Per questo si tratta di una mossa importante, che richiama i partner ad occuparsi di un’emergenza diventata con il trascorrere dei giorni sempre più grave. Il messaggio è fin troppo esplicito: l’Ue deve inviare una missione alla frontiera fra Niger e Libia per contrastare gli ingressi illegali in Europa. Vuol dire proteggere i confini meridionali dello Stato africano che i migranti attraversano per arrivare sulla costa e imbarcarsi alla volta dell’Italia. Vuol dire investire soldi e uomini in un progetto che può davvero rappresentare il primo passo decisivo per fermare quelle persone che attraversano l’area subsahariana alla disperata ricerca di una nuova vita. Dopo l’accordo tra le tribù della zona siglato al Viminale più di un mese fa, de Maizière ha avuto svariati contatti con Minniti per concordare una linea comune che consentisse di esercitare pressioni su Bruxelles. E ieri i giornali tedeschi hanno reso pubblico il testo della missiva. È l’atto che potrebbe convincere l’Unione - apparsa finora impegnata soltanto a parlare del problema, ma mai davvero convinta ad agire - a cambiare strategia. Migranti. Il Mediterraneo dei diritti perduti di Donatella Coccoli Left, 15 maggio 2017 Nel mare al largo della Libia, nella notte tra il 6 e 7 maggio, il radar permette di capire ciò che sta accadendo in quel preciso momento meglio di un qualsiasi rapporto ufficiale. Nell’immagine del tracciato - pubblicato da La Stampa - si vede un grande punto verde al centro, la nave della Ong, e una trentina di puntini gialli, i gommoni con i migranti che si avvicinano fino a circondare l’imbarcazione umanitaria. Nessuna traccia dei mezzi targati Frontex. L’agenzia europea che ha il compito di presidiare le coste, non c’era con i suoi mezzi in quel braccio di mare del Mediterraneo centrale ormai segnato da una lunga scia di sangue. Eppure il primo fine settimana di maggio è stato eccezionale per il numero di partenze dalle coste libiche. Oltre 7mila persone hanno attraversato il Mediterraneo per raggiungere l’Italia e domenica 7 maggio, secondo quanto ha riferito l’Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni) in un naufragio si sono salvate 7 persone mentre 113 sono quelle disperse. Un’ennesima tragedia che porta, secondo l’Unhcr il numero delle vittime dall’inizio dell’anno a oltre 1150. Sui gommoni fatiscenti - a cui gli scafisti tolgono anche il motore in vicinanza delle imbarcazioni delle Ong - viaggiano 100-150 persone e a bordo, a differenza di qualche tempo fa, non ci sono telefoni satellitari. Rintracciare quei puntini gialli diventa così sempre più difficile da parte di chi effettua attività di soccorso in mare. Siamo di nuovo in una fase di emergenza, tenendo conto che sono già oltre 43mila gli arrivi nel 2017? "Così non può continuare", scrive in una nota ufficiale Filippo Grandi, l’Alto commissario Onu sui rifugiati. Che chiede di "affrontare le motivazioni alla base delle migrazioni" e di offrire "alternative sicure a queste pericolose traversate" a tutte quelle persone che hanno bisogno di protezione internazionale e che vogliono raggiungere l’Europa o per ricrearsi una vita lontano dalle guerre e dalla fame o per ritrovare i familiari partiti prima di loro. Le Ong criminalizzate - L’escalation di sbarchi avviene in un momento particolare. Da qualche settimana nei confronti delle Ong, dopo le dichiarazioni del procuratore della Repubblica di Catania Carmelo Zuccaro, infuria quella che Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international Italia non esita a definire una campagna mediatica "fatta di insinuazioni, sospetti, attacchi senza prove concrete". Il rischio è quello di delegittimare e stigmatizzare l’attività di quelle organizzazioni non governative che hanno sostituito in qualche modo Mare nostrum, l’operazione di salvataggio promossa dal governo Letta subito dopo la tragedia del 3 ottobre a Lampedusa e terminata il 31 ottobre 2014, quando subentrò la missione Triton di Frontex, che, però, non ha come obiettivo la ricerca e il salvataggio. E gli effetti si vedono. Nel rapporto 2016 della Guardia costiera, le Ong hanno salvato 46.796 persone nel Mediterraneo centrale, la sola Frontex (eccetto unità italiane) 13.616. "Se si cominciasse a sequestrare le imbarcazioni e a criminalizzare le attività delle singole persone a bordo delle navi umanitarie, questo vorrebbe dire oltre al danno la beffa", continua Riccardo Noury. Il danno, perché le Ong "volontariamente hanno preso il posto dei Paesi europei che hanno rinunciato a questa attività di ricerca e soccorso in mare" e la beffa, ovviamente, perché mentre fanno questo lavoro scomodo poi vengono penalizzate. E lo sono già, perché le donazioni stanno diminuendo e questo è un danno enorme. Il 3 maggio davanti alla Commissione Difesa del Senato il procuratore di Catania ha parlato di nuovo dei presunti legami tra organizzazioni non governative e i trafficanti di esseri umani libici. Prove concrete non ci sono ma le informazioni, ha detto Zuccaro, si basano sui dati forniti da Frontex e dalla Marina. Di un documento dell’agenzia europea si era cominciato a parlare a dicembre dello scorso anno, oggetto anche di un’inchiesta del Financial Times. Messico. Padre Alejandro: "lotto per le madri che vogliono piangere i loro figli" di Marta Serafini Corriere della Sera, 15 maggio 2017 I narcos hanno messo un milione di dollari sulla testa di padre Alejandro Solalinde. In un libro che sarà presentato anche al Salone del Libro, la sua storia. "A te che sei una donna posso dirlo. Io non ho paura della morte. Se ami e se hai fede non puoi avere paura di morire". Padre Alejandro Solalinde ha 72 anni e una taglia da un milione di dollari sopra la testa. A mettergliela sono stati i Los Zetas, potente cartello di narcotrafficanti che terrorizzano il Messico con le loro violenze. Candidato al premio Nobel per la Pace, Solalinde è un sacerdote cattolico che da anni sfida i cartelli e la polizia corrotta, denunciando le violenze subite dagli "indocumentados" e dalla popolazione locale. Difende i migranti, difende i minori, gli stessi che finiscono spesso nelle mani dei narcotrafficanti che li usano per la guerra o per il commercio di corpi. "La guerra al narcotraffico si vince solo se davvero governo e polizia decidono di combattere", spiega il sacerdote che è in queste ore in Italia per presentare il libro "I narcos mi vogliono morto" (Editrice Missionaria Italiana), scritto con la giornalista di Avvenire, Lucia Capuzzi e che dopo aver fatto tappa a Udine al Festival Vicino Lontano, il 18 sarà al Salone del Libro di Torino. A differenza delle autorità troppo spesso corrotte, Solalinde ha dedicato la sua vita a lottare contro il male. È responsabile di un centro di accoglienza a Ixtepec, città nel sud del Paese, nel quale ogni anno transitano 20 mila migranti. A preoccuparlo più della sua vita è il futuro del Messico, "Trump dice di voler alzare un muro con il Messico ma al presidente non interessa nulla dei migranti, ha in mente una sola droga, il denaro. Ecco perché credo che non cambierà poi molto nei prossimi mesi", spiega. Intanto la guerra in Messico non dà tregua. Come sottolinea anche don Ciotti nella prefazione del libro, le mafie della droga hanno ucciso, dal 2006 a oggi, circa 250 mila persone: 25 mila l’anno. Di altre 27 mila rapite, non si è saputo più nulla. Ed è anche al fianco delle madri che non sanno più nulla dei loro figli che Padre Solalinde si è schierato. "Quando le accompagni nelle fosse a cercare i resti capisci che a queste donne è rimasta solo la speranza di trovare un frammento di ossa per piangere i propri bambini, cercano il conforto del dolore. Ma oltre alla possibilità di avere giustizia vengono private anche del diritto di soffrire". Il pensiero corre a Miriam Elizabeth Rodriguez, uccisa settimana scorsa in Messico mentre si batteva per fare luce sul destino dei desaparecidos messicani. L’attivista era responsabile del "Colectivo de Desaparecidos" a San Fernando, località messicana vicina al confine con gli Usa teatro delle incursioni dei narcos. Qui, nell’agosto 2010, furono rinvenuti i corpi di 72 migranti eliminati da un gruppo criminale. E sempre in quest’area imperversano bande legate al cartello del Golfo e ai Los Zetas. "Conoscevo bene Miriam", ricorda padre Solalinde. "La sua storia è una delle molte storie di dolore del Messico, nel 2012 le avevano rapito la figlia Katia. L’ha ritrovata due anni dopo, in una fossa comune. Ecco perché Miriam aiutava le altri madri". Perché sapeva bene cosa significa non sapere. Ed è per questo che i Los Zetas l’hanno uccisa. Romania. Prosegue il dibattito interno sulla legge di depenalizzazione Nova, 15 maggio 2017 Sempre più persone in Romania affermano che il disegno di legge sulla depenalizzazione di una serie di reati non risolve i problemi esistenti nei penitenziari locali, da tempo causa delle sanzioni della Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) al paese balcanico. Dall’inizio di quest’anno, il tema della depenalizzazione ha dominato i dibattiti pubblici a Bucarest. Già dall’inverno scorso, le velleità del governo appena insediatosi, formato dal Partito socialdemocratico (Psd) e dall’Alleanza liberaldemocratica (Alde), di risolvere tramite delle misure di depenalizzazione collettive, stabilita tramite un decreto governativo d’urgenza, il problema del sovraffollamento dei penitenziari avevano suscitato il malcontento della società civile e avevano fatto scendere in piazza centinaia di migliaia di manifestanti. Le proteste, sostenute dalle critiche dell’opposizione di centrodestra, della stampa e dei partner stranieri della Romania, hanno convinto l’esecutivo a rinunciare al decreto governativo d’urgenza, e il suo promotore, l’impopolare ministro della Giustizia, Florin Iordache, a rassegnare le dimissioni. Tuttavia, dato che il problema del sovraffollamento delle carceri permane, così come continuano le sanzioni della Cedu per le condizioni precarie in cui vivono i detenuti, il tema della concessione della depenalizzazione è stato affidato al dibattito del parlamento. Accesi ma privi di risultati, i dibattiti sul disegno di legge avviato dal governo non si sono conclusi finora se non con delle nuove dimissioni, questa volta del presidente della Commissione giuridica del Senato, l’esponente socialdemocratico Serban Nicolae. Nociva per l’immagine già gravemente colpita del partito, la sua perseveranza nell’inserire il reato di corruzione tra i reati che potrebbero essere depenalizzato ha irritato persino il leader socialdemocratico, Liviu Dragnea, il quale ha disposto la sostituzione di Serban Nicolae dall’incarico di presidente della commissione e di capo del gruppo dei socialdemocratici al Senato. Nicolae sostiene che il disegno di legge, nella forma in cui è stato adottato dai senatori della commissione giuridica del Senato, sia del tutto inefficace, perché non risolve il problema del sovraffollamento dei penitenziari e non risponde ad alcuna necessità della società e neanche agli obblighi della Romania nei confronti della Cedu. Stando a Nicolae, solo 1.032 persone beneficerebbero dei provvedimenti della legge. Nello spazio lasciato libero da Serban Nicolae si è inserito l’ex capo dello stato, attualmente senatore e presidente del Partito movimento popolare (Pmp), Traian Basescu, il quale ha dichiarato che "il Partito socialdemocratico e il suo leader, Liviu Dragnea, hanno rinunciato alla questione della depenalizzazione e questo gli consentirà di sostenerla da posizioni indipendenti. "La Romania ha bisogno della depenalizzazione a favore di un numero elevato di persone, mentre la misura promossa dal centrosinistra avrà come effetto la scarcerazione di solo 433 persone e la riduzione delle pene per altre 589", ha aggiunto Basescu. L’ex presidente Basescu ha inoltre accusato Dragnea di "volere scarcerare i propri colleghi" e promette di dare una mano "a medici, professori, funzionari", quindi quei detenuti "con studi universitari", che sono finiti in carcere per atti di corruzione che sarebbero più semplici da "recuperare e reinserire nella società". La commissione giustizia del Senato ha deciso mercoledì di adottare una serie di emendamenti in base al quale i condannati per fatti di corruzione saranno esentati da pene detentive se saranno in grado saldare integralmente le somme oggetto dei procedimenti penali. In seguito a questa decisione, il presidente della Romania, Klaus Iohannis, ma anche il leader del Psd Dragnea, si sono detti "spiacevolmente sorpresi" dalla decisione dei senatori. Reazioni negative anche dalla popolazione: dopo la divulgazione della notizia, un migliaio di persone hanno protestato d’avanti alla sede gel governo. Nei giorni successivi, quindi, i senatori della commissione giustizia hanno ripreso il dibattito e votato gli ultimi emendamenti che rimuovono i reati di corruzione e traffico d’influenza dal progetto di legge.