Costruire cose buone. Pregiudizi e giudizi sulla cattiveria degli uomini di Agnese Moro La Stampa, 14 maggio 2017 La domanda "Cattivi per sempre?", titolo del bel libro di Ornella Favero - giornalista e direttrice della rivista "Ristretti Orizzonti" del carcere Due Palazzi di Padova (che è anche sito internet, agenzia di informazioni, centro di documentazione e tanto altro) - è una domanda importante. La risposta che le si dà esprime il nostro modo di concepire il peso distruttivo del male su chi lo compie e sugli altri, l’atteggiamento da tenere con chi ha sbagliato, la fiducia o meno nella sua possibilità di tornare rinnovato tra noi. È un libro che prende una posizione: non è detto che si sia cattivi per sempre, o che l’umanità venga distrutta irrimediabilmente dal male commesso. È la stessa posizione della nostra Costituzione per la quale la pena è finalizzata a una rieducazione sempre possibile, o comunque sempre da tentare. Il libro prende posizione, ma non è un libro a tesi, né una requisitoria. È piuttosto un libro che ci invita a porci di nuovo la domanda "Cattivi per sempre?" dopo aver ascoltato le voci che ci giungono dal carcere, dopo aver incontrato storie e la materialità di reclusioni che, soprattutto nei cosiddetti Circuiti di Alta Sicurezza, sono decisamente più terribili di quello che pensiamo. Le voci dei detenuti, senza alcuna retorica e senza la volontà di farsi compiangere o di attirare benevolenza, mettono in luce quanto sia contraddittoria in troppi casi la pena effettivamente erogata, rispetto alle finalità rieducative che essa dovrebbe avere. Le voci sono quelle dei colpevoli e delle loro famiglie, famiglie spesso inascoltate e per le quali seguire qualcuno detenuto in strutture di Alta Sicurezza richiede gravi sacrifici. Ma le voci che il libro ci fa ascoltare sono anche quelle dei professori e soprattutto degli studenti che, negli anni, sono stati coinvolti dalle loro scuole e dalla rivista "Ristretti Orizzonti" in un dialogo - a scuola e in carcere - con i colpevoli i quali cercano di spiegare loro, attraverso difficili testimonianze di vita, quanto possa essere facile sbagliare strada, un piccolo passo alla volta. Nella speranza che i giovani che li ascoltano possano non fare gli stessi errori. Per leggere questo libro bisogna saper ascoltare, e farlo è sempre doloroso e difficile. Bisogna disarmarsi, almeno per un momento, delle proprie convinzioni, certezze, pregiudizi e cercare di capire. Senza fretta di giudicare. Sport in carcere. Rimettersi in gioco dietro le sbarre di Giorgia Magni Avvenire, 14 maggio 2017 Le attività svolte nelle strutture penitenziarie, non devono caratterizzarsi come la versione dietro le sbarre di qualcosa che esiste al di fuori. Lo sport è di per sé un ambito che consente di non sentirsi diversi, lo è all’esterno e, con un valore aggiunto, lo è all’interno delle carceri". Luigi Pagano, Provveditore regionale alle carceri e per 16 anni direttore della Casa Circondariale di San Vittore, ha così dipinto una delle sfumature dello sport praticato nei penitenziari: la percezione di normalità, valore prezioso per chi si trova recluso. Eppure è complesso provare a spiegare all’opinione pubblica, quanto sia necessario che l’attività fisica venga svolta con progettualità nelle carceri e Pagano, con un passato nel calcio dei professionisti vestendo la maglia della Turris, prova a chiarirne l’importanza su più livelli. "Lo sport in carcere è importante tanto quello praticato fuori, per quel che rappresenta dì per sé: benessere psico-fisico, ma anche e forse soprattutto, la possibilità dì organizzare una squadra, riconoscere un molo agli altri, fidarsi del compagno, rispettare delle regole, condividere successi e insuccessi, faticare per uno scopo, ma anche godere del semplice giocare, vivendo anche sano agonismo perché no, e una partecipazione". Porte di questo il Provveditore si è fatto promotore delle attività sportive nelle carceri, soprattutto nei suoi anni da direttore a San Vittore, dove trovò la collaborazione di Candido Cannavò, compianto ex direttore di La Gazzetta dello Sport, che nel carcere milanese aveva ricavato un piccolo ufficio dove si chiudeva a lavorare, scrivendo di quel luogo, delle persone che incontrava e conosceva, per le quali si è sempre speso organizzando eventi sportivi, tornei, incontri con i campioni e manifestazioni di rilievo. "Un amico che manca molto - dice sorridendo Pagano. Era un cronista di razza innamorato delle attività con i detenuti, un uomo che qui ha consumato le scarpe a furia di camminare per i corridoi, che ha annusato e vissuto San Vittore, restandoci anche sino a notte fonda per scrivere, rimproverando tanto i detenuti quanto i magistrati". In quegli anni partì a San Vittore il primo progetto "Sport e Carcere" targato Csi Milano, voluto dal presidente provinciale Massimo Achini e dal compianto Gianni Spiriti, Quell’idea, oggi, è diventata la straordinaria consuetudine di un campionato di calcio provinciale nel quale militano, accanto a centinaia di società milanesi, anche San Victory Boys, squadra di San Vittore, e Alba, squadra del carcere di Monza, entrambe vincitrici di diversi campionati provinciali. Normalità, dunque, e molto altro: "Questi campionati consentono di portare un pezzo di società all’interno di questo quartiere di Milano, come lo definiva Umberto Gay - prosegue Pagano - ciò significa che i detenuti hanno la possibilità di ricreare contatti sociali importanti, ancor più validi nella misura in cui i giovani che entrano a giocare, non si risparmiano, non tirano indietro la gamba, ma lottano fino in fondo per vincere, in caso contrario si abbassa il valore umano dell’esperienza e si mortifica l’avversario". Una riflessione questa che suona come un monito per gli oltre 600 atleti delle società milanesi che hanno preso parte al progetto "Sport e Carcere" Csi nella stagione in corso. Per quantificare l’attività sportiva nelle carceri lombarde, si può fare riferimento ad un’indagine svolta dal Partito Democratico in Regione Lombardia, su spinta di Fabio Pizzul (consigliere regionale del PD e membro della Commissione Speciale sulle Carceri). L’indagine condotta da Marco Chiappa, Alberto Crescentini e Antonella l’auro in 13 istituti aderenti su 18 carceri totali presenti in regione, mostrava come nel 2014 a fronte di un aumento dell’attività praticata, non variasse la qualità degli spazi e delle attrezzatture a disposizione, insufficienti e non adeguate, e come, anche al netto di un sovraffollamento che comunque è realtà, non ci sarebbe spazio per consentire la pratica sportiva di tutti i detenuti. Nella premessa i curatori scrivono: "Lo sport rappresenta un’opportunità di sperimentarsi in ruoli differenti e di riconsiderare la necessità dell’impegno. Le ricerche mostrano come vi sia un effetto sul benessere generale legato alla pratica sportiva e come la presenza di attività riduce la recidiva". Ecco il valore aggiunto che citava Pagano: laddove lo sport nella società ha una funzione educativa, nel carcere si scopre rieducativo, in grado di spogliare un detenuto dalla visione che lo lega come persona solamente al suo reato, e ri-vestendolo nuovamente di caratteristiche e capacità che riscopre attraverso l’attività. "Facciamo un esempio -spiega Pagano - un ladro non deve essere visto in toto come un ladro, ma come una persona dai mille aspetti, che tra le tante cose, sbagliando, ha rubato". Percìié non pensare che proprio lo sport possa diventare un viatico per il reinserimento in società? "Abbiamo ragionato sullo sport come possibile via al reinserimento - spiega Pizzul- ad esempio ad Opera hanno sperimentato corsi per ottenere il patentino da istruttori sportivi, da spendere poi come competenza maturata; ma il tema del reinserimento è estremamente delicato e se lo sport può dire qualcosa, purtroppo non può essere elemento centrale, ma solo un complemento importante laddove esistono prima di tutto le necessità primarie di base, un lavoro, una casa". Reinserimento. A sentire questa parola il Provveditore, Luigi Pagano, mette sul tavolo un po’ di amarezza, frutto forse dell’odierno contesto sociale dove molti reati sono figli della miseria, o forse frutto dell’esperienza maturata sin dagli anni 80, e sviscera un paradosso sul rientro nella società. "Non dò colpe né giudico, le mie sono solo constatazioni, ma va detto che all’interno delle carceri oggi ci sono numerosi servizi di sostegno al detenuto, attività che sviluppano relazioni umane, che fanno emergere e valorizzano qualità positive nei singoli, come può essere lo sport per qualcuno, che fanno vivere esperienze intense. Ciò crea un’identità, una sorta di sicurezza che paradossalmente fuori di qui per molti non lo è. Escono e non si sentono nessuno. È chiaramente un problema sociale". Ma in questo contesto di attività sportive rilevanti all’interno delle carceri, come si collocano le donne? Maluccio, e Io stesso Pagano ammette che dal punto di vista sportivo "sono probabilmente trascurate", ma ci sarebbe una ragione. La popolazione femminile detenuta in Lombardia è una piccolissima percentuale. Stando ai dati pubblicati il 30 aprile 2017 dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, degli 8.084 detenuti reclusi, solo 420 sono donne e tra loro 12 sono madri con figli a seguito, in questo quadro regionale, Fabio Pizzul spiega: "Si tratta di detenute per lo più giovanissime e in molti casi con problemi importanti di tossicodipendenze. È vero, in effetti c’è meno attività organizzata per loro, ma perché è molto complesso riuscire a trovare la giusta modalità per organizzarla". Va detto che la fisicità di un uomo è spesso predominante, e va da sé che attività quali il calcio o il rugby, siano molto praticati nelle carceri: "Tutta l’energia che sfogo nelle partite, tirando calci al pallone, correndo per il campo, è tutta energia che accumulo e che ho assoluto bisogno di sfogare". Così ha raccontato un detenuto del carcere di Monza, ed è facile capire come la possibilità di incanalare in modo positivo la propria energia fisica nello sport, possa essere estremamente funzionale per evitare che questa si scarichi in insofferenza e violenza, soprattutto in contesti di sovraffollamento, concorrendo così a portare benefìci anche nei rapporti interni tra detenuti. È dunque fondamentale trovare il modo di finanziare progetti sportivi nelle carceri, sino ad oggi sostenuti da fondazioni, privati, o Enti di promozione sportiva. Il Csi Milano si è appena preso carico di riqualificare un passeggio nel carcere di Monza, per consentire un’attività all’aperto, sia di basket che dì pallavolo. Fondazione Cannavo ha messo la propria firma sulla riqualificazione di diversi spazi per lo sport, a San Vittore e ad Opera ad esempio. C’è poi la Regione, che sostiene attraverso l’apertura dì bandi, alcuni progetti sociali legati alle strutture detentive, Fabio Pizzul, dal 2012, ha deciso di dare il via ad una strada parallela che soddisfi il bisogno dì far capire con intelligenza l’importanza del sostegno allo sport nei penitenziari: "Da cinque anni organizziamo la settimana dello sport in carcere che aggrega diverse realtà e che per questo nel 2017 è prevista a settembre - ha concluso il consigliere. Andremo a ragionare di contributi possibili, di formazione e di valorizzazione di tutti coloro che promuovono lo sport in carcere, non solo per i detenuti ma anche, non dimentichiamolo, per gli agenti. Coinvolgeremo tutti questi soggetti affinché non sia una manifestazione calata dall’alto, dall’esterno, ma qualcosa che renda loro i veri protagonisti dall’interno". La Giustizia brucia e il ministro tace di Alessandro Barbano Il Mattino, 14 maggio 2017 La giustizia brucia, del guardasigilli non si ha notizia. Finite le primarie, finita com’è finita la battaglia congressuale, pensavamo che Orlando fosse tornato al suo posto a via Arenula. Invece no: sembrerebbe ancora fuori. Non c’è altro modo di spiegare il suo silenzio sul caso Consip. Eppure quello che sta emergendo, dopo che la Procura di Roma ha deciso di passare al setaccio il lavoro investigativo condotto dal Noe, ha aspetti di tale gravita che non si vede proprio come sia possibile per il ministro starsene alla larga. In queste settimane, intorno alla vicenda è accaduto di tutto: prima la fuga di notizie, poi la scoperta che le trascrizioni delle intercettazioni, che coinvolgevano Tiziano Renzi, erano alterate in punti decisivi, e che l’informativa del capitano Gian Paolo Scafarlo conteneva non una svista, ma una lunga serie di errori; quindi ancora la confutazione dell’ipotesi, avanzata dallo stesso capitano, di un occhiuto controllo dei Servizi segreti a suo danno, e insieme la verifica che, nonostante l’ufficiale fosse ben consapevole della sua falsità, la stessa ipotesi è rimasta ugualmente nell’informativa da lui predisposta; infine la rivelazione, per bocca dello stesso capitano, di avere immediatamente comunicato che quello degli 007 era un falso allarme al sostituto procuratore John Henry Woodcock, da cui tuttavia sarebbe giunta prima l’indicazione di redigere sul ruolo dei Servizi un capitolo autonomo della relazione investigativa. Queste cose si sono scoperte grazie al lavoro della procura di Roma. Che, investita dal passaggio di competenze, ha prima revocato le indagini al Noe, poi passato a un vaglio finalmente scrupoloso le carte trasmesse, infine accertato inquietanti manomissioni. Scafarto è finito sotto inchiesta ed è stato interrogato per cinque ore, per verificare dove arrivino le sue dirette responsabilità e se, piuttosto, ve ne siano altre dei pubblici ministeri, con i quali l’ufficiale si confrontava e dai quali ha ricevuto fiducia oltre il tempo ragionevolmente dovuto. È legittimo ipotizzare che la procura di Roma stia avanzando concreti dubbi sulla condotta della magistratura inquirente napoletana. Che questi dubbi producano conseguenze penali è presto per dirlo. Speriamo che ciò non accada. Speriamo che gli errori, le manipolazioni, i falsi riguardino solo la scala intermedia della catena investigativa. Ma è mai possibile che nessun dubbio passi per la mente del ministro della giustizia, visto che fin qui non ha ritenuto di avviare alcuna attività ispettiva? Si è mosso il procuratore generale della Cassazione, Pasquale Ciccolo, incolpando il pm Woodcock di aver violato il dovere di riserbo che gli era stato espressamente richiesto dal procuratore capo reggente di Napoli, Nunzio Fragliasso, e di avere interferito con il lavoro della procura romana. Non si muovono nè il Csm, nè, appunto, Orlando. Di fronte al sospetto di una macchinazione per colpire al cuore le istituzioni del Paese, precostituendo prove false contro i familiari dell’ex presidente del consiglio, il guardasigilli davvero ritiene di non avere responsabilità ne politiche ne disciplinari da attivare? L’inchiesta Consip, del resto, replica l’inchiesta Cpl-Concordia. Anche in quel caso un’indagine partita dalla periferia arrivò a lambire Palazzo Chigi. Con somiglianze troppo evidenti per passare inosservate: una fuga di notizie che giustifica la competenza oltre il perimetro dell’inchiesta iniziale, un conflitto tra magistrati della stessa procura o di procure diverse, un salto logico e investigativo fondato su circostanze e materiali probatori che solo il tempo e accertamenti di altri inquirenti dimostreranno falsi, con la conseguenza di far franare a posteriori l’impianto accusatorio. Più che una coerente metodologia di indagine, le due inchieste somigliano a un salto triplo preso con rincorsa, per arrivare il più lontano, il più in alto possibile. Ma c’è un’altra analogia: entrambe le indagini hanno mostrato, a chi abbia voluto guardare in faccia la realtà, il volto di una procura napoletana come una barca senza timone nel mare in tempesta, con una parte dell’equipaggio che tiene in scacco l’altra e agisce senza aver bisogno di coordinarsi con il nocchiero. È accaduto ieri con il procuratore Colangelo, si è ripetuto oggi con il reggente Fragliasso. Segno che il disagio, che viene da lontano, non è risolvibile nelle riservate stanze. Da Napoli piovono comunicati ufficiali per smentire resoconti e interpretazioni dei giornali, escludere dissapori e conflitti tra gli uffici giudiziari, ribadire l’assoluta correttezza della magistratura campana e prendere le distanze dal capitano Scafarto (tardivamente, perché l’ufficiale ha lasciato le indagini per sua personale iniziativa, non per decisione delle autorità inquirenti). Certo, il racconto di quel che accade nel palazzo di giustizia del capoluogo campano non giova all’immagine dei pm, ma prendersela con la stampa è scambiare il dito con la luna. La conduzione delle indagini non è opera della stampa, come non lo è la redazione di informative alterate. Ne spetta alla stampa dirimere conflitti fra procure, e neppure nominare i capi dei rispettivi uffici vacanti; segnalare però che il Consiglio superiore della Magistratura non è riuscito in cinque mesi a nominare il successore del procuratore Colangelo in uno degli uffici giudiziari più importanti d’Italia è dovere di chiunque rispetti e ami la giustizia, oltre che la comunità a cui essa si rivolge. Allo stesso modo è giusto chiedersi che fine abbia fatto la tanto sbandierata riforma del Csm, che il ministro Orlando aveva messo tra i punti fondamentali della sua iniziativa politica, entrando a via Arenula il 22 febbraio del 2014. Sono passati più di tre anni, tra poco il guardasigilli da via Arenula uscirà, ma non c’è più speranza che della riforma vi sarà traccia a legislatura conclusa. Domani è lunedì: buon lavoro, signor ministro. "Corruzione in atti giudiziari": trema il Consiglio di Stato di Emiliano Fittipaldi e Nello Trocchia L’Espresso, 14 maggio 2017 Nuovo esplosivo filone dello scandalo Consip: nell’indagine. L’inchiesta si concentra su una presunta compravendita di sentenze nella giustizia amministrativa. Coinvolti Bocchino, Romeo e il suo avvocato Vinti. L’Espresso svela gli affari dell’ex presidente Virgilio con l’avvocato Amara, indagato per associazione a delinquere per frodi fiscali, e il renziano Bacci. Italo Bocchino, Alfredo Romeo e il suo avvocato Stefano Vinti sono finiti in un nuovo filone d’inchiesta scaturito dal caso Consip. Un ramo d’indagine iniziato a Napoli e trasferito per competenza alla procura di Roma. Con un’ipotesi di reato gravissima: corruzione in atti giudiziari. L’Espresso in edicola domenica racconta retroscena e particolari di una pista che si intreccia con un’indagine segreta che va avanti da mesi, e che riguarda presunte compravendite di sentenze nella giustizia amministrativa. In particolare al Consiglio di Stato, dove presunti gruppi di potere composti da faccendieri, politici conniventi, giudici e professionisti riuscirebbero a fare il bello e il cattivo tempo. "Abbiamo preso un altro bidone", dice Bocchino a Romeo parlando di una sentenza negativa arrivata qualche giorno prima da Palazzo Spada. Nel mirino dell’ex delfino di Gianfranco Fini c’è Stefano Vinti, l’avvocato amministrativista ingaggiato da Romeo per i contenziosi contro i suoi concorrenti. "Vinti c’ha un pacchetto di dieci cose là, capito?" spiega a Romeo "Perché quando va a fare qualche operazione... non è che va a fare l’operazione...questi sono di Romeo per la cosa di Romeo...Va là, dice "questi sono per te", no? Poi negozia dieci cose. Su questo si è distratto. Perché secondo me era certo che tu... che vinceva perché aveva ragione. La distrazione ha portato allo scarso studio della cosa... Ma ora li possiamo recuperare?". "Un negoziatore di cause", appuntano i carabinieri del Noe. Se i sospetti degli inquirenti fossero confermati, sarebbe un colpo al cuore della giustizia amministrativa e a un pezzo fondamentale del sistema giuridico nazionale: perché se, come dice Romeo, "i tribunali amministrativi sono le vere commissioni giudicatrici delle gare d’appalto" (quasi ogni decisione della Consip viene infatti appellata prima al Tar e poi a Palazzo Spada), il Consiglio di Stato è una camera di compensazione dei poteri economici e politici del Paese, e i suoi giudici spesso scelti come collaboratori fidati di ministri e sottosegretari. "Eventuali commenti che facemmo davanti a un caffè erano dettati dallo stupore, ed erano consolatori", replica Bocchino a L’Espresso. Si vedrà. Di certo l’inchiesta è molto complessa, e gli sforzi in campi messi da procure (anche di altre regioni) e corpi specializzati della Finanza sono enormi. Uno dei professionisti finito nel mirino dei magistrati romani è Piero Amara. Un avvocato di Siracusa accusato, qualche giorno fa, di frode fiscale e false fatturazioni. Ebbene, durante le perquisizioni della società Dagi srl, nella stanza in uso ad Amara insieme a documenti di ogni tipo è stata trovato anche un faldone. Dentro, documenti finanziari e investimenti di un pezzo da novanta di Palazzo Spada: Riccardo Virgilio, ex presidente aggiunto del Consiglio di Stato, da poco sostituito da Alessandro Pajno, vicinissimo al capo dello Stato Sergio Mattarella. L’inchiesta di Emiliano Fittipaldi e Nello Trocchia sul Consiglio di Stato è in copertina sul nostro giornale in edicola con Repubblica da domenica. Poi gli equilibri europei e il posto dell’Italia dopo la vittoria di Macron in Francia. E ancora due anniversari: la Guerra dei sei giorni e le sue conseguenze secondo il grande scrittore israeliano Amos Oz e i 25 anni dalla strage di Capaci in cui morì Giovanni Falcone. I documenti trovati nello studio di Amara, indagato anche per associazione a delinquere finalizzata a commettere reati tributari, raccontano alcune operazioni finanziarie del presidente Virgilio. Che non solo era titolare di un conto in Svizzera aperto agli inizi degli anni ‘90 al Credito Svizzero, ma ha pure deciso di investire oltre 750 mila euro cash in una società maltese, la Investment Eleven Ltd. I cui soci sono schermati da un’altra fiduciaria. Un contratto di finanziamento firmato il 4 novembre 2014 garantirebbe al consigliere di Stato un diritto di opzione per il controllo di quote della Teletouch. Una società di cui è socio lo stesso Amara, due cittadini svizzeri e l’imprenditore Andrea Bacci. Un caro amico di Matteo Renzi e in passato socio d’affari di Tiziano, che qualche mese fa è stato in predicato - secondo alcuni quotidiani - di diventare amministratore delegato di Telecom Sparkle. L’Espresso ha spulciato i documenti della camera di commercio maltese, dove è conservato un verbale del 13 marzo 2017 della Investment Eleven. Si legge che per finanziare l’operazione Teletouch (che dovrebbe garantire "un ritorno del 50 per cento l’anno", grazie anche a un memorandum d’intesa non vincolante con Telecom Italia firmato nel 2015 teso "a sviluppare la tecnologia N-Touch") e altri business legati al commercio del petrolio e del gas con Dubai (attraverso altre due società di Amara e del suo socio Giuseppe Calafiore), "la società ha sviluppato un accordo con il signor Riccardo Virgilio". Amara è categorico. "L’operazione è stata tutta tracciata. Il bonifico il presidente Virgilio l’ha fatto con nome e cognome. Ha messo anche la causale del bonifico: "finanziamento socio"" si giustifica l’avvocato. "Il suo conto corrente in Svizzera è stato aperto nel 1993, ed è collegato a suoi risparmi e a un’eredità, quella di una sua zia ricca. E le ricordo che Malta, a cui è arrivato il bonifico alla Bank of Valletta, non è più un paradiso fiscale". L’Espresso, però, ha scoperto che Virgilio è anche sottoscrittore di una polizza sulla vita con la Credit Suisse Life (Bermuda) ltd, la società del colosso svizzero che è stata indagato dalla procura di Milano con l’accusa di aver aiutato migliaia di presunti evasori fiscali attraverso polizze vita fasulle. Leggendo il verbale della Investment dello scorso marzo, si legge infatti che i fondi investiti "sono parte di una assicurazione sulla vita aperta nel 2006". Tra i tanti clienti, da anni Amara è anche il legale di un imprenditore poco conosciuto dall’opinione pubblica, ma molto capace e abile. Si chiama Ezio Bigotti, e pure lui è finito (non indagato) nelle carte dell’inchiesta Consip. Fondatore del Gruppo Sti a soli 29 anni, console onorario del Kazakistan, come raccontato da L’Espresso un mese fa, è - intercettazioni alla mano - il vero nemico giurato di Romeo: in pochi anni sarebbe diventato lui il presunto dominus, ripeteva ai suoi fedelissimi l’imprenditore di Cesa prima di essere arrestato per corruzione, di un sistema di potere che in Consip farebbe il bello e il cattivo tempo. Più forte rispetto a quello messo in piedi da Romeo. Un uomo vicinissimo a deputati di Ala come Denis Verdini, Ignazio Abbrignani e Saverio Romano, e capace, secondo un esposto mandato sempre da Romeo alla Consip e all’Anac di Raffaele Cantone, di organizzare "cartelli" per vincere appalti insieme alle cooperative rosse e altri partner importanti, come Engie Italia (l’ex Cofely), e di riuscire a battagliare come pochi sia nei Tar che al Consiglio di Stato. "È vero che sono legato a Bigotti, abbiamo tra l’altro vinto da poco un processo a Torino in cui lui era stato ingiustamente accusato di corruzione e millantato credito. Ma io non ho seguito Bigotti nelle cause al Consiglio di Stato contro Romeo o la società Siram. Il presidente Virgilio è stato presidente della quarta sezione, ma con lui nei collegi Bigotti qualche volta ha vinto, molte altre - soprattutto contro Romeo - ha perso". Bigotti, la cui holding è controllata dalla lussemburghese lady Mary II schermata a sua volta da altre due fiduciarie del Granducato, è considerato da chi lo conosce bene il miglior "architetto" di gare pubbliche in circolazione, capace di allearsi con imprese molto più grandi delle sue e fare man bassa di gare Consip. Bigotti sembra anche un esperto in ricorsi al Consiglio di Stato. In un’intercettazione del Noe ne parlano anche l’ad di Consip Marroni insieme a due dirigenti, Marco Gasparri (che ha ammesso di aver avuto 100 mila euro da Romeo, motivo per cui l’imprenditore è in carcere) e Martina Beneventi. È il 24 ottobre 2016, e il giorno dopo, è previsto un incontro tra Marroni e Bigotti, accompagnato dall’avvocato Amara e Verdini. Location: il ristorante "Al Moro", nel centro di Roma. Gasparri propone una strategia per evitare che Bigotti continui a fare ricorsi a catena in caso di sconfitta. "Il dirigente interviene dicendo che Marroni deve chiedergli di non ricorrere più alla giustizia amministrativa in quanto i continui contenziosi rallentano gli affidamenti delle commesse anche di anni" appuntano i carabinieri del Noe che li stanno ascoltando con le cimici "E di rappresentargli che la sua azienda riesce ad aggiudicarsi una buona fetta dei bandi anche senza ricorsi". A quel punto interviene l’altro dirigente presente, la Benvenuti, che sottolinea "che molto probabilmente ci sono diversi filoni d’indagine da parte della magistratura che possono interessare la questione Bigotti". Il giorno dopo, davanti a una amatriciana, secondo la testimonianza giurata di Marroni Bigotti si lamentò "dell’atteggiamento aggressivo" di Consip nei confronti delle sue società. Qualche giorno fa, invece, Bigotti - in un esposto mandato alla procura di Roma - ha spiegato che volle quel colloquio per parlare "di taluni gravi vicende" che riguardavano Alberto Bianchi. Un avvocato consulente della Consip famoso per essere presidente della Fondazione Open, la cassaforte del neo segretario del Pd Matteo Renzi, e uno dei capi del Giglio Magico. "Desideravo che l’ad Maroni fosse informato della incredibile situazione rappresentato dal ruolo svolto dall’avvocato Bianchi. Questi era, in quanto legale Consip, in un caso controinteressato avverso la impugnazione di una gara Consip aggiudicata a Siram; ciò non di meno e al contempo Bianchi era, in numerosissime cause amministrative anche presso il Consiglio di Stato, l’avvocato che assisteva e patrocinava proprio la Siram. Marroni reagì molto male, negando la circostanza. Aggiunse pure che qualora fosse stata vera, sarebbe stato gravissimo". L’inchiesta sul Consiglio di Stato e i sospetti di sentenze comprate sono cominciate anni fa, dopo alcuni esposti arrivati al pm Stefano Fava, ma hanno trovato un primo snodo importante lo scorso luglio, con le prime perquisizioni dell’indagine chiamata Labirinto. Se il consigliere di Stato Nicola Russo, mentre era membro di una Commissione tributaria, è stato indagato per divulgazione del segreto d’ufficio e/o corruzione in atti giudiziari per aver aiutato, questa l’accusa che ipotizza anche l’uso di modelle minorenni come tangenti, l’amico Stefano Ricucci a vincere una causa da 20 milioni di con l’Agenzia delle Entrate (se la procura ha chiesto la sospensione del consigliere dagli incarichi giuridici, ma sia il gip che non vedeva prove schiaccianti per dimostrare l’accordo corruttivo sia la Cassazione hanno bocciato la proposta: in attesa della richiesta o meno di rinvio a giudizio, Russo oggi lavora alla sede palermitana di Palazzo Spada), in un altro filone d’indagine i pm stanno cercando di capire se ci sia stata una fabbrica di sentenze messa in piedi da un altro gruppo di potere. Nel mirino sono finiti il deputato Antonio Marotta, il faccendiere Raffaele Pizza (secondo una deposizione di Luigi Esposito, anche lui indagato, avrebbe consegnato dei soldi anche per favorire un pronunciamento positivo al Consiglio di Stato in un contenzioso successivo a una gara che aveva vinto alla Consip) e soprattutto il funzionario di Palazzo Chigi Renato Mazzocchi. Indagato oggi per riciclaggio perché conservava in casa, in mezzo a una confezione di spumanti "Ferrari", 247 mila euro in contanti. Insieme ad alcuni nomi di giudici del tribunale ordinario, di avvocati e magistrati amministrativi, sentenze del Tar e del Consiglio di Stato. Una di queste, in particolare, suscita ancora l’interesse negli investigatori: quella del 2015 che ha restituito a Silvio Berlusconi le azioni di Mediolanum, che sia Bankitalia, in virtù della condanna definitiva subita dall’ex premier, e poi il Tar avevano imposto di cedere. Sulla fotocopia della sentenza di Palazzo Spada, forse scaricata da Internet, c’era un appunto manoscritto che segnalava presunti incontri tra legali di B. e persone dentro il Consiglio di Stato. Per la cronaca presidente del collegio giudicante era il presidente di sezione Francesco Caringella (che ha scritto di recente un libro con Raffaele Cantone e che in una lettera al "Corriere della Sera" ha rifiutato con forza qualsiasi insinuazione), mentre relatore della sentenza è stato Roberto Giovagnoli, un giovane magistrato attaccato anni fa da un altro giudice, Alessio Liberati, per aver vinto il concorso "senza i titoli necessari". Mazzocchi, quando a luglio 2016 i finanzieri gli piombarono in casa fece subito un numero di telefono per trovare un avvocato. Era il cellulare di Piero Amara. Che rifiutò l’incarico. La lunga marcia incompiuta delle donne in magistratura di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 14 maggio 2017 Nel 1965 sono state ammesse per la prima volta al concorso. Nessuna è mai stata presidente della Corte di Cassazione. Fino al 1963 vietato alle donne entrare in magistratura. Due anni dopo entrano le prime otto: una goccia rosa nel mare azzurro. La Corte Costituzionale ha spianato la strada, dal 1960 aveva aperto una parte delle carriere. Oggi il mare è un pochino più rosa che azzurro. Siamo al 52%, e le donne vincono i concorsi nel 63% dei casi. Marea rosa. Gabriella Luccioli era una delle 8 donne entrate per prime in magistratura. "Eravamo una stranezza, il nostro entrare in un mondo da sempre maschile ci faceva sentire sempre sotto esame". Luccioli ha fatto della differenza di genere un elemento arricchente per l’istituzione e per se stessa. "Le donne hanno cambiato il diritto: la diversa sensibilità, il linguaggio, il modo di gestire i rapporti umani, di interpretare la norma e darne concretezza hanno vivificato la giurisdizione. Nel farsi diritto vivente le donne hanno contribuito a profonde innovazioni nel campo del diritto di famiglia, della tutela dei soggetti deboli, del concetto di tollerabilità della convivenza matrimoniale, della attribuzione del cognome dei figli, della ridefinizione del concetto di violenza". I vertici - Ma i vertici sono rigidamente maschili. Nessuna donna è mai stata presidente della Corte di Cassazione, tra i membri del Csm solo tre sono donne e una sola espressione dei giudici togati. Tre magistrati su quattro, tra coloro che esercitano funzioni direttive, sono uomini e poco meno di due terzi di quelli che esercitano funzioni semi-direttive. La stessa Costituzione è stata ambigua, un dibattito con tanti stereotipi, anche da parte di un futuro Presidente della Repubblica, Giovanni Leone che avversava la presenza di donne ai vertici. Trent’anni dopo Luccioli entra in Magistratura Paola Di Nicola, tutt’altra generazione. Non percepiva nessuna differenza di genere, aveva un padre magistrato, frequentava l’ambiente fin da piccola. "Poi ho capito, è una lotta continua contro la delegittimazione quotidiana a volte sottile, che passa per gli imputati, i testimoni, gli avvocati, che ti chiamano signora o signorina, non giudice o pm". Ci racconta tanti esempi, lo straniero marocchino che si rifiuta di parlare perché lei e le traduttrici sono donne, o l’imputato che non la riconosce come giudice, che la guarda come "femmina", scruta le sue forme, "nonostante fossi misurata - dice - l’eleganza del rispetto dell’altro. La tua reazione deve essere forte e autorevole, di lezione per tutti i presenti. E devi essere pronta a contrattaccare sempre". Paola Di Nicola definisce Gabriella Luccioli "la mia modella". Incredibile, ma anche un’altra magistrata, Eleonora Vona, entrata 20 anni dopo Paola Di Nicola, e ora giudice a Patti nel cuore della Sicilia, la definisce in un modo simile: "la mia giudice". Donne che prendono a riferimento altre donne: una affascinante catena di solidarietà femminile. "Ho 35 anni, sono molto contenta, qui sono tutti preparati. Ho una grande passione per il valore sociale della sentenza e della interpretazione, imparata dalla mia giudice. Ma come donna devi lottare di più. Nella mia seconda udienza, si sentivano le mie urla per i corridoi. Essendo l’avvocato in ritardo l’avevo sostituito. Dopo ore, finita l’udienza, l’avvocato arriva, e mi accusa di scorrettezza e con lui tutti i colleghi uomini in piedi aggressivi. Lì capisci che devi urlare più di loro, tirare dritto e non guardare in faccia nessuno. Ero sola contro tutti i pregiudizi maschili". Sì, ma Gabriella Luccioli ha pagato per la sua libertà e innovatività, perché non è stata eletta presidente della Corte di Cassazione, quando a detta di molti se lo meritava veramente. È stata anche autrice di sentenze scomode, come quella Englaro. Lei sostiene che urge una norma che stabilisca la presenza equilibrata dei due sessi in Csm. La domanda - Paola Balducci, una delle tre donne in Csm, dice di non amare molto le quote in generale. "Ma quando la situazione si muove troppo lentamente è fondamentale usarle per rompere il meccanismo antico che riproduce vecchi modelli. Con le altre due donne siamo un presidio in Csm a favore delle donne". Questa Consiliatura ha nominato le prime donne procuratori presso Corti d’Appello e pure molte presidenti di Corte d’Appello. "Dalla Procura generale di Bari a quella di Genova; e le presidenti della Corte d’Appello di Campobasso, Firenze, Genova, L’Aquila, Milano, Potenza, Salerno, Trento. Più donne fanno più massa critica. Dobbiamo combattere una cultura che ci penalizza e che riguarda a volte anche le donne, troppo poco solidali tra loro e sicure a volte di aver raggiunto ormai la parità". Una domanda è d’obbligo. Perché le misure antimonopolio maschile sono state introdotte per le imprese e non per il Csm? Ce la fa il Parlamento a votare una norma prima delle elezioni del nuovo Csm? È un problema di democrazia e di rappresentatività dell’organo di autogoverno. Non un problema di donne. Rimedio risarcitorio ex art. 35-ter o.p.: aperture nei confronti del detenuto semilibero giurisprudenzapenale.com, 14 maggio 2017 Cassazione Penale, Sez. I, 16 febbraio 2017 (ud. 17 novembre 2016), n. 7421. Presidente Di Tomassi, Redattore Boni. Con la sentenza in commento, la prima sezione della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul rimedio risarcitorio di cui all’art. 35-ter o.p. (Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3 Cedu nei confronti di soggetti detenuti o internati). Con riguardo alla particolare questione dell’ammissibilità del ricorso proposto dal detenuto in stato di semilibertà, quale soggetto legittimato ad agire, viene affermato che "il detenuto ammesso al regime di semilibertà è legittimato ad agire per ottenere i rimedi compensativi, consentiti dall’art. 35-ter ord. penit., per la detenzione patita in condizioni di contrasto con le previsioni dell’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo". Lecce: "carcere da bollino nero", il sindacato Osapp "chiama" il prefetto di Stefano Lopetrone Gazzetta del Mezzogiorno, 14 maggio 2017 Sovraffollamento di detenuti e polizia penitenziaria sottorganico. Una situazione che stringe i poliziotti in una morsa. Per questo la segreteria regionale dell’Osapp ha scritto a tutti i prefetti della Puglia. All’attenzione di Claudio Palomba, rappresentante territoriale del governo a Lecce, arriva lo stato critico di Borgo San Nicola. Il prefetto prenderà atto di una situazione al limite del sopportabile. L’organizzazione sindacale gli chiede un interessamento, per segnalare ai vertici dell’amministrazione penitenziaria condizioni di lavoro al limite della sopportazione. I numeri parlano chiaro. Il rapporto tra i detenuti previsti (617) e i poliziotti previsti (719) dovrebbe essere di 0,85 detenuti per ogni agente. Il problema è che tutto si è capovolto: i poliziotti presenti sono 642 (ossia 77 in meno) e i carcerati sono 904 (283 in più). Il risultato è un rapporto di 1,41 detenuti per ogni poliziotto. Il sovraffollamento è dunque a quota 47,11 per cento. Emerge però anche un organico sottodimensionato del 12 per cento. Dati stridenti, che "tirano" in direzioni opposte. Il guaio è che a farne le spese sono i lavoratori, che stanno al centro di questa tortura. "Non è un caso che nelle carceri in cui il sovraffollamento è maggiore, come Lecce, Taranto e Foggia, si verifichino maggiori aggressioni e rischi per il personale del Corpo. Altrettanto significativa è l’impotenza degli organi di amministrazione centrale e periferica, interessati esclusivamente al benessere della popolazione detenuta, a porre in essere qualsiasi correttivo volto a migliorare condizioni al limite di ogni sopportazione umana", scrive ai prefetti il segretario regionale Osapp, Nicola Dinicoli. "La Puglia è un territorio in cui il sistema carceri è da bollino nero". L’Osapp preannuncia la mobilitazione generale, con una serie di iniziative pubbliche. In Puglia la carenza di organico sfiora le 300 unità: "Condizione destinata a peggiorare con la prossima apertura del reparto psichiatrico e del nuovo padiglione a Borgo San Nicola e con la conversione della struttura di Monteroni", spiega Dinicoli. S.M. Capua Vetere: Consolo dopo l’ispezione "riaprire i padiglioni Tamigi e Volturno" di Mena Grimaldi Il Mattino, 14 maggio 2017 La direttrice Giaquinto: "È un’apertura ordinaria i detenuti non aumentano". Dopo un lungo periodo di chiusura, riapre il Padiglione Volturno all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Un’apertura che andrà a migliorare le condizioni dei detenuti che per un certo periodo hanno dovuto fare a meno di alcuni reparti chiusi per lavori di ristrutturazioni ed adeguamento dell’impianto idrico. Una situazione che, ovviamente, aveva determinato non pochi disagi ai carcerati costretti a condividere gli spazi con più persone. Resterà, invece, ancora chiuso il Padiglione Tamigi, dove i lavori non sono stati ancora completati. L’ordine di riapertura è arrivato l’11 maggio, quando il Capo del Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria, Santi Consolo, si è recato in visita ispettiva a sorpresa presso l’istituto penitenziario. Consolo ha chiesto la riapertura dei padiglioni al direttore della struttura penitenziaria, Carlotta Giaquinto, motivando l’ordine come un "servizio al fine di garantire più spazi". Quello dell’impianto idrico è un problema che attanaglia da tempo la casa circondariale che, puntualmente, per ovvi motivi, raggiunge l’apice d’estate con la mancanza di acqua. Fondamentalmente, la fornitura idrica della casa Circondariale non è allacciata alla rete idrica pubblica, ma avviene attraverso un pozzo. L’impianto per la potabilizzazione non consente ai detenuti di poter usufruire contemporaneamente dell’acqua, con conseguente turnazione per le docce e periodi di sospensione della fornitura, soprattutto d’estate. Solitamente, due litri di acqua vengono distribuiti ad ogni detenuto per bere. A soffrire di più di questa situazione erano proprio i 50 detenuti del reparto Tamigi - poi chiuso - dove l’acqua non arrivava quasi mai. L’emergenza idrica portò all’inizio del 2015 una notevole diminuzione di detenuti e il trasferimento di altri 130 presso altri istituti campani. A luglio dello scorso anno, a seguito dell’ennesima emergenza acqua, i carcerati scelsero una provocatoria forma di protesta: in 1500 firmarono un’istanza indirizzata al magistrato di sorveglianza con la richiesta di ottenere uno sconto di pena di un giorno per ogni dieci giorni trascorsi in condizioni disumane. Ora, la riapertura almeno di uno dei padiglioni per mesi chiusi consentirà ai detenuti di risolvere se non del tutto, almeno in parte, un problema. La riapertura dei padiglioni, invece, per il Sindacato autonomi di Polizia Penitenziaria arrecherà modifiche alla "programmazione dei servizi che inciderà sul lavoro dei secondini" e, per questo, hanno chiesto un incontro con l’Ufficio dell’Amministrazione. San Gimignano (Si): detenuti ai fornelli per un pranzo "oltre le sbarre" gonews.it, 14 maggio 2017 Detenuti chef per un giorno, per portare fuori dal carcere gusto e creatività in cucina. L’iniziativa vedrà protagonisti, martedì 16 maggio, venti studenti del circuito di Alta Sicurezza della Casa di reclusione di Ranza, a San Gimignano, che frequentano la sede carceraria dell’Istituto Enogastronomico di Colle Val d’Elsa, indirizzo dell’Istituto d’Istruzione superiore statale "Bettino Ricasoli" di Siena. I detenuti - alunni delle classi III, IV e V C - prepareranno un pranzo per 80 persone all’interno della Casa di reclusione, portando in tavola antipasti, primi e secondi piatti e dessert. L’iniziativa, intitolata "Insieme con gusto" e promossa dalla Casa di reclusione di Ranza e dall’Istituto d’Istruzione superiore statale "Bettino Ricasoli" di Siena, si pone come prima occasione aperta al territorio per offrire ai detenuti-studenti della sede carceraria dell’Istituto "Bettino Ricasoli" di Siena la possibilità di riscattarsi idealmente attraverso la cucina. L’appuntamento segue la recente apertura del blog "Scriviamo…con gusto", scriviamocongusto.wordpress.com, che raccoglie ricette e riflessioni degli studenti delle cinque classi dei regimi di Media e Alta Sicurezza sviluppando ogni mese un tema diverso e aprendosi al confronto con il mondo esterno per condividere esperienze e attività della scuola dietro le sbarre. La sede carceraria dell’Istituto "B. Ricasoli". Dall’anno scolastico 2014-2015 l’Istituto "B. Ricasoli" di Siena, a seguito del protocollo di intesa tra i Ministeri dell’Istruzione e della Giustizia siglato il 23 ottobre 2012, ha rivisto i percorsi curricolari della sede carceraria, dove era già presente da alcuni anni, e migliorato i percorsi di formazione e le metodologie didattiche. A unire tutte le attività e le iniziative, è l’obiettivo di valorizzare le potenzialità e le capacità degli studenti reclusi con momenti didattici e laboratori dedicati alla cucina. Ferrara: "Solidarietà e Legalità", la voce dei detenuti incontra gli studenti estense.com, 14 maggio 2017 Appuntamento al Don Zucchini, di Cento, per conoscere i risultati del progetto sulla Casa circondariale di Dozza. Giovedì 18 maggio, alle 21, l’ultimo incontro dei giovedì culturali al cinema Don Zucchini vuole dare luce e voce ai ragazzi delle classi terze della scuola secondaria di primo grado dell’istituto comprensivo 1 "Il Guercino". Gli studenti hanno intrapreso, guidati dalla loro docente di religione Emanuela Tarantini, un progetto e percorso chiamato "Solidarietà e Legalità per i detenuti della Casa Circondariale della Dozza", che coinvolge gli studenti nella conoscenza della realtà dura della detenzione e tutti i rischi legati al delinquere e che vuole affrontare i temi della legalità, dell’imputabilità, del perdono, della solidarietà e del riscatto sociale. Il progetto, negli anni, ha avuto successo sia per i ragazzi coinvolti, che per i genitori ed anche la casa circondariale Dozza ha consentito la visita degli alunni ai detenuti. La serata vuole soprattutto offrire ai giovani e tutta la cittadinanza un momento di crescita culturale, emotiva e sociale. Durante la serata di giovedì 18 maggio interverranno la professoressa Emanuela Tarantini, responsabile del progetto; i ragazzi dell’istituto "Il Guercino" di Cento che porteranno le loro lettere scritte e scambiate nel tempo con alcuni detenuti nate da riflessioni dopo essersi guardati negli occhi ed avendo ascoltando le diverse esperienze, i reati, la vita in carcere, la mancanza della famiglia e della libertà; padre Marcello Mattè, cappellano della casa circondariale e frate Giuseppe da Carpi che opera da anni all’interno del carcere. Massa Marittima: laboratorio di lettura con Sacha Naspini e mostra d’arte nel carcere ilgiunco.net, 14 maggio 2017 La casa circondariale e il Comune di Massa Marittima arricchiscono la loro collaborazione perseguendo insieme l’obiettivo di reinserimento dei detenuti che si apprestano a terminare la loro condanna attraverso strumenti di crescita culturale e relazionale. Stamani sono stati presentati due nuovi progetti che vedono la partecipazione di noti rappresentanti dell’arte e della letteratura e siglata la convenzione tra le due strutture per lo svolgimento di letture e attività di volontariato in biblioteca da parte degli ospiti del carcere che hanno permessi di uscita. "Un traguardo importante - ha commentato la direttrice della casa dei libri comunale Roberta Pieraccioli - che giunge nel 150 esimo anniversario della struttura, dopo varie iniziative già realizzate con successo da queste due realtà, unite nell’intento di promuovere cultura ed integrazione sociale". Le opportunità offerte dal Comune, in particolare dal settore delle Politiche culturali, vedono immediata attuazione con il progetto "Bella storia!" curato dallo scrittore Sacha Naspini, affiancato dalle autrici Valentina Santini e Barbara Guazzini del gruppo Birohazard. Si tratta di un ciclo di incontri in carcere già avviati, durante i quali i detenuti hanno modo di partecipare a un vero e proprio laboratorio di scrittura. Scopo degli appuntamenti è assemblare materiale da riunire al momento opportuno in un’antologia, con racconti, poesie, disegni e pensieri. Da maggio, il laboratorio si evolverà in letture a cadenza mensile, dove saranno presentati alcuni testi scelti dal gruppo di lavoro. Con il supporto nella lettura di Alessandra Simonatti (altra autrice del gruppo Birohazard), verranno approfonditi non solo i romanzi (tematiche, stile, contesto storico, punto di vista sul mondo), ma anche le vicende umane degli autori, i retroscena, le curiosità. "Gli incontri settimanali con i detenuti - ha raccontato Sacha Naspini - hanno già portato a momenti di apertura importanti; la scrittura è uno strumento potente e lo scopo è fornire ai partecipanti gli elementi per la costruzione di una storia. Con le letture cercheremo poi di svelare il resto, tutto ciò che si muove dietro le quinte dei racconti, oltre l’oggetto libro ovvero parlare di dove nascono le grandi storie". Il secondo progetto culturale è invece una mostra che si terrà in carcere dal 2, data di inaugurazione, al 16 maggio, allestita con opere pittoriche e materiche degli artisti Andrea Massaro e Leonardo Cambri, a cura di Patrizia Scapin, dal titolo "Blu d’oltremare scuro". "L’esposizione sarà un percorso intenso - ha commentato la curatrice - che cerca di ricostruire le delicate e spesso tragiche storie dei migranti. Un racconto intimo di tutto ciò che sentiamo ogni giorno intitolato così per richiamare il colore del mare, blu, i luoghi da cui provengono le persone che arrivano e la disperazione simboleggiata dal termine "scuso" che purtroppo sta dietro a molte di queste vicende. Una particolarità dell’iniziativa - conclude la Scapin - è che a fare da guida saranno un gruppo di detenuti che stanno formandosi per questo, mentre altri arricchiranno l’evento con letture dedicate al tema". Nel periodo di apertura della mostra sono state organizzate giornate di dibattito a cui parteciperanno anche le scuole, con la presenza di soggetti che si occupano dell’accoglienza dei richiedenti asilo o che conoscono questa realtà. "Cerchiamo di dare un contenuto alle pene - commenta il direttore della struttura carceraria Carlo Mazzerbo - e per far questo la cultura è un elemento da cui non si può prescindere. Oltre ai laboratori interni, pensati per gli ospiti che ancora non possono usufruire dei permessi di uscita, cerchiamo anche per gli altri, vicini a fine pena, di favorire il più possibile l’integrazione con la comunità locale e dare loro l’opportunità di sviluppare un positivo senso di appartenenza a questo territorio". La mostra, allestita all’interno dell’area detentiva, sarà visitabile dal 2 al 16 maggio 2017 nei giorni del martedì e sabato dalle 14.30 alle 16.30, con prenotazione entro la giornata del mercoledì mediante inoltro dei dati anagrafici al fax: 0566.905691 oppure via mail a cc.massamarittima@giustizia.it. Taranto: Bonito Oliva "venite in carcere per vedere, fare e capire" di Franco Insardà Il Dubbio, 14 maggio 2017 Rassegna nel carcere di Taranto. Al visitatore verranno fatte le foto segnaletiche, dovrà lasciare le sue impronte digitali e poi sarà accompagnato in quattro celle, nelle quali sarà lasciato solo per tre minuti Rimanere chiusi in cella da soli per ammirare delle opere d’arte. È questa l’idea dalla quale è partito Achille Bonito Oliva, rispondendo all’invito del comandante della polizia penitenziaria della casa circondariale Carmelo Magli di Taranto, Giovanni Lamarca. La mostra, aperta sabato 6 maggio e visitabile fino al 15 giugno, si intitola "Il carcere. Che opera d’arte" ed è la parte finale del progetto "L’altra città", fatto da una ventina di detenute, impegnate in laboratori di arte e scrittura creativa tenuti da Giulio De Mitri, col supporto teorico di Roberto Lacarbonara e Paola Lacatena e la partecipazione di alcuni agenti. Ma più che una mostra, spiega al Dubbio il professor Bonito Oliva, è "un processo interattivo e partecipativo" che ha l’obiettivo di mettere in relazione il mondo del carcere con la società esterna. Professore, entriamo nei dettagli del progetto. È sicuramente un progetto particolare, unico in Italia, che coinvolge i detenuti e le detenute del carcere di Taranto. Parliamo di un istituto in piena attività che ha organizzato dei corsi legati all’arte e ha visto gli ospiti del penitenziario coinvolti nello sviluppo di una serie di lavori. Da qui l’idea molto particolare… Esatto. Abbiamo organizzato questo spazio espositivo in quattro celle da visitare una di seguito all’altra. E ciascuna contiene una diversa situazione. La prima e la quarta sono declinate al femminile, la seconda è una cella residenziale, mentre la terza è d’isolamento, dipinta di nero e da fruire totalmente al buio. L’altra cosa interessante è l’impostazione. Lo spettatore infatti viene accolto seguendo le normali procedure carcerarie. Gli saranno fatte le foto segnaletiche, sia frontalmente che di profilo, e dovrà lasciare le impronte digitali e la firma liberatoria. Insomma sarà "schedato" ed entrerà in carcere? A quel punto attraverserà un lungo corridoio con alcune opere esposte. La fruizione della mostra è singola. Lo spettatore viene portato nella prima cella, chiuso a chiave e dovrà sostare obbligatoriamente in ciascuna delle quattro camere tre minuti. In questo tempo viene in contatto con quello che si vede dentro. Qual è la differenza con le mostre "tradizionali"? C’è una modifica dello status dello spettatore, il quale normalmente nella fruizione dell’arte nei musei è un escluso. Nel caso del carcere di Taranto è incluso, costretto ad ascoltare il rumore della cella che si chiude a chiave, a restare in silenzio e da solo e a fruire di tutto quello che c’è nella cella. Per farlo ha venti minuti a disposizione. Quindi più che essere una mostra che ha degli oggetti da vedere, parliamo di una vera e propria esperienza che va oltre lo sguardo. È plurisensoriale. Più che i lavori esposti diventa importante l’identità dello spettatore che ha una presenza meno platonica e più interattiva. Le celle hanno una funzione di scambio con lo spettatore, gli infondono una sensazione claustrofobica. Resta chiuso da solo prima di spostarsi altrove per una nuova immersione nella solitudine. Senza dimenticare il lavoro egregio svolto dai detenuti coinvolti nel progetto. Pensa di replicare questa esperienza in altre carceri? Non saprei, anche perché c’è stato un grosso impegno per ottenere tutti i permessi necessari per una mostra in un istituto attivo. Chi vorrà visitarla dovrà prenotarsi (al 3408227225 ndr.) e venire tutti i pomeriggi dalle 15 alle 19. Ovviamente, vista la particolarità dell’esperienza, non puntiamo a un successo di botteghino, ma alla qualità della partecipazione. Tornando alla mostra di Taranto, si può dire che l’arte è legata alla sofferenza? L’arte serve a fare domande, non a dare risposte. Questi spazi nei quali lo spettatore entra e viene recluso inducono momenti di grande concentrazione e riflessione. È inevitabile che l’arte sviluppi momenti di interrogazione che partono dall’artista e arrivano al pubblico. Il risultato al quale punta questa mostra è quello di smuovere la passività del pubblico, di produrre nuovi processi di conoscenza. Parlando di carcere il pensiero va subito a Marco Pannella che ha condotto sul tema una delle battaglie più importanti della sua vita. Il mio pensiero, quando ho iniziato a lavorare a questa idea, è andato a Gramsci. Lui è riuscito con grande dignità, pur stando in carcere, a elaborare un pensiero altissimo senza mai perdere la calma. La grandezza di Gramsci è impressionante. Ho comunque molto rispetto per Pannella e i radicali: hanno portato avanti delle battaglie enormi per i diritti civili. Sono molto solidale con queste battaglie e alla maniera in cui Pannella le ha portate avanti, senza mai demordere ed esponendosi personalmente con i suoi scioperi della fame e della sete, soprattutto. Utilizzando anche il suo corpo. Pannella seguiva il modello gandhiano: non violenza ma intransigenza. Allargando il discorso all’arte nel suo complesso lei ha più volte evidenziato il particolare utilizzo che anche Totò faceva del suo corpo? Pannella agiva sulla privazione, Totò invece agiva con un corpo impostato come una macchina da guerra con cui spiazzava gli altri. Utilizza la comicità per ribaltare i luoghi comuni e dunque sviluppare un nuovo tipo di conoscenza. Volendo catalogarlo direi che quello di Totò è un umorismo dadaista. Come spiega il successo dell’arte e delle mostre? L’arte contemporanea, interrogando la vita attraverso le sue forme, avvicina lo spettatore a questi eventi. Non si tratta di esperienze ludiche, ma di occasioni che fanno riflettere. Nel momento in cui la politica e l’economia sono in crisi e ci sono guerre in tutto il mondo ecco che l’arte riacquista una funzione: quella di trasmettere responsabilità al singolo individuo. L’artista con le sue forme e lo spettatore con la sua fruizione costruiscono una catena di solidarietà progressiva. L’arte in questo senso riprende potere in quanto trova una sua etica. In questo discorso qual è la funzione dei critici? Progettano il passato, sviluppano un’interpretazione. Mi riferisco ai critici e non ai curatori, che sono una costola e fanno manutenzione del presente, quasi una sorta di "filippini della critica". Il critico fa interpretazione. Io appartengo all’ultima generazione dei critici che insegnano all’università, scrivono libri, pubblicano sui giornali e fanno tendenza. Una figura che in qualche modo ricorda quella dell’intellettuale post- rinascimentale. Giulio Carlo Argan è stato un suo maestro? Ho avuto l’onore di essere stato chiamato da Argan a scrivere l’ultimo capitolo della sua "Storia dell’arte". Credo che l’abbia fatto per simpatia anche perché le mie teorie, sia sul manierismo sia sulla Transavanguardia, non erano in sintonia con l’impostazione teorica di Argan. Penso che abbia voluto premiare la mia attitudine a dare protagonismo e centralità alla funzione del critico. Lei ci ha messo la faccia e il corpo, su tutto la copertina di Frigidaire che la ritraeva nudo. Con un’attitudine francescana direi che mi sono spogliato di tutto. È stato il protagonista di una stagione molto importante che ha avuto Roma e Napoli al centro. Su tutto metterei la metropolitana di Napoli: un museo obbligatorio che ha avuto riconoscimenti internazionali. Una fruizione del contemporaneo che non richiede il biglietto d’entrata o la presenza di un museo, ma è scorrevole e crea familiarità. Parliamo di 160 opere realizzata dagli artisti più importanti del mondo, collocate in stazioni progettate da grandissimi architetti. Con Graziella Lonardi e Lucio Amelio ha fatto conoscere al grande pubblico artisti come Andy Warhol, da lei definito il Raffaello della Pop Art, Joseph Beuys. Tra le tante cose con Michele Buonomo organizzammo la mostra Terrae Motus che coinvolse tanti artisti. Fu un evento molto importante in un momento particolare. Quel fermento culturale c’è ancora a Roma e Napoli? A Napoli il progetto della metropolitana continua, ci sono ancora delle stazioni da realizzare. C’è un museo come il Madre che funziona benissimo, in città ci sono galleristi molto validi come Peppe Morra, Lia Rumma, Trisorio. Napoli oggi è in grado di competere con le altre città per l’arte, mentre un tempo i nostri erano stati "eroici furori". E Roma, dopo la stagione di Argan e di Renato Nicolini, come è messa? Purtroppo no. Non ci sono figure simili. Tenga presente che Argan, pur essendo uno storico rigoroso, permise all’estro di Nicolini di invadere la città con un evento come l’Estate romana che riportò per strada le persone dopo gli anni di piombo. Oggi c’è un vuoto. È un vuoto anche artistico? No. L’arte ha un respiro biologico. Gli artisti producono in ogni condizione, ci sono state grandi opere anche nei periodi di guerra. Il contesto può favorire la diffusione dell’arte, ma non influisce sulla creatività. La Transavanguardia è stato un movimento che ha portato alla ribalta artisti come Francesco Clemente, Sandro Chia, Maurizio Cucchi, Mimmo Paladino, Nicola Di Maria. E oggi? Oggi non ci sono dei nuovi movimenti artistici, perché la postmodernità non vive sul valore del collettivo, del gruppo. C’è un ritorno all’individualità. Gli artisti camminano in fila indiana e in solitudine. Professore, dopo aver insegnato storia dell’arte contemporanea alla Sapienza prosegue ancora nell’attività accademica? Sono responsabile scientifico del Master of art alla Luiss, molto originale perché all’inizio dell’anno introduco un tema che diventa un titolo e poi una mostra in uno spazio espositivo a Roma. Il tutto collettivamente curato dagli studenti che imparano come funziona il sistema dell’arte in tutta la sua complessità. Anche questa è un’esperienza molto interessante e stimolante. Agrigento: Favara, quando la legalità ha anche il sapore di una "frittata" di Giuseppe Piscopo malgradotuttoweb.it, 14 maggio 2017 Alcuni detenuti di Petrusa, allievi della sezione carceraria dell’Istituto Alberghiero "Ambrosini", nella Giornata della Legalità, offrono in Piazza Cavour a studenti, autorità e forze dell’ordine stuzzichini caldi da loro preparati. I detenuti di Petrusa, allievi della sezione carceraria "Ambrosini", che offrono a studenti, autorità e forze dell’ordine stuzzichini caldi; una maxi tela dedicata alla Polizia penitenziaria; lo stendardo della legalità assegnato alla pro Loco Castello di Favara. Sono queste le principali "note" emerse nella giornata conclusiva della IX edizione della Festa della Legalità, istituita a Favara da una iniziativa di Gaetano Scorsone, animatore culturale e operatore dell’area "Padre Puglisi". Cresce, anno dopo anno, per numero di adesioni da parte di scuole ed istituzioni, una Festa che vuol fare riflettere sul concetto di legalità, che si concretizza quotidianamente con buone pratiche da parte di tutti. Da chi sta dentro i Palazzi, a chi sta per le strade e piazze. Ha colpito un po’ tutti la scritta "La frittata è fatta", lo slogan usato dalla sezione carceraria dell’Istituto alberghiero Ambrosini di Favara, presente in Piazza Cavour con due corsisti-detenuti che hanno ottenuto, seppur per poche ore, uno speciale permesso. Una frase che ha voluto far riflettere i presenti sul ruolo rieducativo e di riabilitazione sociale dei detenuti. Dopo aver combinato "le frittate" nella vita andando incontro ai guai con la giustizia, ieri i due detenuti si sono riscattati con le " frittate" calde offerte ai presenti. Proprio nel giorno di celebrazione del corpo della Polizia Penitenziaria, che opera a pochi chilometri da Favara, in contrada Petrusa. Gli agenti e i dipendenti del penitenziario agrigentino sono stati, infatti, i destinatari di una maxi tela realizzata dall’Accademia di Arte, cultura e legalità diretta dal maestro Vincenzo Patti. I colori ed i soggetti che hanno impreziosito la gigantesca tela hanno voluto evidenziare l’aspetto umano degli operatori di carcere, fianco a fianco con i detenuti, in freddi corridoi dove il silenzio è spesso spezzato dal rumore delle chiavi che apre portoni e cancellate. Presenti il Comandante della polizia penitenziaria di Agrigento Giuseppe lo Faro ed il direttore del carcere Aldo Tiralongo. L’altra "notizia" della giornata è il passaggio del Gonfalone della legalità dall’I.C. "Urso-Mendola" alla pro Loco Castello di Favara. A ritirare l’importante stendardo, assegnato ogni anno ad una Istituzione o associazione per particolare impegno sul fronte del rispetto della legalità, i componenti della Pro Loco Ernesto Fichera e Paolo Moscato. È un riconoscimento per un’associazione da decenni impegnata quotidianamente a promuovere il territorio, non solo dal punto di vista turistico, paesaggistico e monumentale ma soprattutto culturale. Con un occhio sempre rivolto ai giovani e agli studenti. Da ricordare il recupero del bevaio "Saraceno", da discarica a bene monumentale, attraverso il coinvolgimento di alunni delle scuole del quartiere di via Agrigento e con la collaborazione gratuita di imprese del territorio. "Siamo presenti 365 gironi l’anno - ci dice il presidente della Pro Loco Antonio Moscato - attraverso una serie di iniziative che intendono coinvolgere la cittadinanza. Dalla Sagra dell’Agnello Pasquale, al recupero delle antiche e sane tradizioni, alla valorizzazione dei grani genuini per un pane doc, alla promozione di eventi culturali e musicali. Siamo convinti che il rispetto della legalità deve passare da azioni quotidiane che hanno come scopo il bene comune". Perché siamo nell’era in cui "buonista" è un insulto di Wlodek Goldkorn L’Espresso, 14 maggio 2017 Un’umanità, impotente, rabbiosa, piena di odio. Che si identifica sempre di più con la cattiveria, con il male. E con i politici che ne fanno una bandiera. E se il Male non fosse, affatto banale? E se, contrariamente a quanto pensava Hanna Arendt ("La banalità del Male. Eichmann a Gerusalemme"), il Male non fosse risultato di stupidità e procedimenti burocratici, ma facesse parte della natura di ciascuno di noi e in periodi di crisi fosse pronto a manifestarsi sotto la forma del godimento per le sofferenze e la morte altrui’ Partiamo da alcuni fatti, suggestioni, atmosfere. A cominciare dall’alto: vanno di moda politici che hanno demolito il politicamente corretto, che non disdegnano usare un linguaggio razzista, da Donald Trump a Marine Le Pen, da Frauke Petry a Gert Wilders, mentre per Matteo Salvini, ogni occasione è buona per invocare la Santa Ruspa, difendere la purezza delle nostre città contro la blasfemia dei kebab e spiegare che ogni empatia nei confronti di coloro che annegano nel Mar Mediterraneo (lui li definisce clandestini, ma noi parafrasando Primo Levi possiamo chiamarli i sommersi) è segno di "buonismo". "Buonismo", declinazione del Bene, da condannare per fare spazio al Male? Vedremo in seguito. Intanto, il settimanale "Vita" segnala un vertiginoso aumento di aggressioni a sfondo razzista in Italia, e viene da pensare al ragazzo bengalese, massacrato su un treno a Roma. Se non basta, quasi ogni mese scopriamo (grazie alle procure della Repubblica e alle testimonianze dei migranti) l’esistenza di personaggi che nei campi di raccolta dei profughi in Libia, di fronte quindi alle nostre finestre e con la nostra sebbene passiva complicità, uccidono, torturano, stuprano: non solo per soldi, ma per il piacere di uccidere, torturare e stuprare. I Pm di Milano hanno parlato di campi che ricordano i lager nazisti. E ancora; qualche settimana fa due buontemponi (si fa per dire) di Follonica hanno chiuso in una gabbia due donne rom che rovistavano nella spazzatura, hanno postato la scena, ai loro occhi comica, sui social media. Si sono guadagnati gli applausi del pubblico e un commento benevole del già citato capo della Lega. Salvini, in proposito ha usato la parola "frugatrici". Virginia Raggi invece, sindaca della capitale, preoccupata del decoro della sua città, ha trovato un altro neologismo: "rovistaggio". Vale per chi frequenta la spazzatura alla ricerca di mezzi di sostentamento. Il "rovistaggio", ha detto la prima cittadina della città di papa Francesco, andrebbe vietato. Soffermiamoci sulle due parole: frugatrici e rovistaggio. È nella Bibbia il racconto delle spigolatrici: le frugatrici o rovistatrici odierne. Spigolatrice era Rut, bisnonna di re David e il diritto di spigolare è codificato nelle Scritture. È infatti antico come l’umanità l’uso per cui i poveri, gli affamati, i bisognosi hanno il diritto di frugare, rovistare, raccogliere quello che resta dal pasto degli abbienti. Il mendicante, così come lo Straniero, l’Altro, il Migrante, è lo specchio di noi stessi; ed è per questo che nella letteratura e nel mito è una figura nobile, sebbene inquietante. E allora che cosa ci sta succedendo? O meglio, sappiamo che il nesso tra progresso, benessere e democrazia è saltato; sappiamo che l’illuminismo e il razionalismo non producono solo il Bene. E quindi, in questo momento della crisi radicale del nostro essere società in Occidente, incontro a che cosa stiamo andando’ E per dirla tutta: i demoni davvero albergano nell’animo di ciascuno di noi, come intuiva Dostoevskij’ E se sì, il Male finirà per diventare il linguaggio corrente ed egemonè L’abbiamo chiesto a uno psicoanalista, a un poeta, a un uomo di teatro e a un filosofo. Giovanni Foresti è psicoanalista, appunto e psichiatra, insegna all’Università Bicocca di Milano. Dice: "Quando ci sentiamo impotenti proviamo a rovesciare la situazione riversando sull’Altro i sentimenti dell’odio che albergano dentro la nostra psiche. Pensiamo di poter uscire dalla situazione della vittima (dei poteri che non conosciamo, che ignoriamo) diventando delle specie di gorilla, minacciosi, forti, invincibili e irriflessivi". Spiega: "Nel momento in cui ci piace fare del Male, usiamo un altro registro emotivo, rispetto a quello abituale quando ci costringono a essere per bene e gentili. In quei momenti, le istanze sadiche prevalgono. E se agiamo in gruppo diventano dominanti, si trasformano in linguaggio corrente". E in concreto’ "Siamo alla guerra di tutti contro tutti, perché non esistono più grandi narrazioni, in grado di spiegare il mondo, dare una speranza, elaborare il passato e preservare la memoria. E allora tanto vale essere "carogna". E anche: posto che io non valgo niente o poco, insulto i profughi o gioisco per la loro sorte perché così penso che ci sia qualcuno che vale meno di me". In sostanza, il sadismo e la cattiveria, come meccanismo di difesa dal mondo, ma anche come strumento di potere. Ne parlano alcuni libri, pubblicati in queste settimane. "I fantasmi dell’Impero" di Marco Cosentino, Domenico Dodaro e Luigi Panella, uscito con Sellerio, racconta (sotto la forma di un giallo) di militari italiani in Etiopia che stuprano a uccidono donne, ammazzano bambini, incendiano villaggi non solo nel quadro della guerra coloniale (che di solito favorisce le peggiori atrocità), ma per il puro piacere di farlo. Per sentirsi appunto superiori ai "negri". "La bellezza che resta" (Melville), è una meditazione su nichilismo, arte e morte, dove il critico letterario Fabrizio Coscia rievoca la vicenda della scuola di Beslan quando terroristi ceceni uccisero 186 bambini e costrinsero alcune madri a scegliere quali dei due o più figli far sopravvivere. "Il sacrificio del fuoco" (Giuntina) di Albrecht Goes parla della Germania anni Trenta. Emergono episodi di pura, sadica brutalità che non è funzionale ad altro che stabilire la presunta superiorità del piccolo boia (sottufficiali nazisti) che godono vedendo gli ebrei impauriti, bambini tristi e sofferenti, uomini ridotti allo status di non persone. E infine, in "Un mondo senza ebrei" (Mondadori), lo storico Alon Confino racconta come i nazisti abbiano voluto dar sfogo alle pulsioni sadiche e profonde di molti tedeschi; narra le umiliazioni ritualizzate e pubbliche subite dagli ebrei; si sofferma sulla gioia nel veder bruciare i libri sui roghi e insiste sul fatto che i seguaci di Hiter volessero estirpare il ricordo e la memoria della Torah e dell’ebraismo, perché la loro intenzione era abolire ogni etica che avesse a che fare con la trascendenza. Insomma, il Male come godimento nichilista e trasformazione della trasgressione in normalità. Ne sanno moltissimo gli intellettuali di Sarajevo, che durante le 1.425 giornate dell’assedio della città, con i vicini di casa diventati all’improvviso nemici e carnefici, hanno avuto tempo e modo per riflettere sulla malvagità umana. Ma non solo i nemici dichiarati erano i cattivi. Il poeta Marko Vesovic racconta un episodio: "Un giorno, mentre la popolazione era affamata, alcuni potenti locali portarono in una piazzetta un agnello. Lo cucinarono allo spiedo, annaffiato da birra, davanti a tutti. E lo mangiarono, godendo dello spettacolo che davano". Spiega: "Il potere, consiste nel far soffrire gli altri, nel farli sentire inferiori". Aggiunge: "Io e mia moglie (scomparsa poche settimane fa), abbiamo anche scoperto la sofferenza degli animali, abbiamo visto cani impazziti dalla fame, smarriti, terrorizzati. Non è differente dalla sofferenza degli umani". Annota: "Oggi, abbiamo una serie di democrazie "etniche", nella ex Jugoslavia e l’ossessione identitaria, etnocentrica, non è altro che un’espressione della malvagità, della cattiveria; perché è la non volontà di riconoscere l’Altro come tuo pari". Parte invece da lontano Dzevan Karahasan, altro sarajavese, autore e regista di teatro e uno dei più acuti intellettuali del nostro continente. Cita Empedocle per cui l’uomo può pensare solo ciò che conosce e che ha visto. "Io ho visto il Male con i miei occhi", dice. Spiega: "Il Male si manifesta quando l’uomo pensa di essere un piccolo dio. Quando succede questo, l’uomo è capace di radunare 74 suoi vicini di casa, chiuderli in un edificio, dargli fuoco, e goderne. Io l’ho visto in Bosnia. Non era un procedimento burocratico anonimo. Era il piacere di essere carnefice, un piccolo dio, appunto". Cita infine Baudelaire che considerava la risata, volgare, come qualcosa di diabolico: "Sì, in ognuno di noi è presente un elemento diabolico, non banale, e che viene fuori quando non conosciamo più i nostri limiti". Limiti’ Quelli delle immagini sono stati aboliti, e da tempo. Lo dice Sergio Givone, filosofo, studioso dell’estetica e del nichilismo. "È la proliferazione delle immagini ad aver riportato il Male radicale al centro della nostra esperienza collettiva", dice. "L’immagine, moltiplicata, ripetuta, seriale diventa oscena, nel senso che non è più specchio di noi stessi e della nostra umanità, ma riporta a qualcosa d’altro". Riflette: "L’hanno capito bene i terroristi. L’11 settembre, dal punto di vista spettacolare assomigliava a un B-Movie, un film di serie B. Così, come le decapitazioni fatte dai militanti dell’Isis sono la messa in scena dei film dell’orrore". E ancora: "Il Male non fa più scandalo. È considerato un dato di fatto, un fenomeno da comprendere, ma senza indignazione". Torna alle immagini: "Ecco, nella proliferazione delle immagini oscene, l’altro non è più persona, ma solo corpo, nuda vita". E allorà "E allora la vita dell’altro, l’Altro è il nulla. Quando la sofferenza è una messa in scena tutto è possibile, tutto diventa questione di decoro, di ordine, e non dell’etica che deriva invece dalla trascendenza e quindi dal riconoscimento dell’Altro come assoluto". Ne sanno qualcosa in Argentina. Nel terreno dell’ex Esma, il principale centro delle torture sotto la dittatura, c’è oggi un memoriale. Nei sotterranei dell’edificio dove venivano tenuti i prigionieri, diventa palpabile la scena del film "Garage Olimpo" di Marco Bechis. Ecco: una donna nuda è legata al tavolo di ferro. Il boia chino sopra di lei. L’interrogatorio non serve a niente; è solo una gigantesca, mostruosa messa in scena; il teatro del Male; la rappresentazione del potere che non ha altro scopo che distruggere l’umanità dell’Altro e propria. Da questo punto di vista è peggio di Auschwitz. E per tornare a noi. Chi ride per le due "zingare" racchiuse in una gabbia, a chi fa schifo il rovistaggio, prima o poi rischia di creare tante Sarajevo e tante Esma. Un algoritmo ti giudicherà. "Minority Report" è realtà di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 14 maggio 2017 Un ragazzo fermato perché sosta in un luogo classificato sospetto da un software, un imputato condannato a sei anni perché ritenuto a rischio recidiva da un robot. E gli Stati Uniti si dividono. Un imputato condannato a una lunga pena detentiva da un algoritmo (il cui funzionamento è ignoto tanto alla sua difesa quanto allo stesso collegio giudicante). Cittadini sottoposti a controlli di polizia molto severi - e a volte anche rudi - da forze dell’ordine che usano sempre più tecniche informatiche predittive. Non siamo ancora al giudice-robot o al poliziotto-robocop ma in America lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e del machine learning - i computer che imparano dall’esperienza, cioè dal database delle indagini e dei processi - sta cambiando anche il modo di operare di magistrati e sceriffi. L’amministrazione della giustizia per via informatica è contestata dagli avvocati difensori e dalle associazioni per i diritti civili che nell’ambizione di impedire il crimine prevedendolo percepiscono un indebolimento dei diritti degli imputati. Col rischio di dare legittimità ai pregiudizi di molti agenti nei confronti delle minoranze nere e ispaniche. Ma il ricorso agli algoritmi va ugualmente diffondendosi nei tribunali e nelle polizie. E il motivo è semplice: risparmio. Il giudice non cede (per ora) al robot la decisione sulla colpevolezza di un imputato, ma la fissazione dell’entità della pena a volte sì perché l’intelligenza artificiale esegue in un attimo la faticosa e costosa ricerca della casistica e dei precedenti del condannato. In questo modo, però, alla fine tocca allo strumento informatico giudicare il rischio che un condannato torni a delinquere e, quindi, fissare durata della pena e condizioni per concedere la libertà su cauzione. Quanto alla polizia, facendosi dire da un computer in quali luoghi ci sono più probabilità che vengano commessi crimini, effettua una sorveglianza più efficace: colloca le sue poche pattuglie nei luoghi strategici. "Minority Report, il film di fantascienza di Steven Spielberg del 2002, adesso è realtà", dice l’ex capo della polizia di New York, William Bratton. In effetti da Los Angeles a Nashville, da Atlanta a Houston, sono ormai decine le polizie d’America che fanno ricorso a queste tecniche informatiche predittive. Lo stesso Bratton cominciò a stilare mappe del crimine negli anni Ottanta, quando alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan. E negli anni Novanta introdusse CompStat, il primo strumento informatico per la riduzione del crimine. Ma è negli ultimi anni che la fiducia nella tecnologia ha portato a un uso sempre più spregiudicato di questi strumenti. Fino ad alcuni casi recenti denunciati come violazioni dei diritti civili. La vicenda che ha fatto più discutere si è verificata in Wisconsin, dove l’imputato in una sparatoria senza vittime è stato condannato a una lunga pena detentiva perché giudicato ad alto rischio di ripetizione del crimine. Giudizio di un algoritmo, non di un magistrato: è stato lo stesso giudice che gli ha dato sei anni di carcere a sostenere che l’imputato, Eric Loomis, è considerato "un potenziale recidivo" sulla base delle analisi di Compas, un software giudiziario usato da molti tribunali americani. Loomis ha fatto ricorso contro l’uso di questa tecnologia. Intanto perché è uno strumento di analisi non sviluppato all’interno del sistema giudiziario Usa ma acquistato da un’azienda privata, la Northpointe Inc. E poi Loomis lamenta un vulnus dei suoi diritti d’imputato, visto che è impossibile sapere in che modo Compas formula i suoi giudizi. Non lo sanno nemmeno i magistrati giudicanti: la Northpointe vende il sistema ai tribunali ma non ne rivela il funzionamento, considerandolo un segreto industriale. La Corte Suprema del Wisconsin ha respinto il ricorso, autorizzando i tribunali a continuare a usare Compas. Al tempo stesso, però, la giudice che ha motivato la decisione, Ann Walsch Bradley, ha mostrato di sospettare che l’algoritmo applichi una sorta di discriminazione nei confronti dei neri, dando per scontata una loro maggiore tendenza a delinquere. Un dubbio non tale da mettere in dubbio la validità del nuovo strumento tecnologico, però: per la Bradley, Loomis avrebbe avuto una condanna pesante anche se a decidere fosse stato solo un giudice in carne e ossa, visti i suoi precedenti penali e la sua fuga in auto dal luogo della sparatoria. Ma di dubbi ne ha, e tanti, il presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti, John Roberts, che giudica il problema serio e urgente. E, infatti, il caso Loomis finirà davanti alla suprema magistratura federale. Quanto all’uso dei nuovi strumenti informatici da parte della polizia, il caso divenuto paradigmatico è quello di Connor Deleire, diciottenne bianco figlio di una famiglia di poliziotti, che nell’autunno del 2015 sostava a bordo di un’auto di un amico lungo un marciapiedi di Manchester, tranquilla città del New Hampshire. Quello che Connor non sapeva è che si era fermato in un luogo catalogato dagli algoritmi della polizia locale come predictive hot spot, potenziale teatro di un crimine. Sorpreso dai modi aggressivi degli agenti, il ragazzo ha avuto una reazione nervosa e, sostiene la polizia, non ha dato "una spiegazione ragionevole della sua presenza in quel luogo". Conclusione: colluttazione e Connor ricoverato con una commozione cerebrale ed escoriazioni sul volto. L’indignazione per simili episodi non ha frenato il ricorso a tecniche predittive tipo Minority Report. Ormai le usano regolarmente almeno 20 delle 50 maggiori forze di polizia degli Stati Uniti. A Manchester, ad esempio, gli agenti respingono le accuse sostenendo che la riduzione del 25 per cento del crimine registrata nel 2016 è in gran parte dovuta all’uso di queste tecniche informatiche. Mentre a Chicago una polizia molto criticata per la sua incapacità di arginare l’ondata di omicidi, spera di venirne fuori proprio grazie alle nuove tecniche e ha cominciato a compilare liste segrete di potenziali assassini e potenziali vittime usando i dati su crimini, arresti e gang. Insomma la via sembra ormai segnata, tanto che Andrew Ferguson, un giurista che insegna alla Clarke School of Law della University of the District of Columbia, sta per pubblicare un saggio, The Rise of Big Data Policing, interamente dedicato al fenomeno. Secondo Ferguson la polizia usa gli algoritmi soprattutto per difendersi dal sospetto di pregiudizio razziale. Più che una condanna totale del nuovo strumento, quella dell’esperto è una denuncia del suo impiego frettoloso e distorto: se usate in modo corretto, "le nuove tecnologie possono spingere le polizie a comportamenti più responsabili e a individuare i fattori socioeconomici che incoraggiano i comportamenti criminali". Difficile fermare un processo tecnologico alimentato da tre forze convergenti: risparmi delle pubbliche amministrazioni, meno lavoro per le polizie e i tribunali, la logica del business. Come quello di Axon-Taser, la società che offre body camera gratuite a tutti gli agenti d’America. Un’enorme massa di immagini e dati che verranno archiviati nei suoi server privati ai quali le polizie avranno accesso pagando un abbonamento al servizio. L’Ue attacca sui rifugiati: "Il nostro piano è fallito anche per colpa di Roma" di Marco Bresolin La Stampa, 14 maggio 2017 Lo studio del Parlamento Europeo: ecco perché la redistribuzione non funziona. C’è la mancanza di solidarietà degli altri Stati. Ci sono vincoli troppo rigidi per avere accesso al programma. Ma se il piano di redistribuzione dei richiedenti asilo non ha funzionato, la colpa non è solo di Bruxelles e dei partner europei. Una grossa fetta di responsabilità è anche dell’Italia. Impreparazione, mancanza di coordinamento, disorganizzazione, ritardi, burocrazia e in qualche caso pure malafede: è uno studio del Parlamento Europeo (redatto dai tecnici, non dai politici) a fotografare la situazione e a evidenziare tutti quei fattori che hanno portato il piano al fallimento. Gli eurodeputati ne discuteranno martedì a Strasburgo e giovedì voteranno una risoluzione per chiedere a tutti i Paesi Ue di fare la loro parte, ma ormai il tempo stringe ed è impossibile raggiungere gli obiettivi entro settembre: su 98.255 ricollocamenti previsti (63.302 dalla Grecia e 34.953 dall’Italia) siamo fermi a quota 18.396 (12.685 dalla Grecia e 5.711 dall’Italia). Parola chiave: "Aspetta" - I tecnici del Parlamento segnalano una "impreparazione diffusa" da parte degli attori in campo. Tutto ciò causa ritardi e "incertezze tra i richiedenti asilo". "La prima parola che imparano in italiano - sottolinea lo studio - è "aspetta"". A tutto ciò si aggiunge una forte "mancanza di coordinamento" (responsabilità condivisa con "gli organismi internazionali e l’Unione Europea") che si traduce in una "duplicazione dei controlli, alcuni dei quali inutili". Quindi spreco di tempo e di soldi. Dispersione sul territorio - Nel report c’è anche una critica al sistema di accoglienza "diffuso", tipico dell’Italia. Si parla di "dispersione" perché "il fatto che i richiedenti asilo siano sparsi lungo il Paese rende i controlli sanitari più difficili e ritarda i processi di trasferimento". Anche perché c’è una moltiplicazione dei passaggi: i centri di prima accoglienza si trovano in genere nel Sud Italia, poi però i migranti vengono trasferiti al Centro o al Nord. Ma per andare all’estero devono passare da Roma, che è l’unico centro per le partenze. Inadempienze e malafede - C’è poi un problema legato al mancato rispetto delle procedure. Rispetto alle autorità greche (anche loro oggetto dello studio) quelle italiane spesso "non forniscono la lista completa delle informazioni" necessarie agli Stati che devono accogliere i richiedenti asilo, come la situazione sanitaria o i legami familiari. Quest’ultimo aspetto rende difficili i ricongiungimenti. Un capitolo a parte è dedicato agli hotspot, in cui sorgono parecchi problemi. Ci sono difficoltà nella determinazione della nazionalità dei migranti, che in molti casi ricevono "un ordine di lasciare il territorio senza aver avuto accesso alle procedure per effettuare una domanda d’asilo". Nei centri di accoglienza spesso i rifugiati non ricevono tutte le informazioni del caso e "devono scontrarsi con molte barriere amministrative". Molti si rassegnano e abbandonano i centri, "con il rischio di movimenti secondari". Vincoli stretti - Lo studio definisce "problematici dal punto di vista legale ed etico" i parametri per individuare i richiedenti asilo che hanno diritto alla redistribuzione. Sono definiti a livello europeo e su questo l’Italia non ha responsabilità. Il criterio non è soggettivo, ma legato alla nazionalità: ne hanno diritto solo quelle il cui tasso di riconoscimento delle domande d’asilo è superiore al 75%. Ad oggi le nazioni sono Siria, Eritrea, Yemen, Antigua, Bahrain, i territori britannici d’oltremare, Guatemala e Grenada (cambiano ogni tre mesi in base ai dati Eurostat). Un paletto che riduce drasticamente la platea dei "candidabili": in Grecia attualmente sono 14.000, in Italia sono soltanto 3.500. Nelle nuove giungle di Calais tra i migranti fuggiti dall’Italia di Davide Lessi La Stampa, 14 maggio 2017 In 500 dormono nei boschi senza tende né servizi igienici. "Nel vostro Paese non c’era lavoro, sogniamo Londra". Ci vuole coraggio. Lo riconosci negli occhi di Rehman, nemmeno ventenne. "Ci arriverò, nascosto dentro un Tir o un’auto, ma alla fine riuscirò ad andare in Inghilterra", ripete mentre fiero scruta il cielo grigio della Manica. Calais, tra muri e reti coperte da filo spinato, sembra un vicolo cieco. Eppure per questo giovane pakistano è solo una tappa del viaggio. "Sono in Europa da più di un anno - racconta in italiano. Ho percorso la rotta balcanica, poi l’Austria mi ha lasciato passare i confini e, dopo Udine, sono stato in un centro di accoglienza nel Foggiano. Non c’era lavoro e ho deciso di andarmene". Ha fatto lo stesso Jafar, 19enne proveniente dall’Afghanistan, ospitato per un anno a Padova e poi scappato in Francia. Vicino a lui il connazionale Aarif si dispera: mostra una lettera di Poste italiane, datata Milano, che conteneva la sua carta ricaricabile andata perduta. Storie dalla fine dell’Europa, a 30 chilometri di mare dalla Gran Bretagna. "Londra chiama", hanno scritto in inglese con lo spray sopra il graffito del migrante Steve Jobs realizzato da Banksy su un muro di cemento all’ingresso della vecchia Giungla. Di quella "giungla" (dall’afghano dzhangal), che arrivò a ospitare 10 mila persone resta un accumulo di sabbia, alberi spezzati e detriti. È stata smantellata lo scorso autunno per volere del governo francese. Ma i migranti continuano ad arrivare: sono circa 500 i "nuovi esuli" di Calais. Li vedi a gruppetti ai bordi dell’A16 e nella vicina tangenziale che porta al terminal dei traghetti, quella circondata dal muro da 2,7 milioni di euro finanziato dai britannici. Molti di loro, circa 300, si ritrovano in un terreno ancora libero di una zona industriale, a poche centinaia di metri della vecchia Giungla. Al centro i pali dell’alta tensione, sul lato sinistro la boscaglia dove dormono: nessuna tenda, solo sacchi a pelo e coperte. "Non è l’Italia, qui piove sempre", lamenta l’afghano Jafar. Le temperature, anche a maggio, superano di poco i cinque gradi. Se ne percepiscono meno, soffiano forte i venti della Manica. "Il paradosso è che dopo l’evacuazione i numeri sono diminuiti, ma la situazione umanitaria è peggiorata", racconta Maya Konforti, 62 anni, gli ultimi tre passati a fare la segretaria dell’associazione L’Auberge des Migrante. "All’interno della Giungla c’era un minimo di accoglienza garantito mentre adesso queste persone non hanno letteralmente un posto dove vivere. Stanno tra la boscaglia dove da un momento all’altro potrebbe arrivare la polizia e cacciarli". Accanto a lei, nella "nuova giungla" dell’area industriale, si presenta un giovane con la faccia arrossata: chiede della crema per lenire il dolore. "Guarda come gli hanno ridotto gli occhi con i gas urticanti. Li fanno sgomberare anche così", denuncia Maya, nota tra i migranti come la "mamma della Giungla". Le camionette dei Crs, quelle degli agenti antisommossa, pattugliano la città. E anche nella zona artigianale tengono sott’occhio la situazione. "Siamo andati a processo contro il Comune e la Corte ci ha dato ragione: adesso possiamo distribuire cibo e coperte ai migranti. Ma la polizia ci lascia solo un’ora di tolleranza", dice Maya. Funziona così: verso le 19,30 una decina di poliziotti si avvicina ai furgoni delle associazioni e fa il segno di sgomberare tutti, volontari e migranti. Poco importa se la distribuzione è finita o meno. L’altra parte della storia la racconta Philippe Mignonet, 53 anni, vice-sindaco repubblicano di questa città costiera di 70 mila abitanti. "Il vicino campo d’accoglienza di Dunkirk, a una trentina di chilometri di qui, è andato a fuoco a metà aprile e ora i migranti stanno tornando a Calais. Dobbiamo evitarlo", dice categorico. "Da otto anni sono in consiglio comunale e il nostro problema, sette giorni su sette, è quello dell’immigrazione. Nell’immaginario collettivo siamo diventati la Lampedusa di Francia e facciamo fatica ad attrarre investimenti", spiega. "Non è chiudendo i confini che si risolve la situazione". Fa buio, i migranti continuano ad arrivare. Sognano Londra. Ci vuole coraggio. Migranti. "Basta diffamare chi salva vite umane" di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 14 maggio 2017 Un appello di Arci, Acli, Caritas italiana, Asgi e Amnesty International. Sigillare una frontiera liquida non è semplice come alzare un muro, di mattoni o di filo spinato, ma per padre Mosé Zerai cercare di farlo attraverso accordi bilaterali con la Libia e con il Sudan è addirittura "una illusione inutile" finché il circuito dei trafficanti di vite umane, dal deserto fino agli imbarchi sulle coste libiche, muove tre miliardi di dollari all’anno, "perché i trafficanti potranno facilmente corrompere i poliziotti di uno stato fallito come la Libia che guadagnano appena 50 dollari al mese". "L’Europa sta solo creando ostacoli temporanei e in questo modo fa solo fiorire il traffico di esseri umani, provocando ancora più sofferenze e morti", è l’atto d’accusa che don Zerai lancia dal festival Sabir organizzato a Siracusa da Arci in collaborazione con Acli e Caritas. La tre giorni di Sabir - oltre 1.500 partecipanti, di cui 800 iscritti ai workshop e rappresentanti di 80 organizzazioni di 30 paesi - si è chiusa ieri sera con una lunga e partecipata assemblea delle realtà associative internazionali della rete Alternative migranti e con un appello finale di denuncia della campagna diffamatoria che ha colpito da un mese a questa parte le ong che compiono salvataggi di migranti nel mar Mediterraneo, firmato congiuntamente da Arci, Acli, Caritas italiana, Asgi e Amnesty International Italia. "In Italia - scrivono le cinque associazioni promotrici - la campagna di diffamazione contro le Ong che stanno svolgendo, dopo la chiusura del programma Mare Nostrum, attività di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale, ha travolto tutte le organizzazioni che svolgono iniziative di solidarietà e tutela dei diritti umani". Un danno che fa da zavorra ulteriore a politiche che vanno in direzione di muri e trattenimenti. "Invece di creare un sistema ordinato che mettesse a disposizione percorsi sicuri - e di promuovere il rispetto e la protezione dei diritti umani nei paesi in cui dominano conflitti, persecuzioni e povertà, i leader europei si sono sempre più concentrati sul blocco delle frontiere e sui negoziati con governi che violano i diritti umani, allo scopo di impedire le partenze e lasciando ricadere l’onere improrogabile di salvare vite umane sempre più sulle associazioni umanitarie". Nel rapporto presentato dalla rete europea di associazioni Migreurop si evidenzia come soltanto nel 2015 per impedire ai migranti di entrare nel territorio Ue e sorvegliare le frontiere sono stati spesi almeno 15 miliardi e nel 2022 la cifra potrebbe arrivare a 29 miliardi di euro l’anno. Queste somme, testimonia il rapporto, vanno a finire Nell’industria della difesa e anche di multinazionali della sicurezza, come la statunitense Geo Group o altre compagnie private come G4S, Tascor, la francese Gdf Suez che ottengono appalti dagli Stati per gestire servizi all’interno dei centri di identificazione amministrativa dei migranti. Anche in Italia si sta radicando la presenza della multinazionale Gepsa, dice Migreurop, aziende con fini di lucro, al contrario delle ong che salvano i migranti in acqua e che ora sono, sole, sotto attacco di politici spregiudicati e illazioni pseudo giudiziarie. Libia. L’appello di Tripoli: "Italia, aiutaci o gli sbarchi continueranno" di Paolo Valentino Corriere della Sera, 14 maggio 2017 Il vice di Sarraj chiede più sostegno per stabilizzare il Sud e controllare i migranti. "Mentre parliamo gruppi di migranti stanno sicuramente raggiungendo le coste italiane, ma questo non avrà fine se non c’è un accordo sui modi per stabilizzare e mettere in sicurezza le frontiere meridionali della Libia. Se ci sarà collaborazione piena, io credo che ce la possiamo fare. Gli italiani vogliono che la nostra Guardia Costiera blocchi i barconi, ma dobbiamo lavorare in modo congiunto. E se non risolviamo i problemi del Sud della Libia, non risolveremo la questione dei migranti". Abdulsalam Kajman è il vicepresidente del governo di Riconciliazione Nazionale guidato da Fayez Al Sarraj. È a Roma per dar seguito al memorandum firmato nelle settimane scorse con il governo italiano per contrastare immigrazione illegale, traffico di droga, di esseri umani e di armi, ma anche per sostenere lo sviluppo della regione meridionale della Libia. Mi riceve nel giardino di una villa romana, sede dell’Ara Pacis Initiative, organizzazione non profit che promuove la riconciliazione e la pace nelle zone uscite da conflitti e guerre civili. "La situazione alla frontiera Sud è drammatica - dice Kajman - occorre concentrare energie e risorse su quell’area. Ne abbiamo discusso con il ministro dell’Interno Minniti. Siamo pronti a formare una nuova guardia di confine e il governo italiano è disposto a formare e addestrare gli uomini che vigileranno sull’intera frontiera. Purtroppo la difficile situazione economica in quella regione spinge molti giovani a lavorare per i trafficanti". La pressione migratoria come opportunità economica criminale? "Purtroppo sì, e l’unica strada per porre fine a questo legame insano è creare opportunità di lavoro onesto. L’accordo di riconciliazione fra due importanti tribù del Sud, i Tebu e i Tuareg, firmato proprio qui a Roma, sta cominciando ad avere conseguenze positive sul campo. Sono stati parzialmente sospesi gli scontri armati. Un nuovo linguaggio di riconciliazione comincia ad affermarsi. E questo faciliterà sicuramente il contrasto dell’immigrazione illegale. Ma sicurezza e sviluppo economico sono due facce della stessa medaglia. Comunque la Libia è solo un Paese di transito, anche i Paesi d’origine africani devono assumersi le loro responsabilità, ma questo è possibile solo con l’aiuto della comunità internazionale". Anche la situazione politica interna alla Libia non fa progressi. Il recente incontro tra il presidente Sarraj e il generale Haftar, capo delle milizie dell’Est, ha prodotto reazioni contrastanti, alcuni equilibri sembrano saltati. Esponenti dello stesso Consiglio presidenziale, di cui lei fa parte, parlano del rischio di una nuova spirale di violenza. "All’incontro di Abu Dhabi, Sarraj è andato a titolo personale, il Consiglio presidenziale è stato informato solo al suo rientro. Ci ha spiegato l’iniziativa di Haftar, che fra l’altro prevede la creazione di un nuovo Consiglio formato solo da tre persone: Haftar, Sarraj e il presidente del Parlamento, Saleh Aghila. Io ho ringraziato Sarraj perché sono sicuro della sua buona fede. Ma in Libia non c’è solo Haftar. Noi vogliamo che Sarraj contatti altre parti, come il Consiglio militare di Zintan e le milizie dell’Ovest, per spiegare loro le posizioni di Haftar. Il dialogo politico in Libia deve coinvolgere tutti. Purtroppo i media hanno presentato l’incontro come un patto, non è così. Negli ultimi giorni abbiamo assistito a un rifiuto diffuso dell’iniziativa del vertice Sarraj-Haftar". Che modello va seguito? "Quello sperimentato nel patto fra le tribù del Fezzan, la comunità internazionale deve appoggiare simili iniziative. Noi apprezziamo l’appoggio dell’Italia a Sarraj, ma chiedo alla Ue e alla comunità internazionale un appoggio esplicito a queste iniziative: risorse e azioni. Purtroppo abbiamo visto poche cose concrete. Invece ora alle promesse devono seguire i fatti. Noi affermiamo di voler fare la nostra parte per risolvere i problemi, ma non chiediamo l’elemosina. La Libia ha risorse, ma ha bisogno di know-how, conoscenze, esperienza amministrativa". Mi fa un esempio? Cosa deve fare di più concretamente la comunità internazionale? "L’ho già detto al ministro Minniti. Per esempio c’è una donazione turca di 20 tonnellate di medicinali, ma si tratta di portarle e distribuirle nel Sud della Libia. Minniti ci ha detto che l’Italia è pronta a inviare ospedali da campo mobili, ma occorre che anche altri Paesi e la Ue diano una mano. La situazione è critica, siamo alla vigilia dell’estate, il numero di migranti è destinato ad aumentare, ci sono pericoli di black out di corrente elettrica in vaste zone del Paese, di mancanza di liquidità. Da solo il nostro governo non ha le capacità per affrontare queste emergenze. Per questo mi appello alla comunità internazionale. Noi abbiamo fatto la nostra parte nella lotta al terrorismo, abbiamo avuto i nostri morti e feriti. Ora la Libia non può essere lasciata sola". Medio Oriente. La prigione Gaza allo stremo, tagliati stipendi e medicine di Michele Giorgio Il Manifesto, 14 maggio 2017 Abu Mazen avvia il "disimpegno" dalla Striscia, già schiacciata dall’assedio israeliano. L’Anp spera in una rivolta anti-Hamas in conseguenza del peggioramento delle condizioni di vita ma pagano solo i civili. "Chi ha un negozio passa il tempo ad aspettare clienti che non arrivano e noi taxisti spesso giriamo a vuoto. Non ci sono soldi, la gente è piena di debiti, non sa più come fare. E loro, Abu Mazen e Hamas, si combattono sulla nostra pelle". Nidal, taxista 47enne di Gaza city scuote la testa. Pensava di averle viste tutte negli ultimi dieci anni - tre offensive israeliane con migliaia di morti e feriti e distruzioni, combattimenti tra palestinesi, chiusure dei valichi di frontiera, disoccupazione record, scarsità d’acqua e mancanza di elettricità - e invece deve fare i conti anche con la politica del "disimpegno" da Gaza avviata dal presidente Abu Mazen e dal governo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) a Ramallah. È un disimpegno economico, non territoriale, poiché Gaza dal 2007, anno della lacerazione tra il partito Fatah di Abu Mazen e Hamas, è sotto il pieno controllo del movimento islamico. L’Anp ha deciso di non pagare più quella che chiama "l’occupazione di Gaza da parte di Hamas" e di lasciare ai suoi avversari l’onere di provvedere ai bisogni della popolazione, in risposta, sostiene, all’intransigenza degli islamisti decisi a non rinunciare allo loro autorità sulla Striscia. Tra aprile e maggio Abu Mazen ha deciso di tagliare del 30% lo stipendio, ma è più giusto definirlo un sussidio mensile, a circa 70mila ex dipendenti dell’Anp a Gaza ai quali dieci anni fa, dopo il "golpe" Hamas, era stato intimato di non lavorare per gli islamisti. Quindi ha annunciato che non avrebbe più pagato per l’acquisto del gasolio necessario al funzionamento dell’unica centrale elettrica della Striscia e garantito il pagamento della quota di elettricità che arriva da Israele. Il fine politico del "disimpegno" è evidente. Abu Mazen e i vertici dell’Anp sono convinti che questa prova di forza spingerà Hamas a cedere, forse sull’onda di proteste e moti di piazza causati dall’ulteriore peggioramento delle condizioni di vita. Obiettivo al quale a Gaza nessuno crede nonostante la crescente sfiducia della popolazione verso il movimento islamico e la sua amministrazione. "Immaginare una rivolta contro Hamas è davvero difficile" ci dice Khalil Shahin, vice direttore del Centro palestinese per i diritti umani di Gaza (Pchr) "senza dubbio molti abitanti sono insoddisfatti, tanti parlano di fallimento delle politiche del movimento islamico che non ha mantenuto le sue promesse, a cominciare dalla fine del blocco israeliano di Gaza, al quale si è aggiunto quello egiziano". Tuttavia, aggiunge Shahin "da qui a pensare a una sollevazione ce ne passa. Anche perché se la popolazione, o una parte di essa, da un lato non crede più ad Hamas dall’altro non ha fiducia nell’Anp a Ramallah. Nessuno vuole cadere dalla padella nella brace. Per questo non ci sarà la rivolta in cui forse spera Abu Mazen". Nel frattempo i civili, che da oltre dieci anni fanno i conti con il blocco israeliano e le politiche egiziane al confine di Rafah, pagano il conto della lotta di potere tra le autorità di Ramallah e quelle di Gaza. Shahin spiega che "il taglio del 30% dello stipendio agli ex dipendenti dell’Anp ha colpito proprio la quota di reddito mensile che migliaia di famiglie destinavano ai consumi, molto spesso quelli primari". Il resto dello stipendio, prosegue, "è destinato a coprire i debiti, spesso con le banche, fatti per sopravvivere". Occorre tenere conto, conclude il vice direttore del Pchr, "che i dipendenti dell’amministrazione pubblica di Hamas, circa 50mila, da tempo ricevono solo metà dello stipendio. Quindi quel 30% di reddito tagliato da Abu Mazen ha colpito i consumi e messo in ginocchio commercio e trasporti. Quei soldi che non arrivano più ogni mese da Ramallah, di fatto tenevano in linea di galleggiamento la fragile economia della Striscia". A Gaza fanno notare che il "disimpegno" colpisce i civili e scalfisce appena Hamas che, ben organizzato e disciplinato, può contare su riserve finanziarie ed energetiche, predisposte da tempo, che gli consentono di affrontare lunghe crisi, dai conflitti armati con Israele ai contrasti con l’Anp di Abu Mazen. A Ramallah però sono convinti di poter innescare a Gaza una sollevazione. L’ultimo settore colpito in ordine di tempo è la sanità. Ne sanno qualcosa all’ospedale "Rantisi" di Gaza city, dove sono in cura decine di ammalati di cancro e l’ong Palestine Children’s Relief Fund (Pcrf) sta costruendo, con donazioni giunte da tutto il mondo, il primo dipartimento di oncologia pediatrica della Striscia. "Non c’è alcuna decisione ufficiale però da Ramallah non sono arrivati i medicinali salvavita e oncologici e nel giro di qualche giorno non sarà possibile curare bambini e adulti, perciò al Rantisi sono in piena emergenza. Noi come Ong facciamo il possibile per dare una mano all’ospedale ma non basta", ci dice l’oncologa Zeena Salman del Pcrf. "Da quanto ci riferiscono qui a Gaza - aggiunge l’oncologa - i funzionari del ministero della sanità a Ramallah dicono a quelli di Gaza che i farmaci sono disponibili, eppure restano nei magazzini". La dottoressa Salman lancia un appello: "siamo medici e non entriamo in questioni politiche che non ci riguardano, qui però abbiamo ammalati gravi, molti sono bambini che per vivere hanno bisogno di quei farmaci e non meritano di essere abbandonati al loro destino". Oltre agli aspetti umanitari si guarda allo sbocco politico di questa nuova crisi tra Ramallah e Gaza. "Tutto rientra nel quadro regionale che si va delineando" afferma il giornalista Aziz Kahlout "Gaza e la questione palestinese diventano sempre meno importanti, per gli occidentali e per gli arabi. Gaza sarà lasciata al suo destino, governata da un Hamas di fatto prigioniero e isolato. Si lavora a uno Stato di Palestina solo in Cisgiordania".