Lotta alla radicalizzazione nelle carceri, al via un progetto che coinvolgerà 2.800 operatori giustizia.it, 13 maggio 2017 Via libera della Commissione Europea a progetto Ministero della Giustizia. Elaborazione e applicazione di programmi di trattamento individualizzato per detenuti e soggetti in area penale esterna mirati a contrastare il rischio di radicalizzazione violenta. È questo l’obiettivo del progetto europeo TRAin Training (Transfer Radicalisation Approaches in Training), presentato dal Ministero della Giustizia e selezionato dalla Commissione Europea che ne coprirà quasi totalmente i costi con un finanziamento di circa 600mila euro. Al progetto, elaborato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, con il coordinamento del Gabinetto, hanno aderito come partner l’Università Orientale di Napoli, il Centro di Ricerca Universitario sulla Criminalità Transnazionale (Transcrime), l’Università di Padova, l’Isisc - Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali, la Scuola Superiore della Magistratura, il Ministero dell’Interno e, a livello internazionale, l’Autorità bulgara competente per l’amministrazione penitenziaria e la Scuola Superiore della Magistratura belga. Prevista anche la collaborazione del Ministero della Giustizia tunisino e dell’Epta (Network of European Penitentiary Training Academies), in qualità di partner non beneficiari di sovvenzioni. Fra le finalità del progetto, che ha una durata di 24 mesi e coinvolgerà circa 2.800 operatori, il miglioramento della conoscenza della radicalizzazione violenta, dei segnali e dei mezzi di prevenzione e contrasto, sia in Italia che nei paesi partner; l’uso "a regime" di un nuovo protocollo di valutazione del rischio volto alla creazione di un metodo di lavoro comune a tutti i soggetti che, a diversi livelli, intervengono nell’intercettazione, presa in carico e gestione dei soggetti a rischio di radicalizzazione violenta o già radicalizzati, anche attraverso la costruzione di un sistema di scambio delle informazioni utili alla prevenzione e al contrasto del terrorismo e la ricognizione di metodi di lavoro già eventualmente avviati dai paesi partner di progetto; la formazione del personale front-line incentrata sull’apprendimento e l’uso di metodi di counselling e di contronarrativa. Il Comitato Stop Opg promuove un digiuno di protesta contro il Ddl Giustizia Il Piccolo, 13 maggio 2017 Il Comitato nazionale "Stop Opg - Ospedali Psichiatrici Giudiziari" ha espresso la propria profonda preoccupazione circa il testo del disegno di legge "Giustizia", già approvato dal Senato e ora in discussione alla Camera che, se confermato, rischia di riaprire la stagione degli ospedali psichiatrici giudiziari, ufficialmente chiusi con la legge 81/14. Tale disegno di legge vorrebbe disporre il ricovero di tutte le persone in stato d’infermità mentale nelle Residenze per le Misure di Sicurezza (Rems), che diverrebbero così - nella sostanza - dei veri e propri Opg. La riforma del 2014 vede nelle misure alternative alla detenzione, costruite sulla base di un progetto terapeutico riabilitavo individuale, la risposta prevalente da offrire per il recupero del detenuto. Denuncia poi il comitato Stop Opg che, moltiplicando strutture sanitarie di tipo detentivo dedicate solo ai malati di mente, si riprodurrebbe all’infinito la logica manicomiale. Il rientro dei malati di mente nel carcere o comunque nel "normale" circuito delle misure alternative alla detenzione, serviva e servirebbe proprio a ridimensionare il ruolo del cosiddetto "binario parallelo". Il comitato ha quindi indetto, anche a Trieste, un digiuno di protesta a staffetta, a cui è possibile aderire tramite iscrizione via e-mail: redazione@stopopg.it. Tra gli aderenti in città anche Lorenzo Toresini e Peppe dell’Acqua, entrambi psichiatri, gli avvocati Andrea Frassini e Elisabetta Burla, quest’ultima in qualità di garante comunale dei diritti dei detenuti, e Franco Rotelli, consigliere regionale del Pd. Spiega l’avvocato Burla: "Solo in tempi recenti, e con un percorso piuttosto tortuoso, si è potuto realizzare l’intento di chiudere gli Ospedali psichiatrici giudiziari caratterizzati, in molti casi e come è stato riportato nelle inchieste effettuate anche dal Comitato Europeo per la prevenzione della tortura, da indegne condizioni di vita delle persone in essi rinchiuse. In parallelo, la riforma ha previsto che le persone che non potevano essere dimesse per ragioni di sicurezza e protezione dovevano essere accolte nelle Rems la cui funzione doveva essere la loro gestione sanitaria. L’attuale disegno di legge verrebbe a ripristinare le norme che si reputavano superate includendo nelle Rems i soggetti con disturbi psichici e non solo quelli per cui è stato accertato in via definitiva lo stato d’infermità da cui deriva l’ulteriore condizione: la necessità di applicazione di una misura di sicurezza in ragione della riconosciuta e accertata pericolosità sociale. Una tale riforma verrebbe a vanificare l’intrapreso percorso ponendo in secondo piano il diritto alla salute e alla cura delle persone detenute". La riforma del processo penale accelera, in Aula alla Camera dal 22 aprile di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2017 Si stringono i tempi per la riforma del processo penale. La commissione Giustizia della Camera ha concluso l’esame degli emendamenti, respingendoli tutti, e il provvedimento sarà in Aula dal 22. Un colpo di acceleratore che rende evidente come per un disegno di legge tra i più tormentati sul fronte giustizia è ormai arrivato il momento della verità. O l’intesa che ha permesso alla maggioranza di bocciare tutte le proposte di correzione reggerà al test dell’Aula oppure anche solo una piccola modifica renderà necessario un nuovo passaggio al Senato e il più che probabile definitivo affossamento. Una risposta non è scontata. Le opposizioni per ragioni diverse e differenti obiettivi sono intenzionate a dare battaglia. Per il Movimento 5 Stelle la riforma è troppo blanda, non risolve i problemi della giustizia penale e soprattutto non mette una toppa alle falle delle norme anticorruzione (in commissione i "grillini" molto hanno insistito sull’introduzione dell’agente provocatore); mentre dal fronte centrodestra si contestano misure come l’allungamento della prescrizione attraverso il meccanismo della sospensione in caso di condanne di merito, sostenendo che in questo modo i processi dureranno troppo. Nella stessa maggioranza poi le tensioni per ora sopite potrebbero tornare a esplodere e intrecciare la tradizionale difficoltà a fare coesistere Pd e Alternativa popolare su temi "caldi" come la giustizia penale a possibili polemiche tutte interne al Pd, rispetto a un testo che ha raggiunto un punto di equilibrio anche grazie alla mediazione del ministro della Giustizia e attuale oppositore interno della segreteria Renzi, Andrea Orlando. Nasce anche di qui l’incertezza del Governo sul via libera a un nuovo voto di fiducia che sarebbe a questo punto risolutivo, come peraltro lo è stato al Senato dove ha permesso di sbloccare un impasse che si trascinava da tempo. A rendere più accidentato poi il cammino di una riforma che si muove tra norme che sarebbero subito operative (è il caso della prescrizione) e altre che dovrebbero poi vedere l’approvazione di decreti delegati (è il caso delle intercettazioni e dell’ordinamento penitenziario) ci si mette il fronte ostile pressoché compatto di magistrati e avvocati. I primi, con l’Anm, mettono nel mirino soprattutto la norma che impone l’esercizio dell’azione penale oppure la richiesta di archiviazione entro 3 mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini preliminari, con avocazione da parte della procura generale in caso di mancato rispetto del termini. Le Camere penali, dal canto loro, hanno proclamato mercoledì una nuova astensione dalle udienze dal 22 al 25 maggio per contestare l’impianto complessivo di un disegno di legge al quale viene imputato un drastico abbassamento delle garanzie. Giovani divisi sulla pena di morte. Ecco cosa pensano di Arturo Di Corinto La Repubblica, 13 maggio 2017 È uno dei più eclatanti aspetti emersi dalla ricerca dell’Osservatorio Generazione Proteo sui valori e le tendenze degli studenti di Nord, Centro e Sud Italia tra i 17 e i 19 anni. Diffuso il risultato di 20 mila questionari. I Giovani d’oggi. Né sfiduciati né rassegnati. Vendicativi, forse. Ottimisti, a tratti. Con una dichiarata esigenza di ancorarsi alla concretezza del vivere attraverso le possibilità offerte dalla cultura, dai viaggi, dai libri, dall’arte. Legati alle tradizioni dei padri si disinteressano di politica, ammirano l’uomo solo al comando, vorrebbero una società più giusta. Non hanno paura della disoccupazione ma di non poter realizzare i loro sogni. E non sono contrari alla pena di morte. L’istantanea scattata dal Quinto Rapporto di ricerca sui giovani presentato ieri a Roma dall’Osservatorio "Generazione Proteo" della Link Campus University illustra i forti chiaroscuri di un mondo giovanile in continuo cambiamento, ancorato al passato ma proiettato al futuro. Tra i dati più eclatanti della ricerca c’è il favore nei confronti della pena di morte (31,7%), ma accanto c’è anche il suo netto rifiuto (35,8%). La pena capitale viene invocata per i reati più gravi come la pedofilia e il terrorismo, fenomeni che non si possono controllare né per strada né chiudendosi in casa. I giovani assumono infatti il rischio terrorismo come un fatto della vita, che per l’80% degli intervistati non ha modificato le abitudini quotidiane. La ricerca dell’Osservatorio Generazione Proteo - Nella ricerca, che ha coinvolto 20mila studenti italiani fra i 17 e i 19 anni, realizzata dall’Osservatorio per il quinto anno consecutivo, emerge dai questionari la reazione all’intangibilità del mondo virtuale, che per questi giovani non è un tutt’uno con la vita sensibile come abbiamo spesso pensato. Una barriera esiste eccome, e si vede nel desiderio di viaggiare e vedere posti nuovi, di tenere in mano un libro, di stupirsi davanti all’arte di strada, di conoscere altre culture. Secondo Nicola Ferrigni, il professore della Link Campus University che ha condotto la ricerca, l’elemento caratterizzante di questi comportamenti sta nel desiderio di contrastare la virtualità delle relazioni con gli strumenti della cultura, intesa come tradizione, conoscenza e curiosità. "I nativi digitali - dice Ferrigni - vogliono leggere i libri di carta, vogliono avere qualcosa da toccare e da fare, e da grandi vogliono scrivere romanzi e canzoni anziché diventare youtuber o food blogger". Vogliono lasciare un segno, insomma, come con i tatuaggi: "Per imprimersi addosso il ricordo di qualcosa o di qualcuno, e non per seguire una moda". Questa "Cult generation", come è stata ribattezzata dai ricercatori, si distingue dai giovani "inafferrabili" e dai "solisti fuoriclasse" delle precedenti rilevazioni ma ne conserva alcuni tratti. Come la ricerca di modelli fuori dall’esperienza di gruppo per cui il leader è quello che decide da solo e non uno che sa scegliere i collaboratori. La politica, intesa come partecipazione, è fuori dai radar. Il 67,1% degli intervistati dice che gli interessa poco o per niente, per sfiducia (18,4%) e mancanza di modelli credibili (16,5%). Servirebbe per questi giovani adulti maggiore onestà (32%) e vicinanza alle esigenze dei cittadini (22,5%). I giovani, la scuola, il mondo virtuale - Decisivo il ruolo della scuola, sinonimo di crescita per il 40,8% degli intervistati, ma non sufficiente: il 26,2% ritiene infatti che si diventa persone colte anche viaggiando e conoscendo tradizioni e culture diverse. Non è la generazione dell’isolamento. Il 33,9% degli intervistati sa bene che i social possono creare dipendenza e disabituarli alla vita di tutti i giorni (29,1%) e anche se a volte trova rifugio nelle attività da tastiera (17,2%) ha fame di esperienza corporee, anche estreme. Il 10% ha dichiarato di aver provato l’eyeballing, l’ubriacamento che consiste nell’assumere alcool come un collirio. Il 4,2% sostiene di essersi procurato delle ferite per poi pubblicarne le immagini sui social. E nel 10,9% dei casi ha scattato selfie in situazioni estremamente pericolose: il 17,9% lo ha fatto in motorino. Nella vita oltre lo schermo preoccupano le fake news ma c’è fiducia nel lavoro di mediazione giornalistica. Il bullismo online è un tema rilevante. Il 50,9% avverte l’amico vittima di cyberbullying ma solo il 15,7% denuncia alle forze dell’ordine. E siccome Il 18,9% dichiara poi di esserne stato vittima e il 14,3% di avere reagito da bullo ritiene che il fenomeno vada combattuto a scuola e in famiglia, per il 25,5%, ma anche con leggi più severe, per il 25,1%. Lifestyle, droghe e lavoro - Il 38,4% sostiene di fare uso di droghe leggere, il 46,7% di bere alcool fino a perdere il controllo, per puro divertimento (49,1%) o per semplice curiosità (30,6%). La disoccupazione preoccupa il 22,9%, ma quasi 4 giovani su dieci (il 37,5%) hanno una preoccupazione ancora più alta, quella di non poter realizzare i propri sogni. Disposta a fare sacrifici (29,7%), la cult generation è pronta anche ad andare all’estero, dove ritiene, per il 45,1%, sia più facile fare impresa, ma di malavoglia: il 38% degli intervistati sostiene non vorrebbe lasciare l’Italia. Colpa medica, "basta processi e liti temerarie" di Nicola Rosselli Il Mattino, 13 maggio 2017 Le nuove norme a tutela delle professioni sanitarie. Greco: "Un pool di pm esperti del settore". Il rischio è quello di pervenire a un paradosso: l’assistenza sanitaria stabilita e codificata per legge, la professione medica "prigioniera" delle norme di sanità di Stato, la confusione tra i principi etici del giuramento di Ippocrate e un groviglio fatto di linee guida, protocolli d’intervento, accreditamento di strutture. Sono le criticità e i dubbi emersi nel corso del seminario di studi sulle "Nuove frontiere della responsabilità professionale", un master breve tenutosi ieri nella sede del Palazzo di giustizia di Napoli Nord-Aversa. L’incontro è stato organizzato dalla Camera civile su impulso del presidente Carlo Maria Palmiero e propiziato dall’impegno del senatore Lucio Romano che è stato tra gli artefici del percorso parlamentare della nuova legge sulla responsabilità professionale, la numero 24/2017 entrata in vigore lo scorso primo aprile. Ora si aspettano i decreti attuativi. Subito una novità sul fronte della magistratura inquirente: "Come Procura - ha detto il procuratore capo di Napoli Nord Francesco Greco - modificheremo il nostro assetto organizzativo in modo da costituire in pool di pm esperti nella legislazione sulla colpa professionale; valuteremo anche la possibilità di raffinare questa specializzazione mediante accordi specifici con gli organi di polizia giudiziaria che abbiano sviluppato particolari competenze in questo settore". Nel corso dell’incontro è stata sottolineata la particolare rilevanza della norma. Con essa, il legislatore, per porre rimedio alla cosiddetta medicina difensiva, che porta spesso il medico ad assumere condotte rivolte non già a dare benefici al paziente ma a proteggere sé stesso dalle eventuali contestazioni (mediante un’ipertrofia di prescrizioni diagnostiche e di laboratorio che costano in media 13 miliardi di euro l’anno), dopo aver chiarito in via generale che era esente da responsabilità il medico che si atteneva alle prassi codificate e controllate dall’Osservatorio Nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella Sanità, ha trasformato la responsabilità del medico da contrattuale in extra contrattuale, attribuendo al paziente e/o ai suoi familiari l’onere di dimostrare il relativo errore professionale e lasciando invariata la responsabilità della struttura sanitaria, rimasta contrattuale, che, per andare esente da responsabilità, dovrà provare l’assenza di colpa a carico dei propri operatori. Questi ultimi risponderanno alla propria struttura solo in ipotesi di colpa grave o dolo. In tal modo il medico verrebbe "sgravato" - nelle intenzioni del legislatore - da timori e patemi che nel passato avevano comportato, in ragione del numero delle cause pendenti, una sostanziale riduzione degli iscritti alle specializzazioni di Ginecologia e Chirurgia. E tuttavia alcuni elementi di criticità sono stati segnalati dal presidente del tribunale di Napoli Nord Elisabetta Garzo (che ha ricordato come negli ultimi anni si sia registrata una forte accelerazione - anche con interventi della Cassazione - su una materia che in passato non era sufficientemente regolata); dal giudice di Appello Antonio Lepre, esperto del settore e da poche settimane passato alla Procura di Palmi; dal professor Claudio Buccelli, presidente della società italiana di Medicina Legale. Gli aspetti legati alla professione medica sono stati tracciati dal presidente dell’ordine dei medici della provincia di Caserta Erminia Bottiglieri e dal manager dell’Asl Mario De Biasio. Romano ha ricordato i principi ispiratori della norma: "Occorreva chiarire e superare alcuni punti controversi della cosiddetta legge Balduzzi - ha ricordato - In Parlamento lo sforzo è andato in questa direzione ben consapevoli che non si dovesse avallare una legge contro la professione medica; anzi, occorre rivalutare il patto medico-paziente come elemento fondativo dell’alleanza terapeutica". Un tema quest’ultimo in parte ripreso anche dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri: "Siamo pronti come governo ad accogliere una serie di correttivi - ha detto ma un punto fondamentale dell’applicazione della legge resta certamente l’individuazione corretta delle linee guida e dei soggetti deputati a stabilirle. Sui questo credo si misurerà l’effetto reale delle nuove norme". Giornalismo di contro-regime… cioè, giornalismo di regime di Piero Sansonetti Il Dubbio, 13 maggio 2017 Le fake news sono diffuse dai social network o comunque dalla rete? No. Le fake news sono diffuse principalmente dai giornali e dalle televisioni. I social vengono a rimorchio, le rilanciano. Ma non sono loro a costruirle. Almeno, non sono loro a costruire le fake importanti. La responsabilità della creazione delle bugie e del loro uso come arma politica e di disinformazione ricade soprattutto sui grandi quotidiani e sui grandi giornalisti. Proviamo un inventario di avvenimenti recenti. Caso Guidi, con annesse dimissioni della ministra. Caso Consip, con annessa richiesta di dimissioni del ministro Luca Lotti. Caso Ong, con annessa richiesta di limitazione dell’azione dei soccorsi ai migranti sul Mediterraneo. Caso De Bortoli, con annessa - ed ennesima - richiesta di dimissioni della ministra Maria Elena Boschi. Su questi quattro casi i giornali italiani e i principali talk show televisivi hanno vissuto per mesi e mesi. Con titoli grandi in prima pagina e - alcuni - con vere e proprie campagne di stampa, molto moraleggianti e molto benpensanti. Certo, soprattutto del "Fatto Quotidiano" - che quando offre ai suoi lettori una notizia vera succede come successe a Nils Liedholm quando per la prima volta in vita sua sbagliò un passaggio: lo Stadio di San Siro lo salutò con una ovazione - ma anche di parecchi altri giornali che godono di alta fama. Ora vediamo un po’ come sono finiti questi quattro casi. Guidi: mai incriminata. L’inchiesta giudiziaria che la sfiorò, Tempa Rossa, conclusa con il proscioglimento di tutti. Era una Fake. Federica Guidi è scomparsa dai radar della politica. Consip, l’inchiesta è stata trasferita a Roma, le accuse al padre di Renzi erano fondate su una intercettazione manipolata da un carabiniere, anche le notizie sull’ingerenza dei servizi segreti (evidentemente mandati da Renzi per ostacolare le indagini) erano inventate da un carabiniere e l’informativa al Pm che riguardava queste ingerenze era stata scritta su suggerimento dello stesso Pm che avrebbe dovuto esserne informato. Fake e doppia fake. Ong, l’ipotesi del Procuratore di Catania che fossero finanziate dagli scafisti è stata esclusa dalla Procura di Trapani da quella di Palermo e da svariati altri magistrati. Fake. Intanto l’azione di soccorso ha rallentato. De Bortoli. Sono passati ormai quattro giorni da quando, per lanciare il suo libro sui poteri forti, l’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore ha diffuso la notizia della richiesta di Maria Elena Boschi all’amministratore delegato di Unicredit di comprare la banca nella quale lavorava il padre. Boschi ha smentito nettamente. Anche la banca ha dichiarato che non risulta niente. De Bortoli ha fatto mezza marcia indietro, poi ha accusato Boschi e Renzi, o almeno i loro ambienti, di essere massoni, ed è andato in Tv, senza portare neppure uno straccio di prova delle sue accuse ed evitando il confronto diretto con gli avvocati della Boschi. Tranne improvvisi colpi di scena, appare evidente un po’ a tutti che l’accusa di De Bortoli è infondata, altrimenti, ormai, avrebbe fornito degli elementi a sostegno della sua tesi. Anche qui possiamo dire: fake. La questione invece del complotto massonico a favore di Renzi, denunciato da de Bortoli, non è definibile esattamente una fake, è solo qualcosa di già visto tante volte nella politica italiana. In frangenti non bellissimi. Il più famoso complotto massonico - per la precisione giudaico- massonico, anzi: demo- pluto-giudaico-massonico - fu denunciato da Mussolini, nel 1935, per favorire la persecuzione dei massoni e poi lo sterminio degli ebrei. Non ci fa una gran figura De Bortoli a tornare sul quel concetto, peraltro senza avere proprio nessun indizio sulla appartenenza di Boschi o di Renzi alla massoneria. E in ogni caso andrà segnalato il fatto che la massoneria non è una associazione a delinquere. Furono massoni, in passato, un gran numero di Presidenti americani, tra i quali Washington e Lincoln, furono massoni poeti come Quasimodo e Carducci, furono massoni Cesare Beccaria, Mozart, Brahms, e svariate altre centinaia di geni, tra i quali moltissimi giornalisti di alto livello, parecchi dei quali del Corriere della Serra. Possibile che un giornalista colto e autorevole come De Bortoli scambi la massoneria per Avanguardia Nazionale? Eppure De Bortoli ha trovato grande sostegno nella stampa italiana. In diversi giornali e in diverse trasmissioni Tv la sua "ipotesi di accusa" alla Boschi è stata ed ancora in queste ore è presentata come dato di fatto: "Lei che ha svelato la richiesta della ministra". Una volta esisteva la stampa di regime. Ossequiosa verso i politici, soprattutto, e in genere verso l’autorità costituita. Ora esiste la stampa di anti-regime. O di contro-regime, che però funziona esattamente come la stampa di regime. Anche perché ha dietro di se poteri molto forti. Non solo un pezzo importante di magistratura ma uno schieramento vasto di editori, cioè di imprenditoria, diciamo pure un pezzo robustissimo della borghesia italiana. De Bortoli oggi è sostenuto da quasi tutti i mezzi di informazione, e si può pensare tutto il bene possibile di lui, tranne una cosa: che sia un nemico dei poteri forti. De Bortoli, per definizione, è i poteri forti. Lo è sempre stato, non lo ha mai negato, nessuno mai ne ha dubitato. La stampa di contro-regime funziona esattamente così. Non è una stampa di denuncia ma una stampa che costruisce notizie e le difende contro ogni evidenza e logica anche queste crollano. Nei regimi totalitari questa si chiamava "disinformazia" ed aveva un compito decisivo nel mantenimento al potere delle classi dirigenti. Ora si chiama fake press e ha un ruolo decisivo nella lotta senza quartiere che è aperta nell’establishment italiano per la conquista del potere, di fronte alla possibilità di un rovesciamento dei rapporti di forza nel ceto politico. L’avanzata dei 5 Stelle ha provocato un terremoto. Pezzi molto grandi, autorevoli e potenti proprio dei poteri forti si predispongono a dialogare coi 5 Stelle, prevedendone, o temendone, l’ascesa al governo. Questo movimento tellurico squassa la democrazia e devasta i meccanismi dell’informazione. Esistono le possibilità di resistere, di fermare il terremoto, di reintrodurre il principio di realtà - se non addirittura di verità - nella macchina dei mass media che lo ha perso? Non è una impresa facile. Molto dipende dai giornalisti. Che però, nella loro grande maggioranza, oggi come oggi non sembrano dei cuor di leone. Sardegna: visita della Commissione antimafia "verificare la sicurezza delle carceri" admaioramedia.it, 13 maggio 2017 "La visita della Commissione antimafia guidata dalla Presidente Rosy Bindi in Sardegna per una missione dedicata al sistema carcerario sardo è un’iniziativa opportuna. Sarà l’occasione per verificare la sicurezza delle carceri ed il sistema della prevenzione delle infiltrazioni mafiose nell’isola". Lo afferma il senatore del Pd Silvio Lai a proposito della missione di una delegazione della Commissione parlamentare guidata dalla presidente Rosy Bindi che la settimana prossima sarà in missione nell’isola per fare il punto sulla situazione della criminalità organizzata nella regione. "Il sistema carcerario sardo è certamente uno tra quelli che ha superato il problema della qualità delle strutture dato che sono stati chiusi sia il carcere di Buoncammino a Cagliari sia quello di San Sebastiano a Sassari, sostituiti da strutture moderne, predisposte per ospitare i detenuti sottoposti al regime 41bis", spiega il senatore Dem. "Ritengo sia importante chiedere alla commissione in questa sua missione la massima attenzione per il sistema di sicurezza delle carceri tenuto conto della particolare condizione territoriale e del fatto che deve ospitare figure appartenenti alla criminalità organizzata che non ha presenza in Sardegna. Massima attenzione, dunque, finalizzata alla possibilità di garantire il più alto grado di controllo di eventuali infiltrazioni mafiose connesse alla permanenza nelle carceri di figure di rilievo di quelle organizzazioni. Massima attenzione inoltre nel verificare la possibilità di rafforzare l’apparato di prevenzione costituito dalla Dda di Cagliari, che deve coprire, da sola, un territorio esteso quanto quello della Sicilia". Martedì prossimo nella Prefettura a Cagliari la Commissione sentirà i prefetti di Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano. Successivamente sarà ascoltato il Procuratore distrettuale Antimafia del capoluogo. Nel corso della missione verranno approfonditi anche i temi relativi alla gestione dei detenuti in regime di 41 bis. Mercoledì sono invece previsti i sopralluoghi alla casa circondariale di Cagliari Uta e al carcere di Sassari. Sardegna: la Regione "congela" il Cpr nell’ex carcere di Iglesias admaioramedia.it, 13 maggio 2017 Stop della Regione alla proposta del ministero degli Interni sulla destinazione dell’ex carcere mandamentale di Iglesias a Centro di permanenza per i rimpatri dei migranti (Cpr). Oggi, in concomitanza con la manifestazione di protesta organizzata da Forza Italia davanti all’ex penitenziario, il presidente delle Regione Francesco Pigliaru ha scritto una lettera al ministro degli Interni Marco Minniti in cui chiede un incontro all’esponente del Governo "per verificare la possibile localizzazione di un Cpr nell’isola e contemporaneamente affrontare le altre importanti questioni che, in considerazione del rilevante aumento del numero degli sbarchi, impone che siano prontamente trattate, al fine di fornire risposte rapide e adeguate per accogliere i migranti in condizione di legalità e sicurezza". In particolare la Regione sarda "congela" il suo parere decisivo sull’eventuale ubicazione di un Cpr in Sardegna per attendere la Conferenza permanente Regione-Enti Locali che si riunirà il prossimo 16 maggio a Cagliari. Nella missiva, Pigliaru esprime preoccupazione per gli arrivi diretti sulle coste sarde e mette dei paletti sottolineando in particolare modo che "l’apertura di un Centro di Permanenza per i rimpatri (Cpr) in Sardegna deve essere esclusivamente finalizzata a garantire ospitalità ai migranti che, in arrivo dall’Algeria, sbarcano direttamente nelle nostre coste. Ciò anche al fine di scoraggiarne l’arrivo che ormai si verifica quotidianamente con numeri crescenti". Nella missiva il presidente sardo ricorda al Governo i dati impressionanti sugli sbarchi diretti nelle coste sarde: "a fronte dei 159 migranti sbarcati direttamente nell’isola nel 2014 e dei 291 nel corso del 2015, sono stati 1106 quelli arrivati direttamente nelle nostre coste nel 2016 e l’anno in corso sembra confermare questo crescente trend. Ma l’apertura di un Cpr - osserva Pigliaru - non costituisce una misura sufficiente se non accompagnata da un’ulteriore attività di carattere più ampio che coinvolga le autorità algerine e che consenta di pervenire alla stipula di un accordo Italia-Algeria per la gestione concertata del fenomeno migratorio, mirato a contrastare l’immigrazione irregolare in linea con quello recentemente firmato con il governo tunisino". All’indomani della proposta del ministero, che prevedeva la creazione nell’ex casa mandamentale di Iglesias di una struttura da 100 posti, la Regione sarda si era comunque riservata di far pervenire al Ministero degli Interni la sua posizione, che prevede il coinvolgimento dell’Anci e delle amministrazioni locali, ed aveva sottolineato comunque che la decisione definitiva del Governo presuppone l’accordo con la Regione che ha comunque la possibilità di proporre alternative. Nella lettera odierna viene ribadita la necessità di una giusta e doverosa solidarietà coniugata a un’effettiva sicurezza ai cittadini e si ricorda come la Sardegna si stia impegnando responsabilmente e con generosità nelle diverse fasi dell’accoglienza dei migranti. "La Giunta - sottolinea Pigliaru - si è già attivata per un confronto con il Consiglio delle Autonomie Locali e l’Anci per il necessario coordinamento in vista dell’identificazione della struttura più idonea a ospitare un Cpr". Su questo punto, è stata ufficializzata la data della Conferenza permanente Regione-Enti Locali che si riunirà per esaminare le questioni dei flussi migratori non programmati e della possibile individuazione di un Cpr il prossimo 16 maggio, alle 11, nella sede dell’Assessorato degli Enti Locali". Asti: l’appello di Sel e Radicali Italiani "il carcere sia parte della città" atnews.it, 13 maggio 2017 Ieri il Capogruppo di Sel Marco Grimaldi si è recato, insieme ai due esponenti dei Radicali Italiani Silvja Manzi e Igor Boni, in visita alla Casa di reclusione di Asti. Sono stati accolti dalla Direttrice Elena Lombardi Vallauri. Attualmente sono presenti nell’istituto 240 detenuti circa, su una capienza di 207. Il personale effettivo è di meno di 80 unità fisse, a fronte di una dotazione prevista di 217 agenti di polizia penitenziaria. Ci sono poi sei educatori. La delegazione si è fermata diverse ore nella struttura, visitando le sezioni, i laboratori e i camminamenti, e trattenendosi a parlare con i detenuti e con gli agenti. Anche se l’edificio non presenta i livelli di fatiscenza riscontrati in altre strutture regionali, vi sono gravi problemi derivanti da infiltrazioni e dal mancato rifacimento del tetto. La Casa di reclusione di Asti è uno degli ultimi istituti in cui prevale un regime di massima sicurezza e di gestione non dinamica, con celle chiuse per la gran parte della giornata. Inoltre, il sovraffollamento evidente che fa sì che molti detenuti debbano condividere celle che sarebbero da una persona, il che ha provocato un ricorso collettivo per chiedere una perizia sull’effettiva metratura delle stanze che, se risultasse minore dei tre metri quadri, potrebbe giustificare una riduzione del numero dei detenuti nell’istituto o uno sconto di pena di 36 giorni l’anno. Emerge inoltre una difficile gestione dell’accoglienza. Sono assenti mezzi pubblici e una sala d’aspetto adeguata; inoltre, per visite di famiglie che vengono una volta al mese da altre regioni con bambini al seguito e si trattengono per più ore, si dovrebbero prevedere spazi idonei all’attività ludica dei bimbi e all’accoglienza in generale. I laboratori rappresentano invece esperienze uniche e straordinarie. La digitalizzazione degli archivi cartacei del Comune di Asti è un’attività di grande importanza, che andrebbe potenziata e retribuita come un vero lavoro (da giugno a oggi più di 30mila documenti sono stati scansionati, restaurati e archiviati). Sono più di 80 i posti di lavoro a rotazione nella struttura. Tuttavia l’istituto necessita di un ampliamento dei corsi di formazione universitaria e superiore, come l’alberghiero, di cui la Direzione ha più volte fatto richiesta, e dell’aumento di attività imprenditoriali anche dall’esterno, che possano includere il maggior numero di detenuti. "Pensiamo sia ineludibile che in ogni piano le porte vengano tenute aperte il più possibile, per andare verso una gestione che responsabilizzi i detenuti ed eserciti meno pressione sugli agenti" - dichiarano i membri della delegazione. "Ci rendiamo conto delle particolarità del regime di detenzione, pertanto la condizione per raggiungere l’obiettivo non può che essere un maggior numero di agenti, i quali non possono essere sostituiti in toto dalle telecamere. Vista la conformazione del carcere e l’impossibilità nella gran parte delle celle di aprire le finestre, bloccate dai letti a castello, bisognerebbe arrivare ad avere un solo detenuto per cella. Perciò una perizia del tribunale sarebbe opportuna. Facciamo appello ai candidati alla carica di Sindaco di Asti affinché si impegnino a non abbandonare l’istituto a se stesso e lasciarlo privo di servizi importanti, come oggi purtroppo accade". Prato: "botte al detenuto", la Procura indaga quattro agenti di Luca Serranò La Repubblica, 13 maggio 2017 Rachid avrebbe registrato diversi abusi subìti A sua volta è stato denunciato per resistenza. Una scarica di calci e pugni per aver osato sfidare la legge del carcere, registrando voci, botte e minacce. La procura di Prato indaga sulla denuncia presentata da Rachid Assarag, detenuto marocchino che sta scontando una pena di 9 anni e 4 mesi per violenza sessuale, e che ha registrato in diversi istituti italiani presunti abusi da lui subìti da parte degli agenti della polizia penitenziaria. Assarag, difeso dall’avvocato Fabio Anselmo, ha descritto di fronte ai magistrati un autentico pestaggio, che sarebbe stato scatenato proprio dalla scoperta dell’apparecchio: per verificare le pesantissime accuse la procura ha iscritto sul registro degli indagati 4 agenti della polizia penitenziaria, all’epoca (i fatti risalgono alla primavera del 2014) in servizio a Prato, ipotizzando i reati di lesioni aggravate, abuso di ufficio e omissione di atti d’ufficio, calunnia e falso. Le guardie spiegarono infatti di essere state aggredite da Assarag dopo averlo sorpreso ad armeggiare con una forbicina, tanto da denunciarlo per resistenza. Gli accertamenti, affidati ai pm Lorenzo Gestri e Laura Canovai, proseguono ora nel massimo riserbo per ricostruire con precisione l’accaduto. "Abbiamo massima fiducia nella magistratura, speriamo che si faccia giustizia il prima possibile - commenta Fabio Anselmo. Le registrazioni fatte da Rachid sono state ritenute genuine da più giudici e ci danno un quadro che definire inquietante è dire poco". Assarag è stato sentito una prima volta dal sostituto procuratore Gestri nel novembre del 2014, nel carcere di Sollicciano, dopo aver ricevuto l’avviso di conclusioni indagini per l’accusa di resistenza. Sconvolgente il racconto fatto davanti al magistrato: "Il personale si accorse del registratore di piccole dimensioni che avevo attaccato con un filo all’altezza del petto, ed era nascosto da una maglietta. Iniziarono a chiedermi conto (…), io risposi che era l’unico modo per dimostrare le condotte illecite e da quel momento iniziarono a picchiarmi. All’inizio erano quattro ma col passare dei minuti sopraggiunsero altri agenti. Ad un certo punto erano almeno otto persone". E ancora: "Fui costretto a rimanere a terra prono, e sentivo sopra di me che montavano gli agenti e scalciavano (..) ricordo che mentre ero ancora in terra alla presenza degli ispettori intervenuti che avevano determinato l’interruzione dell’aggressione, sentii il personale che mi aveva colpito dire tra loro che in magazzino avevo forbici non consentite". Poi, durante il tragitto in infermeria (Assarag si muove su una sedia a rotelle), altre botte e minacce. Il detenuto marocchino ha denunciato abusi, e rimediato denunce, anche durante la sua detenzione a Sollicciano. Nel giugno 2014 fu testimone della disperazione di un detenuto che chiedeva di accedere a un piccolo conto per chiamare al figlia all’estero: al rifiuto delle guardie penitenziarie, l’uomo iniziò a tagliarsi le braccia con una lametta per protesta, e alcuni giorni più tardi si uccise con una bomboletta del gas. Rachid chiese più volte di indagare sulla vicenda, e due mesi più tardi cercò di superare il cancello semiaperto della sezione per andare a fare denuncia. Pochi giorni più tardi riuscì nel suo intento, ma le indagini sono ancora in corso. Vibo Valentia: la cella è piccola, lo Stato dovrà risarcire un detenuto di Gianluca Prestia Quotidiano del Sud, 13 maggio 2017 Sentenza del tribunale civile di Catanzaro su normativa europea. La cella era troppo piccola e adesso lo Stato è stato condannato a risarcirlo. La vicenda è portata alla luce dall’avvocato Giuseppe Orecchio, legale di fiducia di A.P. 50 anni, residente del comune di Cessaniti, che, per veder riconosciute le ragioni del proprio cliente, si è rivolto al Tribunale civile di Catanzaro ottenendo una sentenza favorevole. In buona sostanza, attingendo ampiamente alla convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale "nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene e trattamenti inumani o degradanti", è stato messo all’attenzione del magistrato la circostanza che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto sussistente la violazione dell’articolo 3 "Cedu", vale a dire che le misure della cella previste dall’apposita legge non sono state rispettate nel caso specifico che parlava di un sovraffollamento della struttura carceraria con la consequenziale venuta meno delle adeguate condizioni di vita dei detenuti. Quella dell’istituto penitenziario di Vibo Valentia in cui è si è trovato recluso A.P., dal 2009 al 2013, per reati di lesioni e violenza gravissime, non sarebbe quindi stata a norma (avrebbe dovuto essere di 3 metri quadrati) anche perché condivisa con altri carcerati. Il Tribunale presieduto dal giudice onorario Maria Renda ha rilevato in sentenza che nella casa circondariale di Vibo, nel periodo di detenzione di A.P., le celle avevano un’ampiezza di 25 metri quadri ed ospitavano otto persone, in più nel periodo estivo si registravano problemi di erogazione dell’acqua. Pertanto, la violazione della normativa europea è stata "certamente sussistente non avendo, il ricorrente, potuto, nel periodo di detenzione, garantite le condizioni igieniche personali a causa dell’assenza di acqua nei periodi estivi e dell’insufficiente spazio all’interno della cella". Pertanto, il giudice, ha inflitto allo Stato una condanna al risarcimento di 8 euro per i 1.080 giorni di reclusione di A.P.: totale 8.640 euro sui 9mila chiesti dall’avvocato Orecchio per conto del proprio cliente. Una sentenza, questa, che non è una primizia ma che tuttavia, visto che molte strutture carcerarie non sono a norma con la legge in questione, potrebbe portare numerosi altri detenuti ad intraprendere lo stesso percorso chiedendo e spesso ottenendo fior di risarcimenti allo Stato. Soldi dei contribuenti. Trento: la lezione di legalità si fa in carcere "recuperare i detenuti è utile a tutti" di Erica Ferro Corriere del Trentino, 13 maggio 2017 Profiti: "Dalle regole democratiche il rispetto". Franzoia: "Conoscenza e prevenzione". Parlare, insegnare e imparare la legalità in carcere? Non è un ossimoro, ma la convinzione che ha portato la direzione della struttura di Spini, l’Associazione nazionale magistrati e il liceo Antonio Rosmini a organizzare ieri mattina un seminario sul tema, nella sala teatro dell’area detentiva della casa circondariale. "Per noi educare alla legalità vuole dire educare alla cittadinanza" sostiene la preside Matilde Carollo. "Il rispetto della propria dignità e di quella altrui viene solo dal rispetto di una legalità democratica riempita di contenuti, dalla solidarietà all’inclusione di tutte le diversità" aggiunge il sostituto procuratore di Trento Pasquale Profiti. La "Notte bianca della legalità per gli studenti", promossa dall’Anm e ospitata oggi per la prima volta a Trento, ha così avuto ieri il suo prologo di fronte a quegli allievi che non possono lasciare la loro "scuola", i detenuti nella casa circondariale di Spini di Gardolo. Dove "non esistono i compiti a casa - come ha ricordato Antonella Valer, docente di diritto nella sezione del carcere del Liceo economico sociale - non perché non ci sia il tempo per farli, ma soprattutto perché non c’è una casa". Dove "non si poszione sono fare ricerche al volo in internet, perché non si è connessi" e in cui può capitare che non ci sia lezione perché "oggi c’è la perquisizione generale". Studenti che dai 24 insegnanti del Rosmini imparano italiano, inglese, tedesco, informatica e religione, ma cercano anche di conseguire la licenza media e il diploma liceale (e la Provincia sta cercando di introdurre il percorso alberghiero). A loro Profiti e il procuratore aggiunto a Roma Rodolfo Sabelli hanno parlato di legalità e dell’importanza della consapevolezza e della gravità dei crimini, compresi quelli economici commessi dai colletti bianchi. Al convegno sono intervenuti anche il presidente della Fondazione Franco Demarchi Piergiorgio Reggio e l’assessora Maria Chiara Franzoia, che ha sottolineato l’importanza del dialogo e dell’impegno civico fra il territorio e il carcere in termini di "prevenzione, conoscenza e presa in carico". Oltre alla scuola, i detenuti possono contare sulla presenza di circa 300 operatori all’anno per il loro percorso rieducativo: l’amministrazione penitenziaria mette a disposizione un centinaio di posti di lavoro a rotazione bimestrale o trimestrale in entrambe le sezioni, maschile e femminile. Ci sono anche cinque cooperative che offrono percorsi di lavoro o tirocinio remunerati, laboratori tematici e sportelli informativi, di sostegno e consulenza. "Le persone non devono essere lasciate sole, è importante che la comunità se ne faccia carico - conclude Valer - perché in carcere ci sono persone ricche di risorse, energia, umanità ed è interesse di tutti recuperarle e inserirle positivamente nella società". Sondrio: gli studenti in carcere, un "incontro di vita" La Provincia di Sondrio, 13 maggio 2017 I ragazzi del Pinchetti di Tirano in visita alla Casa circondariale di Sondrio. Uno degli aspetti che più ha colpito gli studenti delle classi terza e quarta sezione C del liceo Scienze umane dell’istituto Pinchetti di Tirano è quello di aver visto dietro le sbarre tanti giovani uomini di 30-32 anni. I detenuti, nella fase finale dell’incontro, hanno parlato di sé e mostrato il rimpianto di aver buttato via una parte importante della loro vita. È stata un’esperienza formativa e umana molto intensa quella che hanno vissuto gli studenti del Pinchetti che hanno partecipato al progetto "La scuola in carcere", rientrante fra le attività dell’alternanza scuola-lavoro. La proposta si è divisa in due momenti: il primo con una formazione svolta a scuola e il secondo con l’esperienza del carcere. La prima attività si è tenuta, nei giorni scorsi, nell’aula magna della scuola con la relazione di Stefania Mussio, direttrice della casa circondariale di Sondrio, e di Luca Montagna, comandante del reparto di Polizia penitenziaria della casa circondariale del capoluogo valtellinese. Il secondo appuntamento è stato, invece, martedì mattina, al carcere sondriese dove prima si è tenuta una parte teorica, poi una visita della struttura ed infine l’incontro con i carcerati. Un percorso di grande impatto per i ragazzi del Pinchetti che si sono trovati davanti giovani di pochi anni più di loro, che hanno avuto non pochi guai con legge. Un uomo di 32 anni ha raccontato di aver fatto dentro e fuori dal carcere da 12 anni a questa parte. Uno studente ha incontrato una persona che conosceva ed è rimasto impressionato. "Gli studenti sono rimasti colpiti e hanno fatto parecchie domande - afferma il coordinatore del progetto, Bruno Di Giacomo Russo -. Immaginavano il carcere come un luogo triste e tetro, invece hanno trovato locali colorati e molta umanità. Alcuni carcerati, in base all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, sono liberi dalle 9 alle 21 e rientrano alla sera in carcere; altri nel confronto finale hanno raccontato di se stessi dicendo che si sono tolti con le loro mani la libertà ed ora stanno maturando la voglia di riscatto. Il comandante Montagna, che ha già lavorato in trentacinque case circondariali nonostante la giovane età, ha parlato della sicurezza in carcere, mentre la direttrice ha voluto sottolineare che, nonostante si cerchi di offrire un servizio umano, queste persone sono comunque lì per scontare la loro pena. L’esperienza è stata molto funzionale alla formazione degli alunni, alcuni dei quali hanno l’ambizione di diventare psicologi, educatori, assistenti sociali". Gli studenti sono stati accompagnati dai professori Giuseppe Caltabiano, Lorena Pini e Raffaella Raschetti. Avezzano: tra detenuti, studenti e pazienti psichici… un confronto sui temi della vita terremarsicane.it, 13 maggio 2017 Detenuti, pazienti psichici e studenti delle superiori, seduti insieme gli uni accanto agli altri, all’interno della sala- conferenze del carcere di Avezzano, in un confronto sui temi dell’esistenza e della vita, in uno scambio osmotico tra mondi diversi, all’insegna dell’integrazione e della solidarietà. È un’iniziativa di cui non si conoscono precedenti quella messa in atto questa mattina ad Avezzano, all’interno del penitenziario marsicano, promossa dal dipartimento di salute mentale della Asl e coordinata dalla psicologa Stefania Ricciardi. Gli ospiti che scontano la pena, una rappresentanza di studenti dell’istituto Magistrale di Avezzano e alcuni pazienti con problemi psichici del centro diurno di Avezzano, gestito dalla Asl, si sono ritrovati a confrontarsi sui temi della vita, del dolore, delle difficoltà esistenziali e della religione, partendo dal concetto di felicità, un singolare spunto-discussione, scelto volutamente dai promotori del progetto Asl, tenendo conto che è stato trattato in una struttura penitenziaria. Ne sono scaturiti momenti di riflessione seri e scherzosi, leggeri e impegnativi che hanno aperto a tre realtà profondamente diverse orizzonti di pensiero e di analisi insospettabili. Quello di questa mattina è stato il quarto e ultimo incontro di un progetto, iniziato nei mesi scorsi, a cui erano presenti, tra gli altri, Angelo Gallese, direttore del centro salute mentale di Avezzano, il prof. Franco Picini, responsabile della sezione buddista del Lazio e Marta Gallese, psicologa della Rems di Barete. Presenti, inoltre, rappresentanti dell’associazione Rindertimi e operatori Asl del centro diurno che assiste i pazienti psichici. Una cinquantina i detenuti coinvolti nel progetto della Asl che va nel segno del recupero e dell’integrazione col mondo esterno. Durante l’incontro, gestito dalla dr.ssa Ricciardi, si sono susseguite riflessioni sul senso della vita e della felicità, sviluppate tramite la chiave religiosa del buddismo, di cui ha parlato il prof. Picini in modo stimolante e con l’utilizzo di video tratti da film celebri con attori altrettanto famosi. Tra i brevi frammenti cinematografici sono stati proposti brani godibili di Woody Allen, maestro del paradosso, come spunto di conversazione sull’autostima. Nei giorni scorsi, in vista dell’incontro conclusivo di oggi, ai detenuti sono state distribuite domande sui temi trattati e le risposte sono state motivo di commento e dibattito. "L’iniziativa di oggi", ha detto la dr.ssa Ricciardi, "è pressoché unica nel suo genere perché mette insieme giovani studenti con le sofferenze della malattia psichiatrica e dell’interno di un carcere. In questo senso Avezzano è stato oggi teatro di una sorta di laboratorio inedito che ha dato grandi soddisfazioni e arricchito tutti i presenti" Chieti: "Giustizia, carcere, rieducazione", tavola rotonda dell’Associazione Voci di dentro chietitoday.it, 13 maggio 2017 Un ciclo di incontri aperti al pubblico nelle librerie, università, nei centri di aggregazione e nei teatri. Sabato 13 maggio primo appuntamento alla De Luca. L’associazione Onlus Voci di dentro, in continuità con il lavoro che svolge all’interno delle carceri, dà il via a un ciclo di incontri aperti al pubblico sui temi della giustizia-ingiustizia, normalità-devianza, pena-colpa, carcere-carcerati, rieducazione e responsabilizzazione. Gli incontri, intesi come tavole rotonde fra volontari di Voci di dentro e detenuti in permesso, e che fino ad oggi avvenivano all’interno dell’associazione per permettere ai nuovi volontari e tirocinanti/stagisti di entrare in contatto con questi temi prima dell’attività vera e propria all’interno delle carceri, da sabato 13 maggio si terranno in luoghi pubblici come librerie, università, centri di aggregazione, teatri, eccetera. Il primo appuntamento è sabato 13 maggio, ore 10, alla Libreria De Luca a Chieti. Chiunque interessato agli argomenti potrà assistere agli incontri ed eventualmente al termine porre domande o quesiti inerenti ai temi trattati. L’Associazione Voci di Dentro è un’associazione di volontariato iscritta al registro delle Onlus, come scopo ha la solidarietà e l’inserimento sociale dei detenuti e degli ex detenuti. È nata a Chieti nel 2008 per opera di un gruppo di persone che già operavano come volontari all’interno della casa circondariale. Nei mesi successivi alla sua fondazione, l’associazione si è estesa con la sua attività di volontariato anche nelle case circondariali di Pescara, Vasto e Lanciano. L’attività, prestata senza scopo di lucro, comprende corsi di scrittura e giornalismo, cineforum, convegni, dibattiti dentro e fuori il carcere ed è resa possibile grazie al sostegno di realtà come il Csv Chieti, quote di soci e amici. L’associazione edita la rivista "Voci di dentro", periodico quasi interamente scritto dai detenuti delle case circondariali di Chieti e Pescara. Presidente: Francesco Lo Piccolo; vicepresidente: Silvia Civitarese Matteucci. Milano: lo sport entra in carcere, il progetto Vivicittà 2017 firmato Uisp di Gabriele Gabbini Il Giorno, 13 maggio 2017 Continua il progetto Vivicittà 2017 firmato Uisp, perché la libertà (di correre ma non solo) non sia più un privilegio solo di pochi. Lo sport come occasione di riscatto ed emancipazione. Una forma di libertà insomma, che proprio per questo può e deve fare tappa anche in carcere. Sono più di 500 infatti i detenuti delle carceri milanesi che la Uisp (Unione Italiana Sport Per Tutti) coinvolge in occasione di Vivicittà 2017, la corsa nata nel 1983 e che da allora non si è più fermata, giungendo oggi alla 34esima edizione e raggiungendo in contemporanea oltre 40 città italiane e 20 nel Mondo, ogni anno con un tema diverso per cui battersi: la pace, i diritti umani, il rispetto ambientale, l’uguaglianza sociale, la solidarietà tra i popoli. Quest’anno il Leit-motiv della manifestazione era invece il sostegno ai tanti bimbi siriani costretti a fuggire dagli orrori della guerra, in collaborazione con Terre Des Hommes, per cui per ogni iscritto alla grande corsa "aperta" del 9 aprile è stato devoluto in beneficenza un euro. Dopo aver coinvolto le principali città d’Italia però, con oltre 65mila runners sulle strade dello Stivale che hanno permesso di finanziare la costruzione di un nuovo centro sportivo per ragazzi al confine tra Libano e Siria, è arrivato anche il momento delle carceri: perché la libertà (di correre ma non solo) non sia un privilegio solo di pochi. Dopo le gare podistiche già organizzate all’interno della seconda casa circondariale di Bollate e tra le mura del carcere di Opera allora, è arrivato ora il momento di Milano e dell’Istituto minorile Beccaria, dove la 12 chilometri si terrà domani, sabato 13 maggio. Un’occasione insomma per fare del bene due volte, prima aiutando i bambini meno fortunati e poi promuovendo i valori dello sport tra i detenuti. "L’attività sportiva negli istituti penitenziari è un momento di sfogo e distensione per chi vi partecipa - spiega Antonio Iannetta, dirigente Uisp. Specialmente negli istituti minorili, lo sport può essere un’ottima occasione per acquisire una prima "alfabetizzazione motoria", oltre ad essere un percorso di crescita e di riscatto sociale." "Sono 27 anni che con la Uisp facciamo sport nelle carceri - spiega poi un orgoglioso Michele Manno, Presidente del Comitato di Milano della Uisp - gli istituti penitenziari coinvolti nell’iniziativa sono più di 20 sparsi in tutta Italia, ma il nostro lavoro non si ferma certo all’iniziativa di Vivicittà, siamo attivi tutto l’anno per quanto ci è possibile. Questo perché specialmente negli istituti penitenziari serve ricordarsi che lo sport è un diritto di tutti, nessuno escluso." Ancona: il "Derby dorico" tra seminaristi e ospiti del carcere di Montacuto di Silvio Giampieri ancoraonline.it, 13 maggio 2017 Un’altra bella pagina è stata scritta circa l’incontro tra la realtà della casa circondariale di Montacuto di Ancona ed il Pontificio Seminario Regionale Marchigiano. Dopo la condivisione della Celebrazione Eucaristica avvenuta nella seconda Domenica di Quaresima in carcere, Mercoledì 3 Maggio è stato possibile ripetere un’esperienza di fraternità tra seminaristi e detenuti. In questa seconda occasione la modalità è stata quella di un "incontro-scontro" cioè di una piccola partita di Calcio presso il campetto del penitenziario. Come hanno spiegato le guardie carcerarie, si tratta di uno dei pochi sport che possano praticare gli ospiti e purtroppo la frequenza di partecipazione ne risulta variabile non solo per le esigenze climatiche, ma anche in base all’affollamento della struttura. Il match si è svolto in un clima di amicizia e concluso con un pareggio, passando pertanto ai rigori che hanno attribuito ai detenuti la vittoria finale, nell’esultanza dei compagni che assistevano anche da alcune finestre delle loro celle. Al termine della partita è stato poi offerto uno spuntino grazie all’impegno della locale Caritas, che è stato anche l’occasione per un dialogo tra i partecipanti. I detenuti si sono detti contenti perché hanno trascorso parte del loro tempo non rendendosi quasi conto di essere nel penitenziario, concentrati com’erano sullo sport. Ci si è poi confrontati sul modo di vivere in carcere ed anche sui ritmi di vita del seminario e su quello che comporta la scelta di una vita al servizio del prossimo. Lo sport è stato sicuramente un veicolo di libertà e la vicinanza del Seminario, una piccola e semplice testimonianza della doverosa prossimità che il Vangelo vuole insegnare a ciascun cristiano. "Contro i migranti prevale l’odio, scandalizziamo con l’accoglienza" di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 13 maggio 2017 Festival di Sabir. "È in corso un attacco mediatico e politico contro l’idea di solidarietà". Le stradine bianche di Ortigia, propaggine a mare di Siracusa, accolgono la parata festosa e teatrale dei Cantieri meticci di Bologna. "È il festival", dicono i siracusani e intendono Sabir, come fosse stanziale o di casa. In effetti la tre giorni organizzata dall’Arci in corso da giovedì fa tappa solo in questa sua terza edizione nell’antica capitale della Magna Grecia ma qui un evento che ha per sottotitolo "festival diffuso delle culture mediterranee" è già metabolizzato prima ancora di essere pensato, è nelle pietre, nei matrimoni siciliani della cattedrale, tra i banchi del mercato del pesce. I saloni degli antichi palazzi nobiliari dove si svolgono gli incontri seminariali, i laboratori e la presentazione di rapporti sui migranti e le politiche di rifiuto europee, in un calendario fitto di eventi che spesso sono concomitanti e diffusi per la città, sono sempre stracolmi di gente che prende appunti, che fa domande, e sono soprattutto giovani. Per lo spettacolo messo in scena da Moni Ovadia e da Mario Incudine "Anime migranti" il piccolo teatro liberty comunale ha dovuto riaprire le gallerie per far posto agli ospiti siciliani in abiti eleganti. E si ha alla fine la sensazione che, per usare le parole di Oliviero Forti della Caritas nel dibattito sui corridoi umanitari di ieri mattina, se la Storia sta oggi su un piano inclinato tra politiche di discriminazione e esternalizzazione delle frontiere, a Sabir è stata messa una pietra, un segnale per dire che c’è chi sta facendo tutto quello che può per ribaltare la piega. Il mondo dell’associazionismo sta rafforzando i legami di rete, tra organizzazioni cattoliche e non e tra ong umanitarie di vari paesi d’Europa. "Bisogna respingere tutti insieme l’attacco che non coinvolge solo le ong che fanno soccorso in mare - dice Filippo Miraglia, vice presidente Arci - ma l’idea stessa della solidarietà. Bisogna rispondere vergognatevi voi, che non salvate le vite, che permettere ai seminatori di odio di invadere gli spazi televisivi del servizio pubblico, che non avete ancora aperto vie legali e sicure per chi scappa da guerre, carestie, dittature". L’esigenza per i protagonisti di questa edizione di Sabir che si inserisce nel culmine della campagna mediatica e politica contro le ong umanitarie dei soccorsi, in mezzo al guado della politica europea tra accordi bilaterali per fermare i flussi e prospettive di restrizioni per l’accesso all’asilo, è quella di rafforzare la cooperazione ma anche di alzare il tiro e la voce. "Per farci sentire anche dagli adolescenti, dai ragazzi, dobbiamo scandalizzare", dice dal pubblico un insegnante della Caritas di Verona. L’obiettivo è aprire canali sicuri e legali come stanno sperimentando comunità Sant’Egidio, Chiese Valdesi non solo in Italia ma anche in Francia e ora in Spagna, ma anche ristabilire un clima non di odio e razzismo diffuso sui migranti, riformare e estendere in piccole realtà diffuse l’accoglienza, pretendere, infine, un’informazione con un lessico e un approccio più curioso e corretto come dice Carta di Roma. Prediche d’odio e reclutamento a scuola, il doppio volto della nuova ultradestra di Niccolò Zancan La Stampa, 13 maggio 2017 Le indagini e le chat di propaganda svelano il progetto di legarsi ai populisti europei. In mille. Con il braccio alzato. A commemorare i soldati fascisti al Campo 10 del Cimitero Maggiore. Hanno persino pubblicato le foto in rete, sfidando la Stato. Cosa sta succedendo in Italia? Il capo della Digos di Milano si chiama Claudio Ciccimarra: "Negli ultimi anni l’area dell’estrema destra si è rafforzata, seppur non di molto. A Milano parliamo di 500 militanti. Stanno cercando di fare un lavoro di reclutamento nelle scuole, cosa che fino a qualche tempo fa sarebbe stata impensabile. E se da un lato organizzano manifestazioni simboliche di richiamo per quelli che credono in questo genere di cose, dall’altro provano a presentarsi sotto una nuova veste. Come dimostrano i primi candidati di CasaPound". In Italia c’è un piccolo blocco nero che vive fuori da ogni perimetro costituzionale. Fuori anche dalla Storia. Predica l’odio. Lo semina. Lavora per le discriminazioni razziali. E poi si presenta in pubblico, mitigando appena la voce. Candidati di CasaPound sono già entrati nei consigli comunali di Bolzano, Isernia, Lamezia Terme, Grosseto, Sant’Ortese e Cologno Monzese. Fascisti dichiarati che sono riusciti a fare il loro ingresso nelle istituzioni. Il leader nazionale di CasaPound si chiama Gianluca Iannone. È presidente di un movimento che dichiara 20 mila iscritti, 5 mila nel Lazio. Era a Milano il 29 aprile durante la commemorazione al Cimitero Maggiore. Così come in prima fila, vestito con un bomber nero, c’era Alessandro Limido, 38 anni. Abita a Varese, dove costruisce piscine. Suo padre è Bruno Limido, giocatore di Serie A negli Anni Ottanta. "Ma lui è un berlusconiano di ferro" dice adesso il figlio. Con Alessandro Limido sono possibili conversazioni di questo tipo. Lei è nazista? "Certo. Per me è un vanto. Non mi dispiace essere chiamato fascista, ma nazista è molto più corretto. Perché mi ispiro al nazionalsocialismo, agli insegnamenti che ha dato al mondo. Alla creazione di uno stato perfetto". Come si mette in pace con gli orrori perpetuati dai nazifascisti? "Orrori? Questo me lo sta dicendo lei". Se Limido, Inannone e altri settanta militanti neonazisti sono già stati identificati e denunciati dalla Digos, è solo grazie alle fotografie che loro stessi hanno pubblicato appositamente. Per mostrarsi sui social network. "È una sfida alle istituzioni", denuncia Saverio Ferrari dell’Osservatorio italiano sulle nuove destre. "Siamo di fronte a un salto generazionale. Assistiamo a un cambio di modalità organizzative: sfilate paramilitari, reclutamento di giovani nelle periferie, ed elezioni". Per quasi un anno i carabinieri di La Spezia hanno cercato di ricostruire i movimenti di una cellula di estrema destra composta da sette ragazzi di età compresa fra 20 e 23 anni. Le indagini sono incominciate dopo che due svastiche erano state tracciate vicino alla sede del Partito Democratico. Così si è scoperto come parlano i nuovi nazisti italiani. "Niente gerarchie, niente obblighi e doveri. Solo odio, ultra violenza e discriminazioni razziali". "Sieg heil". "88!!". "Abbiamo di tutto". "Si va a caccia di negri". Tre indagati sono adesso sottoposti all’obbligo di dimora. Per tutti l’accusa è di "associazione finalizzata all’incitamento, alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici e nazionali". L’inchiesta, coordinata dal procuratore Antonio Patrono, ha la forza di svelare una nuova estrema destra ormai molto vicina a quella che infiamma i populismi del Nord Europa. Da un lato armata e fuorilegge, dall’altra istituzionale. Quanti sono? Cosa progettano? Questa è la conversazione che i carabinieri intercettano sul gruppo "Naziskin Spezia", già a maggio del 2016, alle 11 di mattina: "Buongiorno 14/88". "Camerata buondì!". "Sieg heil, io mi sono svegliato adesso". "Hanno legalizzato le unioni dei froci". "Che schifo!". Discutono su quale sia l’obiettivo. "Lo scopo principale è fare una rivoluzione e danni seri al sistema. Poi, ci mancherebbe, se si beccano degli antifascisti di merda, botte. Ma la cosa principale dovrebbero essere atti intimidatori al sistema. Bisogna costruire il terreno per un colpo di Stato". I carabinieri annotano: "Il gruppo ha momenti di incontro, non è solo una chat virtuale. Vi è un ripetuto ricorso alla terminologia e alla simbologia nazista. Il numero 88, che viene usato invece della sigla HH, acronimo di Heil Hitler". Fanno riunioni segrete dentro una roulotte parcheggiata vicino al fiume Magra. Hanno bandiere naziste. Mazze e tirapugni da usare contro i nomadi che frugano nei cassonetti, balestre e bombe molotov. Prendono di mira la Caritas perché aiuta i migranti. Vanno ad incendiare un mezzo della Italcementi. "Forse per cercare degli esplosivi", annotano i carabinieri agli ordini del maggiore Armando Ago. Di sicuro hanno manuali per fabbricarli. Ecco il caso di Sebastiano Maggiani detto "Mage", uno dei sette indagati. Già finito in un’inchiesta per "discriminazione, odio e violenza per motivi razziali" nel 2013, quando era ancora minorenne. Poi denunciato varie volte: coltelli a serramanico, catene. È lui a scriversi con Alessandro Parodi, un altro indagato: "Piazza Brin e dintorni, tutto quel marcio lì intorno". "Schifezza". "È giunto il momento delle spedizioni punitive in questa città". La cosa più impressionante del caso La Spezia, forse, è che l’avvocato di tre indagati su sette è il candidato sindaco nelle lista di CasaPound. E il cerchio si chiude. Sì chiama Cesare Bruzzi Alieti: "Difendo solo quelli con accuse minori - dice - siamo sicuri che riusciremo a farli assolvere". La sede del partito è stata appena inaugurata vicina al porto. Alle pareti campeggia la foto di Bashar al-Assad, il dittatore siriano. Aquile imperiali. Bandiere nere. Le sciarpe "Ultras Spezia" e "S.S. Lazio". I punti del programma politico di Alieti: "Priorità agli italiani. Più controlli per combattere il fenomeno dei venditori ambulanti. Più controlli sulle attività gestite da stranieri". Uno degli indagati si chiama Francesco Carlodalatri, coordinatore locale di CasaPound, ed è al suo fianco: "Ci riteniamo fascisti. Nessuno ha fatto tanto per gli italiani e per la patria". Lungo questo confine nero, le parole hanno già perso ogni valore. Valgono zero. Mauritania. Finisce l’incubo di Provvisionato, finalmente libero di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 maggio 2017 Era detenuto dal 2015 per frode informatica. Il ministro degli esteri Alfano annuncia il ritorno a casa del 43enne e ringrazia il gesto di amicizia del Paese africano. "Cristian Provvisionato è libero. Sta rientrando in Italia. Gli ho parlato. Grazie alle autorità della Mauritania. Un altro obiettivo centrato", così il ministro degli esteri Angelino Alfano - tramite un tweet - ha annunciato la liberazione di Provvisonato, il 43enne bodyguard di Cornaredo fermato nel Paese africano alla fine di agosto del 2015 e da allora trattenuto in custodia cautelare. La madre ha così potuto abbracciare suo figlio appena giunto in aeroporto e accompagnato dal sottosegretario agli esteri Enzo Amendola. Grande soddisfazione da parte del premier Paolo Gentiloni che ha parlato al telefono con Provvisionato e poi ha ringraziato il presidente della Mauritania Mohamed Ould Abdel Aziz per la liberazione del nostro connazionale. "Una notizia davvero molto buona, attesa, è un grande risultato. Dopo tanto tempo è una soddisfazione saperlo libero. È stato un lavoro lungo, complesso ma finalmente arrivato a risultato" le parole con cui il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella ha salutato il suo imminente rientro in Italia. La fine di un vero e proprio incubo. Proprio sulle pagine de Il Dubbio, tre giorni fa, è stato raccolto il grido di dolore della mamma che, tramite l’Edicola Fiore, aveva chiesto che venisse al più presto liberato perché "non ha commesso assolutamente alcun reato né in Italia né tantomeno in Mauritania". Tra 8 giorni sarebbero stati 21 i mesi che si trovava detenuto lì senza un’accusa precisa. Quasi due anni di profonda sofferenza. Cristian ha dovuto superare periodi difficili, soprattutto a causa del diabete e del suo dimagrimento. Esattamente un anno fa, scrisse una lunga lettera al presidente della repubblica per chiedergli con tutto il cuore un intervento per farlo rientrare in patria il più presto possibile. Nella lettera l’uomo aveva ricostruito la sua vicenda, spiegando di essere tenuto agli arresti per reati mai commessi. Provvisionato racconta di essere stato mandato in Mauritania a fine agosto del 2015 dall’azienda per cui lavorava, operante nel campo delle investigazioni private, per sostituire un altro italiano che doveva rientrare in Italia. Il compito doveva essere quello di fare una dimostrazione di alcuni prodotti di una società straniera al governo mauritano. In realtà, scrive, "sono stato mandato con l’inganno per togliere da una brutta fine l’altro italiano", perché la società straniera aveva probabilmente truffato il governo mauritano. Ma, si legge sempre nella lettera, "il governo mauritano si ostina a tenermi in detenzione anche davanti all’evidenza che sono parte lesa come loro in questa vicenda. È un fatto gravissimo: sono l’unico agli arresti mentre tutti i veri responsabili di questa truffa sono liberi". Provvisionato aveva sottolineato che, nonostante tutti gli sforzi della Farnesina e dell’ambasciata italiana di Rabat, "c’è un muro da parte delle autorità mauritane che non vuole cedere". La sua lettera concludeva con una supplica rivolta al capo dello stato: "La prego di fermare tutto questo prima che si trasformi in una tragedia, ho già perso 25- 30 kg, non posso curarmi come dovrei, non posso sostenere le giuste visite mediche per il diabete, inizio a temere seriamente per la mia salute". Ora Provvisionato è finalmente un uomo libero. Resta l’amarezza che basta veramente poco, esaudire una richiesta di lavoro come ha fatto Cristian, per poi rimanere coinvolti in un intrigo internazionale dai contorni poco chiari. Turchia. Arresti e revoca delle licenze, stretta di Erdogan sulle Ong di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 13 maggio 2017 Migliaia di organizzazioni turche chiuse da agosto dello scorso anno. E gli operatori stranieri vengono espulsi dal paese. Il lavoro delle Ong internazionali che operano in Turchia per fronteggiare l’emergenza umanitaria della guerra in Siria e Iraq si è complicato drammaticamente. Il 2017 ha già visto numerose revoche di licenze e l’allontanamento dal paese o addirittura l’arresto di operatori umanitari. L’intervento delle autorità turche sembra dettato da un lento ma inesorabile istinto ad ostracizzare organizzazioni di cui non si fidano né comprendono appieno. Ad aprile sono state bloccate quattro Ong: Mercy Corps, Bsa (americane), Inso (britannica) e l’italiana Cosv, tutte per ragioni di sicurezza nazionale. Quest’ultima ha poi precisato che "i permessi concessi dalle autorità e scaduti il 15 gennaio sono formalmente in corso di rinnovo". L’indefinito prolungarsi dei tempi della burocrazia e del sistema giudiziario turchi sono una delle questioni che più rendono difficile l’operato di attori internazionali nel paese. Nello stesso periodo operatori della danese Dan Church Aid e dell’americana International Medical Corps vennero fermati dalle autorità e alcuni di loro allontanati dal paese. Di tutt’altro tenore il giro di vite contro le Ong nazionali: migliaia quelle chiuse in tutto il paese dall’agosto 2016 grazie ai decreti speciali emessi dallo stato di emergenza. L’emergenza umanitaria siriana ha spinto fin dal 2011-2012 ad un accorrere generale di Ong e ad un proliferare di iniziative umanitarie che il governo turco permise di svilupparsi in una sorta di zona grigia della legalità, allentando i legacci della burocrazia. La combinazione tra il mutevole approccio legislativo del governo e l’inesperienza di alcune organizzazioni ad operare in concerto con uno stato rigido come quello turco, dalla burocrazia ipertrofica e con un’opinione pubblica con il nervo sempre scoperto dell’ingerenza straniera, ha portato le organizzazioni a subire azioni di coercizione da parte delle autorità. A partire dal 2014 le autorità hanno cambiato approccio e hanno chiesto alle Ong che operano sul territorio di registrarsi. Nel 2015 la maglia della burocrazia si è stretta ulteriormente, con una verifica capillare dei permessi di lavoro che tutti gli operatori devono detenere. Ma è stato nel 2016 che la chiusura delle Ong è cominciata, in particolare dopo il tentato golpe e l’entrata in vigore dello stato di emergenza, che ha concesso al governo il potere per agire unilateralmente senza i vincoli normalmente imposti dalle legislazioni nazionale e internazionale. Parallelamente, il governo turco cerca di attivarsi per sostituirsi alle attività delle Ong internazionali. Da un lato amplia le risorse per la Mezzaluna Rossa turca e l’Afad, l’Autorità per la gestione di emergenze e disastri, attraverso la quale la Turchia avrebbe finora speso per la gestione della crisi, secondo stime del governo, circa 12 miliardi di dollari. Dall’altro potenzia la rete di organizzazioni di cui ha fiducia. Così è da leggersi il protocollo firmato tra Afad e Presidenza per gli affari religiosi (Diyanet), che include anche norme per fornire servizi di tipo religioso alla popolazione siriana rifugiata. Collegato a Diyanet c’è un universo di sigle ed organizzazioni umanitarie con un forte background ideologico affine al governo, come la Fondazione per l’aiuto umanitario (Ihh), attiva anche all’interno dei confini siriani. Le preoccupazioni turche sul mondo delle Ong internazionali riguarda da vicino la questione curda. La Turchia è irritata dalla possibilità che il flusso di aiuti (materiali e finanziari) confluisca sia verso le regioni siriane sotto controllo curdo (Pyd e Ypg), sia verso il sudest del paese sottoposto ad operazioni militari e coprifuoco contro la presenza del Pkk. Secondo il vice primo ministro Veysi Kaynak sarebbero 48 le organizzazioni che operano nell’ambito di migrazioni e rifugiati. Le attività di alcune di queste non sono accettate dal governo, ad esempio quelle nella zona di Diyarbakir, la principale città della regione a maggioranza curda, dove Ankara sostiene ci sarebbero pochi migranti da Siria e Iraq. Eppure il governo dimentica che anche circa 500.000 sfollati a causa delle operazioni antiguerriglia costituiscono un’emergenza, su cui però si vuole stendere un velo d’omertà. Secondo alcuni operatori intervistati in forma anonima, è praticamente impossibile per qualsiasi ong internazionale attivare progetti umanitari dedicati a questa emergenza nascosta. Altri arresti in Turchia: "chi non è con Erdogan è contro di lui" di Elisabetta Rosaspina Corriere della Sera, 13 maggio 2017 A innescare l’ultima retata, che porta a oltre 47 mila le persone imprigionate negli ultimi dieci mesi, è stata l’individuazione di un’applicazione, Bylock, che consente lo scambio di messaggi criptati. Mancava ancora la finanza. Ieri la lacuna è stata colmata con 102 mandati di arresto, 53 dei quali eseguiti nelle prime ore della mattinata, intestati ad altrettanti dipendenti o ex dipendenti della Borsa di Istanbul. Contemporaneamente è proseguita l’offensiva contro la stampa: alle 7 del mattino gli agenti hanno bussato alla porta del direttore della versione on line del quotidiano Cumhuriyet, Oguz Guven, che ha avuto appena il tempo di un ultimo tweet, "mi arrestano", prima di essere portato al quartier generale della polizia per essere interrogato. È il tredicesimo giornalista o dipendente della testata, poco compiacente con il governo turco e con il presidente Recep Tayyip Erdogan, a finire dietro le sbarre per quanto pubblicato, dopo il direttore dell’edizione cartacea, Murat Sabuncu. Tutti rischiano pene tra i 7 e i 43 anni, per partecipazione, favoreggiamento o propaganda terroristica. Nel caso specifico non sarebbe piaciuta la ricostruzione fornita dal quotidiano digitale sulla strana morte, in un incidente stradale, del magistrato Mustafa Alper, il primo ad avere avviato un’indagine sulla rete del predicatore Fethullah Gülen, cui Erdogan attribuisce la regia del fallito golpe del 15 luglio. L’idrovora che sta cercando di prosciugare qualunque rigagnolo di possibile complicità attorno all’attuale nemico numero 1 del regime, l’ex imam al sicuro in Pennsylvania, funziona a pieno ritmo, secondo la regola letale che prevede prima l’incarcerazione a tempo indeterminato e poi l’eventuale valutazione degli elementi a carico. A innescare l’ultima retata, che porta a oltre 47 mila le persone imprigionate negli ultimi dieci mesi, è stata l’individuazione di un’applicazione, Bylock, che consente lo scambio di messaggi criptati e il ritrovamento di un "archivio segreto" con i nomi di sospetti gulenisti. Non serve altro per perdere la libertà in Turchia, oggi; e basta molto meno per perdere il proprio posto. Chi non è con Erdogan è contro di lui. E i magistrati riluttanti finiscono a tenere compagnia agli imputati. Libia. Ondata senza fine di rapimenti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 maggio 2017 Oltre sei al giorno, secondo i dati del ministero dell’Interno. Ma siccome le famiglie che non sporgono denuncia per timore di rappresaglie sono molte, il numero dei sequestri di persona in Libia potrebbe essere molto più alto. Già quel dato ufficiale ci dice chiaramente quanto l’assenza dello stato di diritto stia alimentando il caos e l’illegalità e mettendo in pericolo i civili. Qualcosa di cui, dolorosamente, abbiamo conoscenza anche in Italia. Dal 2014, soprattutto nella Libia occidentale, sono scomparse centinaia di persone. Una delle ultime in ordine di tempo è Salem Mohamed Beitelman, docente di Ingegneria marittima presso l’Università di Tripoli, rapito il 20 aprile mentre si stava recando al lavoro. La sua automobile è stata rinvenuta abbandonata, alle 10 di mattina, poco lontano dalla sua abitazione. Tutti i tentativi di rintracciarlo, da parte dei familiari, non hanno avuto esito. Il quartiere di Siyyad, dove Salem Mohamed Beitelman è stato rapito, è sotto il controllo di numerose milizie, alcune delle quali dovrebbero teoricamente operare sotto il controllo dei ministeri dell’Interno e della Difesa. Nessuna milizia ha finora rivendicato il rapimento e non è chiaro quale milizia stia tenendo Salem Mohamed Beitelman sotto sequestro. Le preoccupazioni per Salem Mohamed Beitelman derivano anche dal suo stato di salute, per il quale il rapito ha bisogno di costanti cure mediche. Il caso di Salem Mohamed Beitelman è emblematico del costante pericolo rappresentato per i civili dalle milizie, che continuano a terrorizzare la popolazione con una brutale campagna di rapimenti. La maggior parte dei rapimenti è eseguito allo scopo di estorcere il più alto riscatto possibile, ma in altri casi vi si ricorre per negoziare scambi di detenuti o per ridurre al silenzio oppositori, giornalisti e difensori dei diritti umani che hanno denunciato l’operato delle milizie. Persone sono state rapite a causa della loro presunta opinione politica o affiliazione tribale oppure perché percepite come benestanti. I gruppi armati e le milizie in lotta tra di loro commettono gravi violazioni dei diritti umani nella pressoché totale impunità. Anche quelle che operano alle dipendenze o sotto il comando dei ministeri dell’Interno e della Difesa del governo sostenuto dalle Nazioni Unite non sono sottoposte ad alcuna supervisione da parte delle autorità centrali. Amnesty International continua a chiedere alla Corte penale internazionale, che ha affermato di voler dare priorità nelle sue indagini ai crimini commessi dai gruppi armati, di prendere in esame i crimini commessi da tutte le parti in causa a partire dal 2011. Finora, non vi è stata alcuna indagine degna di questo nome sui crimini commessi dai gruppi armati affiliati ai governi succedutisi in Libia. Quanto alla comunità internazionale, sarebbe importante che nei negoziati con le varie milizie e tribù e coi gruppi politici libici venisse posto sul tavolo il fenomeno dei rapimenti. Ricevere finanziamenti mentre contemporaneamente ci si arricchisce chiedendo riscatti per i sequestrati non farà altro che alimentare ulteriormente il ciclo dell’impunità.