Carceri, detenuti in aumento. Resta l’allarme suicidi di Giulia Polito Corriere della Sera, 12 maggio 2017 Roma, carcere di Regina Coeli. Nel mese di febbraio un ragazzo di 22 anni viene ritrovato chiuso nel bagno, impiccato con un lenzuolo. Il giovane era evaso per tre volte dalla Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria) di Ceccano, a Frosinone, e finito poi in carcere dove si è tolto la vita. La sua è solo una delle tante storie di emarginazione e solitudine di cui le carceri italiane sono piene. E che, nonostante i ripetuti appelli da parte di organizzazioni sindacali, onlus e altri, ancora e troppo spesso finiscono nel dimenticatoio collettivo, cedendo il passo ad altre emergenze nazionali. Detenuti in aumento - Eppure quella delle carceri è una questione che non può essere ignorata, da ogni punto di vista. Sono di pochi giorni fa le ultime statistiche fornite dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che danno il numero di detenuti in netta crescita: al 30 aprile risulta la presenza di 56.436 detenuti, circa 4 mila unità in più rispetto all’anno precedente (luglio 2015). Un dato allarmante soprattutto perché rischia di sfociare in un nuovo stato di sovraffollamento, dando vita ad una nuova emergenza per la quale l’Italia, in passato, ha già duramene pagato. Suicidi, "situazione allarmante" - A tenere alta la tensione intorno alle carceri ci sono anche i dati che riguardano i suicidi all’interno delle strutture. Già a febbraio, all’indomani del suicidio del 22enne a Regina Coeli, il Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) denunciava la crescente tensione nelle carceri del Paese. "Tre suicidi in quattro giorni tra le sbarre di tre penitenziari italiani evidenzia come i problemi sociali e umani permangono, eccome" spiegava Donato Capece, segretario generale. "Il dato oggettivo è che la situazione nelle carceri resta allarmante". I numeri - A fine febbraio erano già una decina i suicidi avvenuti all’interno delle celle. Numeri preoccupanti se pensiamo che nel corso dell’anno precedente si sono tolte la vita 45 persone su 115 morti totali. A distanza di tre mesi i numeri continuano ad aumentare: sono 18 i suicidi registrati al 5 maggio su 37 morti. I dati sono quelli diffusi dal dossier "Morire in Carcere" di Ristretti Orizzonti che dal 2000 si occupa di raccogliere i dati relativi alla mortalità nelle carceri su tutto il territorio nazionale. "Uno strumento utile - viene spiegato nel dossier - per far conoscere all’opinione pubblica le reali condizioni del carcere, a cominciar dallo stato di difficoltà e, a volte, di abbandono in cui si trova la sanità penitenziaria". Dal 2000 ad oggi su 2658 defunti 951 sono morti suicidi, ma il numero potrebbe essere superiore. Tra gli ultimi casi registrati quelli di due detenuti nel carcere di Monza che si sono tolti la vita a distanza di poche ore, il primo impiccandosi l’altro inalando gas dal fornelletto in dotazione. Un dramma umano a tutto tondo perché coinvolge anche il personale penitenziario. Prescrizione. L’assalto del M5S: "18 anni? Troppo pochi" di Errico Novi Il Dubbio, 12 maggio 2017 Flash mob pentastellato alla Camera. Questa riforma, dicono, salva i corrotti. Sarà solo una messinscena. Però fa impressione. Nel giorno in cui la commissione Giustizia della Camera dà un brusco colpo d’acceleratore sul ddl penale, i Cinque Stelle inaugurano una nuova tecnica parlamentare: il flash mob. Si presentano "in massa" davanti alla commissione Giustizia. Praticamente occupano gli uffici, o almeno i corridoi. Un solo grido: "Vergogna". Spiegazione del grido: "Prevedere un termine di prescrizione di 18 anni per i processi ai corrotti è troppo poco". Roba buona per Facebook: pochi minuti e la clip dell’impresa è già sul profilo di Roberto Fico, comandante del plotone. Dietro di lui, deputati e senatori del Movimento issano i cartelli con i punti contestati della riforma. Che, per carità, va avanti. Perché la presidente Donatella Ferranti e il governo pianificano uno sprint risolutivo e macinano qualcosa come 600 emendamenti, cestinati uno per uno. I quaranta grillini in corrodoio manco riescono a finire il video-selfie che già i commessi piombano con la loro protocollare fermezza e dichiarano chiusa la ricreazione. Però è un’ennesima avvisaglia di dove può finire il Parlamento nell’era del Sacro Blog. Governo e maggioranza riescono nel miracolo di chiudere in tre giorni la pratica del processo penale, sulla quale Palazzo Madama s’era adagiato per due lunghi anni. In Aula dovranno però fare i conti con l’ulteriore prevedibile show pentastellato. Gli slogan di ieri? Eccoli. "Ci sono tagli alle spese per le intercettazioni" (in realtà viene solo introdotta una sorta di "costo standard" nei pagamenti alle società private che gestiscono server e assistenza da remoto). Poi: "Intercettazioni, bavaglio alla stampa libera" (altra fake news, semplicemente il pm evita che la polizia giudiziaria trascriva conversazioni non rilevanti ai fini dell’indagine nonché lesivi per la privacy di persone estranee ai reati). E ancora: "Skype ai mafiosi? No grazie" (nella delega sul carcere c’è solo un generico richiamo ai "collegamenti audiovisivi sia a fini processuali sia per favorire le relazioni familiari", bisognerebbe come minimo aspettare i decreti). Il Movimento propone anche obiezioni condivise dall’Anm, come "la riduzione a 3 mesi dei tempi di chiusura delle indagini per corruzione e altri gravi reati". La famosa norma sull’avocazione obbligatoria. Che in realtà riguarda tutti i procedimenti, non solo quelli per corruzione. E comunque il limite dei 3 mesi è prorogabile altri 3. Se non è una fake news come minimo è una furbata. Mentre i grillini assediano l’auletta della commissione, Forza Italia e Sinistra italiana abbandonano il campo: non partecipano più ai lavori dopo che già mercoledì sera gli emendamenti bocciati con parere negativo erano arrivati a quota 450. Ma la vera rivelazione del Vietnam di ieri pomeriggio è che davvero sulla giustizia penale non c’è possibilità di mediare. I tempi di prescrizione, una "truffa colossale" per i grillini perché appunto 18 anni per un processo di "corruzione propria" sono un’inezia, hanno portato i penalisti a scioperare per la ragione opposta, cioè perché quello stesso termine, secondo gli avvocati, è troppo lungo. Tutto sommato la bagarre finisce per disarmare chi, come il ministro di Ap Enrico Vcosta, vorrebbe "far sentire la voce dei moderati su questo". Il gruppo di Alfano sperava di rivedere la prescrizione al ribasso, ma i grillini urlano una verità uguale e contraria e si avvera la profezia di Andrea Orlando: meglio non toccare niente se no salta tutto. Quando a inizio marzo il ministro della Giustizia incontrò Rita Bernardini per assicurarle che la riforma del carcere, inserita nel ddl, sarebbe andata in porto, fece due previsioni. La prima: "Al Senato ce la faremo in dieci giorni". Andò più o meno così. Ottimistica pure la seconda promessa: "... poi ci sarà un breve passaggio alla Camera, dopodiché subito potremo mettere mano ai decreti delegati". Ecco: breve, in effetti sembra esserlo, ma certamente il "passaggio" a Montecitorio si rivela più intenso del previsto. E in effetti se Costa, ministro della Famiglia ed ex vice dello stesso Orlando, spiega che "Ap non farà la comparsa", il capogruppo centrista in commissione, Nino Marotta, è costretto a subire l’impeto del Pd, che non concede mezzo emendamento. Resta da votare il mandato alla relatrice, che è la stessa presidente Ferranti, il 22 già si va in Aula. La parabola del giudice onorario di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 12 maggio 2017 "Siamo come gli schiavi nelle piantagioni di cotone". Lo sfogo di Monica Cavassa, tra i leader dei giudici onorari, sarà pure una forzatura. Ma certo la protesta delle toghe "precarie" appese a una provvisorietà prorogata da due decenni, ha radici profonde. E dopo avere scavato un solco con l’Associazione nazionale magistrati rischia di sfociare davvero in uno sciopero pesante che potrebbe mettere in ginocchio i tribunali. Riassunto: incapace di dotarsi di un organico distribuito equamente sul territorio, all’altezza di un Paese litigioso ("Lì si vede la Lite calzata e vestita", scriveva Montesquieu) e impigliato in leggi astruse, il governo ebbe nel 1998 una bella pensata. Visto che i concorsi per assumere nuovi giudici portavano via un sacco di tempo e gli arretrati intanto si accumulavano, aprì le porte ad alcune migliaia di magistrati onorari. Un’apertura temporanea: primo contratto di tre anni e poi di proroga in proroga. Si sa com’è l’Italia: il provvisorio slitta sempre, per indolenza, verso l’eterno. Risultato: poco a poco, i precari han finito per avere un peso sempre più centrale. Fino a sbrigare dieci anni dopo coi giudici onorari di tribunale (Got) la totalità delle esecuzioni immobiliari e coi viceprocuratori onorari (Vpo) la quasi totalità delle cause penali davanti al giudice monocratico. Il tutto con l’incancrenirsi man mano di due problemi. Di qua l’instabilità di un sistema giudiziario che nella vita quotidiana si regge per una buona metà dei processi sui precari. Di là l’instabilità di questi "onorari" (poco meno di 5.000 contro le 8.519 toghe ordinarie) solo in parte così fortunati da avere un altro lavoro e chiamati a svolgere funzioni delicatissime senza avere, con la scusa della provvisorietà, il minimo del minimo: previdenza, ferie, assistenza sanitaria, maternità… Tanto da scandalizzare anche la Commissione europea. A farla corta: uscire da questa ambiguità era (e resta) indispensabile. Ma come? Niente strappi, raccomandava una lettera di 110 (su 120) procuratori capi italiani invitando il governo a ricordare che gli "onorari" sono una "componente rilevante degli assetti delle Procure della Repubblica al punto che, senza la loro attività, gli Uffici che abbiamo l’onore di dirigere, verrebbero a trovarsi in situazione di grave crisi e di notevoli difficoltà". Soluzione: una sanatoria? "Mai chiesta!", saltano su Paola Bellone e i rappresentanti dei precari: "Vogliamo solo aver una figura stabile e le tutele ovvie: maternità, contributi, copertura sanitaria…". L’Anm però è diffidente. Certo, "va riconosciuto che da quindici anni, a causa della cronica carenza di organico e della sempre crescente domanda di giustizia, i magistrati onorari hanno fornito un contributo significativo"… Ma le richieste di "stabilizzazione" "non possono trovare ingresso nel nostro ordinamento per ragioni di carattere costituzionale". Cioè? "L’illegittimo abuso del rinnovo dei contratti a tempo determinato, nel pubblico impiego, non comporta la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato ma il diritto del lavoratore al risarcimento dei danni". C’è infatti il "vincolo costituzionale del concorso pubblico". Conclusione: il decreto, denunciano i ribelli, offre agli "onorari" di restare ma solo part-time, "per non più di due giorni di udienza a settimana" (inizialmente uno) per una "componente fissa tra i 12.900 ed i 16.000 euro lordi annui". Un migliaio al mese. Da cui togliere "l’imposta sul reddito (27%) e i contributi da versare alla gestione separata Inps (posti interamente a carico dei lavoratori, cosa mai vista nella storia della Repubblica) o alla Cassa Nazionale Forense". Quanto resterà al netto? Settecento euro? "Si chiede efficienza con due giorni di impiego settimanali? Si chiede impegno, senso di appartenenza, raggiungimento di obiettivi?", chiede polemica una lettera collettiva al procuratore di Milano Francesco Greco. Segue monito: "Il cittadino chiederà giustizia dei disservizi. Altrettanto faranno, però, anche i 5.000 magistrati onorari, sfruttati per anni e trattati indegnamente". Come andrà a finire non si sa. Difficile pretendere che un cinquantenne che fino a ieri ricavava dal lavoro di "onorario" la sua unica busta paga possa sopravvivere con quell’obolo per due giorni di udienza più altri due per preparare le cause o possa trovarsi un altro part-time. Come è difficile immaginare che certi uffici giudiziari che per ammissione corale reggono oggi l’urto di migliaia di processi possono tener botta in attesa dell’assunzione (campa cavallo…) di nuove toghe ordinarie. Il solo costo dell’inefficienza della Giustizia civile, stando a un rapporto di Bankitalia, pesa sulla nostra economia per almeno 22 miliardi l’anno di mancati investimenti e ricadute varie. Auguri. Sul piede di guerra, gli "onorari" minacciano ora un mese di sciopero. Per cominciare. E la tensione sale di giorno in giorno. Prova ulteriore, se mai ne avessimo avuto bisogno, di quanto la scelta di rinviare per anni e anni i problemi porti quasi sempre in un vicolo cieco. Dovremmo saperlo, no? Ci ricaschiamo sempre. Legittima la revoca della patente di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2017 Corte di cassazione - Sentenza 23171/2017. Non ha natura penale la sanzione inflitta in via accessoria della revoca della patente di guida. Lo stabilisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 23171 della Quarta sezione penale depositata ieri. Una presa di posizione netta a fronte di una questione sollevata ricorrentemente. Per esempio, in questo caso, dal difensore di un automobilista che si era visto punire, dopo patteggiamento, per il reato di guida in stato di ebbrezza; in aggiunta era stata prevista anche la revoca della patente. La difesa aveva impugnato la pronuncia del tribunale solo su quest’ultimo punto, sostenendo, tra l’altro, che si tratterebbe di una misura sostanzialmente penale, la cui applicazione obbligatoria esclude una valutazione del caso concreto e si risolve in una presunzione di pericolosità in contrasto con i principi di colpevolezza, ragionevolezza e proporzionalità della pena. Di qui la decisione di sollevare questione di legittimità costituzionale. Richiesta respinta. Per la difesa la natura penale della revoca si fonda sul fatto che è applicata sul presupposto della commissione di un reato a conclusione di un procedimento penale, ed è inflitta contestualmente alla condanna penale. Tesi però che, per la Cassazione, è frutto di un’applicazione acritica del diritto convenzionale europeo. La Corte di Strasburgo infatti ha elaborato un concetto sostanzialistico di materia penale che con l’obiettivo sì di estendere l’applicazione del divieto di bis in idem, ma senza avere come risultato l’attribuzione di un potere in grado di annullare le differenze tra le nozioni europea e interna di sanzione penale. Non è possibile affermare allora che per effetto della sentenza della Corte dei diritti dell’uomo Grande Stevens siamo ormai di fronte a un principio di tendenziale equiparazione della sanzione amministrativa a quella penale, scardinando principi come la riserva di legge in materia penale e la presunzione di non colpevolezza. Serve invece un’attenta considerazione del caso concreto. E allora "la previsione di una sanzione amministrativa irrogata all’esito di un giudizio penale, ancorché definito ai sensi dell’articolo 444 del Codice di procedura penale, con riguardo alla pena principale, vanifica la stessa preoccupazione, rinvenibile in alcune enunciazioni teoriche della giurisprudenza Cedu, di una configurazione amministrativa dell’illecito al fine precipuo, se non esclusivo, di eludere le garanzie proprie del processo penale". L’esistenza di caratteristiche comuni, non ha come conseguenza diretta l’assimilazione della sanzione amministrativa a quella penale. Nel caso specifico poi, sottolinea la Cassazione, la guida in stato di ebbrezza, va tenuta presente la progressione nell’offensività delle condotte. Si passa infatti dall’area delle sanzioni amministrative a quella della rilevanza penale, passando da un’ipotesi di reato all’altra, punita in maniera più severa, attraverso la previsione di diverse soglie di rilevanza all’interno della medesima fattispecie. E ancora, ricorda la sentenza, l’introduzione della nuova causa di non punibilità per tenuità del fatto rende poi difficile attribuire i crismi di irragionevolezza all’obbligatorietà della revoca nei casi più gravi. L’obbligatorietà della sanzione amministrativa allora rientra tra le scelte legislative che non possono essere sindacate sotto il profilo dell’irragionevolezza. Abuso di prestazione d’opera, l’aggravante scatta anche per il danno a terzi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2017 Tribunale di Ivrea - Sentenza 10 febbraio 2017 n. 48. Nel reato di truffa, per far scattar l’aggravante di abuso di relazioni di prestazione d’opera, prevista dall’articolo 61 n. 11 del codice penale, "non è necessario che il rapporto intercorra direttamente tra l’autore del fatto e la persona offesa, essendo sufficiente che l’agente si sia avvalso della esistenza di tale relazione che gli ha dato l’occasione di commettere il reato in danno di altri soggetti, agevolandone la esecuzione". Lo ha stabilito il Tribunale di Ivrea, con la sentenza 10 febbraio 2017 n. 48, condannando l’amministratore di una concessionaria per avere messo in vendita per 13.500 una vettura in realtà lasciata "in conto visione", senza peraltro comunicare nulla all’effettivo proprietario. Nel mettere il veicolo in vendita, infatti, l’imputato, oltre a tacere di avere ricevuto la vettura unicamente in visione, aveva: indicato il prezzo totale come comprensivo delle spese di agenzia; garantito le procedure di volturazione e il trasferimento in breve tempo della proprietà; stilato la "scheda lavoro" che prevedeva un acconto in contanti di 500 euro ed il successivo versamento di 13.000 euro a saldo. In tal modo, l’acquirente "tratto in inganno dalle condizioni contrattuali prospettate forniva l’acconto previsto ed accettava di effettuare il pagamento del saldo", mentre l’imputato si procurava un "ingiusto profitto con pari danno dell’acquirente il quale, per ottenere il trasferimento della proprietà della vettura, si vedeva costretto a corrispondere nuovamente il prezzo alla legittima proprietaria". Tutto ciò con "l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di prestazioni d’opera". Due mesi dopo, a seguito di un fermo da parte dei Carabinieri, l’acquirente, appreso che l’effettivo intestatario della macchina era un altro, era tornato dal concessionario dove aveva scoperto che l’imputato era stato incaricato della sola esposizione in conto vendita. Una ricostruzione ritenuta provata dal Tribunale secondo cui, dunque, il fatto risulta "correttamente contestato nella forma aggravata", dal momento che in tema di circostanze del reato, per la sussistenza della aggravante di abuso di relazioni di prestazione d’opera, è sufficiente che il soggetto agente abbia sfruttato l’esistenza della relazione per perpetrare il reato, anche se nei confronti di terzi. Tale principio, conclude la sentenza, è stato espresso dalla Cassazione (con la sentenza n. 44343/2013) in una fattispecie simile in cui l’imputato, abusando della sua qualità di addetto alle vendite presso una concessionaria auto, si era appropriato delle somme versate dai clienti a titolo di acconto per l’acquisto delle vetture. Il codice della strada prevale sulla pubblicità sportiva di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2017 Consiglio di Stato - Sentenza 9 maggio 2017 n. 2129. Il codice della strada prevale sulla pubblicità sportiva, rendendo difficile battezzare grossi impianti con il nome di un prodotto o la marca di un’impresa. Ne ha fatto le spese il "Dacia arena" di Udine, cioè il campo sportivo che per primo, insieme a quello di Reggio Emilia, ha visto la collaborazione tra Comuni e privati concessionari per dotare le squadre locali di impianti idonei alle competizioni di serie A. Il Consiglio di Stato (sentenza 9 maggio 2017 n. 2129) si è occupato di un’ampia insegna posta sulle curve dello stadio udinese: una casa automobilistica dava infatti il suo nome all’impianto, stipulando un contratto con la società calcistica concessionaria dello stadio. La scritta, di circa 60 m², ha generato un contrasto con il Comune su due temi: il codice della strada consente unicamente "insegne di esercizio", richiedendo per altre insegne una specifica autorizzazione (che mancava). Inoltre, il Comune (proprietario dell’area) aveva imposto alla società calcistica (concessionaria per 99 anni), il nome "stadio Friuli". Il primo tema è stato affrontato dei giudici osservando che un’insegna ha chiari fini pubblicitari se manca un collegamento tra prodotto e l’attività che si svolge nell’impianto. Non basta quindi la parola "arena" per affermare che la scritta sullo stadio sia "insegna di esercizio", perché la casa automobilistica non ha collegamenti con lo stadio stesso. Sono infatti "di esercizio" (art. 47 D.P.R. 495/1992,cod. strada), le insegne con simboli e marchi installati nella sede dell’attività cui si riferiscono, e per tale collocazione non hanno necessità di autorizzazione del proprietario della strada. Occorre invece uno specifico permesso se il messaggio non è indirizzato a chi è interessato a raggiungere un’impresa (Cons. Stato 7047 / 2006), se l’insegna non è sullo specifico lato di accesso del capannone ed anche se l’insegna si legge in posizione rovesciata (Consiglio di Stato 3782 / 2000). Nel caso di ministri, non è stata ritenuta rilevante la circostanza che Dacia fosse lo sponsor della società Udinese Calcio, perché comunque l’impianto sportivo non era la sede dell’attività produttiva, ma solo il luogo dove possibili utenti (gli spettatori) diventano un significativo bacino di potenziali soggetti interessati alle auto. Quindi, la cosiddetta "brandizzazione", ossia la stretta comunanza tra squadra di calcio e sponsor, unite nel pubblicizzare due attività del tutto diverse, non ha superato i limiti posti dalle definizioni di legge sulle insegne di esercizio. Più delicata e meno formale è stata la decisione sul nome dello stadio, che la società sportiva concessionaria si era impegnata a mantenere come "Stadio Friuli", consumando un libertà di iniziativa economica ed imprenditoriale, tutelata dall’art. 41 della Costituzione. Ma secondo il Consiglio di Stato, una volta stipulato un contratto sul nome di un impianto, vincolandosi liberamente, tale impegno va mantenuto in tutte le sue evoluzioni, e quindi senza spazi per eventuali sponsor commerciali. Migranti e ladri in casa: se la politica offre solo il diritto alla vendetta di Roberto Saviano La Repubblica, 12 maggio 2017 Alla paura delle rapine si risponde con una legge sulla legittima difesa. Sull’immigrazione si assecondano i peggiori umori della piazza. Caro Minniti, non c’è più un barlume di progressismo nel governo. Il Forum con il ministro dell’Interno Minniti nella redazione di Repubblica è un documento che offre spunti preziosi di riflessione oltre a sancire l’esaurirsi di ogni barlume progressista nella compagine di governo. "Il lavoro che ho cominciato quattro mesi fa al Viminale - dice Minniti - può piacere o meno. Ma è figlio di un metodo, di un disegno, e di una certezza. Che sulle questioni della nostra sicurezza, si chiamino emergenza migranti, terrorismo, reati predatori, incolumità e decoro urbano, legittima difesa, non si giocano le prossime elezioni politiche. Ma il futuro e la qualità della nostra democrazia". Vero, è in gioco proprio questo: il futuro e la qualità della nostra democrazia, e l’impressione è che il metodo sia ormai non dire ciò che si vuol fare, per poi farlo davvero. Il linguaggio è la chiave di tutto e chi vuole oggi ridisegnare il mondo, deve iniziare a farlo modificando il significato delle parole. E così le imbarcazioni delle Ong che nel Mediterraneo portano in salvo vite (uomini, donne e bambini, perché "vite" è parola troppo generica) diventano "taxi" nelle parole del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, e così l’inchiesta della Procura di Trapani secondo cui "in qualche caso navi delle Ong hanno effettuato operazioni di soccorso senza informare la centrale della Guardia costiera" e quindi "per la legislazione italiana si potrebbe dire che viene commesso il reato di favoreggiamento di immigrazione clandestina ma non è punibile perché commesso per salvare una vita umana", diventa: le Ong hanno rapporti con gli scafisti. I virgolettati appartengono al Procuratore della Repubblica di Trapani Ambrogio Cartosio, che quelle parole le ha pronunciate dinanzi alla commissione Difesa del Senato. Dunque personale delle ong è sotto inchiesta per un reato che non può essere punito e a dirlo è lo stesso titolare dell’indagine: non si capisce allora perché il suo Ufficio non abbia ancora chiesto l’archiviazione degli atti. Ma mettere in fila i fatti è inutile perché l’espressione "taxi del Mediterraneo" vi è rimasta dentro anche se è stata smentita in ogni luogo. Rimbomba nello stomaco e vi ricorda ogni volta che con la pensione che prendete non ce la fate a mantenere i due figli che ancora non hanno un lavoro dignitoso. E vi ricorda che è assurdo a 35 anni lavorare 12 ore al giorno, senza contratto, per portare a casa 700 euro al mese. E vi ricorda che avete dovuto lasciare l’Italia per andare a Londra, a Lipsia o in Australia, che soffrite come cani, perché avete un lavoro ma vi manca tutto il resto. E allora i numeri, le statistiche, diventano offensive perché non tengono conto dei sacrifici, delle sofferenze, della lontananza, delle rinunce, dei sogni infranti. E allora se siamo 60 milioni e ogni anno arrivano in Italia 180mila migranti, che senso ha fare un calcolo, che senso ha dirci che la proporzione di 1 (migrante) a 333 (italiani) è gestibile e non rappresenterebbe un’emergenza? Nessun senso, perché io continuo a mantenere con una pensione di 1.800 euro al mese due figli che non trovano lavoro. E allora al diavolo i migranti e al diavolo anche le Ong che ce li portano in Italia. E ancora, che senso ha citare le fonti del Viminale per dire che i reati predatori sono in diminuzione? Nessun senso se lo stesso ministro degli Interni racconta che nel 1999, parlando a Bologna con "un vecchio compagno", capì che "la sicurezza è un sentire", che "dove si ragiona con le statistiche non c’è sentimento". E fu a Bologna, nel 1999, che Minniti capì ciò che Steve Bannon, il consulente strategico di Trump, e Beppe Grillo, garante del M5S, avrebbero capito solo più tardi (molto più tardi) usando la massa di informazioni provenienti dai social e dal web: la statistica vera, quella dei tempi moderni, quella che serve alla politica, è la "scienza" che contempla solo lo stato d’animo delle persone, è quella che traccia gli umori dell’opinione pubblica, che come in un circolo vizioso può essere agevolmente creata diffondendo dati e notizie falsi o verosimili. Quindi se l’opinione pubblica ti dice che si sente invasa, non puoi rispondere come sarebbe giusto, ovvio, razionale e persino conveniente: la soluzione è dare permessi di soggiorno e consentire che in Italia si arrivi legalmente, perché ampliare le fasce di illegalità è sempre una scelta criminogena. Non puoi farlo. La soluzione è dire -come fanno i 5 Stelle - che le Ong vanno fermate, fa nulla che nel frattempo muoiano uomini, donne e bambini perché si è troppo distanti per prestare soccorso. La soluzione è promettere di intensificare e migliorare gli accordi con Turchia e Libia, perché pagare per risolvere problemi lontano dall’Italia è di gran lunga più conveniente (in termini elettorali, sia chiaro, non di salvaguardia della tenuta democratica dell’Italia) che gestire problemi "in casa". Che in Libia e Turchia i migranti siano stipati in lager, detenuti, torturati, violentati, sfruttati è abominevole, ma è un prezzo che siamo disposti a pagare, perché impedire i soccorsi in mare e bloccare i migranti a un passo dall’Europa è la risposta della politica agli umori della piazza. Su questo punto la posizione del centrosinistra non è per nulla cambiata rispetto ai tempi in cui - tolte poche eccezioni - assentì al trattato siglato da Berlusconi con Gheddafi. Lo stesso vale per la legittima difesa: se l’opinione pubblica non si sente sicura, la soluzione è una legge ad hoc, che importa che sia chiaramente "inutile e confusa", che importa che "già esisteva un canone normativo e veniva interpretato in modo favorevole a chi vantava la difesa", serviva uno spot per questo governo che si è tradotto in un invito a prendere il porto d’armi e ad avere in casa una pistola. Ed è inutile che il segretario del Pd lamenti fantomatici errori: in questo agire c’è del metodo, poiché la matrice è lo stesso populismo penale che ha condotto all’introduzione dell’inutile reato di omicidio stradale. Si trova il tempo per discutere e votare leggi inutili (quando non dannose) e quelle di pubblica utilità, come l’introduzione del reato di tortura, restano ferme. Sta accadendo questo: se ci si basa sui numeri per raccontare il mondo in cui viviamo si è accusati di fare propaganda e di farlo senza avere cuore, senza pensare che dietro i numeri ci siano persone. I numeri servono solo per avere misura delle dinamiche e non lasciarle all’istinto manipolatorio delle fazioni. Se ci si sforza di argomentare e utilizzare un metodo che abbia un minimo di attendibilità scientifica si rischia di fare la fine degli eretici bruciati sul fuoco dall’Inquisizione: sapere è una colpa e anche questo è un segno dei tempi. Dall’altra parte alla politica si chiede di limitarsi a raccontare ciò che sembra plausibile, anche se vero non è. Minniti potrà continuare a dire di non essere un esponente del populismo di destra, ma solo un vecchio compagno folgorato sulla via della voglia di sicurezza. Oppure se ci piace possiamo chiamare le aspirazioni della piazza "oclocrazia", prendendo il termine in prestito da Polibio, ossia governo della plebe, una degenerazione della democrazia. Un termine che non sarà difficile far passare come una forma di governo tradizionale ma moderna: il governo delle masse. Ma "masse" suona parola antica, vecchia, consumata e allora meglio il governo dei cittadini, ecco, così suona meglio. Eppure l’oclocrazia è una degenerazione e non perché da pochi si passi a molti, a tutti, ma perché - come riflette Marco Revelli - quando le persone sentono che si è smarrito il valore dell’uguaglianza, c’è solo una cosa a cui ambiscono più di ogni altra, e non è la trasformazione sociale, ma la vendetta. Il governo della vendetta: contro i politici, contro i ricchi, contro i famosi, contro i migranti, contro le ong, contro i ladri. Dire che i dati non servono, dire che l’analisi non serve, dire "dove si ragiona con le statistiche non c’è sentimento" significa solo nutrire questa vendetta e rendere i cittadini consumatori di rabbia. Alla sfiducia dei cittadini, alla loro volontà di far saltare il banco, la politica in questo momento non sta dando alcuno strumento di trasformazione, ma il più atroce dei diritti (che si traduca in diritto a sparare o a sentirsi padrone della propria terra), un diritto che consuma chi ne fa uso, illudendolo di far qualcosa per lenire il malessere e lo smarrimento che prova: il diritto alla vendetta. "Ho denunciato mio figlio" di Concita De Gregorio La Repubblica, 12 maggio 2017 Questa è la storia di Ivana, Torino. Ivana ha denunciato suo figlio, 15 anni e mezzo. Alla fine di una lunga e dolorosa serie di tentativi per "evitare che si perdesse, perché si stava perdendo" non ha visto altra strada che chiamare i carabinieri. Lui la picchiava, racconta: chiedeva soldi per comprare droga e se la madre non glieli dava la minacciava con un coltello, la prendeva a calci e pugni. Ivana ha 39 anni, vive alla periferia di Torino, è separata da dieci. Lavora come impiegata. Ha avuto il bambino a 24 anni, mi ha mandato questa foto: "Ero cosi felice, lui cosi bello. Quando guardo l’album piango pensando alla felicita di ogni madre con un figlio neonato in braccio, e poi quindici anni dopo eccomi a chiedere dove ho sbagliato. E anche adesso mi chiedo con angoscia se ho fatto la cosa giusta - mi dice al telefono - vedo dal balcone i ragazzi giocare per strada e penso che gli ho tolto la libertà, non mi do pace. Non riesco più ad andare neppure a mangiare una pizza con un’amica, se esco e penso che lui è dentro mi sento in colpa". Dopo la denuncia, visti i referti medici della madre, il ragazzo è stato assegnato dal giudice a una comunità. È fuggito dopo poco, ha commesso un reato, è stato allora chiuso in carcere minorile. Ora è di nuovo in comunità, ma fuori provincia. Ivana spera "perché lui è buono nell’anima io lo so. È violento, anche suo padre lo era. La violenza purtroppo ti segna per sempre". Questa la lettera che mi aveva scritto, prima che cominciassimo a parlarci. "Rannicchiata nel mio letto aspetto che il sonno arrivi. Ho deciso di scrivere a te ciò che una madre prova quando per salvare (o almeno spera) un figlio arriva a prendere decisioni davvero difficili. Ho lottato qualche anno con ogni modo per non arrivare a questo punto, speravo che l’amore, le diverse strategie consigliatemi facessero effetto". "Gli psicologi il Sert le Asl. La scuola. Ho lottato per quel bambino nato 15 anni fa. Piccolo, indifeso, che cresceva, adorato dalla sua mamma, e lui attaccato a lei. Ora è un adolescente, sofferente, che ha smarrito se stesso. Sono arrivata a denunciarlo per arrivare all’ultimo aiuto che potevo ancora dargli. Volevo per lui un luogo dove riuscisse, e lo aiutassero, a recuperare se stesso. Ma il mio adorato ragazzo non ha accettato neanche questo aiuto, la comunità". "Allora il carcere. Come si sente una madre che fa queste scelte? Avevo la casa distrutta, rientrava alle sette del mattino. Con la morte nel cuore e nell’anima tutto il giorno mi chiedo: ho fatto bene? Sono una madre non degna di questo nome? Poi penso come vedevo il mio amato figlio, senza nessuno scopo, rabbioso, rovinarsi. Non avevo scelta. Ero sicura che fosse entrato in un giro terribile, che facesse uso di droghe: lo ero anche quando nessuno mi credeva. Il padre con lui sempre indulgente, toccava a me dire no". "Ora l’unica speranza è che questo carcere - suo e mio - possa servire. L’unica cosa che mi dà forza è sperare, portandomi dentro angoscia, un vuoto incolmabile, un senso di colpa che ogni giorno va gestito - sperare di ritrovare il bambino di quella foto, il mio meraviglioso figlio neonato, e dargli di nuovo la speranza e la fiducia nella vita che vedevo nei suoi grandi occhi bruni. Grazie per aver letto tra queste poche righe il mio dolore". Sicilia: al Pagliarelli condizioni sempre più critiche, da Augusta gelato dedicato a Pannella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 maggio 2017 Una delegazione del Partito Radicale, guidata da Rita Bernardini, ha visitato i due istituti siciliani. A Palermo non c’è acqua calda nelle celle, i magistrati di sorveglianza "latitano" e ci sono detenuti psichiatrici che dovrebbero essere ospitati nelle Rems. Nell’altro carcere i 476 reclusi, su una capienza massima di 242 posti, riferiscono di avere un buon rapporto con il direttore, con gli educatori e con gli agenti di polizia penitenziaria. È detenuto nel carcere Pagliarelli di Palermo, ha quasi 70 anni e mostra il suo piede gonfio ed edematoso per il diabete alla delegazione del Partito Radicale guidata da Rita Bernardini e composta da Donatella Corleo (segretaria dell’Associazione Radicali Palermo) il militante radicale Gianmarco Ciccarelli e l’avvocato Fabrizio Giannola. Riferisce che il piede sta facendo cancrena e rischia l’amputazione: "Ho già firmato la richiesta per essere ricoverato - denuncia il detenuto - ma ancora niente, non mi chiamano; ho un dolore pazzesco, cammino con gli antidolorifici in tasca; vi prego di aiutarmi, vorrei essere ricoverato prima che mi taglino la gamba". È solo uno dei casi che la delegazione radicale ha documentato nella sua ultima visita negli istituti di Palermo e Augusta. Detenuti stranieri che da anni ancora non hanno avuto la possibilità di effettuare colloqui telefonici con la propria famiglia, terapie mediche effettuate senza continuità che rendono la vita impossibile ad alcuni detenuti, mancanza dell’acqua calda nel bagno delle proprie celle e possibilità di fare la doccia solo tre volte a settimana, magistrati di sorveglianza che non svolgono il loro ruolo assegnatole dall’Ordinamento penitenziario sia riguardo al trattamento individualizzato dei detenuti, sia nella verifica e attenzione delle condizioni di detenzione. Non mancano casi di detenuti psichiatrici che in realtà dovrebbero essere ospitati nelle Rems, le residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza nate come alternativa ai vecchi ospedali giudiziari. E poi ci sono racconti di vita quotidiana, piccole cose per chi vive da uomo libero, ma che da reclusi si amplificano fino a trasformarsi in sofferenza. C’è chi, tramite la "domandina", vorrebbe accedere alla biblioteca ma la risposta arriva dopo mesi; altri che hanno presentato diverse istanze per poter andare a scuola ma non sono mai stati chiamati, altri ancora che dormono con dei materassi usurati nel tempo. Il carcere Pagliarelli di Palermo ospita 1306 detenuti (1256 uomini, 50 donne) per una capienza regolamentare di 1178 posti, a cui vanno sottratti i posti regolamentari relativi a 9 celle attualmente inagibili. Secondo la delegazione del Partito Radicale però non è chiaro se la capienza regolamentare dichiarata sia comprensiva anche dei circa 70 posti di un reparto che attualmente è chiuso per lavori di ristrutturazione. Sono 643 i detenuti in attesa di giudizio, 128 i detenuti affetti da tossicodipendenza, 71 reclusi hanno l’epatite c e 3 sono sieropositivi. Non mancano i casi psichiatrici che riguardano 117 persone e - secondo quanto riferito ai radicali - sono molti i casi di reclusi affetti da patologie di tipo psichiatrico che vengono indebitamente trasferiti nel carcere Pagliarelli anziché trovare posto in una Rems. Poi ci sono i detenuti stranieri, 188 uomini e 14 donne, ai quali manca la figura del mediatore linguistico - culturale e molti di questi reclusi non parlano l’italiano e hanno seri problemi di comunicazione. I radicali hanno anche potuto riscontrare una carenza di organico che riguarda gli agenti di polizia penitenziaria: quelli effettivamente in servizio sono 686 (di cui 183 impiegati nel nucleo traduzioni) mentre la pianta organica ne prevede 879. Poi sono 14 gli educatori effettivamente in servizio, precedentemente la pianta organica ne preveda 18. L’assistenza psicologica risulta carente visto che prevede un monte ore totalmente inadeguato: soltanto 76 ore mensili. Il numero dei detenuti presenti, secondo quanto riferito alla delegazione del Partito Radicale, registra nell’ultimo periodo una tendenza all’aumento; nel carcere Pagliarelli è attivo un servizio nuovi giunti e sono in aumento gli ingressi in carcere dalla libertà: secondo quanto riferito dal commissario La Sala, nel penitenziario ha recentemente ripreso consistenza il fenomeno delle "porte girevoli" (persone che entrano in carcere per uscire dopo un giorno o comunque dopo pochi giorni), con un conseguente appesantimento del lavoro per tutto il personale che opera nella struttura. Fenomeno che riguarda tutto il territorio nazionale come già denunciato dal Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale: poco utilizzo delle camere di sicurezza nei commissariati di polizia nei confronti degli arrestati in flagranza di reato. Come già anticipato, tanti sono i casi raccolti dai radicali durante la visita al Pagliarelli. Quelli più impressionanti riguardano l’inefficienza dell’assistenza sanitaria. Poi è la volta della Casa circondariale di Augusta. La delegazione del Partito Radicale viene ricevuta e accompagnata dal direttore dell’istituto Antonio Gelardi, dalla vicedirettrice Cesira Rinaldi, dal comandante di reparto della polizia penitenziaria Guido Maiorana e dalla responsabile dell’area educativa Emilia Spuches. Sono 476 i detenuti presenti, su una capienza massima di 242 posti. I radicali fanno notare che il penitenziario ha un totale di 317 celle singole, di cui però 75 celle attualmente non sono disponibili, perché ubicate in sezioni chiuse per inagibilità o lavori di manutenzione. Si chiedono come mai nei dati illustrati dal ministero della giustizia, viene invece riportata una capienza regolamentare di 372 posti. Anche in questo caso risulta carenza di organico, mancanza di mediatori culturali e poche ore di assistenza piscologica. Anche qui c’è un grave problema relativo all’assistenza sanitaria. Secondo quanto riferito dal direttore del carcere di Augusta, il recente trasferimento di competenze sanitarie dal ministero della Giustizia al servizio sanitario regionale è stato un "passaggio drammatico". Spiega sempre il direttore: "Il coordinatore sanitario è presente, però ha un incarico fino al 30 giugno, dopo non sappiamo, speriamo che duri; per quanto riguarda gli infermieri tutto sommato c’è stabilità, invece con riferimento ai medici c’è un ricambio frequente, ogni tre mesi, ogni mese, ogni settimana, io non riesco più a seguire i ricambi, forse dovrò alzare bandiera bianca". Nonostante i gravi problemi strutturali del carcere di Augusta, i detenuti riferiscono di avere un buon rapporto con il direttore, con gli educatori e con gli agenti di polizia penitenziaria. Nella maggior parte delle sezioni (anche nel reparto alta sicurezza) vige il regime delle "celle aperte"; inoltre, si registra una spiccata attitudine della direzione e dell’area trattamentale a favorire lo svolgimento di attività culturali, teatrali e ricreative, agevolando anche positive occasioni di contatto fra la popolazione reclusa e il mondo esterno al carcere. Il ricordo di Marco Pannella è molto vivo tra la popolazione detenuta. La delegazione viene accolta dai detenuti nella saletta della socialità: con i pochi mezzi a loro disposizione, i detenuti hanno preparato arancini, cartocciate e una vaschetta di gelato al gusto di cappuccino con la scritta "Uno di noi". "Questo gelato - spiegano i detenuti - è dedicato a Marco Pannella ed è al cappuccino proprio per ricordare i digiuni che ha fatto per noi". Rovigo: il Sindacalista "troppi detenuti, pochi agenti e carcere pieno di problemi" Rovigo Oggi, 12 maggio 2017 L’attacco di Gianpietro Pegoraro, sindacalista di Fp-Cgil: "Vogliono passare da 131 a 204 detenuti, ma ci sono un sacco di problemi nella struttura". Un aumento di 74 detenuti, con un numero insufficiente di poliziotti di penitenziaria e, soprattutto, tante magagne che continuano a rendere problematica la vita all’interno della nuova struttura. "È notizia di questi giorni che è nella volontà dell’Amministrazione penitenziaria di aumentare il numero dei detenuti presenti all’interno del carcere di Rovigo passando dai 131 presenti a 204 detenuti, con un incremento di ben 74 detenuti in più, i considerazione che la struttura può contenere anche 213 detenuti". Lo annuncia Gianpietro Pegoraro, segretario di Fp-Cgil penitenziari. I detenuti arriveranno da altri istituti del distretto del Triveneto o da altre carceri d’Italia che si trovano nella posizione di sovraffollamento. "Sul fronte dei poliziotti penitenziari - prosegue Pegoraro - l’amministrazione penitenziaria è propensa ad una diminuzione degli stessi rispetto ad una prima formulazione della dotazione organica, che prevedeva una dotazione organica intorno ai 150 poliziotti. Secondo il pensiero dell’amministrazione penitenziaria portando un lieve incremento alle 72 unità i polizia penitenziaria presenti assegnando un numero di otto unità di polizia portando un reparto a 80 unità di polizia penitenziaria, questo sarebbe più che sufficiente a gestire 204 detenuti a Rovigo". "Non va dimenticato che nel formare le 72 unità presenti ci sono ben 8 di esse in missione e distacco provenienti da altri istituti del Veneto e 3 da Ferrara. Tra queste 11 unità di polizia poste in distacco e missione ben due unità a fine giugno termineranno la loro missione nel Carcere di Rovigo e rientreranno nella propria sede di appartenenza. Questo enorme divario voluto dall’amministrazione Penitenziaria viene giustificato asserendo che il carcere di Rovigo è un carcere moderno ed è tutto automatizzato. Peccato che il carcere di Rovigo seppur sia di recente costruzione presenta enormi problemi legati alla struttura che creano non pochi disagi e difficoltà al personale di polizia penitenziaria e non. Ci sono infiltrazioni d’acqua sia all’interno delle celle che in alcuni uffici, alcuni dei quali sono stati trasformati da magazzini in uffici". "La sala dei monitor risulta essere la postazione di lavoro più rumorosa di tutto l’istituto carcerario e anche la più calda, soprattutto durante il periodo estivo, poiché i terminali che non sono collocati nella medesima stanza in cui vi è presente anche l’operatore di polizia penitenziaria emanano calore emettono un continuo rumore mal sopportabile delle ventole di raffreddamento. Cancelli che si bloccano in continuazione e per sbloccarli il personale deve intervenire solitamente in due unità, per riportarli in utilità manuale. Tubi dell’acqua che esplodono con facilità, come è successo poco tempo fa durante il periodo invernale nella caserma agenti, che ha portato in blocco la caldaia di tutto l’Istituto, altri tubi dell’acqua che esplodono e fanno fuoriuscire ettolitri d’acqua all’interno dei sotterranei allagandoli. Televisori che non funzionano poiché l’antenna risulta essere inadeguata per ricevere i diversi canali televisivi, in questo caso i detenuti si arrangiano alla buona per ricevere qualche canale televisivo". "Non ci sono lavorazioni interne per detenuti, fatta eccezione dei lavori domestici offerti dall’Amministrazione dove sono pochi i detenuti ammessi a queste lavorazioni. Mancanza di un mediatore culturale, che possa fare da portavoce per le istanze promosse da detenuti extracomunitari, considerato che all’interno del carcere rodigino rappresentano la maggioranza dei detenuti presenti mettendo in grossa difficoltà il risicato numero dei poliziotti presenti". "Numeri ridotti - prosegue il rappresentante del sindacato - anche per il personale del comparti ministeri, con tre persone addette al lavoro di ragioneria che hanno un grosso carico di lavoro da svolgere come: gare d’appalto, mercedi dei detenuti, stipendi del personale dipendente, gare per gli acquisti, pagamenti dei fornitori ed altro. Come si vede è una polveriera pronta ad esplodere in qualsiasi momento se non si interviene a sistemare la situazione e se non si trovano, oltre a quelle già in corso, altre attività trattamentali e soprattutto aziende che intendono investire sul carcere di Rovigo, le quali possono godere di agevolazioni fiscali". "Come Fp-Cgil avevamo ottenuto dal sottosegretario Ferri in visita a Rovigo l’anno scorso una promessa che il numero dei detenuti all’interno del carcere rodigino non sarebbe aumentato se non in proporzione con l’aumento del personale di polizia penitenziaria, ora vediamo che l’amministrazione penitenziaria non sentendo ragioni è decisa ad aumentare il numero dei detenuti non curandosi minimamente dei problemi che si stanno verificando all’interno del carcere rodigino". Rovigo: la Garante "il recupero dei detenuti? quando c’è funziona" Rovigo Oggi, 12 maggio 2017 La Garante dei detenuti, Giulia Elisa Bellinello, racconta la situazione dei carcerati nella nuova Casa circondariale. "Mancano lavoro, scuola e cultura, le basi della civiltà". La garante dei detenuti del carcere di Rovigo, Giulia Elisa Bellinello, presenta al consiglio comunale un anno di lavoro all’interno della casa circondariale, un anno difficile caratterizzato dallo spostamento tra la vecchia e la nuova sede. Sede dai grandi spazi, non ancora completata, nella quale però mancano ancora troppe cose. Secondo la garante, gli obiettivi del 2017 sono: lavoro, scuola, cultura e, perché no, anche attività sportive. "Il male si combatte solo con il bene", sono le parole conclusive di un’ampia trattazione della garante dei detenuti del carcere di Rovigo, Giulia Elisa Bellinello, che ad un anno dall’inizio del suo mandato, racconta la situazione della casa circondariale di Rovigo, in un anno che ha sancito il passaggio dalla vecchia sede di via Verdi al nuovo carcere. Un trasloco complesso che ha portato i detenuti in una sede decisamente migliore, ma ancora da completare, non solo per quanto riguarda le dotazioni degli spazi, ma anche in termini di progetti. La garante sintetizza gli obiettivi del 2017: lavoro, scuola e cultura. Obiettivi carenti che vanno implementati o costruiti da capo per permettere ai detenuti non solo di scontare la pena, ma di perdere al contempo il senso di abbandono, ritrovare dignità ed acquisire competenze che gli permettano, una volta usciti, di cominciare una nuova vita. "Solo alcuni carcerati lavorano (in cucina, in lavanderia o nella pulizia degli spazi comuni), poche ore e sufficienti solo per pagarsi il mantenimento nel carcere - spiega la garante - Guadagnano solo 3 euro e cinquanta all’ora. E manca la formazione professionale per permettergli di acquisire competenze spendibili all’esterno del carcere. Il lavoro dà dignità e così anche la scuola. Il corso di alfabetizzazione cha abbiamo non permette neanche di dare il diploma di scuola media. Servono poi cultura e attività sportive. Musica e teatro permettono ai detenuti di allontanare il senso di abbandono che provano in un carcere. Lavoro, scuola e cultura è tutto ciò su cui si fonda la civiltà, perché non facciamo ‘Ville e giardini in carcere". Molti consiglieri intervengono sul tema, sindaco compreso, per ringraziare la garante del lavoro svolto e sottolineare il loro appoggio ad obiettivi che ridiano dignità al carcerato. E su tutti, conclude il presidente del consiglio comunale Paolo Avezzù: "I dati dimostrano che la recidiva di reato è sotto il 5% per gli ex detenuti che hanno fatto esperienza di lavoro in carcere, sopra il 90% invece per chi non ha fatto questa esperienza. Si grida tanto alla sicurezza: beh, si parte anche da qui. Io nel recupero dei detenuti ci credo". Cuneo: aggiornamenti sulla morte di Sasha, morto suicida nel carcere di Saluzzo infoaut.org, 12 maggio 2017 Pubblichiamo qui di seguito la risposta della Garante del carcere di Saluzzo, B.C., interpellata da noi in merito al suicidio di Sasha il giorno dopo essere stato messo in isolamento per motivi a tutt’oggi ancora oscuri "Buongiorno, sono la Garante per i diritti dei detenuti del carcere di Saluzzo e visto che sono stata menzionata circa il caso del giovane detenuto suicida, voglio fare alcune precisazioni. Certamente la garante si è attivata appena è venuta a conoscenza del fatto (non conosceva la persona) e molti operatori sono stati colti di sorpresa perché l’interessato partecipava attivamente a varie attività (faceva teatro, lavorava come addetto alla spesa interna, ecc.) e per lui era prevista la dimissione a novembre 2017. Con il garante regionale on. Bruno Mellano ho effettuato un sopraluogo sabato 6 maggio, presso la cella di isolamento(,una stanza luminosa, con arredo essenziale, servizio igienico e finestra che si affaccia all’esterno,non spazio buio senza finestra come descritto nell’articolo) che però presentava grande disordine,quasi come riflesso di una confusione mentale. Sono stati interpellati il Comandante e altro personale di polizia penitenziaria per chiarire la dinamica del fatto ottenendo piena collaborazione. Quanto sopra per opportuna conoscenza. Distinti saluti". B.C. ------- Una lettera con diversi punti oscuri e alcune contraddizioni. Il giovane viene descritto come molto partecipativo, nonché addetto allo spesino. Come allora è possibile che successivamente venga descritto come uno "confuso mentalmente"? La direzione del carcere non ha valutato i rischi dell’isolamento? Se era confuso mentalmente, non era meglio l’infermeria piuttosto dell’isolamento? La cella d’isolamento, luogo che sappiamo punitivo, coercitivo, viene invece descritto come un luogo luminoso, addirittura arredato in "maniera essenziale" (che sarà, un letto ed un tavolino per mangiare?), dotato di una finestra che si affaccia sull’esterno mostrando chissà quale stupendo panorama: il cubicolo in cui si va all’aria, 8 passi per 3 (a Saluzzo la sezione isolamento è composta da 12 celle, ognuna con la sua aria). Ma la Garante sorvola tranquillamente sui motivi per i quali Sasha è stato messo in isolamento. La Stessa ha poi affermato di essersi prontamente attivata e che su questo caso ha provato a far luce con il comandante e altro personale della polizia penitenziaria. Sappiamo bene che il lavoro del Garante non è facile. Viene sovente utilizzato come foglia di fico dal ministero per abbellire il sistema penitenziario, ma da qui a credere alle versioni del direttore o del comandante delle guardie ce ne passa: queste sono le prime figure che per "natura" hanno l’interesse a minimizzare la gravità del gesto, sminuire le loro responsabilità e evitare ogni interesse da parte di giornalisti, avvocati o figure esterne. La sua lettera non fa altro che avvalorare i punti oscuri di questa tragica "morte da carcere". Alessandria: il Sindacato replica al direttore "sbagliato nascondere ciò che avviene" alessandrianews.it, 12 maggio 2017 Il sindacato autonomo di Polizia penitenziaria stigmatizza le ultime dichiarazioni del direttore della casa di reclusione di San Michele, sottolineando come invece la situazione attuale per gli agenti resti insopportabile e accusando il direttore di minimizzare gli episodi che avvengono all’interno della struttura Dopo le ultime dichiarazioni rilasciate dal direttore della Casa di Reclusione di San Michele, Domenico Arena, durante un incontro con i ragazzi del Progetto Giovani di Cultura e Sviluppo, il Sappe replica al direttore diramando un nuovo comunicato. Eccolo in forma integrale. Una realtà diversa da quel che si presenta, quella della Casa di reclusione San Michele di Alessandria. Lo denuncia la Segreteria regionale del Piemonte del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, dopo alcune dichiarazioni tranquillizzanti rese alla stampa locale dal Direttore della Casa di Reclusione alessandrina in merito all’incremento di eventi critici che stanno minando sia l’ordine e la sicurezza dell’Istituto che l’incolumità degli Agenti ivi operanti. "Il Direttore della Casa di Reclusione di Alessandria può anche tentate di sminuire la grave tensione subìta ancora una volta dai poliziotti penitenziari, come sempre in prima linea a gestire - per altro con grande professionalità - questi continui eventi critici, conseguenza anche dell’eccessiva tolleranza verso chi dovrebbe scontare una pena con responsabilità e non mettendo a soqquadro l’ordine e la sicurezza. Ma la realtà dei fatti è evidente a tutti, a lui per primo, e non si deve omettere di fare conoscere all’opinione pubblica quel che accade nelle carceri", denuncia il segretario regionale Sappe Vicente Santilli. "Il Sappe, sino ad oggi, ha dato notizia e denunciato fatti ed eventi critici accaduti nella Casa di reclusione di Alessandria perché l’impegno nostro, del primo e più rappresentativo Sindacato della Polizia Penitenziaria, è quello far conoscere all’opinione pubblica quel che avviene nelle carceri ogni giorno e far dunque comprendere il lavoro duro e difficile svolto con professionalità, spirito di abnegazione e umanità dalle donne e dagli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria. Lo ha fatto per il San Michele di Alessandria e lo fa per le oltre 200 carceri italiane per adulti e minori. Il nostro obiettivo è sollecitare e pretendere una trasparenza reale della gestione della cosa pubblica, un concreto rispetto delle regole e della democrazia in materia di organizzazione del lavoro dei poliziotti di Alessandria, della salubrità dei posti di lavoro, del rispetto dei diritti inviolabili di ogni singolo Agente, Sovrintendente, Ispettore di Polizia Penitenziaria. Soprattutto, lo ribadisco con fermezza, rivendichiamo il diritto alla trasparenza perché non abbiamo nulla da nascondere". Aggiunge Donato Capece, segretario generale del Sappe: "Mettere la testa sotto la sabbia non vuol dire che i problemi non ci siano, anzi. Si vogliono forse confutare i dati sugli eventi critici accaduti nella Casa di reclusione di Alessandria nell’anno 2016, che parlano di 41 atti di autolesionismo, 3 tentati suicidi sventati in tempo dai poliziotti, 1 suicidio, 32 colluttazioni, 2 ferimenti? Siamo curiosi di vedere se, anche questa volta, ci sarà chi tenterà di sminuire la grave tensione subìta ancora una volta dai poliziotti penitenziari, come sempre in prima linea a gestire - per altro con grande professionalità - questi continui eventi critici, conseguenza anche dell’eccessiva tolleranza verso chi dovrebbe scontare una pena con responsabilità e non mettendo a soqquadro l’ordine e la sicurezza". Varese: io, sorella di un detenuto, vi chiedo scusa varesenews.it, 12 maggio 2017 M. ci scrive una lettera per dare voce al dolore dei parenti di chi è in carcere, condannati anch’essi a scontare la pena dei loro cari. Nei giorni scorsi abbiamo scritto un articolo sulla protesta inscenata dai detenuti del carcere di Varese perché per un guasto dell’impianto televisivo non sono riusciti a vedere la partita di calcio della Juve in semifinale di Champions League. Protesta rumorosa e pacifica, ma la notizia, postata sulla nostra pagina Facebook, ha ricevuto molti commenti, alcuni dei quali, come spesso accade, sopra le righe, aggressivi e alcuni anche offensivi (che abbiamo ovviamente cancellato). Oggi ci ha scritto la sorella di uno di quei detenuti, per chiedere scusa a nome di quei detenuti, ma anche per dare voce al dolore dei loro parenti, che in qualche modo scontano anch’essi la pena dei loro cari. Ecco la lettera che ci ha inviato M. "Eh sì oggi la partita di calcio è importante… poverini… è che sono in punizione… è quello che si meritano… loro devono pagare per quello che hanno fatto… punizione non rieducazione". A tutte queste persone voglio dire una cosa. Scusate, sì chiedo scusa io a loro perché loro offendono noi. Io, noi che siamo i parenti dei detenuti… o come piace dire a Voi, dei carcerati. Noi sorelle, fratelli, mamme, padri, figli, cugini, nipoti, noi che tutti i giorni lottiamo contro una semplice parola: infelicità. Infelici perché le persone che più amavamo purtroppo hanno sbagliato, sì hanno commesso un errore, un reato. Sì hanno sbagliato, noi per primi arrabbiati, arrabbiati perché per loro volevamo il meglio, noi che per primi volevamo abbandonarli, ma perdonarli è l’unica strada, la strada del perdono, la più difficile da percorrere. Alcuni di loro hanno commesso degli errori, è vero alcuni anche molto gravi, così gravi da aver fatto del male al prossimo, magari nel tentativo di proteggere altri ma in modo sbagliato. Hanno sbagliato, verissimo e stanno pagando ogni giorno della loro vita e sapete perché? Vi siete mai chiesti in quali condizioni vivono? In particolar modo al "Miogni", una struttura che risulta dismessa da circa 10 anni? Inutile elencare quali sono le cose che non funzionano ma un motivo pure ci sarà. Patire il freddo perché la struttura non è in grado di scaldare i locali, patire il caldo perché rinchiusi in una stanza di pochi metri quadri dove diventa difficile spostarsi, e ricevere una semplice coperta per ripararsi dal freddo a volte diventa un lusso. Tutto questo non è rivolto alla polizia penitenziaria, anzi loro vanno ringraziati ogni giorno, perché forse solo loro possono capire il dolore che gli occhi dei parenti non riescono a nascondere all’uscita del cancello. Sì, perché varcata quella soglia la felicità di poterli incontrare per una sola ora è più importante di tutto quello che ci sta attorno. Varcare quella soglia con coraggio, amore e speranza, speranza che tutto possa ricominciare, tutto vuol dire poter assaporare di nuovo la parola serenità. Li amiamo perché già li amavamo prima, li abbiamo perdonati perché è più difficile perdonare che abbandonare. Papa Francesco recentemente ha scritto "nessuna sentenza di un giudice potrà mai impedire di voler bene al proprio figlio". Conviviamo con il dolore, aspettiamo che tutto questo finisca, preghiamo perché è l’unica cosa che ci rimane. Quindi per cortesia quando postate certe frasi prima pensate. Pensate che potreste dirle a persone che purtroppo, un domani potreste anche essere voi, pensate che potrete giudicare solo dopo aver percorso lo stesso cammino. Il nostro cammino è tutto in salita perché ogni giorno affrontiamo il giudizio della gente che con molta superficialità ci offende, ci condanna, ci umilia. Ma nonostante tutto noi crediamo ancora in un mondo migliore, chiedendo anche scusa perché questo "mondo dimenticato" si fa sentire Un abbraccio cari detenuti, noi vi amiamo più di prima, perché speriamo possiate con orgoglio e dignità ricominciare, perché Dio vi ama nonostante gli errori compiuti, e anche noi. La sorella di un detenuto Civitavecchia (Rm): parte lo screening per i detenuti delle Case circondariali terzobinario.it, 12 maggio 2017 Partirà a giugno lo screening promosso dalla Asl Roma4, rivolto agli ospiti delle Case circondariali di Civitavecchia. L’iniziativa concordata durante gli incontri del Tavolo permanente sull’organizzazione sanitaria negli istituti penitenziari di Civitavecchia, è unica nel suo genere nel Lazio, in quanto la Asl Roma4 è la prima azienda sanitaria a far partire lo screening oncologico nelle carceri. "Gli screening oncologici - spiegano dall’azienda sanitaria - verranno effettuati negli istituti penitenziari di Civitavecchia nel mese di giugno, per i detenuti che sceglieranno di aderire ai programmi di prevenzione e di diagnosi precoce dei tumori: della mammella, del collo dell’utero e del colon retto. La lotta ai tumori è possibile attraverso interventi di prevenzione basati sulla diagnosi precoce. Attraverso il percorso screening si può individuare precocemente l’insorgenza di un tumore aumentando significativamente la probabilità di sopravvivenza evitando spesso interventi troppo aggressivi e invasivi". "Lo screening mammografico è previsto per le donne tra i 50 e i 69 anni, lo screening del cervico-carcinoma per la diagnosi precoce del tumore del collo dell’utero per le donne fra i 25 e i 64 anni, e lo screening del tumore colon rettale per la diagnosi precoce del tumore del colon retto per gli uomini e per le donne fra i 50 e 74 anni. Il Garante dei detenuti Dott. Stefano Anastasia dichiara che è stato compiuto un altro importante passo in avanti verso l’equivalenza delle cure e la presa in carico da parte delle Aziende Sanitarie della salute del carcerato non solo in ambito di cura, ma anche di prevenzione. Il Garante si augura che altre Aziende Sanitarie e istituti penitenziari nel Lazio seguano la strada aperta dalla Asl Roma 4 organizzando a loro volta una campagna di screening rivolta alla popolazione carceraria". "Il Direttore generale della Asl Roma 4, Giuseppe Quintavalle ricorda l’importanza di garantire il Diritto alla Salute a tutte le persone sottoposte a misure detentive, in nome di una sanità che guarda al detenuto non come un numero ma come persona. Il carcere, ricordiamo, deve avere una utilità sociale, di rieducazione e formazione umana, e l’assistenza sanitaria deve essere usufruibile per tutti". Torino: affetti "dimezzati", detenuti e detenute raccontano la reclusione Redattore Sociale, 12 maggio 2017 In scena fino al 16 maggio "Meditazioni sul Cantico dei Cantici" al teatro della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. Il valore degli affetti e il senso di incompiutezza che accompagna i sentimenti di chi vive la reclusione, la loro rappresentazione attraverso i sogni, le fantasie di donne e uomini detenuti e le parole d’amore del Cantico dei Cantici. È l’idea di Metà - Meditazioni sul Cantico dei Cantici, l’evento teatrale realizzato da Teatro e Società, con la regia di Claudio Montagna, e il sostegno della Compagnia di San Paolo, che ha debuttato ieri al teatro della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino e sarà riproposto da stasera al 16 maggio alle 21, a un pubblico di centocinquanta spettatori a sera. Con Metà - Meditazioni sul Cantico dei Cantici, per la prima volta in venticinque anni di regia, Claudio Montagna realizza una rappresentazione esclusivamente ispirata ai temi dell’affettività in carcere, in particolare, degli affetti famigliari e coniugali. "Donne e uomini detenuti metteranno in scena quei sentimenti che li toccano con grande forza ma per i quali soffrono privazioni e lontananze - spiega Claudio Montagna - Perdere l’altra metà, chiunque essa sia, genitori, figli, amici, amori, "dimezza" nell’anima e forse nel corpo. E poi chissà se a fine pena, pur ritrovando l’altro, riusciranno a ritrovare la parte di sé che avevano perduto? Se no, che faranno di sé? E che farà la società?". Metà - Meditazioni sul Cantico dei Cantici è l’opportunità, straordinaria, per donne e uomini detenuti di condividere i sogni che celebrano affetti "allontanati", di solito vissuti in solitudine ma, per una sera, meno sterili perché qualcun altro vi assiste. L’ascolto, sul terreno comune degli affetti, offre al pubblico nuovi punti di osservazione sui reclusi e, più in generale, sulla funzione riabilitativa della pena: "perché - spiega ancora Montagna - solo pensando i detenuti come uomini e donne sarà possibile dopo il carcere accoglierli come cittadini". E la voce della società civile, con i suoi giudizi, le ragioni e le paure rispetto alla realtà carceraria, sarà rappresentata dagli interventi di un gruppo di studentesse del corso di Filosofia del Diritto, del professor Claudio Sarzotti - Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, nell’ambito del laboratorio teatrale condotto da Franco Carapelle di Teatro e Società. Il tema dell’affettività è di attualità e argomento di analisi e proposte degli "Stati Generali dell’Esecuzione Penale": "Secondo la nostra Costituzione - spiega il prof. Claudio Sarzotti - il carcere dovrebbe privare il condannato esclusivamente della libertà personale. In realtà lo priva di ben altri diritti e beni sociali. Tra queste privazioni illegittime quello dell’affettività. Diritto che, tra l’altro, coinvolge persone che non hanno commesso alcun reato: i familiari delle persone recluse. Una questione importante, affrontata in altri Paesi europei con lo strumento delle visite coniugali, e che ancora aspetta una risposta dal nostro legislatore". Metà - Meditazioni sul Cantico dei Cantici è allestito da un gruppo di quattordici detenuti del Padiglione A della Casa Circondariale Lorusso Cutugno di Torino, che partecipano al laboratorio teatrale avviato a settembre da Franco Carapelle di Teatro e Società. Al loro fianco sul palco, per la prima volta, otto donne della sezione femminile del laboratorio di canto e recitazione corale, condotto dai musicisti Nicoletta Fiorina e Giovanni Ruffino, con la collaborazione di Adriana Bianco e Maria Paola Melis dell’Associazione Gruppo Abele Onlus. La realizzazione di costumi, arredi e oggetti di scena è stata affidata a una trentina di studenti del Primo Liceo Artistico Torino - Sezione Carceraria mentre si esibirà un gruppo di acrobatica ed espressione corporea, costituito da Diego Bertin, Luca Buccheri, Gloria Giraudo, Francesco Marra, Deborah Palmas coordinato, per la rappresentazione, da Marcello Piras. Le nuove sinergie sono state possibili grazie all’importante impegno della Direzione, degli educatori e del Personale di Polizia Penitenziaria. "Il tema dell’affettività in carcere - spiega il direttore Domenico Minervini - è di fondamentale importanza, non solo per la popolazione detenuta, ma per noi operatori penitenziari che possiamo valorizzarlo come formidabile leva per stimolare processi di rivisitazione critica degli atti criminali. Non potendo attendere le auspicate modifiche legislative in materia, ho voluto dare massima attenzione all’affettività in carcere, superando stereotipate limitazioni e realizzando modifiche organizzative e strutturali che potessero agevolare i rapporti affettivi". Nelle sei serate sarà aperto al pubblico il Ristorante Libera Mensa interno alla Casa Circondariale "Lorusso e Cutugno". Roma: "Minori in carcere e carceri minorili", a Fiumicino quarto incontro di Vite sospese ilfaroonline.it, 12 maggio 2017 Nella Sala Teatro di Villa Guglielmi il 18 maggio alle 18:00 il quarto incontro del ciclo di seminari proposto da Alternativa e Movimento Nonviolento in collaborazione con il Garante dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza. "L’Alternativa Onlus" e il "Movimento Nonviolento", in collaborazione con l’Autorità Garante per i diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza del Comune di Fiumicino, hanno avviato dall’inizio dell’anno il progetto Vite sospese. Percorsi di conoscenza tra detenzione e libertà. Un ciclo di seminari aperto a tutte e tutti alla scoperta di un mondo poco conosciuto: quello delle carceri e delle persone che vi sono detenute. "Se le barriere fisiche che dividono i detenuti e le detenute dalla società non si possono abbattere da un momento all’altro - afferma Jacopo De Luca, presidente di Alternativa Onlus - c’è un urgente bisogno di far crollare quelle mentali". "Da una parte c’è il carcere - continua Daniele Taurino, responsabile del Movimento Nonviolento, centro territoriale del Litorale romano - dall’altra ci sono le pene alternative che sono ancora poco usate ma che sono molto meno recidivanti del carcere: questa ‘diversà impostazione però non si può mettere in atto se quasi tutte le risorse (3 miliardi all’anno) sono destinate al settore di custodia e sicurezza e quasi niente per le figure professionali della riabilitazione, analogamente a quanto accade in materia di difesa fra settore militare e civile". Il quarto di questi incontri, dedicato al tema "Minori in carcere e carceri minorili" vedrà come ospiti esperti delle associazioni "Antigone" e "Il Viandante". L’Osservatorio di Antigone sulle carceri minorili si è imposto sempre più in questi anni quale punto di riferimento per i media, per l’opinione pubblica e per le stesse istituzioni nella conoscenza e nella elaborazione sulla detenzione minorile. "Dal 2016 - spiegano da Antigone - siamo autorizzati a entrare negli istituti di pena per minori anche con le telecamere. Far vedere non è la stessa cosa che raccontare a parole e siamo certi che il nostro contributo alla comprensione del mondo penitenziario minorile sarà da ciò fortemente accresciuto". "Ragazzi fuori" è il terzo Rapporto di Antigone sulle carceri minorili italiane. Prima erano usciti "Ragazzi dentro" e "Non è una giustizia minore". Oggi, in tempo di riforme e nuove prospettive per il sistema penitenziario, è tempo di guardare ai ragazzi inseriti nella società e non più dentro un muro di cinta. La Legge 8 Marzo 2001 n. 40 "Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori", c.d. Legge Finocchiaro, prevede la possibilità di espletare in luoghi alternativi al carcere la pena per le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci. L’applicazione di tale legge è fortemente limitata da fatti concreti, tra questi, la mancanza di strutture adeguate. "Il nostro impegno - scrive l’associazione Il Viandante - per la creazione di una struttura adeguata a questo scopo è iniziato nel gennaio 2005 con la campagna di sensibilizzazione, informazione e raccolta fondi Belli come il sole. Con il progetto Il sorriso di domani si vuole dare un seguito concreto a quella campagna, convincendo le Istituzioni competenti a porre fine a questa situazione intollerabile per una società propriamente civile". "Anche quando si parla di carceri l’attenzione sull’infanzia e sui minori va tenuta altissima e riguarda molti aspetti - dichiara Vincenzo Taurino, Garante del Comune di Fiumicino per i Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza -per questo abbiamo voluto portare a Fiumicino questo seminario per accendere un faro sulle criticità e le possibilità di una loro adeguata tutela". Avezzano (Aq): "Carcere e scuola: ne vale la pena?" terremarsicane.it, 12 maggio 2017 Primo incontro tra ospiti della Casa Circondariale, docenti e studenti. Il Cpia, Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti, con la Dirigente Scolastica Claudia Scipioni, garantisce da anni (prima come Ctp di Avezzano) un’ampia offerta formativa per favorire il rientro in formazione scolastica e l’apprendimento per tutta la vita (Lifelong Learning, sancito dalla Conferenza di Lisbona, 2000) agli ospiti della Casa Circondariale di Avezzano. In questo anno scolastico sono state realizzate diverse attività: licenza media, certificazione delle competenze dell’obbligo scolastico, alfabetizzazione di Italiano per stranieri, corso di lingua Inglese, corso di scrittura creativa, corso di informatica, e cineforum didattico. Il giorno 11 aprile 2017, nell’ambito del progetto "Carcere e scuola: ne vale la pena?" organizzato dal Cpia di L’Aquila in collaborazione con la Casa Circondariale a custodia attenuata di Avezzano, si è svolto il primo incontro tra ospiti della Casa Circondariale e studenti e docenti degli Istituti di Istruzione Secondaria di Avezzano "V. Bellisario", "B. Croce", "G. Galilei", "E. Majorana", "A. Serpieri" e "V. Pollione". Le docenti del Cpia Prof.ssa Emili Marilena e Piccirillo Fabiola, responsabili del progetto, hanno facilitato e guidato l’esposizione dei vari interventi. La sessione di lavoro e confronto si è aperta con l’accoglienza da parte della Direttrice della Casa Circondariale Dott.ssa Angeletti Anna, che ha fornito informazioni sulla struttura e la sua organizzazione, ha quindi fatto un excursus storico sulla "pena". Si è proceduto con la visione di alcune scene di filmati sulla "Funzione della pena". Il Commissario Laurenti Cristiano ha esplicitato il ruolo e le funzioni della Polizia Penitenziaria. L’educatore Sidoti Michele ha fornito il suo contributo facendo conoscere l’intervento trattamentale rieducativo con l’equipe socio-psicologica e sulla motivazione al cambiamento. Molto emozionante è stato il racconto da parte di uno degli ospiti della Casa Circondariale sul primo ingresso in carcere. Sono stati letti alcuni componimenti svolti nelle ore di scuola dagli ospiti della Casa Circondariale relativi a "La mia giornata", "La vita in carcere" e "La domandina". L’incontro si è concluso con un intenso e coinvolgente dibattito sulle molteplici tematiche proposte tra tutti i partecipanti. L’esperienza è risultata proficua e stimolante e ha indotto una serie di riflessioni importanti sulla Casa Circondariale e i suoi operatori, sulla legalità, sui pregiudizi, sulle difficoltà dei detenuti, sulla prevenzione della delinquenza, sui comportamenti dei giovani, sulla pena, sulla vita da reclusi, sull’importanza della libertà, sulla famiglia. In ultimo, ma assolutamente non per importanza, si vuole rimarcare la preziosa disponibilità e collaborazione del corpo di Polizia Penitenziaria per aver partecipato col loro lavoro silenzioso e discreto, ma essenziale ed eccellente a rendere disponibile questo incontro. Milano: in tribunale una mostra sul "carcere a porte aperte" dell’Associazione Apac di Simone Mosca La Repubblica, 12 maggio 2017 Dallo scalone si sale al terzo piano di palazzo di Giustizia e in fondo, lungo la parete maggiore dell’atrio della corte d’appello, tra i pannelli che raccolgono fotografie, volti, racconti e dati, uno scatto documenta la scritta lasciata su di un muro bianco. È in portoghese ma non ha bisogno di essere tradotta. "O Amor tudo desculpa". È un frammento della mostra "Dall’amore nessuno fugge", arrivata in tribunale l’8 maggio, dove rimarrà fino al 20, per ripercorrere gli oltre 40 anni di Apac, associazione che in Brasile, provando a dare un futuro allo sterminato popolo carcerario nazionale, ha avuto un’idea rivoluzionaria. Lasciare aperte le celle. Curato da Javier Réstan e Julián de la Morena, l’allestimento mette in fila le foto di Antonello Veneri e Marina Lo Russo. Uomini che stendono panni indossando una maglia col numero 10 sotto cieli carioca, sorridono dietro e sbarre, stanno chini sui banchi di un’aula piena imparando un lavoro, pregano. La prima volta che visitai un centro Apac "mi aprì uno di loro, la porta non era nemmeno chiusa a chiave", spiega Anna Zamboni. Lavora alla comunicazione della fondazione Avsi, una Ong italiana specializzata in cooperazione e sviluppo fondata nel 1972 e che oggi, con uno staff di 1.300 persone, opera in 30 Paesi nel mondo. "Ci occupiamo soprattutto di educazione e formazione e Apac è una delle realtà che seguiamo più da vicino, anche perché funziona e stiamo cercando di esportare il modello in altri Paesi". Dai pannelli, la storia inizia nei primi anni 1970 a San Paolo, quando un gruppo di volontari cristiani guidati dall’avvocato Mario Ottoboni chiese alle autorità di poter seguire la vita di alcuni detenuti del carcere di Sao José dos Campos. Il gruppo scelse di chiamarsi Amando o Próximo Amará a Cristo, ma decise poi nel 1974 di darsi una connotazione più laica diventando l’Apac Associazione di protezione e assistenza ai condannati, quando chiese di poter gestire direttamente un intero padiglione del penitenziario. Oggi i centri sono 50 di cui 40 (circa 3000 i detenuti ) nello stato di Minas Gerais. Sono poi 147 le associazioni già create e in condizione di avviare la costituzione di nuovi centri. "Il metodo si fonda sulla responsabilizzazione dei recuperandi, peri quali non è previsto alcun tipo di sorveglianza armata e che vengono accompagnati all’elaborazione del crimine commesso", prosegue Zamboni. "Poi, dopo una ricerca sulle professioni più richieste sul territorio, viene fornito un percorso di formazione specifico che aiuta all’inserimento sul mercato del lavoro". Sembra utopia, ma i risultati parlano da soli. Se la recidiva media in Brasile è dell’80 per cento (il 70 per cento nel mondo) per chi esce da un centro Apac è di appena il 10 per cento. Un dato che va inserito nel contesto del Brasile, dove la popolazione carceraria, la quarta dopo Stati Uniti, Cina e Russia, è cresciuta del ‘74 per cento dal 2005 al 2012 e oggi si attesta a quota 607mila. Un onere insopportabile per la casse dello Stato, e difatti i detenuti vivono in condizioni disumane. L’87 per cento è dipendente da alcol o altre sostanze, il 90 per cento è afflitto da malattie croniche, il 75 per cento è analfabeta. Ricorrente sono le rivolte, l’ultima a gennaio, quando a Roirama sono morte pia di 30 persone, molte decapitate. Come ricorda una delle immagini più forti in mostra, nel 1981 una sommossa nel carcere di Jacarel costò la vita a Franz de Castro Holzwerth, avvocato cattolico di 39 anni e militante di Apac arrivato a trattare con i detenuti e ucciso crivellato da 38 colpi. "Si può dire che il sistema penitenziario brasiliano sia fallito e Apac anche in questo rappresenta una risorsa". L’assenza di guardie e il lavoro su base volontaria fa infatti scendere di due terzi il costo per detenuto. Che cala da 3000 Real (circa 870 Euro) a 950 (circa 275 Euro). Non è un caso che il modello, in varie forme, si sia già diffuso in 23 Paesi, tra cui gli Stati Uniti. E non è un caso che la mostra sia arrivata a Milano per cercare di spiegare anche in Italia una cultura carceraria diversa. "Ma è indispensabile l’apertura di giudici e magistratura, oltre a studi approfonditi su come operare in armonia col codice". Se ne parlerà domani alle 14 nell’Aula magna di Palazzo di giustizia nel convegno dal titolo "L’esperienza delle carceri Apac: un modello possibile?". Tra gli altri, intervengono Valdeci Antônio Ferreira, direttore della Fraterindade brasileira de assisténcia aos condenados, Paulo Antônio de Carvalho, giudice del distretto di Itaúna, e Alda Vanoni, presidente di Avsi. Tra gli invitati anche il Ministro della giustizia Andrea Orlando. La mostra a ingresso libero è aperta da lunedì al venerdì, dalle 9,30 alle 14,30. Bologna: "La prima volta", di Roberto Cannavò; la vita in carcere nel film sul Pratello di Piero Di Domenico Corriere di Bologna, 12 maggio 2017 Domani la prima assoluta del mediometraggio "La prima volta" di Roberto Cannavò, documentario che racconta le attività sportive all’interno dell’Istituto penale minorile dove i ragazzi finiscono per raccontare la loro esperienza. È da oltre dieci anni che la Uisp organizza attività sportive nell’Istituto penale per minorenni di Bologna al Pratello. Partite di basket, calcio e volley, allenamenti, incontri con squadre dall’esterno e giochi che segnano alcune ore dei giovani detenuti. Giornate che ora Uisp Emilia-Romagna ha deciso di raccontare, insieme ad alcune storie di adolescenti rinchiusi nel carcere. Con loro ci sono anche i nuovi riferimenti delle loro vite, il personale del carcere e gli operatori. È nato così il documentario La prima volta di Roberto Cannavò, ventisettenne messinese laureato al Dams di Bologna nel 2013 con una tesi sulla storia degli effetti speciali, che Uisp Emilia-Romagna ha deciso anche di produrre. Un mediometraggio, durata 35 minuti, che verrà presentato in prima assoluta domani alle 18 al cinema Lumière di Piazzetta Pasolini, all’interno del festival Human Rights Nights. Oltre ad alcune proiezioni previste nel prossimo anno, tra le quali quelle nel mondo dell’associazionismo sportivo regionale e nazionale legato alla Uisp, l’opera sarà anche proposta ad alcuni festival di cinema documentario e sociale. "Il film - racconta Cannavò, attualmente impegnato come aiuto regista nel nuovo film di Paolo Fiore Angelini - nasce dall’idea di valorizzare i percorsi di recupero all’interno dell’Istituto penale del Pratello. Consapevoli della delicatezza e della difficoltà del luogo, abbiamo cercato di mantenere uno sguardo neutro e obiettivo, lasciando fuori i giudizi e facendo trasparire solo le emozioni, i fatti, i silenzi e le parole dei ragazzi e degli operatori che lavorano all’interno della struttura. L’occhio obiettivo è stato mantenuto anche visivamente: la cinepresa segue i movimenti dei ragazzi durante le attività all’interno delle mura del carcere, creando un ambiente abbastanza claustrofobico, da cui emergono le speranze, i progetti futuri dei protagonisti". Protagonisti che si chiamano Ayoub, Kamal, Faki e Simone, nuovi italiani che agitano le proprie esistenze tra fornelli, disegni e strofe rappate, raccontati attraverso il percorso a spirale che li ha portati al primo crimine e alla reclusione. La prima volta, presente nel titolo, quella che racconta uno di loro: "Io le ho passate diciamo quasi un po’ tutte, quindi so com’è. Però, cioè uno deve pensarci proprio la prima volta. Ti può anche andar bene, quindi se t’è andata bene la prima, dici "allora faccio la seconda, terza". Ma poi anche se ti prendono, ritorni a far sempre le solite cose". Pescara: "Detenuto libero", domani la presentazione del libro di Antonio Giammarino cityrumors.it, 12 maggio 2017 "Detenuto libero": è il libro del pescarese Antonio Giammarino, fotografo professionista, storico e uno dei più grandi collezionisti di macchine fotografiche d’epoca, che sarà presentato sabato nel carcere di Pescara. Nel volume, edito da Edizioni Tracce, Giammarino, da anni impegnato in molteplici attività culturali, didattiche e sociali nelle scuole e nelle carceri, racconta la propria esperienza di insegnante di fotografia nei penitenziari abruzzesi. L’autore fa rivivere le giornate dei detenuti e la loro "voglia di mondo" che si concretizza nelle più svariate maniere: "c’era chi voleva un interlocutore con il quale creare un dialogo di scambio e arricchimento reciproco, altri invece volevano semplicemente un amico la cui visita avrebbe in qualche modo alleggerito per quei pochi attimi la monotonia della reclusione; altri ancora, forse, speravano di ingannare la realtà fingendo di vivere una vita normale, in cui si ricevono visite di amici e si svolgono attività di svago come poteva essere, in quel contesto, il corso di fotografia". "Colpisce la sensibilità dell’autore - si legge nella prefazione di Maria Rosaria Parruti e Francesca Del Villano Aceto, magistrati di sorveglianza - nel cogliere l’importanza dell’interscambio tra il mondo del carcere e la società civile ai fini della riabilitazione e del reinserimento sociale dei detenuti". Giammarino non solo mette a nudo ansie, sofferenze, sogni di libertà dei detenuti, ma racconta anche l’esperienza "da detenuto, libero e contemporaneamente recluso". Il libro è arricchito anche dagli interventi di Giuseppina Ruggero, direttrice del carcere di Chieti, e Franco Pettinelli, direttore della Casa circondariale di Pescara. Airola (Bn): all’Ipm la presentazione del libro "L’ultimo arrivato", di Marco Balzano ilquaderno.it, 12 maggio 2017 Una giornata diversa per i detenuti dell’Istituto Penitenziario Minorile di Airola che stamattina, nello spazio teatrale interno alla struttura, hanno partecipato con vivo interesse alla presentazione del libro "L’ultimo arrivato" di Marco Balzano. Ne è seguito un interessante dibattito: gli ospiti dell’Istituto, unitamente agli allievi delle scuole secondarie dell’Istituto Comprensivo "Luigi Vanvitelli", hanno avuto infatti l’opportunità di commentare il romanzo, edito da Sellerio, insieme all’autore, Marco Balzano. Quest’ultimo, alla sua terza fatica letteraria, ha alle spalle un’esperienza di insegnamento iniziata proprio negli Istituti penitenziari. Veri e propri protagonisti dell’incontro, gli apprendenti hanno partecipato con entusiasmo, fornendo - con domande ed interventi ben mirati - spunti per un dibattito che ha spaziato dal tema centrale del libro, quello dell’emigrazione infantile come fenomeno italiano degli anni 50, all’importanza della parola e dell’accettazione ed integrazione del "diverso" intesa come valore e dovere imprescindibile. A fare gli onori di casa il Direttore dell’IPM Antonio Di Lauro, alla cui introduzione sono seguiti i saluti del Dirigente Scolastico Giovanni Marro, della Preside Maria Stella Battista, e dei due Sostituti Procuratori Ugo Miraglia Del Giudice e Fabrizia Pavani. Prezioso come sempre il contributo del sindaco della città caudina, Michele Napoletano, che ha voluto, ancora una volta, sottolineare il grande lavoro svolto dal centro d’accoglienza per immigrati di Airola coordinato dalla docente Carmen Lombardi, definito vero e proprio punto di incontro interculturale. A moderare la presentazione, la giornalista Romina D’Agostino. "Giustizia senza identità", di Massimo Krogh. Se la giustizia è senza speranza recensione di Luigi Labruna La Repubblica, 12 maggio 2017 Rispetto ad altri libri (anche miei) che trattano da varie prospettive il tema della giustizia a Napoli e in Italia, quello appena giunto nelle librerie di Massimo Krogh, "Giustizia senza identità" (Esi, 2017) ha un pregio in più: quello di racchiudere "vent’anni" di scritti, pensieri, idee e riflessioni dell’autore pubblicati in diversi luoghi. Ciò significa, che pur essendo quei contributi legati in gran parte alla cronaca quotidiana, leggerli tutti insieme, cronologicamente disposti, consente di avere un quadro complessivo di ciò che è accaduto in quel delicatissimo settore della vita democratica del nostro Paese e della nostra città nell’ampio arco temporale considerato: il ventennio del dopo-mani pulite. Il rovinoso periodo della corruzione imperante, dell’inarrestabile processo di disfacimento dei partiti, della degenerazione della politica, del degrado dell’intero quadro istituzionale. E del sempre più pervasivo e aggressivo scendere in campo di pm e giudici, nella maggior parte dei casi dotati di ineccepibile professionalità e senso delle istituzioni, anche se altri fra loro (non pochi), considerandosi a torto investiti non solo del compito fondamentale di tutela della legalità ma anche di una salvifica missione etica e di supplenza di altri poteri deboli, inerti, o corrotti, non hanno evitato, per le più varie ragioni, squilibri aberranti e dilatazioni non cristalline della loro attività. Causando in tal modo una "perdita di identità" della giustizia, che non di rado è sembrata aver abdicato alla propria funzione arbitrale, con ovvia perdita di autorevolezza e credibilità. A tutto questo si sono aggiunti frequenti (talvolta incredibili) commistioni tra magistrati e politica, spesso con patente violazione persino del codice etico che da anni l’Anm ha adottato ma che si guarda bene dal far rispettare. E non parlo delle tante (legittime) candidature di pm e giudici al Parlamento, anche se suscita sconcerto tra i cittadini l’assistere a certe inopportune iniziative, accompagnate da incessanti manifestazioni mediatiche, poste in essere da magistrati impegnati in indagini politicamente rilevanti poi utilizzate per "scendere" con successo in politica e candidarsi al Parlamento, nei consigli regionali e comunali, nelle tante Autorità molte delle quali perdono presto ogni autorevolezza. Preoccupa di più la ormai intollerabile mancanza di norme legislative - più volte annunciate e richieste per finta dalla stessa Anm e dal Csm, pronti poi in pratica a bloccarle appena sembra siano messe veramente in cantiere - che disciplinino, tra l’altro, i casi di ineleggibilità e incompatibilità dei magistrati e impediscano che questi, appena cessato il mandato elettivo tornino, come se niente fosse, a indagare e a giudicare i loro avversari politici. E indignano i casi sempre più numerosi di quelli che, pur dicendo di rispettare il divieto costituzionale di iscriversi ai partiti, svolgono poi sfacciatamente in questi, restando magistrati sia pure in aspettativa, ruoli dirigenti di grande responsabilità. E così le grottesche figuracce del Csm eletto da conventicole politiche e corporative che poi si riproducono naturalmente in esso condizionando nomine (sempre contrattate a pacchetto), aperture di procedimenti disciplinari destinati a svanire nel nulla, tentativi di riforme da tutti ritenute indispensabili e che non si fanno mai (divieto o controllo serie delle intercettazioni a strascico, usi smodati della custodia preliminare, modifiche al suo screditato sistema elettorale, distacchi a pioggia presso gabinetti, enti, para-enti e compagnia dicendo). Mi fermo qui. Queste e più inquietanti vicende accadute nell’ultimo ventennio, sono esposte, analizzate, commentate in questo libro con il rigore e la sapienza del giurista e la passione del cittadino rispettoso della magistratura ma anche della giustizia e della legge, dall’autore che prima di diventare penalista di grido è stato ottimo magistrato e anche per questo non cela un suo coinvolgimento particolarmente dolente e scorato. Demoralizzante è la lettura delle tante pagine incisive in cui denuncia l’ininterrotta serie di manifestazioni patologiche nell’uso della giustizia o ricorda gli appelli vani di porvi un qualche rimedio delle più alte autorità dello Stato, le promesse vociferanti dei governanti di destra, sinistra, centro e via frazionando, e dei rappresentanti di quel che resta dei deperiti partiti e movimenti, i disegni di legge presentati solo per amore di scena da parlamentari nominati ormai direttamente dai boss dei partiti e sempre pensosi delle possibili reazioni della corporazione su cui dovrebbero incidere, le facce feroci di parvenu della politica assurti a importanti funzioni istituzionali che rinculano al primo digrignar di denti dell’Anm, e via enumerando. Tutte chiacchiere, documenta il libro di Krogh. Inutili. "Giorgiana Masi. Indagine su un mistero italiano", di Concetto Vecchio recensione di Andrea Colombo Il Manifesto, 12 maggio 2017 Quarant’anni dopo l’uccisione, un libro di Concetto Vecchio racconta la giornata della morte di Giorgiana Masi. Giorgiana Masi fu assassinata quarant’anni fa, intorno alle 20 di una bella serata romana. Era appena arrivata all’altezza di ponte Garibaldi, dopo uno di quei pomeriggi di caos e battaglia che erano all’epoca frequenti. Aveva 18 anni, era una militante del movimento. Era inerme: la sua sola colpa era essere andata in piazza nonostante il divieto di manifestare per cinque settimane deciso dal prefetto su ordine del ministro degli Interni. Giorgiana stava scappando insieme a tanti altri: fu colpita alle spalle, stramazzò a pochi metri dall’estremità del ponte che porta verso Trastevere. Il fidanzato che la precedeva di pochi passi fu tra i primi a soccorrerla. La caricarono su una macchina. Morì prima di arrivare in ospedale. Le forze dell’ordine erano a metà di ponte Garibaldi. Avevano espugnato la barricata che lo bloccava all’altra estremità, esitavano ad attaccare la seconda. Nessuno vide chi fu a sparare, ma le testimonianze furono unanimi e Giorgiana non fu la sola a essere colpita alle spalle. Gli spari partirono da lì. Quel giorno c’era in piazza, armato, un numero mai chiarito di poliziotti in borghese, furono immortalati in numerose fotografie, molti giornali fecero per una volta il dovere loro e sbugiardarono la versione addomesticata che negava l’innegabile. Francesco Cossiga che era allora ministro degli Interni e che sostenne, forse mentendo, forse perché lui stesso ingannato, che in piazza di agenti travestiti da manifestanti non ce n’erano è tornato con la memoria a quegli anni decine di volte prima di scomparire. Di Giorgiana non ha quasi mai parlato nelle tante interviste o nelle memorie. In privato sostenne che si era trattato di "fuoco amico", e forse se ne era convinto davvero perché fare i conti con i sensi di colpa non è mai facile, ma messo alle strette ammetteva che si trattava solo di un’ipotesi. Anche se i radicali non hanno mai smesso di ricordare Giorgiana e Marco Pannella fece l’impossibile per inchiodare la polizia e Cossiga alle loro responsabilità, lui stesso di Giorgiana parlava poco e malvolentieri. Sostenne fino all’ultimo che la decisione di sfidare il divieto per celebrare il terzo anniversario della vittoria referendaria sul divorzio e raccogliere le firme per una nuova ondata di referendum era stata giusta e che non avrebbe esitato a fare la medesima scelta in circostanze analoghe. Non c’è ragione di dubitare della sua parola, ma se non un rimorso di certo un dolore profondo se lo portava dietro. Su quell’omicidio ormai antico e non dimenticato ha scritto un libro Concetto Vecchio, firma pregiata di Repubblica: "Giorgiana Masi. Indagine su un mistero italiano" (Feltrinelli, pp. 226, euro 18). È un bel libro, a cui non rendono giustizia le anticipazioni a effetto centrate sull’intervista a Giovanni Santone, l’agente di polizia le cui immagini in abiti civili e con la pistola in pugno impazzano da decenni. Vecchio, che all’epoca del fatto aveva sette anni, pur avendo alle spalle un libro sul 1977, cade in un certo numero di equivoci quando parla del Movimento, come quando parla di autonomi "infiltratisi" nelle manifestazioni, modello black block da vulgata, o come quando scrive che Lama all’università di Roma, nell’episodio chiave di quell’anno, "voleva invitare gli studenti a non disperdere nella brutalità la loro forza". Ma se la cornice è scrostata, il quadro è invece nitido, soprattutto nella prima parte del libro, e agghiacciante anche a 4 decenni di distanza. Pur senza mai dirlo apertamente, Concetto Vecchio racconta e descrive perfettamente una giornata quasi unica nella storia della Repubblica, perché quel giorno, per molte ore, la democrazia fu sospesa, proprio come sarebbe avvenuto 24 anni dopo, il 21 luglio 2001 a Genova: le botte e gli insulti ai parlamentari, gli agguati e gli attacchi contro manifestanti ancora inoffensivi, la presenza massiccia e illegale di agenti in borghese armati, i colpi d’arma da fuoco sparati sin dal primo pomeriggio, e poi le bugie, le reticenze, gli inganni. Gli agenti, come disse Cossiga, "erano inaspriti". Volevano vendicare il collega Settimio Passamonti, ucciso in uno scontro di piazza il 21 aprile. Il Pci premeva sul ministro perché si dimostrasse più fermo. Cossiga decise di lasciar fare, e in fondo importa poco sapere se lo fece coscientemente o chiudendo gli occhi. Chi abbia materialmente premuto il grilletto per uccidere Giorgiana non si è mai saputo e non si saprà. Ma dietro il suo omicidio non c’è nessun mistero, e in realtà, nonostante il titolo, il libro di Concetto Vecchio lo dimostra. Così sono sparite dai giornali quelle vite bruciate di Paolo Delgado Il Dubbio, 12 maggio 2017 Il fatto che le vittime fossero rom ha messo in pace le coscienze. Però è proprio il margine di incertezza, perdurante nonostante la sicurezza ostentata dalla questura di Roma, a rendere quella tragedia così eloquente. Nel giro di poche ore, mercoledì sera, la mattanza è stata derubricata da avvenimento inaudito, oggetto di universali commenti dal capo dello Stato in giù, a più comune vicenda di cronaca nera. Non sarebbe stata la stessa cosa se si fosse trattato di una faida di camorra, se invece di un camper in cui vivevano tredici persone rom fosse stato incendiato un basso napoletano per la vendetta di un clan. Perché in quei casi l’incendio di Roma avrebbe parlato di noi: di noi italiani razzisti, o almeno lambiti da venature di odio razziale nei vicini della porta accanto, di noi italiani mafiosi, o quanto meno abituati a convivere senza troppo sforzo con la ferocia d’òsistema o delle ‘ndrine. Ma se invece si è trattato del regolamento di conti interno a una comunità altra, diversa e differente, le cose stanno diversamente. Si può inorridire e dolere, ma senza essere tirati in mezzo. Il sistema mediatico si limita a registrare il décalage. Nessuno, neppure Laura Boldrini, potrebbe tacciare questa reazione mediatica di razzismo. Eppure sta proprio lì una faglia che, per il fatto stesso di esistere, rischia continuamente di allargarsi anche a dismisura: nella percezione di una differenza e nel diverso valore che, sulla base di quella differenza, viene automaticamente attribuito alla vita e alla morte. Anche la tempestività della questura dice qualcosa. Secondo gli inquirenti, già nella sera di giovedì, "allo stato" si poteva "escludere al 100%" la motivazione razziale. L’ossimoro non potrebbe essere più stridente. Come può una cosa essere fuori discussione "al 100%", però solo "allo stato" ? Era palese la fretta di liquidare ogni sospetto di razzismo, di riportare la storiaccia nei binari noti e rassicuranti del delitto comune, maturato in una comunità estranea. È il segno della consapevolezza di quanto il fronte sia fragile e il problema vicino al punto di esplosione: tanto da dover essere non negato ma rimosso, per non correre il rischio di far emergere una divisione che già lacera il Paese, anzi il Continente, e che potrebbe rapidamente diventare non recuperabile. A rendere necessaria quella rimozione mascherata da semplice negazione era la verosimiglianza dell’ipotesi razziale. Se anche si dimostrerà, come è probabile, falso, quel movente era del tutto plausibile. Lo avvaloravano le minacce rivolte dagli abitanti del quartiere agli intrusi, l’insofferenza e la paura che suscitavano, le reazioni al delitto, che certo non lo giustificavano ma ne indicavano le motivazioni, se non per assolvere almeno per attenuare: i furti, la sporcizia, le macchine a rischio. Si fondono in questa reazione popolare due spinte che sembrano affini e sono invece opposte. C’è una pulsione securitaria, dettata da una sensazione di minaccia permanente, impermeabile alle smentite dei dati reali, che viene poi confermata e amplificata dall’allarmismo dei media e da una politica corriva, che fa il possibile per lucrare su quella paura, sino a innescare una spirale perversa da manuale. Ma c’è anche una pulsione intollerante che procede secondo una dinamica opposta: più il Palazzo e i media, l’establishment, si affannano a ripetere che l’immigrazione non è una minaccia, più viene percepita come tale. Scattano qui quelle stesse sfiducia e diffidenza totale nei confronti delle élites che gonfiano le vele dei movimenti antisistema. In qualche misura, il rifiuto dei miserabili di un altro colore veicola la rabbia contro i privilegiati e viceversa: nella convinzione che le élites possano permettersi di sciorinare buoni sentimenti solo perché il problema materiale non li tocca. Non è una sensazione del tutto immotivata. Quando gli antirazzisti di Capalbio si sono trovati a dover ospitare un po’ di quei rifugiati che sono abituati a difendere sui giornali, non hanno alzato barricate come la plebe. Però hanno brigato con chi di dovere per evitare la spiacevole presenza. Più corposamente, ai frequenti appelli alla solidarietà corrispondono poi pochissimi sforzi per studiare, progettare e mettere in opera politiche concrete a favore dell’integrazione, né sul terreno oggi più scivoloso di tutti, quello delle politiche abitative, né su quello di inziative concrete finalizzate alla rassicurazione. Infine, intorno al rogo di Roma si è scatenato l’eterno scontro tra tifoserie, con l’occhio puntualmente rivolto alla politica del Palazzo. L’esempio più clamoroso è il titolo di Libero, "Boschi in fiamme", con annessa foto di Maria Elena. L’occasione è un po’ più volgare del solito, ma il copione si ripete in realtà ogni giorno, che si parli di Ong, di mondezza o di banche. Sino a rendere impossibile misurarsi con la realtà senza essere proiettati nella messa in scena propagandistica. È l’Italia del 2017 e si dovesse scoprire che a bruciare due bambine e una ragazza a Roma è stato un razzista sarebbe in effetti peggio. Ma anche se verrà confermato che si è trattato solo di una guerra tra zingari, non è molto meglio. Migranti. Msf: "non smetteremo i salvataggi, siamo trasparenti" di Alfredo Marsala Il Manifesto, 12 maggio 2017 "Ci troviamo di fronte a una valanga di illazioni e accuse mediatiche basate su strumentalizzazioni e informazioni imprecise, che non servono a nulla se non a gettare discredito sulla nostra organizzazione e sul sistema stesso di ricerca e soccorso in mare", la risposta dell’associazione alle accuse di "Panorama". Non solo precisa di non essere mai stata contattata dalla Procura di Trapani, ma Medici senza frontiere rassicura tutti i propri sostenitori "che questa bufera di accuse non ci distoglierà nemmeno per un minuto dal soccorrere persone che stanno per morire, dal medicare le ustioni e le ferite, trattare i casi di ipotermia, rianimare gli annegati, nutrire i bambini nati orfani in mare". Una risposta secca, inviata con una nota, alle accuse di Panorama. Secondo il settimanale sarebbe infatti l’organizzazione medico-umanitaria al centro dell’inchiesta della Procura di Trapani con l’ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Msf si mette invece a disposizione, "di tutte le autorità competenti per chiarire ogni informazione". E soprattutto riafferma "con forza la totale legittimità e trasparenza del proprio operato in mare, che ha l’unico obiettivo e obbligo di salvare vite umane". Ancora una volta, "come sempre più spesso in queste ultime settimane", reagisce Msf, "ci troviamo di fronte a una valanga di illazioni e accuse mediatiche basate su strumentalizzazioni e informazioni imprecise, che non servono a nulla se non a gettare discredito sulla nostra organizzazione e sul sistema stesso di ricerca e soccorso in mare". La ong assicura che "le operazioni in mare avvengono alla luce del sole, nel rispetto e sotto gli obblighi del diritto internazionale marittimo, con il coordinamento delle autorità competenti; e servono a salvare vite umane, mentre queste polemiche faziose confondono l’opinione pubblica". Dal 2015, Msf ha soccorso 61.000 persone, in circa 300 operazioni coordinate dalla guardia costiera italiana. Anche la Ong Sos Méditerranée garantisce di avere rispettato tutte le procedure nelle operazioni di salvataggio. Ascoltato dal comitato Schengen, Nicola Stella, coordinatore Sar (search and rescue) della ong, ha chiarito che "la nave Aquarius non è mai entrata in acque libiche, il pattugliamento è effettuato a 20 miglia dalla costa". "Ci sono numerosi rapporti e statistiche su quella che è la zona di maggiore concentrazione dei naufragi e di chiamate di soccorso ricevute - ha osservato - e questa è la migliore indicazione che abbiamo su dove sia opportuno posizionare la nave nelle acque internazionali, al largo delle coste della Libia, che attualmente corrisponde a una zona a nord-ovest di Tripoli". E ancora: "Avvistiamo per mezzo di radar e binocoli, quando riceviamo una segnalazione è sempre e solo dallo Mrcc di Roma", il centro di coordinamento marittimo della guardia costiera. "Questa è l’unica segnalazione esterna telefonica che riceviamo - ha evidenziato. Il Mrcc di Roma quando ci segnala un’imbarcazione da soccorrere non ci rivela la fonte dalla quale hanno appreso la richiesta di soccorso". Intanto la ong Sea Watch ha diffuso un video, che risale al 10 maggio, in cui si vede una motovedetta con bandiera libica passare a pochi metri di distanza dalla nave umanitaria, mettendo a repentaglio la vita dell’equipaggio e di centinaia di migranti a bordo di un barcone. "Abbiamo trovato una barca in difficoltà, l’abbiamo affiancata e abbiamo iniziato a lanciare i salvagente. Era stracarica, c’erano centinaia e centinaia di persone - dice uno dei membri dell’ong - Stavamo parlando con loro per avere dettagli sulle condizioni quando abbiamo ricevuto un allarme dalla nostra nave che ci diceva che la guardia costiera libica ci stava affiancando. Abbiamo visto la barca che passava davanti alla Sea Watch e puntava dritto verso di noi ad alta velocità". Nel video si vede l’imbarcazione libica, con un cannoncino a prua, provenire dal lato sinistro dalla nave della ong, a velocità sostenuta e passarle davanti, a poca distanza dalla prua. Poi si vedono i migranti che erano sul barcone salire a bordo della motovedetta. Migranti. Il capo di Frontex: "Così gli attivisti mettono a rischio le operazioni" di Marco Bresolin La Stampa, 12 maggio 2017 Leggeri: ma non ci sono prove di contatti con i trafficanti. "Alcuni presentano le cose in modo romantico o idealista, ma purtroppo la realtà è crudele. Non c’è nulla di romantico in quello che succede nel Mediterraneo. Il numero di mezzi in mare non è mai stato così alto e purtroppo dal 2016 non abbiamo mai avuto così tante vittime. Serve una presa di coscienza". Fabrice Leggeri è il direttore di Frontex, l’agenzia Ue che per prima ha puntato il dito contro le Ong impegnate nelle operazioni di salvataggio. I suoi dossier sono finiti sui tavoli delle procure siciliane che indagano su presunti link con i trafficanti. Cosa c’è realmente dietro queste accuse? Ci sono prove certe di legami con le organizzazioni criminali oppure solo il "fastidio" per una mancanza di collaborazione che ostacola il coordinamento? Leggeri si ferma un passo indietro e lascia le risposte all’autorità giudiziaria. Ma sull’accusa più pesante - quella di presunti finanziamenti alle Ong da parte del racket - mette le mani avanti: "Non abbiamo nessun elemento per dirlo. Da parte nostra nessuna informazione di questo tipo è stata trasmessa alle procure". Avete però detto che i migranti partono con in tasca il numero delle Ong. "Negli hotspot interroghiamo i migranti. Alcuni ci hanno indicato il numero che dovevano chiamare e corrispondeva ad alcune Ong. Ma non posso dire come lo hanno avuto: lo potranno stabilire soltanto gli organi giudiziari". Non lo dite perché non volete o perché non lo sapete? La procura di Catania ha ammesso che i numeri si trovano anche in rete… "Non lo dico perché non lo sappiamo. Frontex non ha il mandato per condurre indagini, noi raccogliamo informazioni e facciamo analisi del rischio". Ma avete prove di contatti tra Ong e trafficanti o solo sospetti? "Nel 2014-2015 le operazioni di salvataggio avvenivano a metà strada tra Libia e Italia, ora alcune Ong si spingono al limite delle acque territoriali. I trafficanti traggono vantaggio dalla loro presenza. Ciò avviene specialmente verso la parte ovest della Libia, in una zona non controllata da interlocutori affidabili". È con queste milizie che sospettate esserci un link? "Abbiamo trasmesso elementi fattuali alle autorità italiane in merito ad alcuni episodi. Quando una Ong interviene è molto importante sapere esattamente quando è stato ricevuto il segnale, quando il soccorso è iniziato, in che luogo. È necessaria una cooperazione con le autorità italiane per raccogliere tutte le informazioni utili alle indagini contro i trafficanti. Ma non sempre c’è". Il punto è: ci sono reati o semplice negligenza? Non crede che il clima accusatorio che si è creato danneggi chi fa un lavoro preziosissimo? "Io non ho mai accusato le Ong, non ho mai fatto nomi. Alcune si sono avvicinate a noi, ci hanno detto di voler cooperare, le abbiamo incontrate. Qui c’è in gioco la vita di migliaia di migranti, oltre che la lotta contro il crimine. E c’è anche un rischio terrorismo. Sappiamo bene cosa succede non lontano dalle frontiere dell’Ue e non si può giocare". Il procuratore Zuccaro ha proposto di far salire la polizia sulle navi delle Ong. Cosa ne pensa? "Non conosco il quadro giuridico italiano, ma se un pm lo propone vuol dire che è fattibile. Dal mio punto di vista, tutto ciò che permette di migliorare la cooperazione con le autorità è positivo". Serve un maggior coordinamento nel Mediterraneo? "La catena di comando esiste ed è ben strutturata. Il problema è quando i soccorsi avvengono al di fuori di questa. Dall’estate 2016 abbiamo molti casi di soccorso spontaneo, senza seguire le procedure, con segnalazioni in ritardo. Questo può creare problemi". C’è chi ha proposto una sorta di "autorizzazione" per le Ong. Le pare un’idea fattibile? "Nel mare c’è l’obbligo di soccorso, non servono autorizzazioni. Ma quando si interviene è importante avvisare e mettersi a disposizione del centro di coordinamento. Altrimenti l’operazione diventa pericolosa". Crede che l’Operazione Sophia debba passare alla fase 2B ed entrare nelle acque libiche? "Non sta a me parlare a nome di Sophia. Il loro mandato è esplicito: combattere la criminalità. Credo che se avessero la possibilità giuridica di realizzare il compito inizialmente previsto, la situazione sarebbe molto diversa". Migranti. Carceri libiche "centrali" degli scafisti Il Mattino, 12 maggio 2017 Strutture in mano alle tribù: è qui che avviene la trattativa per partire alla volta dell’Italia. Nel 2013 erano stati 42mila i migranti provenienti dalla Libia sbarcati in Italia, lo scorso anno si è raggiunto il record di oltre 180mila arrivi sulle nostre coste. Numeri che indicano come negli ultimi cinque anni di vuoto di potere, dopo lo smantellamento del regime di Gheddafi nel 2011, in Libia il business dei migranti si sia sviluppato a ritmi impressionanti. A confermarlo sono i verbali raccolti in questi anni da più procure italiane con le testimonianze rese da scafisti pentiti e migranti giunti nel nostro Paese. E mentre in Italia tengono banco le polemiche e le inchieste sulle navi delle Ong, un dossier dell’intelligence austriaca, pubblicato in esclusiva dal Mattino due giorni fa, ha acceso una luce sugli oscuri rapporti tra gli scafisti e la polizia della Libia. Lì dove hanno origine gli sbarchi. In assenza di fonti di reddito alternative, nel Paese nordafricano, i migranti sono diventati al pari di una merce in un giro d’affari che sembra non conoscere fine. Dopo i lunghi viaggi nel deserto gli immigrati che arrivano in Libia stazionano ammassati nelle carceri, infatti nessun governo di Tripoli ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Ogni straniero che varca il confine può essere rinchiuso per mesi in prigione spesso subendo violenze di ogni tipo e utilizzato al pari di uno schiavo in un tacito accordo tra polizia libica e trafficanti di esseri umani. I viaggi cominciano nei Paesi di provenienza dove ci si affida a potentati locali. Si intraprendono lunghe traversate nel deserto, spesso ammassati su camion e piccoli bus. Per passare il confine con il Niger servono dai 200 ai 400 dollari da consegnare alle tribù locali, una frontiera-gruviera quella al Sud della Libia che il governo di Tripoli non riesce a controllare. Una volta oltrepassato il confine sono gli stessi trafficanti a consegnare i migranti alla polizia o ad altri personaggi dell’organizzazione che rinchiudono le persone nelle carceri fino a quando queste non hanno il danaro per pagare il viaggio sui barconi. Gli immigrati diventano degli ostaggi e devono saldare una sorta di riscatto per ottenere la propria libertà. Imbarcarsi per l’Italia può costare dai 600 ad oltre mille euro come raccontato da più di un migrante interrogato. Alcune delle prigioni libiche sono nelle mani di personaggi slegati istituzionalmente al governo, una sorta di carceri private. Del resto, in un Paese in preda ad una guerra civile, conta molto di più avere un’arma che una divisa. D’inverno gli immigrati sono stipati in queste prigioni tenute in pessime condizioni igieniche, spesso si ammalano. Dal mese di aprile in poi si creano le condizioni per salpare, i porti di partenza sono tutti nella zona occidentale del Paese: a Sabratah, Ez Zuia e Zuara, tutte situate tra Tripoli e il confine tunisino di Ras Agedir. Una zona che sarebbe sotto il controllo del premier designato Sarraj, ma pur di restare in carica il presidente non esercita la forza o l’autorità necessaria per controllare i traffici. I vertici della polizia libica spesso appartengono ad importanti tribù - come illustrato nel dossier di più intelligence europee - che sostengono l’accordo di unità nazionale e quindi non possono essere esautorati o puniti. Dalla zona Est, quella controllata dal generale Haftar, gli sbarchi sono quasi inesistenti. Nei mesi delle partenze i trafficanti pagano tangenti ai guardiacoste. Se non si paga e un barcone viene rintracciato in mare la polizia può anche aprire il fuoco. I migranti sono riportati sulla costa e il motore della barca viene preso dagli uomini in divisa che spesso è rivenduto al mercato nero a organizzazioni concorrenti in un vortice di corruzione e collusione. I trafficanti devono ben ponderare quali guardiacoste foraggiare perché ormai si è scatenata una lotta intestina tra gli stessi ufficiali, tutti vogliono partecipare al giro. A volte - come hanno raccontato lo scorso 28 marzo due immigrati tunisini al pm di Trapani - avvengono scontri a fuoco in mare tra le stesse forze dell’ordine libiche. Quando invece tutto fila liscio i barconi trovano sulla propria rotta le navi delle Ong che salvano i migranti da possibili naufragi. Il tratto di mare battuto è sempre lo stesso e, anche se le imbarcazioni delle organizzazioni umanitarie dovrebbero tenersi a 12 miglia nautiche dalla costa, in acque internazionali, spesso il confine viene oltrepassato. Secondo l’intelligence austriaca ci sarebbero persino dei barchini, irrintracciabili dai radar, che farebbero la spola tra la costa e le navi per indicare la rotta da seguire alle carrette del mare che partono dalla Libia. Libia. Le testimonianze: sevizie sui migranti nella casa degli orrori di Alfredo Marsala Il Manifesto, 12 maggio 2017 Il racconto dei sopravvissuti a un naufragio fa arrestare i trafficanti torturatori. Corpi cosparsi di benzina e dati alle fiamme. Bastonate sulle piante dei piedi fino a spaccarli. Lesioni alle gambe, alle braccia. Sevizie di ogni tipo. Cadaveri abbandonati come spazzatura per le strade. È un racconto dell’orrore quello che alcuni migranti sopravvissuti a un naufragio hanno fatto agli investigatori dopo essere sbarcati a Lampedusa, a metà aprile. Il luogo delle torture è un’ex base militare, la chiama la "casa bianca" per il colore dei muri. Si trova a Sabratha, uno dei porti clandestini d’imbarco dalla Libia verso l’occidente, circa 70 chilometri a ovest di Tripoli e meno di 100 dal confine con la Tunisia. I migranti vengono rinchiusi in questo casermone, costretti a subire per mesi la crudeltà dei trafficanti di essere umani. Con la loro testimonianza i superstiti hanno permesso alla polizia, coordinata dalla Dda di Palermo, di arrestare tre africani con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla tratta ed al traffico di esseri umani, sequestro di persona a scopo di estorsione, violenza sessuale, omicidio. Reati aggravati dalla transnazionalità, dalla disponibilità di armi, dall’agire con crudeltà e sevizie per futili motivi. Il provvedimento è stato eseguito nei confronti dei nigeriani Godwin Nnodum, 42 anni, Bright Oghiator, 28 anni, e Goodness Uzor, 24 anni. Tra i testimoni c’è una donna, che ha riconosciuto nel centro di accoglienza di Lampedusa l’assassino di suo fratello. "È stato lui a ucciderlo e poi ha usato violenze anche su di me", il racconto agli atti dell’inchiesta aperta dalla Procura. "Gli africani, armati di fucile e vestiti in abiti civili, erano spregiudicati - racconta un altro testimone alla polizia - picchiavano brutalmente e senza alcun motivo i migranti. Personalmente sono rimasto vittima, in più occasioni, delle loro inaudite crudeltà. Una volta mi hanno legato le gambe e poi mi hanno picchiato ripetutamente con un bastone nella pianta dei piedi, procurandomi delle profonde lesioni e una frattura, tanto da impedirmi di camminare per tre mesi". "Eravamo in balia dei barbari" che "ci picchiavano selvaggiamente mentre eravamo in attesa di partire", riferisce un altro testimone. Che parla di migranti "ceduti e venduti" da una banda di trafficanti. Agli investigatori la donna ha detto che il fratello è morto il primo novembre del 2016 "dopo tre giorni di lunga agonia" per "le tremende ferite riportate su tutto il corpo" per i violenti colpi che gli ha assestato uno dei tre nigeriani mentre un libico lo teneva fermo a terra. "Solo dopo tre giorni di suppliche" la sorella ottiene il permesso "di poterlo seppellire". Un altro sopravvissuto alla casa degli orrori racconta di quando un nigeriano, su ordine di un libico, "mi ha versato della benzina addosso e appiccato il fuoco". È stato un altro libico a soccorrerlo, ma "ancora adesso - fa notare - ho tante ferite visibili". E mette a verbale che "altri ragazzi africani hanno picchiato fino alla morte almeno cinque migranti". Uno "è morto subito perché gli hanno sparato", gli altri, presi a colpi di calci di fucile, sono deceduti due-tre giorni dopo. Tutti i migranti, minacciati con i kalashnikov, erano costretti a stare all’interno della casa dell’inferno. Bande armate senza scrupoli, come quella che ha ucciso con un colpo d’arma da fuoco un ragazzo di 21 anni della Sierra Leone, assassinato per un cappellino da baseball. Per concorso nel delitto, polizia e guardia di finanza, coordinati dalla Procura di Catania, hanno fermato Abouzid Nouredine Alhadi, libico di 21 anni, arrivato il 6 maggio scorso con la nave Phoenix della ong Moas, assieme a 394 migranti; assieme ad un altro libico, Hurun Gafar, è accusato anche di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Al fermo del libico, accusato di concorso morale nell’omicidio, gli inquirenti sono arrivati grazie a un filmato fornito dall’Ong Moas, che lo ha realizzato con un suo aereo, ha detto il procuratore Carmelo Zuccaro, sottolineando che "è la prima volta di una collaborazione con la magistratura etnea". Incubo Somalia. In Yemen, Sud Sudan e Nigeria carestia per 20 milioni di persone di Tommaso Carboni La Stampa, 12 maggio 2017 Nuovo appello dell’Onu: per evitare la catastrofe servono più fondi. E i conflitti in zone di crisi complicano soccorsi. Stretta nella morsa di un’atroce siccità, la Somalia si avvicina rapidamente alla catastrofe. Con sempre meno acqua pulita a disposizione, il paese, oltre al rischio di carestia, deve affrontare un aumento esponenziale di casi di colera. Almeno 300 nuovi contagi al giorno, con decine di vittime, la cui assistenza è ostacolata dalle condizioni di sicurezza che impediscono di raggiungere molte delle aree colpite dalla malattia. Dall’inizio dell’anno, su circa 25.000 infezioni, ci sono stati 450 decessi, molti dei quali avvenuti nel sud del paese, in zone controllate dal gruppo terrorista al-Shabab e quasi inaccessibili agli operatori umanitari. Anche nel 2011, la carestia, innescata dalla siccità, provocò un’impennata di infezioni di colera. Tra fame e malattie, morirono più di 250.000 persone. Quella in corso, tuttavia, rischia di essere una crisi peggiore, visto che la siccità si è dimostrata finora più estesa e persistente. Se le autorità non hanno ancora dichiarato l’inizio della carestia, i dati più recenti dicono che 6 milioni di persone - metà della popolazione somala - hanno bisogno di assistenza umanitaria, con 185mila bambini gravemente malnutriti e in pericolo di vita. A complicare l’emergenza somala c’é la necessità di portare aiuti urgenti anche ad altri paesi. Secondo l’ultimo appello dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), il rischio di morti di massa per fame tra le popolazioni di Nigeria, Somalia, Sud Sudan e Yemen è in rapida crescita. In pericolo ci sono 20 milioni di persone, le cui vite sono minacciate da una combinazione di siccità e conflitti armati. Purtroppo le condizioni politiche nei teatri di crisi stanno rendendo i soccorsi difficilissimi. In Sud Sudan, dove dal 2013 infiamma una brutale guerra civile, governo e forze ribelli impediscono deliberatamente agli aiuti di raggiungere la popolazione. Il risultato è che 5 milioni di persone non si alimentano correttamente, mentre per 100mila abitanti è cominciata una vera e propria carestia. Lo Yemen versa in condizioni simili: le fazioni in lotta nella guerra civile impediscono l’accesso agli aiuti umanitari, bombardando regolarmente il porto principale, in un paese dove il 90% del cibo arriva dall’estero. Nel Nord della Nigeria è la presenza di Boko Haram, e l’offensiva lanciata contro di esso dall’esercito, ad aver causato migliaia di sfollati, oltre al collasso dell’agricoltura locale. Il rischio di carestia è elevatissimo, e anche in questo caso molte aree non possono essere raggiunte dalle operazioni di soccorso per motivi di sicurezza. Dei quattro paesi, la Somalia è l’unico in cui la guerra non è il fattore scatenante della carestia. Nel nordest del paese, dove si vive perlopiù di pastorizia, la siccità ha decimato il bestiame e costretto gli abitanti a viaggiare centinaia di chilometri in cerca d’acqua e cibo. In altre zone sono gli agricoltori a patire, affamati da una sequela di raccolti disastrosi. Ma certamente il protrarsi del conflitto con i jihadisti di al-Shabab complica le cose. Durante la carestia del 2011, i territori più colpiti furono quelli controllati dal gruppo terroristico, che fece di tutto per bloccare gli aiuti delle organizzazioni umanitarie. Per evitare la catastrofe l’Onu ha chiesto 4,4 miliardi di dollari entro la fine di aprile, ma finora ne ha ricevuti solo 984 milioni. Molte missioni di soccorso non sono quindi potute partire, col risultato che un "disastro prevenibile sta diventando rapidamente inevitabile", ha spiegato Adrian Edwards, portavoce dell’Unhcr. Per quanto allarmate, le parole di Edwards conservano una certa fiducia nel ruolo di organismi internazionali come l’Onu. La convinzione che, se i finanziamenti arrivassero, sarebbe possibile arginare questo disastro. È certamente auspicabile che la raccolta fondi vada a buon fine. Ma i fatti parlano da soli: con il persistere di conflitti nelle zone di crisi, per Onu e altre organizzazioni umanitarie lo spazio di manovra è davvero ridotto. Carceri turche, la denuncia: "Con Erdogan abusi mai visti" di Elisabetta Rosaspina Corriere della Sera, 12 maggio 2017 Safak Pavey, parlamentare turca del partito repubblicano d’opposizione, Chp, passa alla delegazione del gruppo socialista e democratico europeo, guidata dal presidente Gianni Pittella, quattro facciate e mezzo dattiloscritte: "Questa, per noi, è questione di vita o di morte - afferma, senza dissimulare la sua rabbia. Sono entrata molte volte in quattro carceri del mio Paese. E posso dirvi che non credo ci sia mai stato un periodo di più pesanti violazioni dei diritti umani". È il quadro della repressione in Turchia dopo il fallito golpe del 15 luglio scorso. È lo stato d’emergenza secondo il presidente Recep Tayyip Erdogan, ormai quasi plenipotenziario dopo il referendum costituzionale del 16 aprile. È un elenco di soprusi che spingeranno poco dopo Pittella, in conferenza stampa, a evocare i gulag delle purghe sovietiche: "Dieci mesi dopo il loro arresto - premette la deputata, i detenuti ancora non sanno di che cosa siano accusati". Sono professori universitari, politici, militari, giornalisti, funzionari pubblici. Oppositori. Certo, magari anche rei confessi: "Gli arrestati sono tenuti prigionieri inginocchiati per giorni interi - recita il rapporto di Pavey, picchiati, privati del sonno e torturati finché non firmano la confessione". Da dieci mesi molti di loro non vedono un medico, "a meno che non siano in pericolo di vita". Alle rare visite sono condotti, "ammanettati dietro la schiena. Un malato di cancro, di cui non posso fare il nome - aggiunge la parlamentare - non è stato portato in ospedale nemmeno con le manette". I giudici che si azzardano a firmare decreti di scarcerazione "sono sollevati subito dal loro incarico". E non sta ai medici stabilire le priorità d’intervento: "Allo stilista Barbaros Sansal sono stati spaccati i denti durante il suo linciaggio in aeroporto, ma non è stato curato". Essere gay, eventualmente, è un’aggravante: "Non infettarci con il tuo Aids o con la sifilide" è stato detto a uno di loro. Il governo starebbe progettando la costruzione di 74 nuove carceri. Nell’attesa: "Alla prigione di Sincan ci sono 45 persone in celle che potrebbero contenerne al massimo 10. Ma il ministro rifiuta di occuparsi di questo orrore". Di cui il Parlamento europeo ora non può più dire di essere all’oscuro. Messico. Uccisa l’attivista che indagava sui desaparecidos di Guido Olimpio Corriere della Sera, 12 maggio 2017 La figlia della donna era stata uccisa e trovata poi in una fossa comune, il marito era sfuggito a un sequestro. Un gruppo di sicari dei narcos l’ha uccisa davanti a casa. Miriam Elizabeth Rodriguez si batteva per far luce sui desaparecidos, donne e uomini scomparsi in Messico. Una battaglia iniziata dopo che nel 2012 le avevano rapito la figlia Katia, ritrovata due anni dopo in una fossa comune. I criminali non hanno perdonato: mercoledì sera Miriam è stata assassinata. Un commando è arrivato davanti alla sua abitazione a San Fernando, stato di Tamaulipas, le hanno detto di uscire. Non appena è apparsa sul’uscio della casa è stata accolta da una scarica di proiettili, almeno 12. Le azioni dei Los Zetas - L’attivista era responsabile del "Colectivo de Desaparecidos" a San Fernando, località messicana vicina al confine con gli Usa teatro delle incursioni dei narcos. Qui, nell’agosto 2010, furono rinvenuti i corpi di 72 migranti eliminati da un gruppo criminale. E sempre in quest’area imperversano bande legate al cartello del Golfo e ai Los Zetas. Si fanno la guerra per il controllo della droga così come per il traffico di clandestini. Scontro che spesso però coinvolge anche degli innocenti. Miriam Rodriguez, insieme ad altri, lottava contro tutto questo. Un impegno reso ancora più forte dall’esperienza personale, con la figlia trucidata e il marito sfuggito per un soffio al sequestro. Era stata la stessa donna a salvarlo inseguendo l’auto dei rapitori poi segnalati ad una pattuglia di militari. Attacchi riconducibili - secondo alcune fonti - ai Los Zetas. Uno dei killer della ragazza venne arrestato, ma è evaso di recente dal carcere di Ciudad Victoria grazie ad un tunnel. Il cassiere di Damaso Lopez - L’agguato è solo uno dei tanti episodi di cronaca nera avvenuti in Messico. A San Pedro de Garza, Nuevo Leon, hanno "liquidato" un personaggio in vista, Michael Martinez, considerato uno dei "cassieri" di Damaso Lopez, il boss di Sinaloa catturato pochi giorni fa nella capitale. La vittima era in un bar insieme a due persone - uccise anche loro - ed è stato attaccato da un gruppo di sicari, forse membri del cartello Leyva. Un rapporto dell’International Institute for Strategic Studies dedicato ai conflitti in corso ha rilanciato un dato che non sorprende. La guerra in Siria è la più letale con circa 50 mila vittime nel solo 2016, subito dopo c’è il Messico con 23 mila, quindi l’Iraq con 17 mila. Sono ovviamente stime, paragoni contestati dal governo messicano che invita a guardare alle situazioni in Brasile o Venezuela. Ma le storie che arrivano dal paese e che spesso raccontiamo su Corriere.it confermano una realtà devastante.