Ddl penale. Rivolta delle opposizioni in Commissione Giustizia alla Camera Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2017 Il disegno di legge di riforma del processo penale arriva in commissione Giustizia, alla Camera, ed è subito battaglia. Con Forza Italia e Sinistra Italiana che lasciano la sala, e i 5Stelle che invece riempiono la commissione con 34 deputati. Succede tutto ieri sera, quando in commissione gli emendamenti di tutti i gruppi vengono respinti dalla maggioranza. Si reagisce abbandonando i lavori, proprio come Fi, che parla di "incredibile arroganza del governo e dei suoi sostenitori". Ma protesta anche il M5s, che lamenta: "Il Pd ha bocciato nostri emendamenti in merito all’agente provocatore e la revisione del 416 ter ovvero lo scambio politico mafioso: e ciò dimostra che non vuole una vera lotta alla corruzione". Il Movimento però adotta una tattica inversa rispetto alle altre opposizioni, facendo accorrere in commissione decine di deputati, e ricorrendo all’ostruzionismo, anche se "in forma lieve" come spiegano dal Movimento, dove devono tenere conto anche dei 42 sospesi dalla presidente della Camera Boldrini per la protesta inscenata dal M5s sui vitalizi, lo scorso marzo. "Restiamo qui, contro una riforma che attua quello che a Berlusconi non era riuscito" twitta Vittorio Ferraresi. Ddl penale. Fi lascia i lavori: "il dibattito è una farsa" di Errico Novi Il Dubbio, 11 maggio 2017 Dopo due giorni gli azzurri se ne vanno dalla Commissione. "Parere negativo fulmineo su tutti gli emendamenti", dicono Sisto e Sarro. E le Camere penali proclamano un’altra settimana di sciopero contro la riforma. È già arroventata la discussione sul ddl penale alla Camera. Dopo appena due giorni di esame in commissione Giustizia, Forza Italia decide, "per evitare l’umiliazione e la derisione di un dibattito inutile", di "abbandonare i lavori", come annunciano i deputati Francesco Paolo Sisto e Carlo Sarro. Una scelta che arriva proprio nel giorno in cui l’Unione Camere penali annuncia un’ulteriore settimana di astensione dal 22 al 25 maggio prossimi, sempre in segno di protesta contro la riforma del processo. Gli azzurri parlano di "comportamento incredibilmente arrogante della maggioranza che in commissione Giustizia ha liquidato con fulminante parere contrario gli emendamenti di tutti i gruppi". E questo, secondo Sisto e Sarro, "lascia facilmente presagire che il governo e i suoi sostenitori non intendano minimamente rispettare il Parlamento e le dinamiche della democrazia: un atteggiamento dittatoriale, chiuso al dibattito, tenuto dal relatore e dall’esecuti-È vo". Da qui la decisione di non partecipare ai lavori di commissione, un gesto a cui dovrebbe seguire una "mobilitazione" che vada anche oltre la "giustificata astensione proclamata dalle Camere Penali". Si dovrebbe arrivare, secondo i deputati azzurri, a una "mobilitazione dell’intero mondo della giustizia". La giunta dell’Ucpi a sua volta spiega il nuovo "sciopero" con la violazione dei "principi costituzionali della immediatezza, del contraddittorio, della presunzione di innocenza e della ragionevole durata" che si determinerebbe nel ddl sul processo penale. I penalisti ribadiscono "l’assoluta inammissibilità dell’uso della fiducia ai fini dell’approvazione" della riforma, che "incide in profondità sull’intero sistema processuale e su diritti e garanzie dei cittadini". L’Ucpi non risparmia critiche anche all’intervento sulla legittima difesa, adottato "sulla spinta di evidenti e pericolose pulsioni populistiche che non rispondono ad alcuna reale esigenza di tutela". Camere Penali, 4 nuovi giorni di sciopero bloccano i processi Prima Pagina News, 11 maggio 2017 Ancora 4 giorni di sciopero per i penalisti di tutta Italia. Nei giorni 22, 23, 24 e 25 maggio i tribunali italiani si bloccheranno per via di una nuova e massiccia manifestazione di protesta decisa dalle camere penali italiane. Lo ricordiamo, la Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane, con le tre precedenti delibere di astensione ha denunciato i limiti della riforma del processo penale di iniziativa governativa, con interventi disorganici, contraddittori, irragionevoli e incostituzionali, quali quelli sulla prescrizione e sul cd. processo a distanza, e che al suo interno contiene interventi normativi che non solo deprimono le garanzie del processo, violando i principi costituzionali della immediatezza e del contraddittorio, ma anche la presunzione di innocenza e il diritto alla vita, nel disprezzo dei principi costituzionali e convenzionali. L’Ucpi ha denunciato, altresì, l’assoluta inammissibilità dell’uso della fiducia ai fini dell’approvazione del Ddl, che incide in profondità sull’intero sistema processuale e sui diritti e sulle garanzie dei cittadini. Nonostante la massiccia adesione alle precedenti astensioni, l’attenzione mostrata dai media e dall’opinione pubblica alle tematiche oggetto della protesta, e nonostante le molteplici adesioni del mondo dell’accademia e le convergenti critiche sollevate da diversi esponenti della politica nei confronti della riforma, il Governo non ha tutt’ora ritenuto di dare alcun segnale di attenzione, restando evidentemente fermo nella intenzione di ricorrere anche davanti alla Camera dei deputati al voto di fiducia, impedendo che sul disegno di legge si sviluppi la necessaria discussione sulle molteplici questioni tuttora controverse, su riforme contrarie non solo agli interessi e ai diritti dei singoli imputati, ma anche alle legittime aspettative delle persone offese e della intera collettività, che esige, in un Paese civile moderno e democratico che i procedimenti penali abbiano una ragionevole durata e che la fase dell’accertamento dibattimentale venga posta al centro del processo penale, sottraendo la fase delle indagini preliminari all’attuale enfatizzazione e mediatizzazione, attuando e realizzando i principi del giusto processo, nel rispetto pieno delle garanzie dell’imputato e soprattutto di quelle poste a presidio del diritto inviolabile della difesa e della dignità stessa della persona, violate dalla estensione dell’istituto della partecipazione a distanza. Ancora una volta, ad esempio con il Ddl di riforma della legittima difesa, disattendendo del tutto le indicazioni dell’avvocatura e dell’accademia, si è operato un intervento legislativo sulla spinta di evidenti e pericolose pulsioni populistiche che non rispondono ad alcuna reale esigenza di tutela, risultando la legge in vigore, così come riformata con la legge del 2006, già ampiamente rispondente alle finalità di tutela che si intendono perseguire. Devono, dunque, essere ribadite tutte le ragioni di protesta e di contrarietà al disegno governativo indicate nelle precedenti delibere, e il Governo deve essere nuovamente richiamato alla responsabilità politica riproporre il voto di fiducia anche davanti alla Camera su tale riforma. Pertanto, la giunta Ucpi delibera l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale nei giorni 22, 23, 24, 25 maggio 2017, invitando le Camere Penali territoriali ad organizzare, in tali giorni, manifestazioni ed eventi dedicati ai temi della riforma e del denunciato contrasto con i principi costituzionali e convenzionali della immediatezza, del contraddittorio, della presunzione di innocenza e della ragionevole durata, riservandosi di indire ulteriori manifestazioni nazionali sul tema delle garanzie e dei diritti processuali di tutti i cittadini. Riforma della giustizia minorile. Sottosegretario Chiavaroli: "troviamo punti condivisi" di Giulia Merlo Il Dubbio, 11 maggio 2017 In Commissione al Senato prosegue l’iter del ddl 2284. Chiavaroli: "abbiamo trovato punti condivisi: preservare la specializzazione, unificare il rito". Il futuro del Tribunale per i minorenni è ancora tutto da scrivere. A discuterne, durante un convegno organizzato presso il Consiglio Nazionale Forense, i rappresentanti delle associazioni rappresentative degli avvocati minorili (Aiaf, Unione Camere Civili, Associazione Italiana Avvocati Matrimonialisti, Unione Nazionale Camere Minorili, Cnca, Cnoas, Cammino), la coordinatrice della Commissione Famiglia del Cnf, Maria Masi e, per portare il punto di vista della magistratura, la dottoressa Silvia Albano, giudice civile al tribunale di Roma e coordinatrice del gruppo minori dell’Associazione Nazionale Magistrati e il dottor Francesco Micela, presidente dell’associazione italiana Magistrati per i Minorenni e la Famiglia. Al dibattito hanno assistito e partecipato la senatrice Federica Chiavaroli, sottosegretario alla giustizia e la senatrice Rosanna Filippin, relatrice del ddl 2284 sulla riforma del tribunale per i minorenni. "Aprire un tavolo di lavoro ministeriale condiviso per riflettere su come modificare il Tribunale per i Minorenni è stato un gesto importante - ha detto il sottosegretario Chiavaroli - perché trattare il tema dei minori spesso porta a rischiare di andare dietro alla pancia del Paese. Invece affrontare il dibattito con tutte le parti in causa che vivono tutti i giorni il processo è fondamentale per trovare, anzitutto, dei punti fermi comuni". La senatrice ha ricordato che il ddl 2284, modificato in modo sostanziale al Senato dopo il primo passaggio alla Camera, "richiede una grande condivisione da parte di tutti, perché altrimenti si rischia di delegare interamente le decisioni alla politica" e per questo sono state ripetute le audizioni in commissione Giustizia al Senato. "Sono ottimista sul risultato finale di questo testo, perché abbiamo individuato alcuni principi comuni. I pregi del sistema, ovvero la specializzazione e la partecipazione al rito di molte professionalità; ma anche le debolezze, ovvero che si tratta di un sistema chiuso, che ha subito la moltiplicazione esagerata dei riti". Il Consiglio Nazionale Forense ha presentato le sue proposte di riforma: "A livello ordinamentale è necessario unificare i riti e anche riportare all’unità l’organo giudicante, con una struttura che potrebbe rifarsi a quella del giudice di sorveglianza penale", ha spiegato la coordinatrice Maria Masi. Gli obiettivi a cui puntare, infatti, sono la salvaguardia della specializzazione e l’affidamento della competenza a livello prima circondariale e poi distrettuale, in base a un criterio di prossimità. Il tema più dibattuto e sui cui le singole associazioni si sono collocate su posizioni diverse, tuttavia, riguarda l’ipotesi di accorpamento del Tribunale per i minorenni come sezione specializzata del Tribunale ordinario, invece di preservarne la natura di ufficio autonomo. Il magistrato Silvia Albano ha sottolineato infine quali siano le difficoltà per i giudici che si occupano delle controversie di natura familiare e minorile: "L’elemento che a noi giudici salta agli occhi è che, per preservare il know-how di come affrontare questa particolare materia, è necessario che un magistrato, anche quando si sposta in un nuovo tribunale, venga mantenuto in quella funzione. Eppure questo, a livello di meccanismi interni, non è sempre possibile e per una ragione molto semplice: nella domanda di trasferimento è possibile indicare un’unica specializzazione, quella di giudice del lavoro". Secondo Albano, dunque, sarebbe necessario modificare anche questi aspetti interni, per preservare il tesoro di competenze e specializzazioni che ogni magistrato accumula. Attualmente il Ddl 2284 è ancora in esame alla commissione Giustizia del Senato, ma - hanno assicurato la relatrice Filippin e il sottosegretario Chiavaroli - "il Governo e la Commissione sono aperte a trovare mediazioni condivise". Mafie. Perché finirono quegli atti di guerra? di Gherardo Colombo Corriere della Sera, 11 maggio 2017 Il 23 maggio 1992, mentre la mafia faceva saltare per aria l’autostrada a Capaci, io ero a Milano, nel carcere di San Vittore, a interrogare il presidente di un ente pubblico in custodia cautelare per una serie di reati di corruzione. Ho appreso la notizia la sera, uscendo, da un agente della polizia penitenziaria, affranto. "Ha sentito, dottore, cosa è successo in Sicilia?". Lì ho saputo, e quando il dolore lo ha consentito, tra i tanti pensieri e gli interrogativi è rimasta insistente una domanda. Perché, per uccidere Giovanni Falcone, la mafia ha compiuto un atto di guerra? Purtroppo oggi a ricordare la strage rimane solo una stele lungo l’autostrada, all’altezza del luogo dell’attentato, stele che può essere notata e collegata a quel terribile evento soltanto da chi passando di lì e sapendo che c’è, la cerca con lo sguardo. Ed allora oggi si è attenuato il ricordo di cosa è stato fatto per compiere il massacro, e ci si dimentica che è stato compiuto un atto di guerra (fosse stato per me avrei lasciato la situazione come si presentava dopo lo scoppio, perché chiunque transitasse sull’autostrada - due bretelle a fianco del disastro l’avrebbero consentito - potesse vedere cosa aveva fatto la mafia per disfarsi di uno dei magistrati che odiava). Credo non fosse imprevedibile che si potesse attentare alla vita di Giovanni: si era usciti, da poco, dalla terribile stagione del terrorismo, durante la quale erano stati uccisi tanti giudici, ma non era cessata l’abitudine della mafia di ammazzare i magistrati che lavoravano con capacità e determinazione nei processi che la riguardavano: nel 1983 Rocco Chinnici, nel 1988 Antonio Saetta, nel 1991 Antonino Scopelliti, per citare chi aveva, o avrebbe avuto se fosse rimasto in vita, relazione con il maxiprocesso. E solo poco più di due mesi prima dell’attentato a Falcone era stato assassinato Salvo Lima, da tanti indicato tramite tra la mafia ed il potere di Roma. Giovanni, nonostante la scorta, lo avrebbero potuto eliminare con molto meno fragore: sarebbe bastato un cecchino, per esempio. E invece no, un’autostrada sventrata, un’azione clamorosa che sarebbe stata seguita da un’azione altrettanto dirompente dopo neanche due mesi. Una strage in via D’Amelio, vittima questa volta Paolo Borsellino, anche lui come Giovanni insieme alle persone che erano con lui. Che la mafia avrebbe cercato di eliminare Paolo era ancora più prevedibile, ma pensavo che si sarebbe riusciti a impedirglielo. Invece, deflagra un’autobomba di potenza tale da trasformare la via in una strada dell’Aleppo di oggi, una di quelle strade che vediamo quasi quotidianamente in tivù martoriate dai bombardamenti. Anche qui un atto di guerra, e anche qui la domanda: perché? Assassinando in quel modo Giovanni e Paolo, la mafia ha parlato. Non si è limitata a togliere di mezzo due magistrati che l’avevano, e continuavano a metterla alle strette, ma ha usato un linguaggio per comunicare qualcosa a qualcuno. Si può capire il linguaggio, guardando da fuori? Non è facile, perché tante sono le interpretazioni possibili. Prima alternativa: si è trattato di un linguaggio comprensibile a tutti (più o meno come quello usato nella strategia della tensione: guardate che se le cose vanno avanti così le conseguenze sono disastrose) oppure interpretabile soltanto a chi aveva gli strumenti per decodificarlo (diretto, per esempio, a chi fino ad allora aveva contribuito ad evitare che la mafia subisse la giustizia penale)? Una volta sciolto questo dilemma, ecco altre alternative: nel primo caso lo scopo era distogliere l’attenzione da Mani pulite, un’indagine che stava diventando pericolosa; oppure si era gettato un amo per cercare nuovi alleati nella politica, nel timore che i vecchi stessero scomparendo? E nel secondo, era un ulteriore avvertimento a chi ancora non aveva inteso il significato dell’omicidio di Salvo Lima? Era una tappa di un percorso già avviato verso ambienti con i quali instaurare nuovi rapporti? Era qualcosa che ancora oggi nemmeno si riesce ad ipotizzare? Sta di fatto che la mafia non si ferma il 19 di luglio. Il 17 settembre 1992 uccide vicino a Palermo Ignazio Salvo, indicato come un altro trait d’union con i palazzi della politica. L’anno successivo scoppiano le bombe a Roma in via Fauro, a Firenze in via dei Georgofili, ancora a Roma a San Giorgio al Velabro e a San Giovanni in Laterano, a Milano in via Palestro. E infine nel gennaio 1994 fallisce un attentato allo stadio Olimpico che sarebbe stato sanguinosissimo. Ci si trova di fronte a nuovi interrogativi: queste nuove azioni sono collegate alle precedenti? Lo sono soltanto alcune (omicidio Salvo) o lo sono tutte (Salvo e i nuovi attentati)? Perché l’insistenza? E ancora, cosa ha voluto esprimere la mafia con il linguaggio utilizzato, al di là del risvolto palese, consistito nel rendere chiaro che qualunque bersaglio saprebbe stato raggiungibile? Sono passati venticinque anni dai massacri di Capaci e di via D’Amelio. Mi chiedo se, andando oltre i processi e le sentenze, che pure hanno accertato le responsabilità dei livelli maggiormente coinvolti con l’esecuzione dei fatti, sia possibile sciogliere gli enigmi che si nascondono ai livelli più elevati, quelli nei quali vengono prese le decisioni. Io credo che una cosa sia certa: le azioni (in questo caso gli atti di guerra) si commettono, i linguaggi si usano per ottenere risultati. Se questi non arrivano, le azioni si ripetono. Salvo che ci si rassegni a non raggiungerli mai, o che diventi troppo difficile ottenerli, per il contrasto della società civile e delle istituzioni. La mafia, nel 1994 ha smesso di compiere atti di guerra. Si è rassegnata, ha raggiunto gli scopi che perseguiva, o è stata costretta ad abbandonarli? Secondo me, per capire fino in fondo, occorrerebbe ripartire da qui. Spazio "minimo" (3 mq) nelle celle calcolato escludendo la superficie occupata dal letto Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2017 Corte di Cassazione - Prima Sezione Penale - Sentenza n. 22929 del 21 aprile 2017, depositata il 10 maggio 2017. Per spazio minimo individuale in cella collettiva si intende la superficie fruibile dal singolo detenuto e idonea al movimento. È dunque necessario detrarre non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello degli arredi ma anche quello occupato dal letto. Diritto di soggiorno per il genitore extracomunitario del minore con cittadinanza europea Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2017 Cgue - Grande Sezione - Sentenza 10 maggio 2017 causa C133/15. Un cittadino di un paese non Ue, nella sua qualità di genitore di un figlio minorenne con cittadinanza europea, può far valere un diritto di soggiorno nell’Unione derivato. La ha precisato la Corte Ue con la sentenza 10 maggio 2017nella causa C-133/15. Il fatto che l’altro genitore, cittadino dell’Unione, potrebbe assumersi da solo l’onere quotidiano ed effettivo del minore costituisce un elemento pertinente ma non è di per sé solo sufficiente per rifiutare un permesso di soggiorno. Occorre poter constatare che non esiste, tra il minore e il genitore cittadino di un paese non Ue, una relazione di dipendenza tale per cui una decisione di rifiuto del diritto di soggiorno a quest’ultimo obbligherebbe il minore a lasciare il territorio dell’Unione. Il caso - Una cittadina venezuelana, è entrata nei Paesi Bassi con un visto turistico. Dalla sua relazione con un cittadino olandese è nato, nel 2009, un bambino che possiede la cittadinanza olandese. I genitori e il bambino hanno vissuto in Germania fino al mese di giugno 2011, nel corso del quale la signore e suo figlio sono stati costretti a lasciare la casa familiare. Da allora essa esercita la custodia del proprio figlio. Essa ha inoltre dichiarato che il padre del minore non contribuiva né al mantenimento né all’educazione di quest’ultimo. Tuttavia, in assenza di titolo di soggiorno, la sua domanda di aiuto sociale e di assegni familiari è stata respinta dalle autorità olandesi. Investito delle controversie riguardanti il rifiuto delle autorità olandesi di concedere aiuti sociali e assegni familiari alle madri in questione, il Centrale Raad van Beroep (Corte d’appello per le questioni in materia di sicurezza sociale e di funzione pubblica, Paesi Bassi) ha deciso di interpellare la Corte di giustizia. Esso si chiede se le persone interessate possano, in quanto madri di figli minorenni cittadini dell’Unione, beneficiare di un diritto di soggiorno in forza dell’articolo 20 Tfue (cittadinanza dell’Unione). In caso di risposta affermativa, le interessate potrebbero beneficiare, se del caso, di un aiuto sociale o di assegni familiari sulla base della normativa olandese. Il Centrale Raad van Beroep si chiede più in particolare quale importanza debba essere attribuita al fatto che il padre, cittadino dell’Unione, soggiorni nei Paesi Bassi o nell’Unione. La sentenza - Nella sua sentenza la Corte sottolinea preliminarmente che la situazione della signora e di suo figlio, che hanno entrambi esercitato il loro diritto di libera circolazione, deve essere esaminata anzitutto alla luce dell’articolo 21 Tfue (libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini europei nel territorio degli Stati membri) e della direttiva 2004/38 (la quale è intesa a facilitare l’esercizio della libertà di circolazione e di soggiorno). Spetta al giudice olandese valutare a questo proposito se le condizioni enunciate da tale direttiva siano soddisfatte, di modo che la signora possa avvalersi di un diritto di soggiorno derivato. In caso negativo, la sua situazione e quella di suo figlio devono essere esaminate alla luce dell’articolo 20 TFUE. A questo proposito, la Corte ricorda la propria giurisprudenza secondo cui l’articolo 20 TFUE osta a misure nazionali, comprese eventuali decisioni di rifiuto del diritto di soggiorno ai familiari di un cittadino dell’Unione, che abbiano per effetto di privare i cittadini dell’Unione del godimento effettivo del contenuto essenziale dei diritti conferiti dal loro status. Nel caso di specie, l’eventuale obbligo per le madri di lasciare il territorio dell’Unione potrebbe privare i loro figli del godimento effettivo del contenuto essenziale di tali diritti, obbligando i figli stessi a lasciare il territorio dell’Unione, circostanza questa la cui verifica spetta al giudice olandese. Per valutare tale rischio, occorre stabilire quale genitore abbia la custodia effettiva del minore e se esista una relazione di dipendenza effettiva tra il bambino e il genitore cittadino di un paese non Ue. In tale contesto, le autorità devono tener conto del diritto al rispetto della vita familiare, nonché dell’interesse superiore del minore. Il fatto che l’altro genitore, cittadino dell’Unione, sia realmente capace di e disposto ad assumersi da solo l’onere quotidiano ed effettivo del minore costituisce un elemento pertinente, ma non è di per sé solo sufficiente per poter constatare che non esiste, tra il genitore cittadino di un paese non Ue e il minore, una relazione di dipendenza tale per cui quest’ultimo sarebbe costretto a lasciare il territorio dell’Unione nel caso in cui a tale cittadino di un paese non Ue venisse rifiutato un diritto di soggiorno. Infatti, una constatazione siffatta deve essere fondata sulla presa in considerazione, nell’interesse superiore del minore interessato, dell’insieme delle circostanze del caso di specie, e, segnatamente, dell’età del minore, del suo sviluppo fisico ed emotivo, dell’intensità della sua relazione affettiva sia con il genitore cittadino dell’Unione sia con il genitore cittadino di un paese non UE, nonché del rischio che la separazione da quest’ultimo comporterebbe per l’equilibrio del minore stesso. Per quanto riguarda l’onere della prova, il genitore che è cittadino di un paese non UeE deve fornire gli elementi che permettano di valutare se una decisione che gli rifiuta un diritto di soggiorno priverebbe suo figlio del godimento effettivo del contenuto essenziale dei diritti connessi allo status di cittadino dell’Unione, obbligandolo a lasciare il territorio dell’Unione. Tuttavia, le autorità nazionali devono fare in modo che l’applicazione di una normativa nazionale riguardante l’onere della prova non possa compromettere l’effetto utile dell’articolo 20 TFUE. Così, le autorità nazionali devono effettuare le ricerche necessarie per stabilire dove risieda il genitore cittadino di tale Stato membro. Esse devono anche verificare se tale genitore sia realmente capace di e disposto ad assumersi da solo l’onere quotidiano ed effettivo del minore. Inoltre, esse devono verificare se esista una relazione di dipendenza tra il minore e il genitore cittadino di un paese non UE, tale per cui una decisione di rifiuto del diritto di soggiorno a quest’ultimo priverebbe il minore del godimento effettivo del contenuto essenziale dei diritti connessi al suo status di cittadino dell’Unione, obbligandolo a lasciare il territorio dell’Unione. Marche: carceri sovraffollate, l’Ombudsman fa un bilancio del 2016 di Alessandra Napolitano centropagina.it, 11 maggio 2017 La fotografia della situazione dei penitenziari marchigiani mostrata quest’oggi dal Garante dei diritti, Andrea Nobili. Lo scorso anno sono stati chiusi 282 fascicoli dei 494 totali. La maggior parte delle istanze ha riguardato i detenuti e la difesa civica, il settore dell’infanzia e del contrasto alla discriminazione. Il sovraffollamento degli istituti penitenziari regionali tende ad aumentare, seppure in modo limitato e minore rispetto ad altre regioni. Questa la fotografia della situazione carceraria mostrata quest’oggi dall’Ombudsman Andrea Nobili in occasione della presentazione del Report 2016 e la programmazione per il 2017. Al 30 aprile 2017 questi i numeri dei penitenziari marchigiani: 229 detenuti a Pesaro (per una capienza di 153), 190 ad Ancona "Montacuto" (capienza salita a 256 dopo la riapertura di una sezione), 91 a Barcaglione (100), 117 ad Ascoli Piceno (104), 55 a Fermo (41), 153 a Fossombrone (201). Sono state messe in essere molteplici iniziative per le attività trattamentali, con incontri sulla situazione sanitaria, sul reinserimento nel mondo del lavoro, sull’intervento del volontariato, su un nuovo approccio di tipo culturale. Per questo sono stati sottoscritti protocolli, come quello con il Prap e l’Università di Urbino che fornisce ai detenuti del carcere di Fossombrone la possibilità di conseguire il titolo di studio universitario, e i corsi di formazione per minori sottoposti a procedimento penale, che sta coinvolgendo diversi istituti scolastici. L’attività 2016 è stata positiva per il Garante dei diritti di adulti e bambini della Regione Marche. Sono stati chiusi 282 fascicoli dei 494 totali a fronte dei 538 fascicoli aperti. La maggior parte delle istanze ha riguardato i detenuti e la difesa civica, il settore dell’infanzia e del contrasto alla discriminazione, in espansione rispetto al passato. L’Ombudsman Andrea Nobili ha ricordato che recentemente sono state approvate due importanti leggi nazionali che affidano compiti specifici ai Garanti regionali. "Nel primo caso, le nuove norme volte a proteggere i minori stranieri non accompagnati rappresentano una svolta storica per il settore e chiamano le autorità di garanzia a selezionare e formare i tutori volontari. La legge in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, invece, contempla la possibilità di affidare ai Difensori civici la funzione di garanti per il diritto alla salute, prevedendo interventi in presenza di disfunzioni del sistema sanitario- spiega l’Ombudsman-. Si tratta di scelte rilevanti che potranno trovare concretizzazione anche in questa regione, da un lato attraverso l’indispensabile concertazione con gli organismi preposti e dall’altro, avviando un percorso di confronto anche con la Giunta ed il Consiglio regionale. C’è poi la recente normativa sulla trasparenza amministrativa (Freedom of Information Act) che chiama ancora in causa i difensori civici". "Nel corso del 2016 l’attività dell’Autorità di garanzia si è ulteriormente consolidata affrontando problematiche di strettissima attualità e rafforzando il contatto sul territorio con i cittadini in oggettiva difficoltà e con quelli che necessitano di maggiori tutele. I 282 fascicoli chiusi, nei diversi settori di competenza, ne sono una riprova- afferma Antonio Mastrovincenzo, Presidente del Consiglio Regionale. Per quanto riguarda gli istituti penitenziari marchigiani è importante il lavoro di monitoraggio effettuato, affiancato da un’attenzione particolare nei confronti delle attività trattamentali. C’è poi il mondo dei minori. Voglio ricordare la preziosa fotografia emersa attraverso il primo Report sulle comunità di accoglienza, gli interventi dedicati al cyberbullismo e la complessa problematica dell’affido familiare, che sarà affrontata il prossimo 12 maggio attraverso un summit, voluto dallo stesso Garante, a cui parteciperanno i rappresentanti di tutti gli organismi che intervengono direttamente in questo settore, nonché le associazioni a cui fanno capo le famiglie affidatarie. Sarà un momento di riflessione complessivo, da cui far emergere nuove ipotesi d’intervento in un momento di crisi profonda che incide pesantemente sulla condizione dei minori e dell’infanzia". Padova: votazioni al carcere Due Palazzi, eletti i delegati dei detenuti di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 11 maggio 2017 Scelti 30 rappresentanti, tra i quali "l’avvocato" e il ventenne volonteroso. Ha partecipato alla consultazione l’80 per cento dei 600 carcerati. Elezioni regolarissime, sabato 6 maggio nella Casa di reclusione Due Palazzi che ospita 600 persone già condannate a pene definitive. Elezioni per scegliere un gruppo di rappresentanti che sarà chiamato a confrontarsi con la direzione del carcere, a farsi interprete delle istanze e delle necessità non dei singoli ma della collettività. Un modo per responsabilizzare i singoli in nome del bene comune, per diffondere il senso di partecipazione. Sul modello di quanto già accade nel carcere "modello" di Bollate (Milano). "Ristretti Orizzonti" e l’Associazione "Granello di senape", che in carcere operano e che hanno fatto da apripista al progetto, grazie al certosino impegno di 10 volontari hanno iniziato in novembre a fare riunioni (23 per l’esattezza) in ogni sezione, per spiegare, rispondere a domande, sensibilizzare. E l’impegno ha dato ottimi risultati: si sono candidati in 62. Sono stati eletti in 30: quattro rappresentanti per sezione (sono sette le sezioni), più uno per l’infermeria e uno per il polo universitario. Le operazioni di voto si sono svolte nel modo più ufficiale possibile: schede, voto in segretezza, firme, urne che sono state portate dai volontari sezione per sezione, lato per lato. Con la collaborazione della direzione e degli agenti di custodia i quali avevano in precedenza partecipato a un incontro informativo ad hoc: poter contare su interlocutori detenuti riconosciuti e "autorevoli" per loro è una chance in più nella difficile gestione del quotidiano. Ha partecipato al voto l’80% della popolazione carcerata. Tra gli eletti ci sono alcuni detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti, c’è un albanese, ergastolano, che lavora in amministrazione e quindi ha esperienza dei meccanismi di governo del carcere e c’è "l’avvocato", così lo chiamano tutti: italiano, ha una settantina d’anni dei quali un bel tot dentro e fuori dal carcere. È espertissimo in questioni giuridiche, in codici e norme, è la persona alla quale gli altri detenuti si rivolgono per consulenze, consigli. Svolge il ruolo di "scrivano" insomma, ovvero quello che aiuta a redigere le domandine, a scrivere le istanze da presentare al tribunale, che spiega il contenuto delle sentenze, che sa usare il "burocratese". Anche parecchi degli altri eletti sono detenuti conosciuti per la dimestichezza con la quale macinano le questioni giuridiche e le rendono comprensibili ai tanti compagni di detenzione che annaspano nell’angosciante vuoto di informazioni, di comprensione. Ancora, è stato eletto un cinquantenne sempre italiano che da anni collabora allo sportello giuridico messo in piedi dall’associazione Granello di senape: conosce i meccanismi di rappresentanza e da tempo è punto di riferimento per gli altri detenuti. Il più giovane ha 20 anni, il colore della pelle rimanda ad origini lontane ma lui è nato a Padova e cittadino italiano. Non deve scontare una pena lunga, ha voglia di darsi da fare per gli altri. A breve i 30 eletti avranno un incontro di presentazione con il direttore del Due Palazzi, Ottavio Casarano che spiega: "È un’iniziativa sperimentale, sarà uno strumento utile che darà voce ai bisogni della popolazione dei detenuti. Noi ci teniamo molto". "Molti detenuti erano emozionati nel votare", racconta Ornella Favero, storica direttrice della rivista "Ristretti Orizzonti" del carcere Due Palazzi "tanti non avevano mai votato in vita loro. Vorrei che questa fosse una tappa, che il progetto si allargasse ad altre case di reclusione, sperando che possa cambiare la qualità della vita dei detenuti, non infantilizzata come è ora ma responsabilizzata". Si aggiunge Francesca Rapanà, 39 anni, ricercatrice, che da quando fece il tirocinio universitario nell’ufficio educatori non ha più smesso di operare in carcere come volontaria con Granello di senape: "Ora inizieremo una vera formazione per i detenuti eletti, incontri per chiarire quello di cui dovranno occuparsi: in sostanza, niente casi personali ma rappresentare tutti". Alessandria: direttore del carcere "gli agenti hanno ragioni, ma attenzione a notizia false" di Marco Madonia alessandrianews.it, 11 maggio 2017 In un incontro con i ragazzi del Progetto Giovani di Cultura e Sviluppo il direttore della Casa di Reclusione di San Michele fa il punto sulle finalità alla base della detenzione, sui limiti della situazione attuale e sulle prospettive future. "Senza un numero di agenti adeguato diventa difficile fare rieducazione". "La sicurezza di una società passa anche attraverso la riabilitazione in carcere di chi ha compiuto atti sbagliati, perché la stragrande maggioranza dei detenuti è destinata a tornare in libertà in ogni caso e l’esperienza vissuta durante la detenzione può essere determinante per stabilire il futuro di queste persone e la qualità della vita della collettività che le riaccoglierà". È stato questo uno temi intorno a cui hanno riflettuto alcune decine di ragazzi del Progetto Giovani, corso di formazione promosso dell’Associazione Cultura e Sviluppo e rivolto agli studenti dell’ultimo anno scuole superiori cittadine, insieme al direttore del carcere di San Michele, Domenico Arena, al responsabile dell’area educativa, Piero Valentini, e a un ex detenuto oggi completamente riabilitato e impiegato in pianta stabile presso la cooperativa Coompany &. L’occasione dell’incontro è stata utile anche per tornare sui recenti fatti di cronaca che hanno riguardato il carcere di Alessandria, a partire dalle rimostranze degli agenti della Polizia Penitenziaria, che lamentano di essere in numero insufficiente per garantire una piena sicurezza all’interno dell’istituto, e per correggere alcune notizie uscite sui giornali, definite dal direttore vere e proprie fake news: "il problema di avere poco personale è quello di non poter assolvere in pieno al vero compito di una struttura carceraria, che non è solamente l’osservazione dei detenuti ma la loro rieducazione. Per farlo occorre la possibilità di ascoltarli, di parlare con loro, di fare attenzione alle tante dinamiche che in una struttura detentiva si sviluppano - hanno spiegato Arena e Valentini - e avere più agenti ed educatori è fondamentale per dare davvero una chance a chi lo desidera di poter cambiare vita. Altrimenti l’esperienza detentiva finisce per peggiorare solamente le persone lì rinchiuse, che quando usciranno saranno solamente divenute più brave e motivate a delinquere". Rispetto alle recenti notizie uscite, il direttore Arena ha poi tenuto a precisare che non sempre le cose vengano riportate dai rappresentanti del sindacato di Polizia e dai giornali con la giusta aderenza alla realtà: "tempo fa si è parlato dei detenuti che lavoravano presso Amag Ambiente e del fatto che fossero stati trovati in possesso di una mappa dettagliata del porto di Genova, facendo credere che stessero preparando chissà quale piano. In realtà si trattava di una semplice ricerca che chiunque può fare su internet o sulle pagine gialle, con segnati i principali porti liguri. La notizia apparsa poi ieri di un agente aggredito da un detenuto con una lametta è anch’essa falsa, poiché si è trattato molto più banalmente di un controllo finito con una caduta a terra che ha comportato alcune piccole abrasioni. Un agente ha visto uno scambio di piccoli oggetti fra detenuti e si è avvicinato per controllare, uno dei due si è allontanato rapidamente e nell’essere bloccato sia l’agente che il detenuto sono finiti a terra, riportando qualche escoriazione, guaribile in pochi giorni. Nessuna lametta e nessuna aggressione dunque". I ragazzi hanno potuto assistere a una visita virtuale del carcere attraverso un reportage fotografico svolto all’interno delle strutture detentive e posto diverse domande ai partecipanti, apprezzando comunque la qualità dell’esperienza offerta dal carcere di Alessandria rispetto ad altre strutture sul territorio. Come ha raccontato con grande passione l’ex detenuto, l’esperienza della casa di reclusione cittadina, che è una delle poche realtà in Italia fra l’altro ad ospitare un polo universitario, è ancora un’oasi felice rispetto a tante altre strutture detentive, specialmente del sud. "Qui in cella si sta in due e durante il giorno le porte sono aperte, si offrono agli ospiti diversi laboratori e attività, più la possibilità di frequentare i corsi scolastici. A Napoli in cella ci trovavamo in più di 20 persone e restavamo chiusi in cella per 23 ore al giorno. Lì sì che le possibilità rieducative erano ridotte a zero". Fra gli esempi virtuosi portati dai relatori c’è stato quello del sistema carcerario presente in nord Europa, ad esempio in Norvegia, dove la pena detentiva massima è di 21 anni e pertanto lavorare sulla riabilitazione diviene essenziale anche per quei detenuti che hanno commesso i crimini più efferati. "Una società che investe risorse sul carcere è una società più sicura, perché chi viene rimesso in libertà potrà davvero avere l’opportunità di cambiare vita e non tornare a delinquere", come hanno ricordato i relatori. Foggia: Uil-Pa; il carcere è obsoleto, impiegare i detenuti per la manutenzione immediato.net, 11 maggio 2017 "Condizioni limite, oltre la soglia di guardia". Questo il giudizio di Angelo Urso, segretario generale Uil-Pa Polizia Penitenziaria, che, ieri, 9 maggio, con Stefano Caporizzi, segretario regionale Uil-Pa Polizia Penitenziaria, Gino Iacovino e Saverio Ritucci, segretario generale e coordinatore Uil-Pa Foggia, hanno visitato il carcere di Foggia. "Il carcere di Foggia ha oltre 30 anni di vita. In questo lungo lasso di tempo, gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sono stati più frutto di casualità che di una programmazione oculata. Il risultato è una struttura obsoleta, per larghi tratti fatiscente, con sistemi di sorveglianza non all’altezza", affermano Urso, Caporizzi e Iacovino che mettono a fuoco l’altro elemento fondamentale: "le difficili condizioni di lavoro per il personale di polizia penitenziaria. A fronte di una popolazione carceraria di 565 detenuti, il personale dedicato ai servizi di sorveglianza è di 322 unità. Tra malattie e turni oggi erano 246. È evidente si tratta di un organico insufficiente a gestire la pressione di oltre 500 detenuti e sono all’ordine del giorno molti incidenti" causati dal sovraffollamento". Di qui la proposta della Uil-Pa: "Utilizzare i detenuti, attraverso i relativi corsi di formazione che stanno per essere avviati in carcere, per garantire le attività di manutenzione dell’Istituto. Avremmo così il duplice effetto positivo di abbattere i costi e impiegare la popolazione carceraria in lavori di pubblica utilità. Inoltre è importante installare docce nelle stanze di pernottamento". Infine l’appello alle istituzioni carcerarie e ai parlamentari di Capitanata: "Bisogna fare squadra per ammodernare e potenziare il carcere, dotandolo di tutti i più moderni sistemi di sorveglianza, ma anche per ampliare l’organico delle guardie penitenziarie. Solo così si può cancellare questa vergogna e vincere una battaglia fondamentale di civiltà". Al termine della visita, Urso, Caporizzi e Iacovino, hanno preso parte ad una riunione con il personale coordinata da Ritucci. Firenze: arrestato in Olanda l’ultimo dei fuggitivi evasi dal carcere di Sollicciano di Gerardo Adinolfi La Repubblica, 11 maggio 2017 Era il boss della banda accusata di furti con scassi in Toscana e Emilia Romagna. Anche l’ultimo fuggitivo ora è stato catturato. Il capo della banda, il boss che insieme ad altri due detenuti era scappato dal carcere di Sollicciano, a Firenze, con una clamorosa evasione fatta con un lenzuolo lo scorso 20 febbraio. Costel Bordeianu, 28 anni, è stato fermato ad Amsterdam, in Olanda, dove si era rifugiato. Sulle sue tracce c’erano le forze dell’ordine che hanno ripercorso in collaborazione con l’Interpol le tappe dell’uomo in giro per l’Europa fino a stringere il cerchio. Ora si trova in carcere in attesa di essere estradato in Italia, su di lui pendeva un mandato di cattura internazionale. Gli altri due evasi, invece, sono stati già catturati il mese scorso: Danut Ciocan, 25 anni, era stato arrestato lo scorso 5 aprile in Svizzera, a Morges, dove vive il padre. Costantin Catalin Donciu, 29 anni, si era invece costituito in una caserma dei carabinieri di Torino. L’ultimo tassello era quindi Bordeianu, ritenuto il capo della banda delle "spaccate notturne", autore di numerosi furti con scasso ai danni di commercianti, negozi, ipermercati di Toscana e Emilia Romagna. Secondo gli inquirenti, in un solo anno tra il 2015 e il 2016 avevano commesso furti per un valore di oltre 650 mila euro. La fuga, invece, era avvenuta a fine febbraio: i tre avevano segato le sbarre della cella e si erano calati con delle lenzuola dalla sentinella vicino alla porta. Arrivati nel cortile dell’ora d’aria, avevano scavalcato il muro di cinta per poi darsi alla fuga probabilmente aiutati da qualcuno all’esterno. Torino: sul Gran Paradiso il cioccolato al "sapore di libertà" dei giovani detenuti di Mauro Saroglia La Stampa, 11 maggio 2017 Il Parco aderisce al progetto Spes@Labor avviato nel 2013 per il reinserimento nella società dei ragazzi del Ferrante Aporti. Il Parco nazionale Gran Paradiso ha deciso di dare una mano ai ragazzi del carcere minorile "Ferrante Aporti" di Torino che hanno intrapreso un percorso di crescita personale e reinserimento sociale aderendo al progetto Spes@Labor, promosso da Murialdofor onlus e Gruppo Spes, parte dell’Opera Torinese del Murialdo. Spes@Labor, avviato nel 2013 in collaborazione con il "Ferrante Aporti", mira al reinserimento di giovani detenuti all’interno del tessuto sociale mediante interventi di inclusione lavorativa e professionale. In particolare, all’interno del carcere è stato avviato un laboratorio per insegnare ai ragazzi a produrre cioccolato, formandoli anche a relazionarsi all’esterno, nel lavoro e nei rapporti con il prossimo. I giovani coinvolti, finora più di 30, ottengono anche una piccola retribuzione attraverso borse lavoro di cui beneficiano sia i detenuti che quelli in penale esterna, che svolgono la pratica alla Fabbrica del Cioccolato del Gruppo Spes, in via Saorgio. In questi anni tre ragazzi che hanno partecipato al progetto all’interno dell’istituto hanno proseguito la loro esperienza nella Fabbrica di Cioccolato, mentre cinque, concluso il loro percorso, hanno continuato a collaborare con il Gruppo Spes. E il Parco, cosa c’entra in tutto ciò? È presto detto. Spes@Labor ha deciso di lanciare una nuova linea di tavolette di cioccolato, prodotte dai giovani detenuti, alla quale ha dato nome "Il sapore della libertà". All’Ente Parco quello slogan è piaciuto, per il parallelismo che si può leggere tra il senso di libertà che si vive in mezzo alla natura, all’interno dell’area protetta, e quello che provano i ragazzi del "Ferrante" nel costruirsi una piccola forma di autonomia e indipendenza grazie al lavoro che svolgono. Per questo ha deciso di studiare un packaging ad hoc per le tavolette di cioccolato, caratterizzato dall’utilizzo di acquerelli che fanno parte dell’archivio del Pngp. All’interno della confezione, poi, si possono trovare i segnalibri con immagini scattate da Francesco Sisti nel Parco. Tre le varianti di tavolette di cioccolato prodotte: al latte, fondente e fondente gentile con granella di nocciola tostata caramellata. Ai locali commerciali che hanno aderito all’iniziativa è stato consigliato di mettere in vendita le tavolette a 3 euro (latte e fondente) e 3,50 euro (nocciola): acquistarle costituisce un importante gesto di solidarietà, dal momento che l’incasso sarà destinato interamente ed esclusivamente al sostegno del progetto Spes@Labor (per info: antonio.peyrano@gruppospes.org). Rossano Calabro (Cs): studenti a confronto con i detenuti nella Casa di reclusione informazionecomunicazione.it, 11 maggio 2017 Il giorno 8 maggio si è svolta l’attesa iniziativa riguardante un progetto di "Educazione alla Legalità" presentato dall’Istituto d’Istruzione Superiore IIS "Ls-Ipsct" di Cariati, approvato dal Direttore del Carcere di Rossano, Giuseppe Carrà, e inserito nella settima edizione del Maggio dei Libri 2017. L’evento è stato fortemente voluto dal professore di religione dell’istituto, Don Michele Romano, che ha voluto riproporre l’esperienza vissuta con altri allievi qualche anno prima. Dunque, la seconda edizione della manifestazione, ha visto studenti, professori, detenuti ed autorità seduti gli uni accanto agli altri, nella sala polivalente della casa di reclusione, per discutere di legalità su temi assegnati in precedenza e su cui ci si è misurati con l’elaborazione delle tracce; cosicché la manifestazione si è sviluppata con l’analisi degli elaborati delle due categorie di discenti, in un reciproco scambio emozionale, e si è conclusa con l’assegnazione dei premi ai primi tre classificati. Il primo premio è stato assegnato, per gli studenti, a De Simone Ilenia della 3^A e per i detenuti a Napoli Giuliano. A seguire, gli alunni si sono confrontati con i detenuti del penitenziario, sia con domande degli studenti rivolte ai presenti su problematiche di legalità ma anche sulla storia personale degli stessi, direttamente, senza filtri e ipocrisie. Dal canto loro, i reclusi non si sono minimamente sottratti a tale importante appuntamento per potere dare appassionati, quanto commoventi, consigli ai giovani. Il dibattito che ne è seguito è stato un tripudio di domande e meditazioni sul carcere e sui valori veri della vita (famiglia, amicizia, amore, fede e spirito di sacrificio) con l’invito rivolto a chi ha sbagliato a riflettere, non solo sul proprio passato delinquenziale, ma anche sulle conseguenze che i reati commessi hanno comportato sulla loro persona e ai loro familiari oltre che, ovviamente, alle vittime; al tempo stesso, i detenuti hanno più volte sottolineato il significato di privazione della libertà esortando gli studenti a considerare la fortuna dell’essere e pensare da persone libere e a non trascurare gli studi per non commettere i loro stessi errori che, gran parte delle volte, sono frutto di ignoranza. Il confronto, è stato molto intenso e ha offerto spunti di riflessione a tutti i partecipanti, e ne sono venute fuori conclusioni significative quale quella, comune a questi due mondi, dell’esperienza che porta al cambiamento. Al termine è stato offerto un buffet preparato dagli stessi alunni per la popolazione dell’istituto penitenziario quale ulteriore segnale di condivisione, maturità e accoglienza. Lecce: il Festival "Leggermente" nella Casa circondariale per il progetto "Libriamoci" leccoonline.com, 11 maggio 2017 All’interno di Leggermente Off si è svolto giovedì 4 maggio un incontro inserito nel progetto "Libriamoci" che era stato annunciato in occasione della presentazione della ottava edizione di "Leggermente", festival organizzato da Assocultura Confcommercio Lecco. Un progetto capace di fare dialogare il mondo della scuola con gli ospiti della Casa Circondariale di Lecco. L’incontro si è tenuto presso il carcere di Pescarenico con la proiezione del film "La teoria del tutto" tratto dal libro di Stephen Hawking cosmologo, fisico, matematico e astrofisico britannico, fra i più influenti e conosciuti fisici teorici al mondo, noto soprattutto per i suoi studi sui buchi neri e sull’origine dell’universo. Una visione che è stata preceduta dalla lettura del libro (in inglese o in italiano) sia da parte degli ospiti della Casa Circondariale che da parte degli alunni della classe V AL del Liceo Manzoni di Lecco: ospiti e studenti hanno assistito insieme al film biografico del 2014 interpretato da Eddie Redmayne (vincitore del Premio Oscar come migliore attore per questa interpretazione). Soddisfatta di questa iniziativa la direttrice della Casa Circondariale, Antonina D’Onofrio: "Il contributo di Stephen Hawking alla fisica, supportato dalla moglie Jane e dai figli Robert, Lucy e Tim, costituisce chiara testimonianza che gli ostacoli e i limiti dell’essere umano possono essere affrontati, combattuti e superati grazie alla forza di volontà, allo spirito di sacrificio e, soprattutto, al grande amore per gli affetti familiari e per il genere umano. I temi esistenziali sofferti e descritti nel libro come nel film si conciliano con l’esperienza individuale e collettiva delle persone detenute che ogni giorno si fanno carico del loro passato e, soprattutto, del confine che li divide dalla società e dagli affetti familiari, sempre combattuti tra l’illecito/ lecito, male/bene, dentro/fuori, sfiducia/fiducia nelle istituzioni, nell’altro e nelle proprie capacità umane". Poi aggiunge: "Il superamento del confine da parte dell’iniziativa culturale "Leggermente" ha dimostrato una attenzione particolare verso il mondo penitenziario e la volontà di andare oltre il pregiudizio e la stigmatizzazione, nell’ottica di valorizzare l’essere umano nella sua completezza come portatore di valori e potenzialità. La disponibilità a superare il confine e incontrare l’altro può favorire la conoscenza più vera e, oltre l’apparenza, permettere di cogliere il buono di ogni persona". La direttrice poi conclude con alcune considerazioni: "Un grazie di cuore a nome di tutti i detenuti al quale aggiungo il mio personale e quello dei dipendenti tutti della Casa Circondariale va agli organizzatori dell’iniziativa "Leggermente", al Dirigente Scolastico e ai Docenti dell’istituto A. Manzoni e agli studenti. Il mio augurio è che questa esperienza possa contribuire alla crescita culturale, ma soprattutto umana di noi tutti. E qui il mio pensiero va anche alle persone detenute cui l’iniziativa è rivolta". Maurizio Bertoli, docente del liceo Manzoni che ha seguito il progetto accompagnando i suoi studenti della 5AL a Pescarenico, è entusiasta: "È stata una esperienza molto positiva: come insegnante sono restato volentieri in rispettoso silenzio ad ascoltare una comunicazione esuberante che, quasi per miracolo, si è subito sviluppata spontaneamente fra molti dei presenti. Un’esperienza salutare, che spero diventi consuetudine. Ringrazio gli organizzatori di Leggermente e la Casa Circondariale per averla resa possibile. E grazie alle persone che abbiamo incontrato, indifferentemente carcerati e guardie carcerarie, che hanno avuto la rara capacità di farci sentire semplicemente a nostro agio". Nei giorni seguenti anche alcuni studenti hanno voluto lasciare qualche riflessione: "Un’esperienza indimenticabile che ha permesso di accrescere la consapevolezza del fatto che tra persone di provenienza, lingua e cultura diversa non esistono confini, anche se qualcuno ha commesso degli errori. Siamo riusciti ad instaurare un rapporto con i detenuti che ha avuto le stesse caratteristiche di un rapporto tra amici o compagni di classe". E ancora: "Inimmaginabile e stimolante. Sicuramente una situazione che pochi hanno l’opportunità di vivere, data la sua particolarità. Il dialogo ha creato un’unità di pensiero tra tutti i presenti, che mi ha fatto riflettere sull’uguaglianza tra gli uomini, quale che sia la loro condizione". Un altro alunno ha poi aggiunto: "È stato emozionante trovarci uno accanto all’altro, in maniera casuale, disordinata ma spontanea e libera, a discutere, riflettere e scherzare in totale serenità, quasi dimenticandoci di essere all’interno di un carcere". Un suo compagno ha spiegato: "Un’esperienza nuova, misteriosa e diversa, un’occasione unica per mettersi in contatto con una realtà lontana da noi giovani. Entrando nella stanza dove si proiettava il film, la prima sensazione è stata di disagio, un disagio immotivato, frutto dell’idea che ci si fa di carcere e carcerati. Grazie all’atmosfera creata dal film e al desiderio di stabilire una comunicazione, si è poi creato un dialogo a momenti anche scherzoso. Nel confronto con i carcerati è stato possibile cogliere l’importanza del tema "Sul confine", che è anche il tema di "Leggermente" di quest’anno". Positivo anche il giudizio di Paola Viganò di Albero Blu: "Nella premessa alla proposta di Albero Blu "Dal libro al film" per "Leggermente" 2017, scrivevo che accostare due linguaggi diversi, quello del libro e quello del film, sarebbe stato uno dei modi possibili per stimolare una sensorialità che portasse a nuove elaborazioni e raffigurazioni. La proiezione del film è stata uno spunto utilissimo non tanto per fare un lavoro "didascalico" sui temi fondamentali e sulle differenze tra il libro e la sua trasposizione cinematografica, quanto per intraprendere un dialogo spontaneo e ampliato rispetto alle tematiche iniziali di "confine". Il confine, in questa esperienza, secondo il mio parere, si è configurato come un’assenza di confini tra i ragazzi del Liceo Manzoni e i ragazzi della Casa Circondariale, sia a livello fisico sia a livello degli argomenti materia di dialogo". Torino: "Meditazioni sul Cantico dei Cantici" detenute e future avvocate recitano insieme di Ilaria Dotta La Stampa, 11 maggio 2017 "Se lo meritano di stare qua dentro - dice Marica. Avrebbero dovuto pensarci prima". Dall’altro lato della sala, mentre nelle ultime file si alza il brusio di disapprovazione di un gruppo di detenuti, le risponde Chiara: "Tutti possono sbagliare, bisogna dare una seconda possibilità". Eccole, le voci del mondo di fuori. A portarle tra le mura del carcere sono le future avvocate torinesi, 12 studentesse del primo anno di Giurisprudenza che frequentano il corso di Filosofia del diritto del professor Claudio Sarzotti e che nella Casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino ci sono entrate come attrici per prendere parte a "Metà - Meditazioni sul Cantico dei Cantici". Uno spettacolo nato nell’ambito del laboratorio di Teatro e Società, con il sostegno dalla Compagnia di San Paolo, in programma fino a martedì nella sala teatrale delle Vallette. Lo spettacolo - Sul palcoscenico, dove si declamano poesie in diverse lingue, si canta e si abbozzano coreografie di danza accompagnate da versi biblici, le detenute e i detenuti mettono in scena se stessi. "Non vogliamo soddisfare chissà quale ambizione di diventare attori, ma far passare un messaggio, far capire che siamo persone prima che carcerati", spiega Francesco nel breve tragitto che dalla cella lo porta al teatro. A 54 anni, è una presenza fissa nella compagnia del regista Claudio Montagna. Quest’anno per la prima volta sul palco salgono anche 8 donne della sezione femminile, che hanno aderito al laboratorio di canto e recitazione corale condotto da Nicoletta Fiorina e Giovanni Ruffino con il Gruppo Abele. Spavalde e vivaci dietro le quinte, in scena si commuovono ai primo applauso. "C’è tanto di noi in questo spettacolo - spiega Marina, che a 31 anni è la più giovane -. Si parla spesso di sovraffollamento delle carceri, ma ci sono altri temi che non vengono mai affrontati. Non si parla di sentimenti, non si parla di sesso. Ci si vergogna a dire che qui dentro cambia tutto, che quello che manca di più sono gli affetti". È proprio di questo senso di incompiutezza che accompagna i sentimenti di chi vive la reclusione che parla lo spettacolo. "Secondo la Costituzione il carcere dovrebbe privare il condannato solo della libertà personale - spiega l’aspirante avvocata Giulia. In realtà toglie ben altri diritti, come quello all’affettività. Una questione affrontata in altri Paesi con lo strumento delle visite coniugali e che ancora aspetta una risposta dal nostro legislatore". E questo concetto Giulia lo ripete durante lo spettacolo, alzandosi tra il pubblico, codice alla mano. Il pubblico - Quel pubblico, 120 spettatori per ogni recita a cui si aggiungono 30 interni, che per raggiungere la sala deve superare i controlli di sicurezza e poi percorrere un lungo corridoio. Chiavistelli che si aprono e subito si richiudono, sbarre alle finestre e vista sui calcinacci nel cortile. Una volta varcata la porta del teatro, la sensazione è di trovarsi in uno spazio diverso. Una finestra sul mondo, da cui raccontare i sogni, la solitudine e le paure di uomini e donne dimezzati. "Chiusi e privati dei sentimenti, tra noi e le persone che amiamo ci sono delle sbarre che ci chiudono - dice sul palco Khalil. Chiudono noi e chiudono loro. Qui i nostri tempi diventano un misto caotico di desideri". Piaceri semplici, come andare in bicicletta, portare i figli a mangiare un gelato, sdraiarsi sull’erba. E il timore di non farcela, di non sapere più, una volta fuori, "distinguere il vaso sul davanzale da un campo di grano". La paura di non ritrovare più gli affetti e la capacità di amare. Quella metà di se stessi che si è persa. Siena: contradaioli in carcere per giocare a calcetto con i detenuti antennaradioesse.it, 11 maggio 2017 Partite di calcetto tra i detenuti di Santo Spirito e le squadre delle contrade. È l’iniziativa che ha preso il via nello scorso fine settimana, nell’ottica dell’integrazione del carcere nel contesto sociale cittadino. I primi a scendere sul terreno in erba sintetica del campetto di calcetto, realizzato di recente nella casa circondariale grazie all’Uips di Siena, sono stati i contradaioli della Selva, capitanati dal presidente di società Lorenzo Lorè. Sabato prossimo 13 maggio sarà la volta del Nicchio, la contrada "di casa" vista l’ubicazione del carcere. Il calendario è fitto di appuntamenti, dato che sono già in programma le partite con la Chiocciola, la Pantera e il Leocorno. Al capitano di tutte le rappresentanze contradaiole verrà donata dai detenuti una tela realizzata nell’ambito del laboratorio interno di pittura e raffigurante il simbolo della contrada. L’iniziativa si colloca nel solco delle attività di tipo rieducativo e risocializzante che vengono svolte all’interno della casa circondariale. In tal senso lo sport è uno degli strumenti per il recupero delle persone detenute, attraverso la promozione delle relazioni sociali, l’affermazione del rispetto delle regole e della correttezza dei comportamenti. Tutte le partite verranno disputate con lo spirito ben descritto da Nelson Mandela "Lo sport ha il potere di cambiare il mondo, ha il potere di ispirare, di unire le persone in una maniera che pochi possono fare e soprattutto ha il potere di creare speranza dove c’è disperazione". Conflitti e resistenze nel cinema di Human Rights Nights Festival di Bologna emiliaromagnacreativa.it, 11 maggio 2017 Intolleranza e razzismo, rifugiati e migrazioni, ambiente e cambiamento climatico, prigioni e privazioni della libertà, giovani, donne e spiritualità e al centro di tutto i diritti umani. Anche il cinema lancia messaggi forti per sostenere le battaglie portate avanti dal Festival Human Rights Nights, con oltre trenta proiezioni sul grande schermo del cinema Lumière di Bologna e con conferenze, dibattiti e workshop alla presenza di registi, attivisti, Ong, studiosi e giornalisti. Si inizierà il 10 maggio alle 20:00 con Geumul (The Net) del coreano Kim Ki-Duk, produzione del 2016 che racconta l’attualissima storia del rapporto tra la Corea del Nord e la Corea del Sud attraverso l’esperienza di un pescatore del Nord, sospinto dalla corrente nelle acque del Sud a causa di un guasto al motore. La proiezione sarà introdotta da Gianluca Farinelli (Cineteca di Bologna), Marco Antonio Bazzocchi(Università di Bologna) e Giulia Grassilli (Human Rights Nights). La parte cinematografica del festival proseguirà fino al 14 maggio, con film da tutto il mondo. Tra questi anche l’americano Cries from Syria di Evgeny Afineevsky, che si focalizza sui manifestanti bambini, sulle icone della rivoluzione, sugli attivisti e i loro parenti e sui generali dell’esercito di alto rango che disertano per unirsi alle proteste della gente comune (12 maggio, ore 20:00), La prima meta, di Enza Negroni, che fa conoscere la squadra di rugby Giallo Dozza, formata dai detenuti del carcere di Bologna (13 maggio, ore 18:00) e Io sto con la sposa, di Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande e Khaled Soliman Al Nassiry, che ha visto proprio Del Grande al centro di un caso internazionale perché arrestato, e poi rilasciato, dalla polizia Turca mentre era impegnato nel progetto "Un partigiano mi disse", dedicato alla guerra in Siria e alla nascita dell’Isis (13 maggio, ore 22:00). Migranti. Cpr: pronta la lista del Viminale, Sindaci e governatori protestano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 maggio 2017 I Centri Permanenti di Rimpatrio per gli irregolari dovrebbero ospitare al massimo 100 immigrati. Perplessità per l’utilizzo delle strutture di Iglesias e Santa Maria Capua Vetere. Nel Cie di Ponte Galeria a Roma ci sono 97 donne, la maggior parte delle quali è richiedente asilo. Localizzate le strutture per i nuovi centri di rimpatrio e scattano le prime polemiche da parte di alcune amministrazioni coinvolte. È pronta la lista dove collocare le nuove strutture di identificazione ed espulsione per migranti fortemente volute dal ministro degli interni Marco Minniti. Si tratta in totale di undici strutture, in parte già utilizzate per i vecchi Cie. Per ora sono 1.100 i posti totali previsti per i nuovi centri denominati Cpr (Centri permanenti per i rimpatri) che dovranno comunque aumentare nel giro di pochi mesi. In Lombardia è stata indicata la caserma di Montichiari; in Friuli Venezia Giulia il centro di Gradisca d’Isonzo; in Piemonte il vecchio Cie; nel Lazio il già esistente centro di Ponte Galeria, a Roma; in Campania la caserma Andolfato di Santa Maria Capua Vetere; in Basilicata si è scelto Palazzo San Gervaso; in Sardegna si è optato per il carcere dismesso di Iglesias; in Sicilia sarà rimesso a posto il Cie di Caltanissetta; in Emilia- Romagna il Cie di Modena; in Puglia il Cie di Bari Palese; in Calabria la struttura Mormanno. Al momento restano escluse dalla lista le regioni Veneto, Liguria e Toscana che però dovranno poi indicare dove sistemare almeno cento persone a testa nei prossimi mesi. Ogni Cpr accoglierà al massimo 100 immigrati - i posti dovranno essere in tutto 1600, preferibilmente fuori dai centri urbani e vicino agli aeroporti. Alla comunicazione della lista, ci sono state le prime reazioni da parte delle regioni coinvolte. Giovanni Toti, presidente della Regione Liguria finora esclusa nella lista ma obbligata ad indicare un posto, ha fatto sapere che ancora non ne sa nulla. Spiega che c’è un tavolo tecnico che sta lavorando al Viminale da qualche settimana ma non è stato più convocato un tavolo politico. La presidente del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani si è detta disponibile all’apertura di un Centro a Gradisca d’Isonzo (Gorizia) ma a determinate condizioni: la prima è quella della contestuale chiusura del Centro accoglienza per richiedenti asilo (Cara) che attualmente ospita 480 immigrati; in secondo luogo, l’impiego per il controllo del Cpr delle Forze dell’ordine che non siano già impegnate nella sicurezza del territorio che, anzi, dovrà essere maggiormente presidiato; infine, oltre al rispetto dei numeri prefissati e alla rapidità dei rimpatri, il personale operante all’interno del Cpr dovrà fornire tutte le garanzie professionali e le competenze che la situazione richiede. La regione Sardegna, invece, si riserva di far pervenire al ministero degli Interni la posizione da promuovere con il coinvolgimento dell’Anci e delle amministrazioni locali. "La proposta del ministero - si legge nel comunicato stampa regionale, riguarda l’ex casa mandamentale di Iglesias, da ristrutturare, per una capienza di 100 posti e giunge a seguito di ricognizione tecnica sui possibili centri già esistenti e funzionali, assieme ad altre 10 strutture dislocate nel resto d’Italia. Come condiviso in sede di Conferenza delle Regioni, la decisione definitiva presuppone l’accordo con la Regione che può, nel mentre, proporre alternative". E proprio sull’utilizzo dell’ex carcere sardo di Iglesias, è scoppiata una polemica. L’amministrazione comunale di Iglesias ha diffuso un comunicato esprimendo netta contrarietà al progetto. "La solidarietà vera e concreta - sottolinea il comune di Iglesias - si attua non ghettizzando i migranti ma mettendo in atto un progetto di solidarietà, di accoglienza e di integrazione sia umana che sociale, così come avviene, per esempio, con il progetto Sprar, attivato dalla nostra Amministrazione". Arrivano polemiche e preoccupazioni anche dalla Campania. Nell’ex caserma di Santa Maria Capua Venere c’era un Cie che fu smantellato per la pessime gestione. La preoccupazione sta nel fatto che la situazione possa ripetersi. Poi c’è il Lazio con l’utilizzo dell’attuale Cie di Ponte Galeria che dovrebbe essere ristrutturato per trasformalo in Cpr. Attualmente vivono rinchiuse 97 donne, la maggior parte di loro, in realtà, sono richiedenti asilo e bisognose di protezione e assistenza. Il nuovo Cpr, in teoria, dovrebbe ospitare - secondo la disposizione di Minniti - solo gli irregolari che rappresentano un rischio per la sicurezza del paese. In pochi però ci credono, soprattutto alla notizia che nella Regione Lazio mancano le strutture di accoglienza, tanto da non riuscire a far fronte ai nuovi diecimila profughi destinati soltanto a Roma e provincia. Alle polemiche delle amministrazioni locali, si aggiungono le critiche da parte delle associazioni che vigilano il rispetto dei diritti umani. "La scelta di aprire nuovi Cie è preoccupante e grave, chiediamo che sia immediatamente ritirata. I Cie devono essere chiusi tutti", commenta Gabriella Guido, la portavoce della campagna Lasciate-CIEntrare. "I fatti hanno dimostrato che sono strutture costose, inumane e degradanti - prosegue la portavoce - nelle quali si violano diritti fondamentali. Noi chiediamo alle forze politiche parlamentari di opporsi a questa decisione e al governo di ritirarla. Ci attiviamo sin da subito per rafforzare la nostra azione di osservatorio e segnalare in ogni sede il mancato rispetto dei diritti dei migranti". Migranti. L’inchiesta sulle Ong, indagati i volontari di Msf di Valentina Errante e Sara Menafra Il Messaggero, 11 maggio 2017 Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per alcuni componenti dell’equipaggio di Medici senza frontiere: avrebbero suggerito ai migranti di non collaborare con le forze di polizia sui dettagli del viaggio e incluso nella lista dei minori a bordo alcuni adulti. Il procuratore di Trapani Ambrogio Cartosio, davanti ai componenti della commissione Difesa del Senato, ieri non ha rivelato il nome dell’organizzazione non governativa sulla quale sta indagando il suo ufficio né dettagli sull’inchiesta: segreto istruttorio. Ma l’indiscrezione circola ugualmente. Cartosio, però ridimensiona le accuse che, nelle ultime settimane, hanno provocato una bufera politica proprio sulle ong: "Le indagini non coinvolgono le organizzazioni come tali, ma persone fisiche appartenenti alle ong. Allo stato registriamo casi in cui soggetti a bordo delle loro navi sono evidentemente al corrente del luogo e del momento in cui si troveranno imbarcazioni di migranti, ma non esistono contatti telefonici con gli scafisti". Intanto, dopo gli accordi di collaborazione tra Italia e Libia, ieri la Guardia costiera libica ha soccorso in acque internazionali e riportato nel porto di Tripoli un barcone con 300 migranti a bordo, avevano inviato una richiesta di soccorso alla centrale operativa di Roma della Guardia costiera italiana. L’indagine della squadra mobile di Trapani nasce a maggio di un anno fa, quando la "Dignity one", la nave di Medici senza frontiere sbarca 435 migranti, soccorsi due giorni prima in tre distinti interventi e partiti dalla Libia. Meno di una settimana dopo la polizia ferma un egiziano e un somalo accusati per favoreggiamento aggravato dell’immigrazione in concorso con ignoti. L’indagine non si ferma. Le testimonianze portano a identificare in alcuni componenti dell’equipaggio i presunti complici degli scafisti: avrebbero suggerito ai migranti di non collaborare. "Hanno detto di essere stanchi e di avere viaggiato tanto e non potere rispondere alle domande della polizia. Potrebbe essere un indottrinamento impartito a bordo - si legge in un’informativa - per indurre i migranti a non collaborare con le forze dell’ordine e il personale di Frontex". Ma il rapporto riferisce anche che nell’elenco dei 140 minori (81 non accompagnati) redatto dal personale della Ong sarebbero finiti anche alcuni adulti. Davanti alla commissione, Cartosio solleva una questione di diritto: "Sul piano penale - ha spiegato - si pone il problema dei limiti dello stato di necessità e, soprattutto, delle valutazioni dei giudici. Se per stato di necessità si intende la situazione di chi sta annegando è un conto, se invece si intende quella di chi si trova in un campo di concentramento libico, dove i trafficanti tengono sotto la minaccia delle armi persone violentate e torturate, è un altro conto e l’intervento attivo delle ong sarebbe lecito". E ancora: "La presenza di navi dei volontari in un determinato fazzoletto di mare - osserva il magistrato - sicuramente costituisce un elemento indiziario forte perché sono al corrente del fatto che in quel tratto arriveranno imbarcazioni. Ma non è sufficiente per incriminare qualcuno. Il dato - aggiunge - unitamente ad altri elementi, potrebbe costituire il compendio indiziario per supporre la partecipazione al reato". Msf, intanto, respinge le accuse: "Non siamo mai stati contattati dalla procura di Trapani per chiarimenti sulle nostre attività in mare. Rimaniamo tuttavia a completa disposizione". Ong cattoliche: "Giù le mani da chi soccorre i migranti" di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 11 maggio 2017 Forum Terzo settore. Attilio Ascani, direttore Focsiv: "Le illazioni fomentano odio, xenofia e ostilità generalizzata verso le ong". Chi calunnia il mondo delle ong danneggia anche a te, digli di smettere. È su questa falsa riga che arriva la tirata d’orecchi al governo, alla politica e ai mass media da parte delle ong del mondo cattolico, in testa la Focsiv - che con 78 associazioni è la più grossa federazione di realtà no profit italiane, più l’intera Associazione delle organizzazioni italiane della cooperazione e il Forum del Terzo settore che collaborano con i ministeri nell’ambito della cooperazione internazionale. Il Forum e l’Aoi in conferenza stampa ieri respingono le accuse alle ong che operano nel Mediterraneo nei soccorsi in mare ai migranti esprimendo "indignazione e condanna" verso i politici e i parlamentari che strumentalizzano "a fini elettorali" la campagna di denigrazione del mondo associativo. "Noi non ci occupiamo si salvataggi in mare - spiega al telefono Attilio Ascani, direttore della Focsiv - ma il Mediterraneo è solo l’ultima tappa del viaggio dei migranti, siamo in Africa, in Medioriente e poi in Italia nel circuito dell’accoglienza, e mai abbiamo avuto segnalazioni di collusione tra i trafficanti e i soccorritori. Diverso è il contatto per chiedere aiuto, è noto che il telefono di don Mosé Zerai è diffuso con un tam tam tra i migranti che si imbarcano in Libia per chiedere soccorso e l’anno scorso abbiamo premiato una ragazza che riceve e smista telefonate dai barconi. La priorità è salvare vite umane, per chi è cattolico e per chi no". È un "imperativo umanitario", ripete nel Marco Da Ponte di Actionaid. "Se la procura di Trapani trovasse prove di un passaggio di denaro - aggiunge Ascani - sarebbe gravissimo e da perseguire duramente, ma questa campagna senza prove sta già dando i suoi frutti velenosi, nuoce gravemente a tutto il mondo associativo, provoca un discredito generalizzato e alimenta reazioni di paura, di allontanamento e l’humus per attacchi xenofobi perché fa leva sul ventre molle dell’italiano medio che non vuole fare distinzioni o interrogarsi su fenomeni complessi". Il danno denunciato è a una realtà molto grande, un primato bello dell’Italia in Europa: le ong italiane mobilitano 600 milioni di euro nella lotta alla povertà e per lo sviluppo con 3 mila tra progetti e programmi di cooperazione, volontariato internazionale e aiuto umanitario in decine di Paesi, a volte e teatri di guerra e di disastri come dare cibo e medicine ai 30 milioni di sfollati per la carestia che sta attanagliando il Sahel e che potrebbero prendere la strada per la Libia senza un’altra prospettiva di sopravvivenza. Le ong italiane si avvalgono del lavoro di 82 mila volontari e sono sostenute finanziariamente al 50% da milioni di contribuenti con il 5 per mille della dichiarazione dei redditi (per altro in corso). Ascani ammette che la campagna denigratoria contro le ong umanitarie che sta andando avanti da un mese a questa parte "è trasversale", anche se nel mirino degli oratori della conferenza stampa di ieri sono state soprattutto le dichiarazioni del vice presidente della Camera Luigi Di Maio, sia per la sua carica istituzionale sia per la presa e la gravità del suo slogan sulle "ong-taxi". Il direttore della Focsiv ammette che a rafforzare il clima di sospetto attraverso illazioni ha contribuito anche l’Osservatore romano, quotidiano della Santa sede. "Probabilmente - è la sua spiegazione - anche lì si è creato un corto circuito tra le modalità poco trasparenti e le commistioni con organizzazioni di tipo cripto mafiose che gestiscono i grandi centri di accoglienza e le ong che fanno salvataggi in mare. Per questo noi siamo convinti che vadano privilegiati i piccoli centri come quello dei progetti Sprar. Ma le ong sono solo uno strumento, non un fine, e allora bisogna porsi la domanda cruciale: cosa succederebbe se non ci fossero, in Africa come in nel Mediterraneo?". No ai poliziotti sulle navi delle ong, secondo la proposta del M5S, viene espresso da Lia Quartapelle e Sandra Zampa del Pd, presenti alla conferenza stampa. "Sarebbe grave - dicono - perché metterebbe a rischio l’indipendenza e il carattere di intervento umanitario proprio delle ong". Per le due deputate non c’è "nessun bisogno di nuove leggi", semmai "dobbiamo impegnarci per l’attuazione della legge 125 del 2014", visto che il governo deve ancora dare il pieno riconoscimento "a tutte le ong". Una morte da stigma sociale di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 11 maggio 2017 Mentre scriviamo l’unica certezza è che le povere vite di una ragazza e di due bambine, le sorelle Elisabeth, Francesca e Angelica Halinovic, sono ormai cenere. Unico residuo delle loro esistenze bruciate nel camper incendiato nella zona di Centocelle dove vivevano con la loro famiglia composta dai genitori e da ben 11 figli. Troppo presto per capire il movente di questo omicidio, commesso con il lancio di una molotov e però davanti ad un centro commerciale munito di video-telecamere. Troppo presto - e già gli inquirenti lo escludono - per dire che il criminale sia stato mosso dall’odio xenofobo per i rom, tanto da fare ricorso ad un rituale plateale quanto sprovveduto; oppure se si tratta di un balordo mosso da risentimento o vendetta magari all’interno della stessa comunità rom, perché la famiglia delle ragazze uccise denuncia di essere stata intimidita. Certo non è lo stesso episodio di soli sei anni fa quando sempre a Roma, a Tor Fiscale, morirono quattro bambini in un rogo dentro un campo Rom, provocato da una stufetta. Ma sono troppi ormai gli "incidenti", una vera litania, che ci costringono a commentare queste morti nei luoghi della esclusione sociale che qualcuno preferisce definire - ieri le agenzie italiane lo ripetevano - "ambienti nomadi". Costringete alla chiusura e ghettizzazione un gruppo sociale che avete etichettato come diverso, sporco, dedito al furto, quasi etnicamente connotato per il malaffare; obbligatelo alla promiscuità interna senza collegamenti con il mondo esterno, alla marginalità. Ecco che questo stigma sociale diventerà esso stesso la motivazione del misfatto che si consuma. È quello che accade ai Rom in tutta Europa. Come dimenticare che l’ex premier francese Valls aveva costruito la sua fortuna elettorale pochi anni fa sulla cacciata da Parigi dei Rom. Una fenomenologia europea che rappresenta uno dei segnali, per tutti, della mancata integrazione sociale. Perché i rom sono stati cacciati dai luoghi d’insediamento storico, Slovacchia, Repubblica ceca, Bulgaria, ex Jugoslavia. E, pur non avendo mai fatto guerra a nessuno, sono stati costretti di nuovo alla fuga per salvarsi, a quel "nomadismo" che lombrosianamente i luoghi comuni della xenofobia vogliono ogni volta attribuirgli, come fosse una "caratteristica" stampata sulla loro pelle e nel loro sangue. Non è così invece. Alla loro stanzialità e sicurezza essi attendono ogni giorno, relegati però nei "campi", nella "emergenza" delle nostre società. Il progetto d’integrazione abitativa e prima ancora la scolarizzazione dei bambini rom, dovrebbero appartenere ad un programma progressista di svolta negli insediamenti urbani e in tutta Italia. Non è così. Anzi, spesso è proprio il contrario, con gli ultimi "nostrani" che si rivoltano, aizzati dall’estrema destra razzista, a ricacciare i nuovi esclusi ancora più sotto. Poco prima o appena dopo i rifiuti urbani, la monnezza. La retorica dunque non serve, né è utile rinnovare gli stessi, improduttivi interventi fin qui realizzati. Occorre anche una rivoluzione culturale. Pensate che effetto farebbe - proponeva Leonardo Piasere nel suo recente e bel saggio "L’antiziganismo" - se mettessimo la parola "ebreo" al posto delle parole "zingaro" "rom" o "nomade", e per un popolo che ha subìto con il Porajimos lo stesso sterminio nazista. Che effetto farebbe dunque sentir parlare di "Piano ebrei", del "Centro raccolta ebrei" e del "villaggio attrezzato per ebrei". Serve, com’è accaduto ieri a Centocelle, vicino Via Gordiani - in una zona a memoria almeno "pasoliniana", che lavora ed è attiva sull’integrazione - la reazione emotiva e politica degli abitanti che hanno visto consumarsi la tragedia vicino casa, sotto le loro finestre. Portano in tanti bigliettini e lettere di commiato e di dolore; e hanno scritto uno striscione, forse tardivo, ma vero e necessario: "Sono morti del quartiere". Inclusione e superamento dei campi Rom. Le vane speranze sulla giunta Raggi di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 maggio 2017 Molte promesse, stesse politiche di sempre: a Roma nord nuovo campo in costruzione. Era partita con la migliore delle intenzioni, la giunta pentastellata di Roma. Quando nel giugno 2016 Virginia Raggi si era insediata in Campidoglio aveva promesso, con un programma elettorale che le aveva fatto incassare più di 770 mila preferenze, "undici passi per portare a Roma il cambiamento di cui ha bisogno". Il sesto passo, riguardante le politiche sociali, "per ciò che concerne la gestione dei campi Rom" progettava di attuare "le misure già previste dalla Comunità Europea, come recepite dal Governo, relativamente al progressivo superamento dei campi stessi". La questione della mancata inclusione delle popolazioni Rom è talmente antica e complessa - nella capitale come nel resto d’Italia e in gran parte d’Europa - che dieci mesi possono risultare un tempo troppo breve per assistere ad un cambiamento sostanziale. Ma il problema è che, viceversa, la via scelta dalla giunta Raggi sembra ricalcare esattamente quella intrapresa dalle precedenti amministrazioni. "Il 21 novembre 2016 con una memoria di giunta era stato stabilito un cronoprogramma che partiva dalla costituzione di un tavolo istituzionale fino all’inaugurazione, entro il 31 marzo 2017, di un piano di inclusione e integrazione dei Rom", racconta Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio che ogni anno stila un rapporto sui diritti calpestati di Rom, Sinti e Camminanti. Ebbene, "quel piano non è mai stato prodotto e quindi ad oggi si può dire che la giunta Raggi, dopo dieci mesi di insediamento, non ha fatto nulla. Se non esprimere la volontà di dare vita, attraverso un bando, a un nuovo campo a Roma nord, per 600 persone con una spesa di 1,5 milioni di euro". Il bando, spiega Stasolla, era stato programmato dalla giunta precedente ed emanato l’8 luglio 2016, il giorno dopo l’insediamento di Raggi, ma a settembre la sindaca lo aveva congelato, per poi attivarlo di nuovo nel marzo scorso. "Ora speriamo di bloccarlo attraverso l’esposto che abbiamo presentato all’anticorruzione di Cantone, perché - precisa il presidente della 21 luglio - ci sono elementi che fanno ritenere che il bando sia stato costruito su misura dell’unico soggetto che poi si è effettivamente accreditato". Un’altra baraccopoli che si andrebbe ad aggiungere ai 7 campi istituzionali - Lombroso (con 200 persone), Cadoni (820), Gordiani (160), Castel Romano (900), Salone (662), La Barbuta (550), e il camping privato River (480) - ai 13 "campi tollerati", e, aggiunge Stasolla, ai "tanti "campi informali" come quello andato a fuoco ieri notte, micro insediamenti spesso rappresentati da un solo camper o poco più, dove noi stimiamo vivano 2200-2500 persone". Nel frattempo, per ordine della magistratura che ha bloccato i contratti stipulati con le cooperative coinvolte in Mafia capitale, sono stati chiusi i due "centri di raccolta" di Via Salaria e Via Amarilli dove finivano le famiglie Rom sgomberate, senza però provvedere ad un ricollocamento abitativo adatto. Molti sono finiti in strada. Anche Riccardo Magi, segretario di Radicali italiani, che da sempre si occupa di Rom, ricorda che "insieme alla 21 Luglio, A Buon Diritto, Arci e Possibile abbiamo portato in Assemblea Capitolina una delibera di iniziativa popolare per il superamento dei campi attraverso percorsi di inclusione, tra l’altro utilizzando i fondi che l’Europa destina a queste attività", ma "la cui discussione è stata rimandata". Stasolla esprime ora un timore. "Il contesto attuale è molto simile a quello del 2011, quando nell’incendio scoppiato nella baraccopoli di Tor Fiscale morirono quattro bambini Rom, mentre si stava costruendo il campo della Barbuta. L’allora sindaco Alemanno utilizzò quell’occasione per promettere l’intensificazione degli sgomberi degli insediamenti informali. Non vorremmo che anche questa volta la reazione fosse la stessa, che si intensifichino le azioni di sgombero e si trovino nuove motivazioni per costruire altri campi con la scusa di mettere le persone in sicurezza". Perché, indipendentemente dal tipo di odio che ha armato ieri la mano degli assassini delle tre ragazze Rom, come dice Magi, se non si affronta "la marginalità a cui sono costretti a vivere", "la situazione che abbiamo davanti agli occhi resterà drammaticamente immutata: comprese le ondate di sdegno popolare, che non di rado vengono alimentate e poi cavalcate per ragioni meschine legate al consenso, e che invece dovrebbero essere ricomposte assumendosi la responsabilità di governare il fenomeno". Lo Stato reagisca, espugnare le cittadelle fuorilegge di Carlo Nordio Il Messaggero, 11 maggio 2017 La prima considerazione, davanti al rogo della Casilina, è che non esistono limiti all’orrore. La nostra cultura, e il nostro stesso linguaggio, hanno così esorcizzato e rimosso il concetto di malvagità che ad ogni atto cruento si cerca di dare una spiegazione sociologica: colpa della ricchezza, colpa della povertà, colpa del consumismo, colpa del tramonto dei valori. E invece la cattiveria umana esiste: episodi come questo ci ricordano che, a causa di una evoluzione incompiuta e imperfetta, come ci dice Darwin, o per una dannazione originale, come insegna la Bibbia, la nostra natura conserva ancora elementi di brutalità impossibili da sradicare. Le magnifiche sorti progressive, teorizzate da chi crede in una nostra congenita mitezza, corrotta e pervertita dalla civiltà, si rivelano, ancora una volta, un’aspirazione infantile. La seconda considerazione è che se, come parrebbe, questo plurimo assassinio fosse il risultato di una rappresaglia tra clan, tutta la nostra politica di controllo territoriale andrebbe riconsiderata. I fatti di ieri sono atroci, ma non sono isolati. In molte cittadelle, se così vogliamo chiamarle, dove vivono e convivono persone di diversissime estrazioni culturali, le risse, le vendette e le violenze sfuggono al controllo dello Stato. Gli episodi denunciati sono in rapida progressione; quelli tenuti nascosti per sfiducia, timore o altro, sono forse ancora di più. In questa zona d’ombra di omertà e di silenzio, nascono e si moltiplicano le vendette private. Quella di ieri è particolare per la sproporzione tra causa ed effetto, e per l’efferatezza ignobile dell’esecuzione di bambini. Se si è arrivati a tanto, forse è anche perché questo problema di "enclave" a sovranità illimitata è stato sottovalutato. La terza considerazione è che l’indiscriminata colpevolizzazione di etnie o gruppi è non solo intollerabilmente razzista e giuridicamente criminale, ma è anche dannatamente stupida e contraddetta dalla realtà. Se, come pare, la rappresaglia intendeva punire chi aveva collaborato con lo Stato, denunciando gli autori di un odioso reato, ne emergerebbe che le vittime appartengono allo stesso gruppo che si tende, appunto, a distinguere e isolare. Un duro colpo per chi, anche senza incitare all’odio razziale, manifesta consolidati pregiudizi verso chi vive diversamente da lui. Perché questa è l’unica nota, per così dire, positiva, di questo dramma spaventoso. Quei tre ragazzini hanno pagato la colpa di appartenere a un gruppo dove qualcuno, ma evidentemente non tutti, considera la collaborazione con lo Stato come una sorta di tradimento blasfemo. Non sappiamo se questi coraggiosi, che avevano preferito affidarsi alla Giustizia piuttosto che cedere alla consuetudinaria connivenza, fossero, e siano, l’eccezione o la maggioranza. Ma anche se fossero pochi, anche se fossero gli unici, questa loro scelta, così duramente pagata, è sufficiente ad affrancare il loro popolo dalla discriminazione talvolta subdola, talvolta crudamente esibita. Se il Signore accettò di salvare un ‘intera citta di peccatori per la presenza di un solo giusto, anche noi dobbiamo riflettere sulle nostre diffidenze, che ieri sono state così a caro prezzo smentite. Stati Uniti. Trump riduce l’assistenza sanitaria nei Centri di detenzione per migranti di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 11 maggio 2017 Mentre la dialettica del presidente statunitense Donald Trump continua a sostenere il pugno di ferro contro l’immigrazione paventando muri sui confini e norme draconiane, le Ong statunitensi si interrogano sulle condizioni di detenzione dei migranti irregolari. Nel rapporto pubblicato in questi giorni "Indifferenza sistematica", Human Rights Watch e Civic, un gruppo di cittadini che chiedono la fine della pena detentiva per i reati connessi con l’immigrazione, denunciano la mancanza del servizio sanitario nazionale nei centri di reclusione dove sembra non raggiunga gli standard nazionali. Malati irregolari. Le accuse più pesanti riguardano i costanti ritardi nelle diagnosi che andrebbero ovviamente a incidere sull’efficacia delle cure. Criticata anche la preparazione del personale che in diversi casi è stata giudicata insufficiente. Questi risultati sono il frutto delle ricerche svolte da medici indipendenti sui registri delle indagini del governo su 18 morti sospette tra i detenuti nei centri di immigrazione nell’arco di tempo che va dal 2012 al 2015. A questi vanno ad aggiungersi i racconti di ex detenuti, familiari e avvocati che hanno vissuto in modo più o meno diretto il dramma della prigionia. La battaglia di Trump. "Nonostante i tentativi di riforma dell’amministrazione Obama - afferma Grace Meng, ricercatrice senior di Hrw - molte persone detenute nei centri per immigrati sono morte inutilmente. E dato che l’amministrazione Trump ha già annunciato di voler eliminare alcune riforme chiave per poter detenere ancora più immigrati, è probabile che più persone moriranno per malattie prevenibili". A spaventare dunque è la prospettiva di un maggior afflusso nelle prigioni di stato di migranti irregolari data la scarsezza dell’assistenza sanitaria al loro interno. Ramos e gli altri. Dei 18 decessi avvenuti nei centri detentivi, sette sono stati attribuiti all’inadeguatezza delle cure mediche. Tra le vittime del sistema sanitario nazionale c’è Raul Ernesto Morales Ramos morto di tumore nel 2015 nel centro di Adelanto in California. I sintomi ben presenti nei due anni precedenti al decesso sono stati ignorati dai medici che nonostante le preghiere del detenuto ne lo hanno visitato fino a un mese prima del suo decesso. Le storie di queste morti evitabili si susseguono e le assicurazioni del personale medico ascoltato dai ricercatori di Hrw che hanno sottolineato la prontezza di intervento laddove richiesto dai "pazienti detenuti" sono state smentite dai fatti e da storie come quella di Ramos. "Il numero dei casi che evidenziano una carenza medica - dice Christina Fialho, avvocato e direttrice esecutiva di Civic - chiede un’azione immediata. Le analisi dei medici indipendenti confermano quanto raccontato dagli ex detenuti. È tempo e passato di porre fine agli standard medici di basso livello che ogni anno danneggiano molte persone". Frontiere sicure, persone no. Quanto emerge dallo studio fornito dalle due Ong, il Dipartimento di Stato statunitense manca di mezzi pratici per ovviare in breve tempo al miglioramento degli standard sanitari all’interno dei centri di detenzione per immigrati. Come al solito il problema sono i fondi da destinare al miglioramento del sistema che con poca lungimiranza il presidente Trump ha in programma di allargare. Gli Stati Uniti ad oggi detengono circa 400mila persone l’anno per una spesa di due miliardi di dollari. Il Tycoon ha chiesto un supplemento di finanziamento di 1,2 miliardi per potenziare la capacità di circa 34mila posti letto, fondi che probabilmente verranno presi in parte da quelli stanziati per la sicurezza delle frontiere. "Una riforma vera e propria fatta per proteggere i diritti di uomini, donne e bambini in caso di detenzione per motivi di immigrazione - conclude Meng - dovrebbe includere le leggi che spesso prevedono la prigionia in modo insensato" L’Intifada dei detenuti palestinesi. Gli ordinari cattolici: "ascoltate il grido dei prigionieri" di Daniele Rocchi La Difesa del Popolo, 11 maggio 2017 Dal 17 aprile scorso è in atto uno sciopero della fame da parte dei prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane, "per la libertà e la dignità", come è stato definito dal suo promotore Marwan Barghouthi, leader di Al-Fatah in carcere da 15 anni. Sono circa 1.800 i prigionieri, su un totale di 6.500, di diverse carceri, Ashkelon, Nafha, Ramon, Hadarim, Gilboa e Beersheba, che da tre settimane rifiutano il cibo. "Richieste legittime e umane". - L’ambasciatrice in Italia dello Stato di Palestina, Mai Alkaila, illustrando alla stampa lo sciopero in corso, "una Intifada dei detenuti", ha spiegato che si tratta "dell’ultima scelta per ottenere una risposta alle loro legittime richieste, dopo aver perso la speranza che vengano rispettate le leggi e le Convenzioni internazionali che garantiscono i loro diritti umani all’interno delle carceri. Insistiamo sul fatto che le richieste dei detenuti sono legittime e umane, e per questo devono essere esaudite". In ballo "l’istallazione in prigione di telefoni pubblici per i detenuti palestinesi affinché possano comunicare con le loro famiglie"; "la regolarità delle visite ogni due settimane senza ostacoli da nessuna parte"; "i permessi ai detenuti di fare fotografie con le famiglie ogni tre mesi"; "l’aumento della durata della visita da 45 minuti a un’ora e mezza". E poi ancora "esami medici periodici, possibilità di essere assistiti da medici specializzati provenienti da fuori del carcere; rilascio dei detenuti ammalati, e in particolare di coloro che sono disabili o affetti da mali incurabili". I detenuti chiedono anche garanzie "di un trattamento umano durante il loro trasporto; fine della politica d’isolamento e della politica di detenzione amministrativa, permesso per i detenuti di avere libri, giornali, indumenti e cibo e di tenere gli esami di maturità (Tawjihi) in modo ufficiale e condiviso". In questi ultimi giorni, ha denunciato l’ambasciatrice, "i detenuti non possono ricevere visite dai loro parenti e dai loro legali e sono sotto la costante minaccia di ricevere la nutrizione forzata permessa da una legge di Israele ma ritenuta dalle Organizzazioni internazionali, Onu in testa, una forma di tortura degradante che mette a rischio la vita di chi è in sciopero della fame". "Ascoltare il grido dei prigionieri" - Un sostegno ai detenuti è venuto dalla Commissione "Giustizia e pace", che opera in seno all’Assemblea degli Ordinari cattolici di Terra Santa, che nei giorni scorsi ha diffuso una nota in cui invita "le autorità israeliane a sentire il grido dei prigionieri, rispettare la loro dignità umana e ad aprire una nuova porta verso la costruzione della pace. L’obiettivo di questo atto disperato è quello di far luce, sia a livello locale che internazionale, sulle condizioni disumane in cui sono detenuti dalle Autorità israeliane". I detenuti invocano il rispetto dei loro diritti umani e della loro dignità, come riconosciuto dal diritto internazionale e dalla Convenzione di Ginevra, e la fine della detenzione amministrativa. Come cristiani siamo inviati a lavorare per la liberazione di ogni essere umano e per la creazione di una società umana in cui ci sia uguaglianza per tutti, israeliani e palestinesi". L’impegno della Chiesa cattolica locale nelle carceri di Israele. Ed è proprio sulla direzione segnata da queste ultime parole che si muove la pastorale delle carceri del Patriarcato Latino di Gerusalemme, voluta più di 20 anni fa dall’allora patriarca latino di Gerusalemme, oggi emerito, Michel Sabbah. Padre David Neuhaus ne è il responsabile e coordina, con padre Kirill Kozlovsky, un team di oltre 10 persone, tra cui sacerdoti, religiosi e religiose e laici: "Attualmente - dice padre Neuhaus - assistiamo un centinaio di detenuti cristiani, tra loro anche donne e qualche ortodosso, in cinque carceri. Non si tratta - spiega - di detenuti politici, in quanto ci viene permesso di incontrare solo quelli condannati per crimini comuni che vanno dal traffico di droga all’omicidio e con pene più o meno lunghe. Sono di diverse nazionalità, arabi cristiani, eritrei, ucraini, russi, filippini, nigeriani, indiani, rumeni, etiopi e latino-americani, soprattutto colombiani arrestati per traffico di droga". In genere nelle nostre visite, che avvengono una volta al mese portiamo un po’ di conforto, parliamo, preghiamo. A Natale e a Pasqua possiamo celebrare la messa. Chi vuole può confessarsi ". "I detenuti - racconta il sacerdote - sono felici di queste visite, riceviamo sempre una bella accoglienza. Da parte nostra cerchiamo anche di facilitare le visite dei familiari. In alcuni casi siamo un tramite per le famiglie per portare anche aiuto finanziario ai loro congiunti in carcere. Ma accade anche che siano i detenuti a mandare soldi alle famiglie, almeno quelli cui è permesso lavorare in prigione". Una via di dialogo. Assistere i detenuti cristiani nelle prigioni israeliane ha, inoltre, un altro risvolto "molto positivo" ed è legato al dialogo interreligioso. "Il nostro servizio - sottolinea padre Neuhaus - è reso possibile grazie anche alla collaborazione con i rabbini delle varie prigioni. Ci coordiniamo con loro per tutto quello che riguarda le nostre visite. Un lavoro che facilita il dialogo con ebrei ed è molto bello soprattutto perché i rabbini che dirigono il lavoro nelle prigioni sono persone consacrate all’aiuto di questi poveri con un ideale molto simile al nostro. Non si pensa a cristiani e a ebrei ma al bene dei prigionieri". Con la speranza concreta che sia così anche in questa vicenda. Romania. Nuove proteste contro la legge che concede l’amnistia di Stefania Ema Radavoiu ultimavoce.it, 11 maggio 2017 La Romania rischia di infuocarsi nuovamente a causa della legge sull’amnistia che il Parlamento vuole approvare. In Romania i cittadini si sono di nuovo riuniti davanti alla sede del Governo per protestare, ancora una volta, contro una legge giudicata inaccettabile. In centinaia sono giunti davanti al Parlamento, a Bucarest, per dire la loro sul progetto di legge sul sovraffollamento delle carceri. La legge è stata pensata come soluzione all’eccessivo numero di detenuti e prevede l’amnistia, o la diminuzione della pena, per determinate categorie di condannati. Vari emendamenti sono stati proposti, alcuni volevano inserire la possibilità di grazia anche a coloro che si erano resi colpevoli di abuso d’ufficio o di corruzione. Proprio contro questi emendamenti, i cittadini romeni hanno protestato, chiedendo al Parlamento di non accettarli. La legge prevede, anche in seguito alle modifiche apportate, la piena grazia ai condannati fino a 3 anni, la grazia ai condannati dai 6 ai 10 anni per gli ultrasettantenni (la pena viene dimezzata nel caso si abbia più di 60 anni); l’amnistia verrà concessa anche alle donne in stato di gravidanza, sempre condannate dai 6 ai 10 anni. Traian Basescu, ex presidente della Romania (in carica per due mandati, dal 2004 al 2014), ha espresso opinioni contrastanti sulla legge. In un primo momento si è mostrato favorevole, annunciando il suo pieno appoggio alla legge. Essa, secondo l’ex presidente, sarebbe stata una sorta di grazia nei confronti della stessa Romania. Con la sua approvazione, a molte persone sarebbe stata offerta la possibilità di "rientrare in carreggiata". Basescu stesso ha proposto alcuni emendamenti, piuttosto controversi, in quanto prevedevano la scarcerazione dei corrotti. Emendamenti poi respinti dal Senato. L’iniziale opinione favorevole è poi scemata, forse proprio a causa del rifiuto delle sue proposte. Ora Basescu sostiene che il Governo farebbe bene a ritirare la legge, in quanto essa "libera i ladri, ma mantiene carcerati medici e professori". Sarebbero, quindi, proprio le persone meritevoli di una seconda chance, a non trarre alcun beneficio. Al di là della posizione di Basescu, quello che è innegabile è che la legge suscita un certo scetticismo e vari dubbi sulla sua correttezza, moralità nonché utilità. Coloro che potenzialmente beneficeranno delle legge sono poco più di mille. Mentre sono necessari oltre 8.000 nuovi posti, con uno standard di 4 mq a detenuto. Oltre allo spazio mancante, anche le condizioni detentive necessitano di grandi miglioramenti. Venezuela. Le Ong aggravano il bilancio: 44 morti lettera43.it, 11 maggio 2017 Bollettino sempre più sanguinoso quello seguito alle proteste antigovernative: Quasi 2 mila i manifestanti catturati, oltre 600 quelli ancora detenuti. Dall’inizio dell’ondata di proteste antigovernative che si susseguono in Venezuela da oltre un mese, 44 persone sono morte e quasi 2 mila sono state arrestate dalle forze di sicurezza. A diffondere i dati sono i bilanci presentati da Ong non legate al governo. Il numero di vittime - superiore alla cifra ufficiale della procura Nazionale, che è ferma a 36 morti - è stato fornito dall’Osservatorio venezuelano di conflittualità sociale (Ovcs), che ha registrato 946 manifestazioni di piazza contro il governo, in tutto il Paese, dal 4 aprile al 7 maggio scorsi. In quanto agli arresti, secondo il Foro penale venezuelano (Fpv) 1.991 manifestanti sono stati catturati in queste settimane dalle forze dell’ordine, dei quali almeno 635 sono ancora detenuti. A questi devono aggiungersi 97 manifestanti che devono ancora essere portati in tribunale. Argentina. In migliaia a Plaza de Mayo contro lo sconto di pena ai militari Corriere della Sera, 11 maggio 2017 La manifestazione contro una sentenza della Corte Suprema porta in piazza decine di migliaia di persone: no allo sconto di pena ai militari accusati di lesa umanità. Decine di migliaia di argentini hanno respinto in una manifestazione nella storica Plaza de Mayo una sentenza della Corte suprema per la quale i militari accusati di delitti di lesa umanità, e che sono in carcere, possono contare i giorni già trascorsi in prigione in modo doppio ai fini della loro condanna definitiva. La sentenza, definita "del 2x1", è stata approvata qualche giorno fa ed ha subito suscitato un’ondata di reazioni nel paese, dove quella dei "desaparecidos" rimane una ferita aperta. La decisione della Corte riguarda un unico caso ma potrebbe aprire le porte della impunità anche nel caso di circa 750 militari. Il fazzoletto bianco - A reagire con grande celerità è stato il parlamento, con una legge approvata all’unanimità che punta ad un’interpretazione della sentenza che impedisca di fatto ai militari di usufruire di tale agevolazione. Mercoledì sera, in Plaza de Mayo, sono state invece decine di migliaia le persone (alcune fonti parlano di 100 mila partecipanti, tra le quali "madres" e nonne di "desaparecidos") che hanno urlato il proprio "no". Molti dei manifestanti portavano un fazzoletto bianco, il segno distintivo delle madri. Marce di protesta simili sono state organizzate anche in altre città, mentre il governo di Mauricio Macri ha espresso il proprio dissenso nei confronti della sentenza, precisando comunque che la Corte va sempre rispettata. Stati Uniti. Carcerati addestrano i cani ad assistere i malati di sindrome post-traumatica di Giulia Merlo La Stampa, 11 maggio 2017 Tutti hanno una seconda possibilità: è questo che stanno imparando i detenuti di una prigione del New Jersey, dove addestrano cani randagi ad essere cani di servizio per aiutare i veterani dell’esercito che soffrono di sindrome post traumatica da stress. Il programma dura 12 settimane e i detenuti sono entusiasti. "Questo programma mi sta aiutando a curare la mia dipendenza e anche la depressione. Gli animali ci aiutano ogni giorno e noi siamo in grado di restituire qualcosa alla comunità", ha detto Scott, uno dei detenuti. I detenuti che hanno bisogno di compagnia, infatti, possono accudire il cucciolo che addestrano, fino a quando il veterano non lo adotta. Il senso del progetto, inoltre, è quello di insegnare ai detenuti qualcosa, oltre che di aiutare i veterani. "In questo modo diamo ai detenuti delle competenze che potranno usare una volta liberi, e i veterani beneficiano di questi cani, perfetti per aiutarli a superare sindromi post traumatiche e depressione", ha raccontato uno degli organizzatori. Questi progetti, oggi, sono sempre più diffusi nelle prigioni americane e hanno molto successo, sia tra i veterani che tra i detenuti, ma anche per i cani è importante: in questo modo animali randagi riscoprono l’amore e soprattutto diventano parte della vita di una persona che ha davvero bisogno di loro.