Battuta d’arresto sull’introduzione del reato di tortura di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2017 Alla fine il disegno di legge sul reato di tortura non viene neppure esaminato dall’Aula del Senato. Torna invece in discussione davanti alla commissione Giustizia che dovrà valutare gli emendamenti presentati dai due relatori Enrico Buemi (Psi-Per le Autonomie) e Nico D’Ascola (Ap) per eventuale subemendamenti (il cui termine è stato comunque fissato alle 11 di domani). Alchimie parlamentari che non nascondono le difficoltà all’interno della maggioranza su un testo da sempre ad alta tensione. Buemi però ora assicura che dopo gli emendamenti l’accordo nella maggioranza è stato trovato. Tuttavia il testo che doveva essere esaminato in Aula ieri pomeriggio fa un passo indietro e questo dopo un via libera che lo stesso Senato aveva dato ancora nel 2014 (ma l’anno dopo il disegno di legge venne cambiato dalla Camera). Di certo c’è poi ancora che un nuovo passaggio alla Camera sarà a questo punto necessario, visto che il tormentato provvedimento è stato ancora una volta cambiato. "Siamo arrivati a una mediazione accettabile - spiega la senatrice e capogruppo di Mdp Maria Cecilia Guerra - un giusto compromesso tra la definizione del reato e la precisazione che non può essere considerata tortura l’azione di un pubblico ufficiale nell’ambito della legittimità delle sue funzioni, ma solo quando ci sia l’aggravante dell’abuso di potere". Nel primo emendamento messo a punto dai relatori si introduce un altro elemento alla fattispecie di reato e cioè che il fatto deve essere "commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante". Il secondo, "più politico", come spiega lo stesso Buemi, specifica che non si può parlare di tortura nel caso di "sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative dei diritti". Cioè si vuol specificare "che se magari l’agente rompe il braccio ad uno mentre lo arresta - semplifica Buemi - non si può far rientrare nella tortura". Alla fine la linea del compromesso con la componente centrista della coalizione, più attenta alla necessità di tutelare anche le forze dell’ordine nell’esercizio delle funzioni, passa anche dall’introduzione di un reato che non ha come soli autori i pubblici ufficiali, ma che, quando sono questi ultimi a commetterlo, prevede un ‘aumento delle sanzioni. Con una pena che può arrivare da un minimo 5 a un massimo di 12 anni. Restano invariati gli altri punti chiave del provvedimento, presentato a inizio legislatura dal senatore Pd Luigi Manconi. L’assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento penale è stata più volte censurata in sede europea, da ultimo dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa poche settimane fa. Tortura, si ricomincia dalla "mediazione" con le forze dell’ordine di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 maggio 2017 Nuova interruzione dell’iter del ddl. I lavori rinviati alla settimana prossima (forse). Prima però la maggioranza trova l’accordo in due emendamenti che allontanano il testo dalla Convenzione Onu. Tre minuti. Tanto è durata la sessione di lavori del Senato dedicata alla legge che introduce il reato di tortura, dopo uno stand by di dieci mesi. Giusto il tempo, per il presidente di turno Maurizio Gasparri, di annunciare i due emendamenti presentati dai relatori, in ritrovata sintonia, - il socialista Enrico Buemi e Nico D’Ascola di Ap - e aggiungere: "Il termine per la presentazione dei subemendamenti è previsto per le 19 di giovedì 11 maggio, pertanto il seguito dell’esame del provvedimento è rinviato ad altra seduta". Data da destinarsi. In teoria forse anche la settimana prossima, ma il M5S denuncia la "volontà politica" di affossare il ddl. La "mediazione" tra i partiti di governo e con i principali avversari della nuova fattispecie di reato - i sindacati delle forze dell’ordine - ha prodotto i due emendamenti all’articolo 1 che fanno rientrare dalla porta ciò che era stato buttato dalla finestra. Se a luglio tutto si era bloccato dopo che dal testo era sparito il requisito della "reiterazione delle violenze e delle minacce gravi" nella fattispecie di reato, ora il primo dei due emendamenti "di mediazione", come li ha etichettati lo stesso Buemi, prevede che "il fatto" debba essere "commesso mediante più condotte". Il secondo emendamento, che Buemi definisce "più politico", esclude invece il reato nel caso di "sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative dei diritti". L’intenzione è difendere l’uso legittimo della forza a seguito di un ordine impartito. In sostanza, come spiega il relatore, di mettere al riparo l’eventuale "agente (che) rompe il braccio ad uno mentre lo arresta". Azione che "non si può far rientrare nella tortura". "Siamo di fronte ad un’innovazione vera", esulta la presidente dei senatori di Mdp Cecilia Guerra, considerando i due emendamenti come il giusto compromesso tra i desiderata delle forze di polizia e il dettato Onu. Di tutt’altro avviso invece Amnesty International Italia e Antigone i cui presidenti si augurano che la nuova interruzione dell’iter sia breve e soprattutto "dia modo di migliorare il testo, rendendolo il più vicino possibile alla Convenzione Onu". E anche il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, che ricorda bene le torture inflitte durante il G8 di Genova, smentisce che l’accordo di maggioranza sia definitivo: "Non mi risulta. La discussione è ancora in atto". Il ministro Minniti: "difendo chi ha paura, ma a sparare sia solo lo Stato" La Repubblica, 10 maggio 2017 Forum con il ministro dell’Interno: "Combattere l’illegalità è di sinistra. Ho disposto controlli in 2mila centri per rifugiati e per fermare le infiltrazioni i nuovi contratti di affidamento saranno scritti dall’Anac". "Il lavoro che ho cominciato al Viminale quattro mesi fa può piacere o meno. Ma è figlio di un metodo, di un disegno, e di una certezza. Che sulle questioni della nostra sicurezza, si chiamino emergenza migranti, terrorismo, reati predatori, incolumità e decoro urbano, legittima difesa, non si giocano le prossime elezioni politiche. Ma il futuro e la qualità della nostra democrazia. La tenuta del tessuto connettivo del Paese. A chi mi accusa di essere di destra perché lotto per governare il senso di paura e l’illegalità, dico che lo faccio non perché sono il ministro dell’Interno, ma perché sono un uomo di sinistra. Che si sente a posto con la sua storia. E da uomo di sinistra, ad esempio, ho disposto in queste ore 2.130 ispezioni ministeriali nei centri di accoglienza per migranti. Anche quelli attivati in via d’urgenza. Perché solo chi è credibile nella repressione dell’illegalità, anche domestica, può essere creduto quando pretende di affermare legalità". Per due ore, ospite del Forum nella redazione di Repubblica, il ministro dell’Interno Marco Minniti affronta senza diplomazie i nodi di un’agenda politica impiccata da mesi alle parole d’ordine di una campagna politica giocata sui temi della sicurezza. E prova a rovesciare la narrazione della destra leghista e del populismo pentastellato. Ministro, cominciamo dalla cronaca di queste settimane. Dai migranti. La vicenda delle sospette collusioni tra Ong e trafficanti di uomini ha riproposto un canovaccio che, all’osso, suona così: "L’Italia è il Paese che fa servizio taxi sotto costa per i boat people. Il Paese in cui si arriva per poi sparire nel nulla. Dove chi deve essere rimpatriato non lo è e le mafie si arricchiscono e riciclano con il business dell’accoglienza". "Il populismo vive e ingrassa della paura del Paese. E per tenere viva la paura è necessario coltivare un’ossessione. Cosa che è possibile fare raccontando agli italiani come sia semplice ciò che non lo è ed elidendo dal discorso pubblico quello che non fa comodo dire e dirsi". Cosa verrebbe taciuto? "Provo ad andare con ordine. La partita dei flussi migratori si gioca fuori dai confini nazionali e non riguarda o coinvolge solo l’Italia. Ha a che fare con l’Europa e l’Africa. Oggi e per i prossimi 15 anni. Io avrei potuto fare e dire, e non sarei stato il primo, che il problema è ciò che deve fare l’Europa. E invece ho deciso di dimostrare che l’Italia è in grado di fare. E ora, forte di questo, posso chiedere che l’Europa si assuma le sue responsabilità. Mi spiego. I dati indicano che, nel 2016, i flussi di migranti della rotta balcanica occidentale sono diminuiti dell’86 per cento, quelli della rotta balcanica orientale del 72 e, al contrario, quelli del Mediterraneo centrale aumentati del 18. Questo significa che lo sforzo finanziario assunto dall’Europa con la Turchia, 6 miliardi di euro, ha consentito di arrestare di fatto il flusso dai Balcani e che la partita si gioca dunque di fronte alle nostre coste. Bene. C’è un ulteriore dato che indica come il 90 per cento dei flussi del Mediterraneo arrivi dalla Libia. E questo consente di focalizzare ancora di più l’origine del problema. E allora, io dico che, oltre ad aver lavorato per la stabilizzazione politica di quel Paese, in quattro mesi, abbiamo firmato un accordo con il governo libico e che, entro fine giugno, la Libia avrà a disposizione le 10 motovedette che ci siamo impegnati a consegnarle - due sono già operative da fine aprile - con equipaggi già formati e con cui pattugliare le sue acque territoriali. Ricordo anche che, a Roma, le tribù del sud del Sahara, quelle in grado di presidiare il traffico di uomini diretto a Sabrata e da lì alle nostre coste, hanno firmato una pace che consentirà di rendere quel corridoio presidiabile. Ricordo infine che, nei giorni scorsi, a chiusura di questo circuito virtuoso, la Commissione europea ha stanziato 90 milioni di euro per la costituzione di campi di accoglienza sul territorio libico sotto la responsabilità dell’Unhcr e dello Iom, il che, oltre a impedire la vergogna di campi di concentramento gestiti da scafisti, renderà più agevoli le procedure di rimpatrio volontario assistito. Questo per spiegare cosa intendo quando parlo di metodo. E perché dico che oggi l’Italia è più forte e autorevole nel chiedere all’Europa uno sforzo". Rispettando ad esempio l’accordo disatteso sui ricollocamenti? "A dire il vero, abbiamo raggiunto ormai i 5.400 ricollocamenti. E ho personalmente siglato un accordo con la Germania per un ricollocamento di circa 500 migranti al mese. Il problema è un altro. Quell’accordo è diventato inutile semplicemente perché è "invecchiato". Mi spiego. Nel 2016, le nazionalità dei migranti erano principalmente irachena, siriana e somala. Oggi quei gruppi etnici non sono più presenti nei flussi e quindi c’è poco da ricollocare. Oggi, le prime tre etnie di migranti provengono da Nigeria, Bangladesh e Guinea. Quindi, ad esempio, è necessario che l’Europa aggiorni i suoi profili etnici per il ricollocamento. Ed è necessario che tutti comprendano la portata globale del fenomeno. Perché è evidente che chi, per 10 mila dollari, parte dal Bangladesh, raggiunge in aereo il Cairo o Istanbul e di lì viene preso dai carovanieri per essere condotto prima nel sud del Sahara e poi, a Sabrata e di lì sulle nostre coste con barconi, non sta sfuggendo a una guerra. È chiaro che, legittimamente, cerca opportunità di vita migliori e si affida all’unica industria sopravvissuta in Libia. Quella dei trafficanti di uomini. Ora, il mio dovere democratico, sottolineo, democratico è chiudere quell’industria, toglierle agibilità lungo la rotta sahriana e punti di appoggio in Libia. Perché solo in questo modo, dando dimostrazione di governare l’illegalità, potrò allora parlare di accoglienza nel solo modo che conosco". Quale? "Coniugandola con integrazione. Perché chi oggi pensa che i due termini, accoglienza e integrazione, non debbano andare di conserva e non dipendano l’uno dall’altro non mette a rischio i destini della sinistra in Italia, mette a rischio il futuro del Paese. Se io sono credibile su questo, sono credibile quando, come ho fatto in queste ore, chiedo 2.130 ispezioni nei centri di accoglienza e quando firmo accordi con l’Anci per l’accoglienza diffusa o quando ottengo il voto del Parlamento sul decreto sicurezza". Converrà che sui centri di accoglienza c’è un problema di infiltrazione mafiosa. "È il motivo per cui ho disposto le ispezioni ed è il motivo per cui, con la collaborazione dell’Autorità nazionale anticorruzione, abbiamo predisposto un nuovo tipo di contratto unico che prevede tre novità. La fine del gestore unico, la separazione dei lotti e l’aumento dei poteri ispettivi del ministro dell’Interno". Si obietta, è stato fatto anche dalle colonne di "Repubblica" da Roberto Saviano, che il segno complessivo di queste politiche è una concessione alla pancia del Paese. Alle parole d’ordine della destra. "Vi racconto un episodio. Nel 1999, ero un giovane sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, andai a Bologna per un’iniziativa politica sulla sicurezza. Arrivai armato di statistiche non molto diverse da quelle che abbiamo oggi e che indicavano i delitti cosiddetti predatori in calo. E conclusi spiegando che non vedevo dove fosse il problema. Un vecchio compagno si alzò dalla platea e mi disse: "Se vieni qui a raccontarci le statistiche non hai capito niente di noi, di Bologna e del Paese". Per inciso, a Bologna vinse Guazzaloca e io quella lezione non l’ho dimenticata. E suona così. Io non posso combattere la paura biasimando chi ha paura. Io devo aiutarlo a liberarsi dalla paura. La sicurezza è un sentire. E la cosa più impegnativa, dunque, è il sentirsi, che è qualcosa di vicino al sentimento. Dove si ragiona con le statistiche non c’è sentimento. Io sto con chi prende l’autobus tutte le mattine. Io devo riuscire a sentire quello che prova lui. Non chi ha tre auto di scorta come me. La sicurezza è un problema che colpisce i deboli. Perché i ricchi la sicurezza se la comprano. È di destra stare con i più deboli? È di destra coinvolgere i sindaci nell’accoglienza dei migranti, nella predisposizione del controllo del territorio, mettendoli nelle condizioni di allontanare dall’ingresso di una scuola chi ha precedenti per spaccio? È di destra portare da quattro a tre gradi di giudizio il procedimento per il riconoscimento dell’asilo per ragioni umanitarie per dare tempi certi al diritto di chiede di essere accolto e alla sicurezza di chi accoglie? Io, da uomo di sinistra quale sono e ritengo di essere, ho il problema di includere. Fosse anche un solo cittadino. Ho l’obbligo di non abbandonarlo alla paura, che è il sentimento che distrugge prima una democrazia e poi le ragioni dello stare insieme". È una legge di sinistra anche quella votata alla Camera sulla legittima difesa? Chi l’ha votata non si sarà lasciato prendere troppo dal "sentimento"? "Io penso sia opportuno, come accadrà, che il Senato lavori a correggere quel testo perché deve essere chiaro che la legge deve tenere insieme due punti cruciali. Nessuna vittima di un reato sconvolgente come una rapina in casa deve essere lasciato solo o sentirsi solo ed è nostro obbligo tutelarne l’incolumità. Ma deve essere altrettanto chiaro che siamo dentro una democrazia. E in una democrazia, il contratto sociale prevede che la difesa armata della democrazia spetti ai corpi dello Stato e non al singolo". Tornando ai migranti e alla questione delle Ong. Non crede che quanto emerso, a maggior ragione alla luce di quanto lei dice dell’industria dei trafficanti di uomini, non sia opportuno un ripensamento quantomeno delle modalità di soccorso al limite delle acque territoriali libiche? "Come dicevo, dalla fine di giugno, la Libia disporrà di 10 motovedette. Dunque di una Guardia Costiera degna di questo nome che le darà piena competenza sulle sue acque interne. Detto questo, mi sembra che i fatti diano ragione di quanto ho detto in Parlamento il 27 aprile e di una linea che intendo mantenere. La dico in due parole. Un Paese serio non ha paura di affrontare nessun problema. A maggior ragione se interpella il lavoro cruciale e delicato delle Ong in campo umanitario. Ma un Paese serio aspetta di conoscere dati certi. Dunque, l’esito delle indagini, parlamentari e della magistratura. E solo all’esito di questi, decide se e su cosa intervenire". (Al forum con il ministro Minniti nella redazione di Repubblica hanno partecipato il direttore Mario Calabresi, il vicedirettore Gianluca Di Feo, Claudio Tito, Carlo Bonini, Giancarlo Mola e Vincenzo Nigro) Decreto Minniti, gli effetti collaterali di Alessandro Metz Il Manifesto, 10 maggio 2017 A settembre dello scorso anno il vicesindaco leghista di Trieste firma un’ordinanza "anti-barboni". A dicembre il Tar del Friuli Venezia Giulia annulla l’ordinanza: l’amministrazione locale può vararle solo per "fronteggiare eventi e pericoli eccezionali ed emergenziali" che minaccino "l’incolumità pubblica". A fine dicembre la presidente della regione Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani scrive al Ministro dell’Interno Minniti: "Ti chiedo di porre allo studio, ove possibile e contemplato, l’avvio di rimpatri che potrebbero avere un significato simbolico e deterrente soprattutto nei confronti degli elementi meno integrati". A febbraio, il Ministro dell’Interno Minniti e quello della Giustizia Orlando varano due decreti-legge, su immigrazione e sicurezza urbana, li portano alle Camere e con voto di fiducia ne ottengono la conversione in legge. Molto è stato detto sulla pericolosità insita nei due provvedimenti: compressione del diritto d’asilo per i richiedenti protezione internazionale; parificazione a pubblico ufficiale dell’operatore sociale per alcune fattispecie procedurali; "innovativi" strumenti in mano ai sindaci come il mini Daspo, un confino urbano in cui costringere le persone che "minano il decoro urbano". Sono solo alcune delle novità che portano ad un effettivo diritto differenziato. Ad ogni categoria sociale corrisponde un diritto diverso e minore. Una legge non uguale per tutti decide della libertà di movimento e delle possibilità di vita. Viene resuscitato anche un articolo già dichiarato incostituzionale, l’ex 75 bis della legge quadro sulle droghe, recuperando in questo modo una parte della legge Fini-Giovanardi di cui francamente nessuno sentiva particolare nostalgia. In questo modo si potrà sanzionare amministrativamente anche chi, pur avendo subito una condanna, non ha ancora ricevuto una sentenza definitiva. In soli pochi giorni si scatenano gli amministratori locali del nostro Paese. Effetto triste, ma prevedibile. Daspo a Firenze: il questore intima a un paio di spacciatori il divieto di stazionare nella zona di Santo Spirito per 2 anni. A Milano Daspo urbano di 48 ore a 3 writer spagnoli. A Bari il Daspo colpisce 4 giovani che hanno occupato abusivamente Villa Roth. A Benevento il sindaco Mastella partecipa al Comitato provinciale e l’intero centro storico diventa area tutelata. A Roma si parla di un’ordinanza estesa a tutto il centro storico oltre a Pigneto, Testaccio e Trastevere; a Sassuolo un Daspo a madre, figlio e a un altra persona che dormivano in strada e ricaricavano il telefonino a una presa elettrica comunale. Essendo le tre persone di un altro comune, viene contestualmente notificato Daspo e allontanamento. Un confino a casa loro. Di questi giorni il rastrellamento etnico a Milano e la caccia all’uomo a Roma in cui è morta una persona: la colpa? essere un venditore abusivo. La primogenitura dell’applicazione della legge è rivendicata dal sindaco di Gallarate, che vanta già un piccolo record: 10 le persone sottoposte a Daspo, sette dei quali, di allontanamento dalla stazione ferroviaria, sono destinati a profughi e mendicanti. Il sindaco di Arezzo, oltre a due ordinanze che vietano la vendita di alcolici dalle 13 alle 8 per evitare bivacchi, afferma: "Una delle piaghe che affligge la nostra realtà è quella degli accattoni. Ce ne sono ovunque. Invito la popolazione a non sovvenzionarli". Tutti uniti nella convinzione che il consenso si costruisca sulla paura e sul pugno di ferro. La guerra ai poveri è stata dichiarata, adesso bisogna colpire anche i solidali. È davvero in gioco il senso di umanità che ancora ci rimane. Se nell’indagine si insinua il pregiudizio della colpevolezza di Giovanni Verde Il Mattino, 10 maggio 2017 In un libro del 2013, dedicato alla "Questione giustizia", ho scritto qualcosa sulla gestione dei pentiti, "Si crea - scrivevo a p. 92 uno strano rapporto tra il pentito e il suo affidatario, nel corso del quale l’uno finisce con l’avere bisogno dell’altro - una strana atmosfera, nella quale spesso l’indagatore, ossessionato dalle sue ipotesi indagatorie, di cui finisce con l’essere vittima, va alla ricerca di riscontri, di cui non è facile stabilire l’attendibilità". Me ne sono ricordato, leggendo le cronache attuali sulla vicenda Consip. Mi sono chiesto e mi chiedo, ricordando queste riflessioni (che nascevano da alcune vicende di cui mi ero occupato al Csm), quale è il rapporto che lega il pubblico ministero alla polizia giudiziaria, a cui conferisce delega per le indagini, o al consulente, cui si affida per valutazioni tecniche che non appartengono all’universo delle sue conoscenze. È indubbiamente un rapporto fondato sulla fiducia. Ma quale fiducia? Fiducia nella correttezza e nella professionalità o anche fiducia per l’appartenenza ad uno stesso modo di sentire? È probabile che si tratti di entrambe. Se così fosse, l’indagine sconta il sospetto che sia in qualche modo influenzata dalla condivisione pregiudiziale di un? Ipotesi accusatoria, così che la polizia giudiziaria indaga o il perito valuta influenzato dal pregiudizio che l’ipotesi accusatoria del pm che gli ha conferito l’incarico, sia fondata. Se ciò fosse esatto, sarebbero evidenti i pericoli in cui incorriamo. E lo stesso pubblico ministero (e meno che mai il Gip) potrebbero condurre un efficace controllo, perché da un lato è impossibile esaminare dettagliatamente le migliaia di pagine delle intercettazioni senza la guida illustrativa (che può essere fuorviante) di chi le ha fatte e dall’altro lato il pubblico ministero non ha, per definizione, le conoscenze tecniche per valutare la fondatezza delle conclusioni dei periti da lui nominati (talora, sospetto, più per la vicinanza alla sua "Weltanschauung" che per le doti professionali). La vicenda Consip ha fatto emergere il problema. Manca una qualsiasi disciplina e, forse, allo stato non è possibile prevederla. Può in qualche modo il Csm surrogare la mancanza di questa disciplina? A ben vedere è ciò che si era tentato di fare nel caso del (presunto) scontro tra le Procure di Napoli e di Roma. Il Comitato di presidenza del Csm aveva risposto di no. E, a mio avviso, aveva fatto bene. "Tirare per la giacca" è un? Espressione che ha me non piace, ma è entrata nell’uso ed è suggestiva. A furia di tirare la giacca si allunga a dismisura. È ciò che è avvenuto al Csm, che, secondo la Costituzione, è organo di autogoverno dei giudici e che, nell’attuale evoluzione del sistema (di Costituzione superata e, talora, tradita), è diventato organismo di gestione della giustizia, così esautorando il Ministro, al quale la stessa Costituzione attribuisce una responsabilità per "l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia", là dove è del tutto privo di poteri. Il Comitato di presidenza aveva ricordato che il Csm non ha poteri per intervenire sulla gestione dei singoli processi, che resta affidata alla responsabilità e alla autonomia dei magistrati. I meccanismi di controllo sui processi sono interni ai processi stessi e si concretano nei rimedi predisposti dalle leggi processuali; i meccanismi di controllo sui magistrati, invece, si esercitano attraverso la via dell’azione disciplinare, che compete al Procuratore generale presso la Corte di cassazione (di fatto esautorando il Ministro, al quale l’art. 107 Cost., tuttavia, affida la "facoltà di promuovere l’azione penale") ovvero per la strada - quest’ultima affidata al Csm - delle valutazioni di professionalità. La decisione del Comitato di presidenza era, però, interlocutoria. Il procuratore generale presso la Corte di cassazione, che è anche uno dei tre componenti del Comitato di presidenza del Csm, ha valutato la vicenda nella sua funzione di titolare dell’azione disciplinare. Di sicuro il Procuratore generale, in tale veste, non poteva con la sua iniziativa entrare nel merito dell’attività svolta dalla Procura napoletana, perché, anche come organo disciplinare, può sindacare l’attività dei colleghi solamente se nei comportamenti ravvisi una violazione di una qualsiasi delle ipotesi di illecito previste dalla legge. Di conseguenza, una valutazione del merito sarebbe stata possibile soltanto se i sostituti responsabili dell’indagine (starei per dire, inchiesta) avessero coscientemente o con negligenza "grave e inescusabile" prestato credito alla trascrizione e interpretazione di alcune intercettazioni assai rilevanti. Il Procuratore Generale lo ha escluso, ma al tempo stesso ha rilevato nel comportamento del pubblico ministero napoletano una scorrettezza meritevole di approfondimento in sede disciplinare. Infatti la legge e in particolare l’art. d. lg. N. 106 del 2006 stabilisce che è il Procuratore della Repubblica colui che trattiene i rapporti con gli organi dell’informazione e che è fatto divieto ai magistrati della Procura di rilasciare dichiarazioni circa l’attività giudiziaria dell’ufficio, così che la violazione del divieto, inclusa tra le ipotesi tassative di illecito disciplinare, è tanto più grave quando la delicatezza del caso trattato (che involgeva anche l’attività di altra Procura) aveva imposto a chi dirige l’ufficio (sia esso il Procuratore in carica o un supplente) di raccomandare l’assoluto riserbo. Vedremo gli sviluppi. Torno alla premessa. Dalla vicenda (e dalla difesa che il sostituto napoletano ha tentato di fare dell’operato del suo collaboratore) emerge, indubbiamente, il rapporto simbiotico che finisce con il caratterizzare la relazione tra il magistrato delegante e l’ufficiale di polizia giudiziaria delegato, una sorta di immedesimazione fondata sulla fiducia e sul "comune sentire" che è caratteristica di molte indagini attuali e che ne mette a rischio, anche in modo inconsapevole, l’obiettività. Come abbiamo detto, è un rischio al quale, nell’attuale contesto, non è possibile opporre rimedi. Anzi, è facile pensare che il magistrato indagato si ritenga capro espiatorio di un sistema perverso, in quanto l’azione promossa contro di lui trova fondamento nel solo fatto che la sua indagine era andata ad incappare nei cosiddetti poteri forti. Ed è altrettanto facile prevedere che vi siano molti disposti a crederlo e ad utilizzare l’argomento a fini politici, creando in tal modo vittime o eroi, di cui non abbiamo bisogno. Come, purtroppo, già è accaduto nel recente passato. "Dopo vent’anni la Giustizia assume: un invito alla fiducia" di Errico Novi Il Dubbio, 10 maggio 2017 Intervista a Barbara Fabbrini, Direttore del personale a Via Arenula. "I 300mila coinvolti nelle preselezioni di questi giorni danno l’idea di quale attesa ci sia per un posto stabile. il ministro orlando ha spezzato un incantesimo". Un’impresa. "Sì, quanto ai numeri lo è: ma sa cosa vuol dire ricevere 310.000 mila domande di partecipazione a un concorso?". Barbara Fabbrini è il direttore del personale al ministero della Giustizia. E nonostante sia al secondo dei 13 giorni di preselezione alla Fiera di Roma per assumere 1.400 nuovi assistenti giudiziari, ha un entusiasmo che sembra neutralizzare la fatica. L’impresa come dice lei consiste nel "riaprire il reclutamento in una grande amministrazione dello Stato dopo venti anni di blocco assoluto nella Giustizia e di nuovi ingressi ridotti davvero al minimo sul piano generale". La stessa associazione nazionale magistrati ha detto: è un primo passo importante a cui si deve dare continuità. È un passo deciso in una direzione già intrapresa dal 2014, da quando il ministro Andrea Orlando si è insediato. Dalla fine di quell’anno in realtà abbiamo già avviato un processo di reclutamento attraverso la mobilità e lo scorrimento da graduatorie di altre amministrazioni, oltre che con alcuni interventi di stabilizzazione. In tutto parliamo di 1.770 nuove unità di personale nella Giustizia precedenti a questo concorso. Le prove in corso di svolgimento dovrebbero selezionare 800 vincitori ma è già acquisito che verranno assunti altri 600 idonei della stessa graduatoria, ed ecco il totale di 1.400. In tutto oltre 3.100 unità: un terzo dei 9.336 vuoti d’organico verrebbe dunque colmato. Un momento: vanno messe in conto le uscite. Stimiamo che ogni anno siano circa 700 i dipendenti ad andare in pensione. Quindi, con questi 1.400 nuovi assunti fermiamo l’emorragia e procediamo sulla strada del recupero. Una strada quanto lunga? Nella Finanziaria 2015 e con altri successivi interventi il ministro Orlando ha destinato le risorse finanziarie per assumere 5.100 unità mediante concorso. Valuteremo anche insieme con i sindacati quale canale di reclutamento privilegiare per gli altri profili, ma la certezza di poter attivare una nuova selezione pubblica ora c’è. E questo, lei dice, è anche un segnale dato ai giovani affinché abbiano più fiducia. Non posso nascondere che questo processo di reclutamento è innanzitutto motivo di orgoglio, visto che si non sperava più di vedere nuove assunzioni e soprattutto di giovani. Significa dire innanzitutto che finalmente si riparte a chi è già dentro l’amministrazione, e da vent’anni non vede nuovi arrivi. E certo è anche un’apertura ai giovani, ma non solo, perché riguardo l’età dei candidati ci sono dati su cui riflettere. Quali esattamente? Sul piano della ripartizione territoriale solo l’ 11 per cento viene da regioni del Nord, oltre il 68 da quelle meridionali. Abbiamo 65mila domande dalla Campania, 62mila dalla Sicilia e 32mila dalla Calabria. Quasi un grido di dolore che arriva da una parte di società alla ricerca di un posto di lavoro sicuro. Ma appunto, il riscontro più significativo riguarda le fasce d’età di chi in questi giorni affronta le preselezioni. Molti giovani, naturalmente. Aspetti. Abbiamo il 21% di candidati fra i 31 e i 35 anni, il 15% è nella fascia fra i 36 e i 40, ben il 18% oltre i 41 anni: c’è una fortissima domanda da parte di ultratrentenni e addirittura ultraquarantenni. Che sognano uno stipendio di? Ecco: è un concorso per assistenti giudiziari, di 2a area dunque. Retribuzione d’ingresso 1.100-1.200 euro netti mensili, e non si sviluppa tantissimo. Si presumerebbe che un 40enne aspiri a fare un concorso pubblico per qualcosa di un po’ più retribuito. Da brividi. È il primo concorso di un certo tenore e dunque ci restituisce in modo preciso una fotografia che da tempo non avevamo a disposizione sulle necessità dei cittadini rispetto ad un posto nella pubblica amministrazione. Tengo a dire che un’anagrafica così precisa dei candidati è possibile grazie alla informatizzazione totale della prova, sia nella fase selettiva vera e propria che nell’acquisizione delle domande. Il 53% ha la laurea: circa 160mila laureati aspirano a un impiego da 1.200 euro al mese. Lei ricorda un dato che riferisce anche di un altro aspetto rilevante: il titolo minimo richiesto è il diploma, non la laurea. Ed è da tantissimo tempo che un’amministrazione pubblica non bandiva un grande concorso nazionale aperto anche ai diplomati. Gli uffici hanno una grossa necessità di figure che assicurino assistenza al magistrato, è peculiarità delle modalità di lavoro degli uffici giudiziari che rende la laurea non indispensabile per certe mansioni. Anche se i non pochi laureati in Giurisprudenza che verosimilmente parteciperanno al concorso hanno sicuramente un vantaggio per le materie che il concorso richiede. Si dice sempre: Italia poco competitiva anche per i tempi della giustizia: puntate anche a smentire il teorema? Guardi, non c’è una proporzione lineare così banale tra maggior numero di unità e smaltimento più celere dell’arretrato. Piuttosto, chi arriva con questo concorso avrà un’età comunque al di sotto della media dei nostri attuali dipendenti, che è tra i 50 e i 55 anni, e potrà consentire performance positive perché consentirà valorizzare gli interventi amministrativi di questi anni sulla digitalizzazione del processo. Il valore dell’apporto sarà dunque moltiplicato dal coniugarsi dei due fattori, umano e tecnologico. Non a caso tra le nuove unità acquisite da scorrimenti di graduatorie siamo andati a individuare 55 informatici che stiamo già assumendo in questi giorni. E chi è già in servizio come prenderà quest’ondata? Immagino bene. Parte dell’orgoglio di cui le dicevo riflette la soddisfazione dei dipendenti già in servizio. Che peraltro potranno accedere alla riqualificazione attivata dal ministro a partire dai 25 milioni di fondi destinati allo scopo e con i quali abbiamo già aperto le relative procedure. Passeranno da cancellieri e ufficiali giudiziari a funzionari, dunque dalla seconda alla terza area circa 2000 unità entro l’anno. Anche questo è un moltiplicatore di efficienza assicurato dall’iniezione di fiducia. Omesso versamento contributi: termini sospesi se c’è estorsione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 9 maggio 2017 n. 22286. Se l’imprenditore è stato vittima di estorsione ha diritto alla sospensione dei termini anche nel caso di reato di omesso versamento dei contributi. La Cassazione (sentenza 22286) accoglie il ricorso dell’amministratore di una casa editrice contro la condanna per il mancato versamento all’Inps delle ritenute previdenziali e assistenziali sulle retribuzioni dei dipendenti. Sia in primo grado sia in appello il ricorrente aveva invocato, invano, l’applicazione dell’articolo 20 della legge 44/1999 che riguarda la sospensione dei termini che ricadono entro un anno dalla richiesta estorsiva subìta. Secondo il Tribunale però i contributi non versati non potevano rientrare nella sospensione, a causa della natura appropriativa della violazione. Il ricorrente aveva fatto ricorso in appello certo di possedere i requisiti per accedere al trattamento di favore. L’editore aveva, infatti, denunciato i fatti estorsivi, presentato richiesta al Fondo e ottenuto il parere favorevole del prefetto sulla sospensione. Circostanze che gli davano diritto a "congelare" i crediti che ricadevano entro i 12 mesi dall’evento lesivo. Ma anche la Corte d’appello aveva escluso il beneficio. La Cassazione ricorda invece che l’articolo 20 (comma 7 ter) considera attiva la sospensione, oltre che per i debiti verso l’erario, anche per quelli verso gli enti previdenziali. Nel concetto di debiti verso l’Inps deve essere compreso anche l’omesso versamento dei contributi, rilevante per il reato previsto dal Dl 463/1983 (articolo 2 comma 1-bis ). La legge, infatti, non distingue alcun debito nei confronti degli enti di previdenza, qualunque sia la causa che l’ha generato. I giudici di merito hanno arbitrariamente dato un peso alla natura "appropriativa" di un’omissione della quale il ricorrente non doveva rispondere. Guida in stato di ebbrezza. Prelievo coattivo in pronto soccorso con più vincoli di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2017 Corte di cassazione, sentenza 28 aprile 2017, n. 20320. Venerdì scorso la Corte di cassazione ha stabilito che le analisi del sangue effettuate al pronto soccorso al solo scopo di accertare il reato di guida in stato di ebbrezza richiedono il consenso dell’interessato (sentenza 21885/2017). Sembra l’ultimo tassello, in senso garantista, di un mosaico che si è chiarito con altre recenti pronunce non altrettanto favorevoli al guidatore. La sentenza 21885 riguarda una situazione finora poco analizzata: quelle in cui, dopo un incidente, l’interessato viene portato al pronto soccorso, dove viene solo visitato e non sottoposto a particolari accertamenti strumentali per verificare le sue condizioni né gli è prestata alcuna cura. Per la Cassazione, la sola presenza del conducente al pronto soccorso non lo fa rientrare tra i soggetti "sottoposti a cure mediche" sui quali l’articolo 186, comma 5, del Codice della strada consente il prelievo per accertare lo stato di ebbrezza a prescindere dal loro consenso al test (di solito necessario perché c’è atto invasivo). Altro caso in cui si prescinde dal consenso è quello di omicidio o lesioni personali stradali, introdotto dalla legge 41/2016 e interpretato in questo senso da molte Procure. Per il resto, ci sono i precedenti delle corti di merito e la prassi sempre più frequente dei sanitari di prelevare campioni ematici perché richiesti dalla polizia giudiziaria e non per finalità mediche o terapeutiche. Così la Cassazione boccia l’uso strumentale delle analisi in caso di sinistro. Il principio è chiaro: l’articolo 186, comma 5, non può essere esteso analogicamente e prevede quale condizione imprescindibile che vi siano esigenze di cura. In caso contrario i risultati saranno inutilizzabili, come sancisce la sentenza 21885. La procedura corretta se non ci sono esigenze di cura sarà allora informare l’interessato della volontà della polizia giudiziaria di effettuare il prelievo e della facoltà di essere assistiti dal difensore. Un rifiuto non potrà portare al prelievo coatto (salvo ci sia omicidio o lesioni stradali) ma al reato di rifiuto di sottoporsi all’alcoltest (articolo 186, comma 7). Non serve a salvare dall’imputazione prestare il consenso e poi fuggire. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza del 28 aprile n. 20320 su un conducente coinvolto in un sinistro dato il consenso ai prelievi ematici e tossicologici facendosi accompagnare al pronto soccorso, dal quale si era allontanato prima della visita dei medici. Per i giudici la fuga equivale al rifiuto ed è quindi penalmente sanzionata. E, ponendosi il problema di quanto sia ammissibile che un reato sia configurato dall’esercizio di un diritto (quello di non farsi praticare un atto invasivo), la Cassazione ritiene non ci sia incostituzionalità: il diritto va bilanciato con l’interesse pubblico ad accertare il reato. In questa situazione si inserisce l’eccezione di costituzionalità sollevata dal Tribunale civile di Genova il 30 marzo sull’articolo 120 del Codice della strada che prevede la revoca automatica della patente per chi è stato condannato per possesso di sostanze stupefacenti cosiddette leggere, senza tener conto delle esigenze personali e lavorative del guidatore. L’imputato aveva patteggiato la pena e il giudice aveva sospeso ma non revocato la patente. Di diverso avviso la Prefettura, cui era stata trasmessa la sentenza di patteggiamento: aveva disposto la revoca. Rissa per il parcheggio, eccesso di difesa per chi si arma di un manufatto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2017 Tribunale di Larino - Sezione Lavoro - Sentenza del 14 marzo 2017 n. 92. Mentre la Camera nei giorni scorsi ha approvato un disegno di legge di riforma della legittima difesa domiciliare (il testo è passato ora al Senato) che non ha di certo placato le polemiche politiche - sia riguardo le reazioni ammesse che sul margine di discrezionalità riservato alla valutazione del giudice, i Tribunali di merito continuano a riproporre il pacifico schema di eccesso colposo di difesa per i casi in cui la risposta travalichi i limiti al di fuori dalla propria abitazione. Così, il Tribunale di Larino, con la sentenza del 14 marzo 2017 n. 92, ha condannato a due mesi di reclusione un uomo, per eccesso colposo di legittima difesa, per aver utilizzato una pistola per il silicone per colpire il vicino durante una colluttazione seguita ad un alterco per il parcheggio dell’automobile cagionandogli lesioni guaribili in 40 giorni. Il giudice ha ritenuto la dinamica della colluttazione non chiara ed ha assolto il padre dell’aggressore, ritenendo la sua reazione fisica nei limiti della legittima difesa, ma ha condannato il figlio per aver preso dalla macchina un oggetto contundente e per averlo poi utilizzato per ferire alla testa ed al naso la vittima. Per il Tribunale "l’utilizzo della pistola in silicone per colpire il proprio avversario, va inquadrato nell’ambito di un eccesso colposo dei limiti imposti dalla necessità di difendersi". I presupposti essenziali della legittima difesa, spiega infatti la sentenza, "sono costituiti da un’aggressione ingiusta e da una reazione legittima: mentre la prima deve concretarsi nel pericolo attuale di un’offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocia nella lesione di un diritto (personale o patrimoniale) tutelato dalla legge, la seconda deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo e alla proporzione tra difesa e offesa". L’eccesso colposo, dunque, prosegue la decisione, "sottintende presupposti della scriminante con il superamento dei limiti a quest’ultima collegati - sicché, per stabilire se nel fatto si siano ecceduti colposamente i limiti della difesa legittima, bisogna prima accertare la inadeguatezza della reazione difensiva, per l’eccesso nell’uso dei mezzi a disposizione dell’aggredito in un preciso contesto spazio temporale e con valutazione ex ante, e occorre poi procedere ad un’ulteriore differenziazione tra eccesso dovuto ad errore di valutazione ed eccesso consapevole e volontario, dato che solo il primo rientra nello schema dell’eccesso colposo delineato dall’articolo 55 c.p., mentre il secondo consiste in una scelta volontaria, la quale comporta il superamento doloso degli schemi della scriminante". Questo principio, ricorda il giudice, è stato espresso dalla Cassazione (n. 45425/2005) in una fattispecie in cui è stata confermata la decisione dei giudici di merito che avevano ravvisato gli estremi del delitto di omicidio colposo "nel comportamento di colui che, brutalmente assalito in presenza di altri da una persona dalla notoria fama criminale, a lui fisicamente superiore, abbia colpito con un coltello l’avversario cagionandone la morte". Così, riqualificato il fatto in lesioni colpose - "essendo emerso con sicurezza che fu solo egli ad utilizzare la pistola in silicone per colpire" -, il giovane è stato dichiarato colpevole del delitto di cui all’articolo 590, comma 2 del codice penale- per eccesso colposo nella legittima difesa - e, concesse le circostanze attenuanti generiche, condannato a 2 mesi di reclusione. La rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2017 Appello proposto dal Pm - Sentenza di assoluzione in giudizio abbreviato - Erronea valutazione di prove dichiarative in primo grado - Rinnovazione istruttoria dinanzi al giudice di appello - Obbligo. L’obbligo di rinnovazione dell’istruttoria, principalmente con riguardo all’appello seguente ad un giudizio dibattimentale, deve trovare applicazione anche all’impugnazione proposta dall’accusa avverso una sentenza assolutoria pronunciata a conclusione di un giudizio abbreviato, ove questa sia basata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive dal primo giudice ed il cui valore sia stato posto in discussione dal PM appellante. In tal caso, il giudice dell’appello deve esercitare i suoi poteri di integrazione probatoria adottabili anche nel rito speciale del giudizio abbreviato, essendo irrilevante il fatto che gli apporti dichiarativi siano stati trattati in primo grado solo da atti di indagine o da semplici integrazioni probatorie. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 14 aprile 2017 n. 18620. Appello proposto dal Pm - Sentenza di assoluzione in giudizio abbreviato - Erronea valutazione di prove dichiarative in primo grado - Ribaltamento del proscioglimento in condanna - Rinnovazione istruttoria dinanzi al giudice di appello. In vista di un ribaltamento del proscioglimento in condanna, il giudice d’appello ha il dovere di disporre, anche d’ufficio, la rinnovazione istruttoria e quindi l’esame di tutte le fonti di prove dichiarative ritenute decisive in primo grado. Tale obbligo discende non tanto e non solo dalla necessità di un’interpretazione adeguatrice rispetto ai principi della Cedu, bensì prima ancora dal rispetto del criterio generale - ispiratore delle decisioni del giudice penale - implicante l’obbligo di escludere che possa reputarsi superato il dubbio ogniqualvolta, di fronte ad una diversa qualificazione della prova dichiarativa che conduca ad un risultato peggiorativo per l’imputato, il giudice di appello non abbia provveduto alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale dinanzi a sé nei casi di difforme valutazione delle dichiarazioni ritenute decisive dal primo giudice ai fini dell’assoluzione. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 14 aprile 2017 n. 18620. Procedimenti speciali - Giudizio abbreviato - Assoluzione - Appello - Condanna - Rinnovazione istruttoria - Necessità - Esclusione. Il giudice d’appello può ribaltare la sentenza di assoluzione di primo grado senza obbligo di rinnovazione del dibattimento, a condizione che l’imputato avesse scelto in origine il rito abbreviato non condizionato. Ad affermarlo è la Cassazione che stabilisce, dunque, la non incompatibilità tra accertamento cartolare e principio del ragionevole dubbio. Nel caso di specie, si trattava di un processo per violenza sessuale su minore in cui l’imputato venne assolto dinanzi al Gup sulla base della valutazione anche della testimonianza delle bimba, assunta nelle forme dell’incidente probatorio. In appello, invece, i giudici pronunciavano una sentenza di condanna all’esito di una rivalutazione cartolare del fascicolo del Gup. Per la Corte, sarebbe incoerente imporre al giudice di secondo grado di "rinnovare" un dibattimento mai svolto davanti al Gup, e quindi trasformare solo in appello un giudizio "cartolare" scelto e in ultima analisi "imposto" dallo stesso imputato. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 13 ottobre 2016, n. 43242. Impugnazioni - Appello - Dibattimento - Rinnovazione dell’istruzione - In genere - Sentenza assolutoria fondata su prove dichiarative - Appello del pubblico ministero o della parte civile - Onere di chiedere la rinnovazione dell’istruttoria per una diversa valutazione delle prove - Sussistenza - Inosservanza - Conseguenze - Inammissibilità dell’impugnazione - Esclusione. In caso di appello avverso sentenza assolutoria fondata su prove dichiarative è onere del pubblico ministero ovvero della parte civile impugnante, nell’ottica del rispetto dei ruoli assunti dalle parti nel procedimento di gravame, chiedere, unitamente alla riforma della sentenza impugnata, la rinnovazione di ufficio dell’istruttoria dibattimentale affinché il giudice possa procedere ad un diverso apprezzamento dell’attendibilità delle prove poste a fondamento della pronuncia di primo grado. (In motivazione, la Corte ha peraltro precisato che il mancato assolvimento dell’onere non determina l’inammissibilità dell’appello). • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 29 settembre 2016 n. 40798. Procedimenti speciali - Giudizio abbreviato - Appello in genere - Rinnovazione dell’istruttoria in appello - Ambito entro cui può disporsi - Parametro valutativo di riferimento - Assoluta necessità - Indicazione di prova sopravvenuta - Caratteri. Nel giudizio di appello avverso la sentenza emessa all’esito di rito abbreviato è ammessa la rinnovazione istruttoria esclusivamente ai sensi dell’articolo 603, comma terzo, cod. proc. pen. e, quindi, solo nel caso in cui il giudice ritenga l’assunzione della prova assolutamente necessaria, perché potenzialmente idonea ad incidere sulla valutazione del complesso degli elementi acquisiti; tuttavia, in presenza di prova sopravvenuta o emersa dopo la decisione di primo grado, la valutazione giudiziale del parametro della assoluta necessità deve tener conto di tale "novità" del dato probatorio, per sua natura adatto a realizzare un effettivo ampliamento delle capacità cognitive nella chiave "prospettica" sopra indicata. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 1° marzo 2016 n. 8316. Torino: venti detenuti a rischio jihad, "libri e dialogo per evitarlo" di Jacopo Ricca La Repubblica, 10 maggio 2017 "Libri, cultura, religione così il carcere non sarà un serbatoio della jihad". Sarebbero una ventina in Piemonte i detenuti islamici radicalizzati: lo dicono i dati ufficiali dell’amministrazione penitenziaria che sorveglia costantemente le potenziali reclute della jihad. Contro il rischio di consegnare nuovi soldati all’Isis, sostiene lo scrittore italo-siriano Shady Amadi dopo una serie di incontri con i ragazzi arabi del Ferrante Aporti, servono libri, cultura, dialogo religioso e prospettive di futuro. I libri e la cultura, ma anche la possibilità di praticare in strutture idonee la propria fede, sono alcuni degli strumenti messi in campo per contrastare la radicalizzazione islamista nelle carceri in Piemonte. I dati ufficiali parlano di una ventina di persone, detenute nelle strutture della regione, che sono costantemente monitorate perché a rischio "radicalizzazione" o perché accusate di reati legati al terrorismo islamico. Si tratta del 6 per cento del totale dei carcerati che sono nel mirino del Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria: l’ultima stima ufficiale comunicata dal Dap risale all’anno scorso e parlava di 20 detenuti in Piemonte, ma dalle comunicazioni ufficiali fatte a gennaio in Parlamento dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che parla di un totale di 375 individui a "vario titolo radicalizzati", la quota piemontese sarebbe salita a 22 persone. Secondo i dati ufficiali dell’amministrazione penitenziaria in Italia i detenuti sottoposti a specifico "monitoraggio" sono 170, a cui se ne aggiungono 80 "attenzionati" e 125 "segnalati". Le cifre ufficiali del 2016 per il Piemonte parlano di 9 "monitorati", cioè persone in carcere per reati connessi al terrorismo internazionale o per forme di proselitismo, e 11 "attenzionati", cioè carcerati che in cella hanno posto in essere atteggiamenti che fanno presupporre la loro vicinanza all’ideologia jihadista. Potrebbero esserci almeno un paio di persone "segnalate", cioè oggetto di una comunicazione da parte delle direzioni carcerarie preoccupate per i loro comportamenti. Oltre alle attività di controllo della Polizia penitenziaria, le direzioni delle carceri e i volontari hanno messo in piedi interventi legati alla cultura e al dialogo religioso. Shady Hamadi, lo scrittore italo-siriano, lo sta facendo da alcune settimane al Ferrante Aporti di Torino, il carcere minorile dove all’interno del progetto "Adotta uno scrittore", organizzato in collaborazione con il Salone internazionale del Libro e Volta Pagina, si confronta con i giovani detenuti: "Sono uno dei primi scrittori arabofoni che riesce a entrare in carcere e parlare coi ragazzi che parlano la mia lingua - racconta l’autore de "La felicità araba" - il contatto con loro è stato importante. Non ho trovato persone radicalizzate, ma c’è molta disperazione e la mancanza di aspettative per il futuro rischia di spingerli tra le braccia di chi fa proselitismo". Questi appuntamenti, organizzati insieme con la garante dei detenuti di Torino, Monica Cristina Gallo, sono un primo esperimento che potrebbe diventare qualcosa di più stabile: "Serve un impegno delle istituzioni per dare un futuro ai minori che escono dal carcere - continua Hamadi - Vorremmo mettere in piedi un percorso sistematico per la deradicalizzazione". Anche alla Casa circondariale Lorusso Cutugno, dove secondo la garante Gallo "c’è un rischio maggiore di radicalizzazione", sono state messe in piedi iniziative per contrastare il fenomeno: "Ancor prima che fosse siglata l’intesa tra il ministero e l’Unione delle comunità islamiche d’Italia avevamo già fatto un accordo con due imam torinesi perché partecipassero alla preghiera in carcere il venerdì - racconta il direttore Domenico Minervini - A loro si è aggiunto anche quello della moschea di via Saluzzo e la preghiera non avviene più in stanzette, ma nel teatro. Poi abbiamo messo in piedi una collaborazione con le donne di religione islamica che affiancano le mogli dei detenuti nei colloqui e danno loro assistenza". Firenze: il Sappe denuncia "a 2 mesi dall’evasione Sollicciano è ancora insicuro" di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 10 maggio 2017 Le guardie scrivono alle istituzioni: nessun intervento sulla struttura o sulle misure di controllo. "A due mesi di distanza dalla triplice evasione da Sollicciano, niente è stato fatto per la messa in sicurezza del carcere". È ciò che denuncia Pasquale Salemme, segretario nazionale del sindacato di polizia Sappe, in una dura lettera alle istituzioni locali ricordando la fuga, il 20 febbraio scorso, di tre detenuti rumeni (di cui due furono poi bloccati in Svizzera) dal carcere fiorentino. "Dal giorno dell’evasione - è scritto nella lettera - non ci risulta che l’amministrazione penitenziaria abbia fornito risposte e, soprattutto, abbia adottato azioni adeguate in esito al fallimento della sicurezza che l’evasione da Sollicciano ha rappresentato". Parole dure anche nei confronti del Dipartimento regionale dell’amministrazione penitenziaria: "Il Provveditore non ha ancora ritenuto opportuno effettuare un sopralluogo o una visita per verificare lo stato dei luoghi e la necessità di eventuali interventi sulla struttura e sui suoi sistemi di sicurezza". Ecco perché, continua la lettera, "ci domandiamo a che punto siano i numerosi progetti (per quasi tre milioni di euro) che, più di un anno fa, furono presentati con grandi clamori dal Capo del Dipartimento e che avrebbero dovuto garantire un miglioramento della struttura (nella quale, ancora oggi piove copiosamente), delle condizioni di vita dei detenuti e del personale di Polizia Penitenziaria". Preoccupazione viene espressa dai sindacati anche in vista dell’inizio dell’estate: "Tra poco arriverà il grande caldo e i palliativi messi in campo per gestire un sistema così complesso ed articolato non saranno più sufficienti. C’è bisogno di risposte e di concretezza; c’è bisogno di uscire da una pericolosa latitanza per affrontare i problemi". Carceri: detenuto malato di cancro, appello del difensore Saluzzo (Cn): sopralluogo dei Garanti nel Reparto Isolamento del carcere "Morandi" di Andrea Garassino La Stampa, 10 maggio 2017 Un sopralluogo nel reparto Isolamento del "Morandi" di Saluzzo, a pochi giorni dal suicidio in cella di un detenuto di Racconigi, condannato per furto. L’hanno effettuato il Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano con la "collega" comunale Bruna Chiotti. Sono stati incontrati i reclusi, 8 persone per un totale di 12 posti disponibili. Per due è scattata la separazione dagli altri carcerati, almeno per 6 mesi, perché considerati "pericolosi". Altri 3 per motivi disciplinari interni, per periodi più brevi. Infine, 2 per ragioni cautelari, su loro richiesta. "Tre mi hanno manifestato la volontà - spiega Mellano - di essere trasferiti e domani inoltrerò l’istanza. Abbiamo cercato di capire quali erano le condizioni di detenzione e raccolto le loro impressioni. Un carcerato, poco prima del nostro arrivo, si era procurato tagli a un braccio, forse per attirare l’attenzione della direzione. È stato subito soccorso". Con il sopralluogo, i due garanti hanno potuto vedere dall’esterno anche la cella dove è avvenuto il suicidio, sequestrata dalla magistratura con l’apertura di un fascicolo della Procura di Cuneo. "Eravamo con il comandante della Penitenziaria - aggiungono - che ci ha ricostruito i fatti e mostrato la cella 705 dallo spioncino". Mellano: "Ho avviato un monitoraggio sulle procedure con cui viene disposto l’isolamento, inserite in un protocollo fra Asl e carcere. Ho già raccolto dossier. Mi mancano Alba e Fossano". Parma: detenuto 64enne malato di cancro, per i medici se non esce rischia di morire Ansa, 10 maggio 2017 "È una questione di diritto alla salute e di violazione dei diritti umani". L’avvocato Antonio Piccolo del foro di Bologna inquadra così la vicenda che riguarda un suo cliente, Fortunato Maesano, 64 anni, malato di cancro e con altre serie patologie e detenuto in carcere a Parma per reati di criminalità organizzata, per conto del quale ha recentemente presentato un’istanza al magistrato di Sorveglianza chiedendo la scissione del cumulo della pena e la misura alternativa della detenzione domiciliare. L’istanza si fonda da un lato su una perizia medica, del professor Giovanni Ussia, secondo cui c’è incompatibilità tra l’attuale condizione detentiva e le cure che il paziente dovrebbe seguire. Anzi, la permanenza in carcere lo priverebbe della possibilità di guarire con rischio di morte. Poi è citata la sentenza Cara-Damiani, con cui la Corte Europea per i diritti dell’uomo condannò l’Italia per gli insufficienti standard di assistenza sanitaria in carcere. Maesano, originario del Reggino e condannato a 11 anni per associazione mafiosa e altri reati commessi tra il 1992 e il 2004, fu arrestato in Svizzera dove viveva con la famiglia, e in seguito fu concessa l’estradizione: per questo anche media elvetici si stanno interessando alla vicenda. "Uscirebbe dal carcere come fine pena tra pochi mesi, ma rischiano di non essere sufficienti per guarire", dice il difensore. L’11 aprile il tribunale di Sorveglianza aveva già respinto un’istanza di scarcerazione, facendo notare la mancanza dei presupposti normativi richiesti. Anche per questo il legale ha formulato ora la richiesta che venga sciolto il cumulo della pena, di modo che i reati ostativi, come l’associazione mafiosa, possano essere già stati espiati. In ogni caso, per l’avvocato, anche questo principio andrebbe bilanciato con le esigenze di cura. Ora attende la pronuncia del magistrato: "Qui è in gioco - dice - l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che proibisce la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante". Castrovillari (Cs): giuristi dell’Unical e Radicali hanno fatto visita al carcere sibarinet.it, 10 maggio 2017 Ieri mattina una Delegazione di Studenti di Giurisprudenza dell’Università della Calabria che seguono il Corso di Diritto Penale del Prof. Mario Caterini, hanno fatto ingresso nella Casa Circondariale di Castrovillari "Rosetta Sisca" per una visita congiunta ai Radicali Italiani, autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. La Delegazione visitante era composta da Emilio Enzo Quintieri e Valentina Anna Moretti, esponenti dei Radicali Italiani, dal Prof. Mario Caterini, Docente di Diritto Penale dell’Università della Calabria e dai suoi Studenti Lucrezia Apa, Tiziana Bonanni, Giorgia Braganò, Fabio Carchidi, Federica D’Ippolito, Morena Gallo, Armando Gorgoglione, Antonia Levato ed Alessandra Pirillo. Ad accogliere gli ospiti il Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria, Commissario Leonardo Gagliardi, il Vice Commissario Soccorsa Irianni, il Capo dell’Area Giuridico Pedagogica Maria Pia Patrizia Barbaro ed il Dirigente Penitenziario Maria Luisa Mendicino, Direttore della Casa Circondariale di Castrovillari. Nell’Istituto, al momento della visita, erano presenti 142 detenuti di cui 18 donne, 32 dei quali stranieri di cui 4 donne, a fronte di una capienza regolamentare di 122 posti (20 in esubero) con le seguenti posizioni giuridiche: 30 giudicabili, 16 appellanti, 8 ricorrenti e 79 definitivi. 4 i detenuti ammessi al regime di semilibertà che fruiscono regolarmente di licenza. Vi erano anche 3 detenuti (1 donna) in permesso premio concesso dal Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Silvana Ferriero. All’interno della Casa Circondariale di Castrovillari, inoltre, sono presenti 15 detenuti tossicodipendenti, 40 con patologie psichiatriche ed 1 con disabilità motorie. 35 sono quelli che lavorano alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, 11 quelli addetti ai lavori all’esterno e 2 assunti alle dipendenze dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza per le pulizie dei locali dell’Area Sanitaria. Nel corso del 2017 non vi sono stati suicidi ma solo un decesso di un detenuto per cause naturali. Si sono però verificati 4 atti di autolesionismo e 2 tentati suicidi. Non vi è stata alcuna aggressione nei confronti del personale dell’Amministrazione Penitenziaria. La Delegazione ha molto apprezzato la disponibilità dei vertici della Casa Circondariale di Castrovillari: il Commissario Gagliardi ed il Vice Commissario Irianni hanno illustrato la situazione dell’Istituto ed i compiti e le funzioni che assolve il Corpo di Polizia Penitenziaria per il mantenimento della sicurezza intramuraria e per l’osservazione e trattamento mentre la Barbaro si è soffermata molto sul trattamento rieducativo spiegando l’attività svolta nell’Istituto propedeutica alla concessione dei benefici premiali e delle misure alternative alla detenzione previste dalla Legge Penitenziaria. Il Direttore Mendicino ha invece ringraziato la Delegazione per la gradita visita alla Casa Circondariale, complimentandosi con il Prof. Caterini per l’iniziativa portata avanti con i Radicali Italiani. Lunedì 15 maggio, tra l’altro, proprio grazie ai Radicali, dopo l’approvazione del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria, sarà stipulato un Protocollo di Intesa con la Confagricoltura di Cosenza presieduta da Fulvia Michela Caligiuri, per l’apertura di uno Sportello di Assistenza Fiscale e di Patronato all’interno dell’Istituto, a disposizione dei detenuti, del personale in servizio e delle rispettive famiglie. Questa mattina, altra Delegazione di Studenti dell’Università della Calabria, con i radicali Quintieri e Moretti ed il Prof. Caterini, visiterà la Casa Circondariale di Cosenza "Sergio Cosmai" e sarà accolta dal Direttore dell’Istituto Filiberto Benevento, dal Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria, Commissario Davide Pietro Romano e dal Capo dell’Area Giuridico Pedagogica Brunella Scarcello. Sondrio: gluten-free, pasta con sapore di libertà di Diletta Grella Vita, 10 maggio 2017 Nel carcere di Sondrio una cooperativa ha aperto un pastifico per i celiaci. Idea innovativa e di successo. Per Paulo le ore di lavoro nel Pastificio 1908 sono le più attese della settimana. Portoghese di 33 anni, Paulo è uno dei 34 detenuti della Casa Circondariale di Sondrio. Da poche settimane è assunto nel laboratorio artigianale di pasta senza glutine, aperto all’interno dell’istituto di pena del capoluogo valtellinese dalla cooperativa sociale Ippogrifo. "Mi sono appassionato alla pasta gluten-free, di cui non sapevo nulla", racconta. "E vorrei che un giorno questo diventasse il mio lavoro". "La cooperativa Ippogrifo opera nel territorio di Sondrio da più di vent’anni e collabora con la Casa Circondariale da una decina", spiega il presidente Paolo Pomi. "L’anno scorso, Stefania Mussio, direttrice illuminata dell’istituto, ci ha coinvolto nel progetto di creare un laboratorio artigianale in ambito alimentare, dentro una vecchia autorimessa, all’interno dell’istituto. Ci siamo confrontati in cooperativa e il nostro socio Alberto Fabani, che oggi è il responsabile del pastifico, ha avuto la brillante idea di orientarci verso la pasta gluten free". "Ho fatto un’indagine e ho visto che nella nostra valle non sono in molti a produrla", chiarisce Alberto. "Quindi le possibilità di entrare nel mercato e di diventare competitivi sarebbero state maggiori". Nell’estate del 2016, inizia la fase di preparazione del progetto. Alberto contatta l’Associazione italiana celiachia per raccogliere informazioni. Si acquistano i macchinari da un’azienda specializzata e si coinvolge un importante chef gluten-free, Marcello Ferrarini, che nel gennaio del 2017 organizza il corso di formazione all’interno della Casa Circondariale, a cui partecipano sette detenuti, uno dei quali, Paulo, sarà poi assunto. "Non ero mai stato in un carcere", dice Ferrarini, "e ad avermi colpito è stata la passione che ci hanno messo i ragazzi. Erano attenti, prendevano appunti, facevano domande. Hanno vissuto questa esperienza come una possibilità di mettersi alla prova e di imparare. Ho insegnato a realizzare cinque paste che tuttora vengono prodotte: due secche (i caserecci e maccheroni), e tre fresche, cioè le tagliatelle all’uovo, i caserecci all’uovo e poi - visto il luogo in cui ci troviamo, i pizzoccheri, che qui sono una tradizione". "Insieme a Marcello, abbiamo studiato tre ricette, pubblicate sull’etichetta delle confezioni, che raccontassero qualcosa di noi", gli fa eco Mohamed, 30 anni, detenuto marocchino che ha partecipato al corso. "Una delle ricette è un po’ mia: è una pasta con porro, pomodorini secchi e olive nere, arricchita però con le spezie del mio Marocco". "Anch’io, con l’aiuto di Marcello, ho creato una ricetta con i maccheroni", incalza Ruggero, un altro detenuto di 49 anni. "E siccome sono nato qui vicino, a Morbegno, in onore del mio paese ci abbiamo messo anche i funghi di montagna". Se il Pastificio 1908 ha preso vita, è stato grazie alla grande disponibilità di Stefania Mussio, direttrice della casa circondariale di Sondrio. E quel 1908 ricorda proprio la data di fondazione dell’istituto. "Le persone detenute possono, se vogliono, essere reintegrate nella società", spiega Mussio. "Perché questo avvenga è importante che all’interno del carcere si creino situazioni positive che favoriscano l’inclusione sociale e che siano analoghe ad altre situazioni esistenti all’esterno. Questo laboratorio artigianale ne è un esempio. Si tratta di un progetto radicato nel territorio, che ha preso vita grazie a forze locali e che mira a creare un prodotto eccellente. La qualità, infatti, è un fattore fondamentale. I detenuti coinvolti non stanno semplicemente occupando qualche ora del loro tempo. Si stanno impegnando a creare un prodotto ottimo, concorrenziale, apprezzato da tutti. Si stanno qualificando a livello professionale e questo è un valore aggiunto, una volta usciti da qui". "È un progetto importante anche dal punto di vista della sicurezza sociale", prosegue Luca Montagna, ispettore, comandante del reparto della polizia penitenziaria della Casa Circondariale. "Un lavoro vero, come quello del pastifico, fa sentire chi lo svolge utile e anche più sereno, perché in grado di immaginare prospettive positive". L’investimento per l’apertura del laboratorio, a carico della cooperativa Ippogrifo, è stato di 75mila euro e il punto di break even è previsto entro quattro anni. Fondazione Pro Valtellina ha contribuito con 18mila euro e Bim (Bacino imbrifero montano) con circa 5mila euro. Confartigianato Sondrio ha dato consulenze gratuite per l’avvio dell’attività. La designer Antonella Trevisan e il fotografo Mario Finotti si sono occupati dell’immagine del prodotto. Attualmente è stato assunto un detenuto, per 12 ore alla settimana, ma sono in programma altre assunzioni. Oggi Pastificio 1908 produce 100 chili di pasta secca e 20 chili di pasta fresca alla settimana, venduti a tre gruppi di acquisto solidale e ad una dozzina di negozi, per lo più della provincia. Entro la fne del 2017 si prevede di arrivare a produrre 100 chili di pasta al giorno. La cooperativa Ippogrifo fa parte del Gruppo Cooperativo Cgm e Pastificio 1908 è frutto anche degli stimoli ricevuti da questa grande rete, che su tutto il territorio nazionale realizza progetti di inclusione sociale. "Questo laboratorio artigianale è un esempio di quello che ogni cooperativa sociale dovrebbe fare", chiarisce Stefano Granata, presidente nazionale di Cgm. "E cioè produrre valore economico e sociale sul territorio, dialogando con tutti gli attori locali e usando e valorizzando le risorse più fragili, che in questo caso sono i detenuti. Un esempio che va imitato". Reggio Calabria: i detenuti al lavoro per rendere la città più accogliente e pulita di Ilaria Quattrone strettoweb.com, 10 maggio 2017 I detenuti del carcere di Arghillà danno una mano per rendere la nostra Città più pulita ed accogliente in occasione del 100° Giro d’Italia che il prossimo 11 maggio farà tappa a Reggio Calabria. Anche i detenuti del carcere di Arghillà danno una mano per rendere la nostra Città più pulita ed accogliente in occasione del 100° Giro d’Italia che il prossimo 11 maggio farà tappa a Reggio Calabria. In effetti, su input del Sindaco Giuseppe Falcomatà e grazie alla disponibilità della Direttrice dell’Istituto penitenziario, Maria Carmela Longo, dell’Area Pedagogica del carcere, della Magistratura di Sorveglianza, delle Dirigenti del Comune di Reggo Calabria, Loredana Pace e Maria Luisa Longo e dell’AVR abbiamo chiesto e siamo stati autorizzati a modificare il programma dei lavori "volontari e gratuiti in favore della collettività" che i detenuti del carcere di Arghillà svolgono già dal mese di settembre 2016 in diverse aree cittadine, proprio, al fine di concentrare il lavoro nel periodo dal 3 al 12 maggio, esclusivamente, nelle zone di Gallico e Catona, limitrofe al percorso che interesserà la tappa reggina del Giro d’Italia. Nel pomeriggio, pertanto, mi sono recato insieme al dott. Cosimo Mazzeo dell’Ufficio Staff del Sindaco Falcomatà, ad incontrare i tre detenuti che compongono, insieme ad un responsabile di AVR, un apposito gruppo di lavoro di manutenzione del verde pubblico cittadino, al fine di consegnare a due di loro le pettorine con l’iscrizione "lavoro in favore della collettività" e per sincerarmi sul buon andamento delle attività. Ho potuto così constatare ancora una volta i positivi risultati, in termini di percorso rieducativo trattamentale, fin qui sperimentati con le dette attività riparative nei confronti della collettività, che per vero hanno consentito ai primi due detenuti che formavano il gruppo originario di lavoro di accedere a misure alternative alla detenzione più ampie, a riprova dell’apprezzabilità del percorso di cambiamento intrapreso. Così, da pochi giorni, sono stati inseriti, in sostituzione dei primi, altri due detenuti, sempre in regime di lavoro all’esterno all’Istituto penitenziario. Nella qualità di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, sono davvero contento per i positivi risultati che il Protocollo d’Intesa sottoscritto il 7 giugno 2016 sta producendo in termini di recupero e reinserimento sociale di chi ha delinquito. I detenuti si sentono apprezzati dai comuni cittadini che li osservano quotidianamente mentre svolgono il loro lavoro gratuito di "restituzione" nei confronti della società, e per i detenuti sentirsi apprezzati per il fatto di compiere un’attività positiva, rivolta al bene, fa bene davvero. Leggo nei lori occhi un’espressione di autentica soddisfazione, di rivisitazione critica del vissuto, del passato. Di nostalgia per il bene libero, oserei dire. Forse è solo una scintilla. Ma se anche così fosse, ancor di più bisogna alimentarla e custodirla quella scintilla. Sentirsi parte di una comunità che si prepara e si fa bella per accogliere una storica e così coinvolgente manifestazione sportiva qual è il Giro d’Italia, riempie il cuore di gioia, quando vi partecipano anche gli "esclusi". Il male può e deve essere trasformato in bene. Ed anche se la via è scivolosa, impervia ed in salita, forse, la memoria della fatica di Bartali potrà servire a ricordare che anche le sfide più difficili possono essere vinte, tanto nello sport quanto nella vita. L’Aquila: programma di riabilitazione per i detenuti psichiatrici della Rems di Barete abruzzoweb.it, 10 maggio 2017 Comprare un vestito o alimenti al centro commerciale, bere il caffè al bar insieme ad altri avventori, prendere l’autobus affollato, entrare in un’aula dell’Università e, tra poco, lavorare in una biblioteca comunale: così, alla Rems (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) di Barete (L’Aquila) ci si "allena" a riprendersi la propria vita e a lasciarsi alle spalle un passato in cui il disagio mentale non curato è sfociato in reato. Nella struttura di Barete, unico centro in Abruzzo peraltro attivato in ritardo dalla Regione, in cui sono ospitate persone con problemi psichici che hanno commesso reati, la riabilitazione è un processo concreto "che tende a portare all’esterno il cosiddetto paziente-reo, a contatto con le persone e col vissuto quotidiano". Il nuovo approccio viene utilizzato dal mese di luglio 2016, "lontano anni luce dall’oscurantismo che per anni ha confinato in un abisso disperato il malato mentale internato negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari". Alla base di questo metodo riabilitativo, centrato sull’inserimento sociale ed il superamento dello stigma, c’è il meticoloso lavoro di tutto lo staff della Rems. Un pool di specialisti che mette insieme terapia farmacologica e psicologica e che fa capo al Dipartimento di Salute Mentale della Asl, diretto dal dottor Vittorio Sconci e del personale. A Barete la vigilanza è molto lontana dalla militarizzazione. Il personale addetto alla sicurezza non è dotato di armi e gli appartamenti che accolgono i pazienti (con soggiorni nella struttura tra 6 mesi e 1 anno) non hanno sbarre né grate di protezione. I pazienti inseriti nel progetto ‘Aria Pulità sono stati attentamente valutati dai medici durante un periodo di osservazione, ed hanno una età tra i 23 ed i 69 anni. Alcuni di loro hanno commesso, in passato, reati molto gravi. Accompagnati dagli psicologi, dai medici e dagli infermieri, visitano strutture come l’Ateneo aquilano, raggiungono a piedi Pizzoli da Barete (5 chilometri tra andata e ritorno), si fermano al bar insieme ai residenti, vanno al centro commerciale per acquistare capi d’abbigliamento o generi alimentari. Domani, mercoledì 10 maggio, faranno qualcosa di davvero inedito: grazie all’invito del sindaco di San Demetrio (L’Aquila), Silvano Cappelli, visiteranno le grotte di Stiffe. Uno dei punti più alti del percorso riabilitativo sarà l’esperienza lavorativa nella biblioteca di Barete. Il sindaco, Leonardo Gattuso, di concerto con la Asl, ha infatti già avviato le procedure per un bando che prevede due borse-lavoro nella biblioteca del paese riservato a due ospiti della Rems: un progetto che si concretizzerà entro il giugno prossimo. "Tutte queste iniziative - spiega Sconci - dimostrano, al di là dello scetticismo e delle polemiche ricorrenti, che i reati commessi da queste persone non sono causati da una tendenza a delinquere bensì da disagi mentali non affrontati per tempo e in modo adeguato. Dunque, una volta curata, la persona può vivere una vita normale senza costituire alcun pericolo per la comunità. E questo rappresenta il vero superamento del pregiudizio che, per anni, ha condizionato l’esistenza di queste persone". Palermo: le detenute del carcere di Pagliarelli imparano a fare il formaggio Adnkronos, 10 maggio 2017 In una settimana hanno imparato a fare il formaggio e domani, mercoledì 10 maggio, venti detenute del carcere Pagliarelli di Palermo riceveranno l’attestato di partecipazione del corso di caseificazione organizzato dall’Istituto zooprofilattico sperimentale della Sicilia, in collaborazione con il Distretto 2110 del Rotary International, l’Università di Palermo e Coldiretti Sicilia. La consegna avverrà alle 10.30, alla presenza del direttore sanitario dell’Istituto Zooprofilattico Santo Caracappa, della direttrice del Pagliarelli Francesca Vazzana e del governatore del Rotary Nunzio Scibilia. Sette giorni che sono serviti alle detenute per evadere dalla routine carceraria ma anche per acquisire nuove competenze spendibili un domani sul mercato del lavoro e per il loro reinserimento sociale. Il progetto dell’Istituto zooprofilattico è stato realizzato in varie case circondariali siciliane e ha coinvolto circa 200 detenuti tra italiani e stranieri provenienti dai paesi dell’est Europa e dal Magreb. "Sono corsi che daranno l’opportunità di reinserirsi nel mondo del lavoro, avendo avuto l’opportunità di imparare il mestiere di casaro" ha spiegato Caracappa. Varese: nel carcere niente tv e non si può più pregare di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 10 maggio 2017 È saltato il decoder per i canali in chiaro e la cappella è pericolante. Raidue e Raitre e stop. Al carcere di Varese l’offerta televisiva per chi è ristretto in cella è alquanto limitata. Da qualche settimana, la centralina del decoder che gestisce l’intero impianto è andata in avaria con conseguente oscuramento di tutti gli altri canali. Si parla di canali, ovviamente, in chiaro. Quindi di fatto le reti Mediaset e La7. La spesa per ripristinare l’impianto sarebbe anche molto contenuta ma, ad oggi, non è stato possibile reperire i fondi necessari. La televisione non è uno "sfizio" per i 70 detenuti attualmente reclusi a Varese ma l’unico strumento che consente loro di rimanere in contatto con il mondo esterno. Sono ridotte al minimo le attività trattamentali, praticamente solo alcuni corsi di alfabetizzazione per stranieri. E sono pochissimi gli spazi dove trascorrere le poche ore d’aria: per la stragrande maggioranza del tempo i detenuti sono in cella o nel corridoio. Al carcere di Varese, poi, non è possibile avere anche un minino di assistenza spirituale per chi ha il dono della fede. La cappella è infatti pericolante da diverso tempo ed è stata chiusa per inagibilità. Un carcere, quindi, che sarebbe meglio chiudere. Sia per lo stato fatiscente in cui versa e sia per l’assenza di seri ed efficaci percorsi finalizzati al reinserimento dei detenuti nel contesto sociale. Per sensibilizzare l’opinione pubblica e le autorità competenti sulle attuali criticità i detenuti hanno comunicato che inizieranno due volte al giorno con la "battitura", una forma di protesta attuata battendo le pentole contro le grate delle celle. Alessandria: "una via per reinserirsi nella società", studenti in visita al penitenziario noisiamofuturo.it, 10 maggio 2017 Prima di fare questa esperienza, gli alunni e i detenuti sono stati preparati da Frate Beppe, dell’Ordine dei Cappuccini. Tra i vari progetti organizzati dall’Istituto Lanza di Casale Monferrato, quello che più ci ha colpiti è l’attività di educazione alla legalità, rivolta al triennio del nostro indirizzo, il Liceo Economico-Sociale. Nell’ambito di queste iniziative la classe 5° si è recata al carcere di S. Michele. Il carcere si trova nella periferia di Alessandria ed è interamente maschile. È diviso in sezioni, ovvero il parcheggio, le zone con le celle, e le sezioni comuni, come il cortile interno, i luoghi per il ricevimento parenti, ecc. È presente anche una parte interna alle mura, separata dal resto del carcere, in cui risiedono i collaboratori di giustizia, cioè i carcerati pentiti, separati dagli altri per evitare pericolosi litigi. Nel carcere sono attivi vari corsi per i detenuti, con il fine di riadattarli alla vita normale, come il giardinaggio o il panificio, che distribuisce il pane nei negozi di Alessandria. Nel cortile è presente un parco giochi, per gli incontri dei detenuti con le famiglie. Prima di fare questa esperienza, gli alunni e i detenuti sono stati preparati da Frate Beppe, dell’Ordine dei Cappuccini. Agli alunni è stato detto come comportarsi con i detenuti, come parlare con loro, come vestirsi, e cosa fare una volta giunti in carcere. Per essere ammessi alla visita bisogna avere la fedina penale pulita, essere maggiorenni e indossare abiti che coprano bene il corpo, soprattutto per le donne, essendo un carcere maschile. Gli studenti hanno dovuto lasciare gli oggetti personali in portineria, con un documento di identificazione. Lì è stato dato loro un cartellino che identifica il visitatore. La classe ha raggiunto la zona dei collaboratori di giustizia, in cui ha conosciuto i detenuti pentiti. Dopo essersi disposti in cerchio, hanno iniziato a dialogare, facendosi delle domande reciproche. Successivamente, hanno pranzato tutti insieme, poi hanno visitato le zone dedicate alle attività. Nei discorsi dei detenuti ricorrevano spesso le parole "famiglia, amore e rispetto", il che si riconduce ad un crimine di stampo mafioso. È stata una bellissima esperienza, particolare, che ha aperto gli occhi sulla condizione dei carcerati in Italia, molti dei quali non hanno nessuno a sostenerli, poiché i loro parenti si sono allontanati. All’inizio gli alunni erano spaventati dall’incontro, ma dopo si sono ambientati e, alla fine della visita, è stato molto commovente doverli salutare oltre le sbarre. Reggio Calabria: confronto e dialogo tra studenti e carcerati per educare alla legalità avveniredicalabria.it, 10 maggio 2017 Venerdì 28 aprile, presso il carcere di Arghillà, si è conclusa la prima fase del progetto "Giovani dentro, Giovani fuori", che ha visto il coinvolgimento degli studenti dell’Istituto "Panella Vallauri" e i detenuti delle carceri reggine. Ad aprire e coordinare l’incontro è stato Mimmo Nasone, referente di Libera, che ha ringraziato i quaranta studenti che hanno partecipato al progetto e i detenuti che hanno scelto di aderirvi volontariamente. L’intento del progetto era di aprire uno spazio di confronto e uno scambio di esperienze tra gli studenti e i detenuti, liberandosi da facili pregiudizi. La coordinatrice del progetto, Patrizia Surace, complimentandosi con gli studenti, ha illustrato gli step del progetto che ha previsto anche la somministrazione di un test iniziale per sondare la percezione dei concetti di legalità e illegalità. È intervenuto anche il commissario della Polizia Penitenziaria, Domenico Paino, che ha sottolineato il forte valore di prevenzione del progetto, rammentando a studenti e detenuti l’importanza di incontri e scelte di vita che possono essere determinanti. Il progetto ha avuto il supporto concreto dell’agenzia di comunicazione Iamu. it che ha realizzato un breve video documentario sapientemente diretto da Sergio Conti. In questo video gli studenti hanno dimostrato grande sensibilità ma pongono anche degli interrogativi importanti ai quali hanno fornito delle prime risposte Angelica Incognito e Daniela Tortorella, entrambe magistrati di sorveglianza, che hanno sottolineato l’occasione offerta agli studenti di conoscere concretamente la dimensione carceraria, di confrontarsi con i detenuti, ascoltare le loro dirette testimonianze, capire che le braccia della comunità devono sempre essere aperte. Il bilancio positivo del progetto è stato evidenziato dalla dirigente scolastica dell’Istituto coinvolto, Anna Nucera, che ha esortato i suoi studenti dicendo che "A volte, certe scelte si compiono in una frazione di secondo; questa espe- rienza di confronto così forte e dirompente con i detenuti deve aiutarvi proprio quando vi ritroverete in quella precisa frazione di secondo, quando dovrete compiere scelte che si ripercuoteranno nella vostra vita, ricordandovi sempre che niente è mai del tutto perduto e anche allorquando si commettono degli errori c’è sempre una seconda possibilità di riscatto. Spero che ogni studente possa portare con sé questa esperienza e raccontarla agli amici e ad altri giovani". L’esperienza positiva di dialogo tra scuola e carcere non è terminata con questo evento, "È una pratica che non deve limitarsi solo alla provincia di Reggio Calabria - ha concluso l’assessore regionale Federica Roccisano - ma deve allargarsi su scala regionale per continuare a costruire comunità educanti ed una Calabria aperta ed inclusiva". Belluno: oltre i cancelli di Baldenich, dove il carcere è realtà di Francesca Valente Corriere delle Alpi, 10 maggio 2017 Gli studenti del Negrelli-Forcellini hanno visitato l’istituto di pena di Belluno Il detenuto Ettore: "La libertà conta più di ogni altra cosa, ricordatevelo sempre". Entra, veloce, altrimenti la porta non si chiude e non possiamo andare avanti. Spegni il telefono e lascialo nell’armadietto. Non perdere di vista l’insegnante. Ascolta il comandante. Segui il direttore. Tutti ricordano la prima volta che sono entrati in carcere. Loro, per fortuna, lo hanno fatto da visitatori. Per la prima volta nella storia della Casa circondariale di Belluno, una classe di seconda superiore ha varcato la prima, la seconda e pure la terza soglia dell’istituto penitenziario di Baldenich, per incontrare non soltanto i principali attori delle attività fondamentali e collaterali che vengono svolte all’interno, assieme alla direttrice Tiziana Paolini e al comandante della Polizia penitenziaria Domenico Panatta, ma anche e in via del tutto eccezionale due detenuti. L’ospitalità della classe seconda Cat (ex geometri) dell’istituto Negrelli-Forcellini di Feltre ha segnato un precedente che non si potrà dimenticare: quelle porte e quei cancelli si possono aprire, anche da fuori. Perché là dentro ci sono persone che hanno sbagliato, ma che prima di ogni attributo restano comunque persone. Il dialogo si alterna serrato tra la direzione amministrativa e quella penitenziaria. Prima i numeri: quelli dei detenuti, in leggero sovrannumero (un centinaio rispetto alla capienza regolamentare di 89); quelli della Polizia, in sottonumero. Si parla degli ambienti più o meno facili, come le celle con le brande di ferro, i bagni con l’acqua fredda, le docce umide al piano terra. Delle attività, come la pallavolo con il Csi, lo yoga, il corso di informatica, i cicli di cineforum nella sezione transessuali, tutte a carico di volontari esterni. Dell’occupazione gestita dalle cooperative "Sviluppo & Lavoro" e "Lavoro associato" assieme alla manutenzione dello stabile, che dalla sua costruzione risalente al 1933 non riceveva una rinfrescata alle pareti esterne da diverso tempo. Se ne stanno occupando proprio in questi giorni alcuni ospiti della struttura. Dietro al gruppo entrano anche i due ospiti che avranno la parola per ultimi, Davide ed Ettore. "Non ho dormito tutta la notte per pensare a cosa dirvi", esclama Davide, visibilmente emozionato, "non ho avuto esperienze in altre carceri, ma per quel che mi riguarda questo si potrebbe definire a conduzione familiare, visto come funzionano le cose. Io ed Ettore siamo finiti qui dentro mentre conducevamo una vita normale, ci svegliavamo la mattina per andare al lavoro e avevamo una famiglia. Non è stato facile vedere i miei genitori entrare qui per la prima volta. Per me l’ingresso in carcere è stato traumatico". Per sua fortuna ora il percorso si è orientato sul regime di semilibertà. Ettore passa ogni giorno in palestra, lavora in cucina, scrive quattro lettere e legge un libro a settimana. "Mi serve per svuotare la mente, perché non è facile stare qui. Siamo sconosciuti costretti a vivere anche in 5 in una cella e l’educazione, il trascorso personale e la provenienza non rendono sempre facile la convivenza". Ma una cosa prevale su tutte: "Alla fine è la libertà la cosa più importante, quella che manca di più. Senza di quella non si va da nessuna parte. Ricordatevelo quando starete per combinare qualche marachella: potreste essere miei figli, non voglio vedere nessuno di voi qua dentro". Esprimere le sensazioni per i ragazzi è difficile. È l’insegnante Simonetta Turrin a guidarli nelle domande. Ma alla fine un’emozione è unica: il senso di claustrofobia e la voglia di uscire in fretta. Di riassaporare la libertà. Loro che possono. Brindisi: "Nel Cerchio degli Ultimi", in scena i detenuti di Domenico Apruzzo brindisicronaca.it, 10 maggio 2017 Domani 10 maggio si chiude il laboratorio di teatro condotto da Marcantonio Gallo e Fabrizio Cito, fondatori del Teatrodellepietre, all’interno della Casa Circondariale di Brindisi. Questo anno, soprattutto per motivi "artistici", il consueto spettacolo con i detenuti andrà in scena solo all’interno del carcere. "Nel Cerchio degli Ultimi" rappresenta un primo studio per lo spettacolo che debutta per ora tra le mura del carcere. Pochi invitati ammessi alla rappresentazione, molte le energie spese anche questo anno, il quinto anno consecutivo, all’interno del laboratorio teatrale e di scrittura che ha visto la partecipazione di un gruppo di uomini detenuti molto motivati e determinati. "Non tutti possono usufruire di permessi per uscire, anche se soltanto per poche ore per partecipare allo spettacolo teatrale e non tutti sono pronti per questa importante esperienza fuori dal carcere. Ma in questo spettacolo ognuno racconta in prima persona la propria esperienza, e non si poteva sostituirli con attori. Così abbiamo deciso di andare in scena solo nella struttura penitenziaria e tenere unito il gruppo" dicono i due registi. "Abbiamo però una bella sorpresa: realizzeremo un corto teatrale, una specie di docu-film che includerà materiale di repertorio, riprese del backstage degli spettacoli andati in scena al Nuovo Teatro Verdi negli anni passati, nonché frammenti di questo ultimo "Nel Cerchio degli Ultimi" nel quale i detenuti, attraverso video-interviste, diventano i protagonisti principali insieme al carcere che li contiene e che proverà a raccontarne la quotidianità e i pensieri. Il cortometraggio parteciperà ad un importante festival subito dopo l’estate, ma presenteremo questo piccolo film anche al pubblico di Brindisi. L’appuntamento teatrale quindi è per il 10 maggio nella Casa Circondariale di Brindisi. In scena i detenuti del carcere di Brindisi con "Nel Cerchio degli Ultimi" studio/spettacolo scritto e messo in scena dal Teatrodellepietre. Un ringraziamento particolare va all’Amministrazione, al personale di Polizia Penitenziaria che permette di entrare ed uscire dal carcere, ma soprattutto i ragazzi che hanno partecipato al laboratorio. "Dopo cinque anni di attività all’interno del arciere abbiamo focalizzato bene "l’universo carcere" e tutte le sue contraddizioni. Ci siamo resi conto che le istituzioni non possono essere lasciate sole: la società deve diventare parte attiva nel processo di recupero e cambiamento di chi ha sbagliato. Le attività di volontariato come la nostra all’interno della Casa Circondariale non possono esistere se non c’è poi un riscontro reale e un risultato concreto. Ogni giorno proviamo a dare voce a chi non ce l’ha per raccontare l’errore, il perdono e l’espiazione. È brutto accorgersi che stavi scrivendo la tua piccola storia nel quaderno sbagliato, se poi non c’è nessuno a testimoniare il desiderio di riscatto. Ognuno di noi sceglie e agisce provando a districarsi come meglio può. Ma nella vita una brutta luna capita a tutti, e una seconda possibilità dovrebbe essere concessa. Con il teatro proviamo a raccontare queste storie. Il Teatro deve saper cambiare pelle, deve farsi spazio di accoglienza, interazione e riflessione. Ora, chiudete gli occhi: immaginate un teatro, piccolo ma accogliente. Pensate alla nostra città. Pensate a cosa si potrebbe fare, con qualche risorsa in più e molta immaginazione. Basterebbero un po’ d’intelligenza, fantasia e la voglia di raccontare il teatro in modo moderno e coinvolgente. Salerno: premiati 14 detenuti che hanno partecipato al corso per istruttori sportivi di Annalisa Cinque La Città di Salerno, 10 maggio 2017 "Questo corso è un dono, un vero e proprio toccasana. Perché non solo ci ha permesso di trascorrere delle giornate differenti rispetto al solito tran tran quotidiano, rompendo la monotonia carceraria, ma ci dà anche la possibilità d’immaginare un futuro diverso, una volta che saremo liberi". Giuseppe Guadagnuolo è ospite dei penitenziari campani dal 2010. Sconterà il suo debito con la giustizia tra 2 anni e ieri è stato premiato, assieme ad altri 14 detenuti della Casa circondariale di Fuorni, con l’attestato di qualifica sportiva d’istruttore di base di I livello. "Posso salutare mio figlio?" domanda con candore, felice e contento per la nuova vita che, tra qualche anno, potrebbe aprirsi davanti a lui, una volta che avrà detto addio alle patrie galere. "Durante il corso abbiamo imparato - spiega Guadagnuolo - soprattutto come s’insegnano ai bambini le regole dello sport. E spero, quando finalmente avrò saldato il mio debito con la giustizia, di poter mettere in pratica ciò che appreso". D’altronde è proprio questo lo spirito del progetto "Corpus sanum ad mentem sanam, rieducazione e reinserimento sociale attraverso lo sport", giunto al terzo anno e al quinto ciclo. Un’iniziativa ideata dagli avvocati Marco De Luca e Antonella Simone, e dalla docente universitaria Ileana Del Bagno, grazie anche ai contribuiti economici del Comune di Salerno, dell’Università, della Fondazione Carisal e di Decathlon Italia. E al patrocinio di Avangarde sport e Associazione italiana cultura e sport. "Il nostro fine - spiega De Luca - è di dare, al di là dell’opportunità lavorativa, anche la possibilità di "evadere" dalla monotonia carceraria". Perché il più delle volte è proprio quest’ultimo aspetto che assume, almeno fin quando i detenuti saranno ristretti dietro le sbarre, maggiore rilevanza. "È un’iniziativa importante - rimarca il direttore della Casa circondariale, Stefano Martone - per dare un senso al tempo nella struttura penitenziaria. E lo sport insegna anche i valori del rispetto e della lealtà". Chissà, poi, se un giorno i detenuti in possesso dell’attestato riusciranno a trovare un lavoro onesto proprio in questo specifico campo. "Mi auguro che le associazioni sportive - chiarisce l’istruttore Pierluigi Mottola - diano loro l’occasione di mettersi in gioco, senza pregiudizi. Durante il corso gli allievi hanno appreso l’importanza dell’attività sportiva, la capacità coordinativa e condizionale dei bambini e le nozioni di primo soccorso. Inoltre è stato organizzato anche un incontro con gli studenti universitari per discutere delle regole non solo sportive ma pure della vita di tutti i giorni". Napoli: il Teatro San Carlo al carcere di Nisida, 2.000 studenti per 3 giorni di musica fanpage.it, 10 maggio 2017 Fino a domani oltre 2000 studenti campani, insieme ai detenuti dell’istituto penale minorile, parteciperanno a una maratona di 3 giorni promossa dal Teatro San Carlo di Napoli. Lo scopo è avvicinare, attraverso l’educazione musicale, due mondi apparentemente lontani. Oltre 2000 studenti per tre giorni di musica a Nisida, tra i ragazzi detenuti dell’istituto penale minorile, per sensibilizzare entrambi i mondi alla musica e al suo valore di solidarietà e socializzazione. Un progetto che vede coinvolti assieme il Teatro San Carlo di Napoli e il Centro Europeo di Studi di Nisida, oltre all’Ufficio Scolastico Regionale per la Campania. Fino a domani, infatti, l’isolotto partenopeo ospiterà una maratona musicale che permette a oltre 2000 studenti, di oltre 50 istituti scolastici del territorio, di esibirsi. Solo nella giornata di ieri, sul palcoscenico allestito a Nisida hanno suonato più di 700 ragazzi. Molte le discipline praticate, nell’ambito della danza e della musica, classica e pop. Portare i ragazzi delle scuole a Nisida è stato voluto per una duplice funzione: per i detenuti, affinché possano comprendere cosa significhi suonare con passione, dedizione e disciplina e vengano attratti dal senso estetico, implicito in ogni esecuzione musicale, a prescindere dal repertorio; per i ragazzi, provenienti dalle scuole, affinché comprendano, in un luogo così carico di significati, l’importanza di valori legati alla famiglia e all’educazione. Rosanna Purchia, Sovrintendente Teatro di San Carlo, ha dichiarato: "la nostra mission, da statuto, è la diffusione dell’arte musicale e l’educazione musicale della collettività, e questo è l’obiettivo che cerchiamo di perseguire in ogni decisione e in ogni attività che affrontiamo. Stamane il meraviglioso panorama che si scorge da Nisida, è stato invaso da centinaia di ragazzi che con il loro entusiasmo e tanta disciplina e volontà, hanno suonato facendo squadra tra loro, dimostrando di aver appreso valori importanti, legati allo studio, al divertimento, alla passione, alla collaborazione". Infatti, il Teatro di San Carlo, sempre in accordo con l’Ufficio Scolastico Regionale per la Campania, è promotore del Musical Talent School, talent riservato ai ragazzi delle scuole della Regione Campania, che, una volta selezionati attraverso l’invio di un video, saranno convocati ad un’audizione, che avrà luogo all’Auditorium della Scuola Ipia Sannino di Ponticelli, nei giorni 16 - 17 - 18 maggio alle ore 9:30. I vincitori si esibiranno il 21 giugno, in occasione della Festa della Musica. Migranti. Un anno da 200mila sbarchi: ecco il nuovo piano del Viminale di Vladimiro Polchi La Repubblica, 10 maggio 2017 Ancora record nel 2017. Il ministero dell’Interno chiede alle Regioni uno sforzo ulteriore e avvia l’apertura di 11 nuovi centri permanenti per il rimpatrio. L’Anci: "Oggi più sindaci fanno la loro parte". "L’Italia si prepara ad accogliere la cifra record di 200mila migranti. Il nuovo piano di ripartizione è pronto. Ciascuno dovrà fare la propria parte". Mentre proseguono gli sbarchi e si discute del ruolo delle Ong nel Mediterraneo, al Viminale si pensa a rinforzare le retrovie. La macchina dell’accoglienza dovrà fare di più. Due casi per tutti: nel 2017 la Lombardia dovrà passare dagli attuali 25mila posti a disposizione a oltre 28mila, la Campania da 16mila a oltre 19mila. Questa volta, però, senza migranti paracadutati dai prefetti sui vari territori, ma con tavoli di coordinamento con i sindaci. Due i modelli di riferimento: le province di Milano e Bologna che stanno riuscendo a distribuire in maniera uniforme i rifugiati tra tutti i comuni dell’aerea. Il "piano dei 200mila" è nei numeri: basta pensare che ieri sono saliti a 43.245 gli arrivi via mare nel 2017, il 38,54% in più rispetto allo stesso periodo del 2016 (anno che con oltre 181mila sbarchi aveva già infranto ogni record nella storia del nostro Paese). Per questo ci si prepara a una maxi accoglienza sul territorio. In questo momento, tra strutture temporanee e centri governativi il nostro Paese ospita 179mila migranti. Ma le stime per fine anno spingono il Viminale a trovare posto per almeno 200mila persone. I parametri sono già concordati con l’Anci. A livello regionale fa fede l’accordo del 10 luglio 2014: ogni regione dovrà accogliere una percentuale di migranti pari alla propria quota di accesso al Fondo nazionale per le politiche sociali, con piccole eccezioni per i centri colpiti dai terremoti (per esempio alla Lombardia spetta il 14,15% del totale e al Lazio l’8,6%). Poi all’interno di ogni singola regione scatta l’accordo Viminale-Anci di dicembre scorso: i comuni fino a duemila abitanti dovranno ospitare 6 migranti, i comuni con più di 2mila abitanti ne accoglieranno 3,5 ogni mille abitanti, le città metropolitane (già gravate in quanto hub di transito di molti rifugiati) si limiteranno a 2 posti ogni mille residenti. Il piano è già in atto: obiettivo prioritario del prefetto Gerarda Pantalone, capo del dipartimento Libertà civili del Viminale, è infatti coinvolgere più sindaci possibili nell’accoglienza, visto che attualmente sono solo 2.880 su oltre 8mila quelli che hanno aperto le loro porte ai rifugiati. E qualcosa già si muove. "Oggi i sindaci stanno facendo la loro parte - sostengono all’Anci - e questo grazie a una nuova modalità di contrattazione territoriale: non più migranti catapultati di imperio dai prefetti sui territori comunali, ma una distribuzione concordata con gli amministratori locali". Insomma nessuna imposizione. E i risultati si vedono: al 5 maggio scorso sono 154 i nuovi comuni che hanno presentato domanda volontaria per aderire allo Sprar (la rete d’accoglienza gestita appunto dall’Anci, ndr). "Sindaci ‘virtuosi’ per i quali scatterà la clausola di salvaguardia, nel senso che non potranno subire altri trasferimenti dai prefetti". Due modelli di accoglienza diffusa circolano, come detto, sui tavoli del ministero: quello della provincia di Bologna e quello di Milano. Nel capoluogo lombardo, per esempio, in base al recente "Protocollo tra prefettura, città metropolitana e comuni della zona omogenea" i sindaci si impegnano "ad accogliere gradualmente sul proprio territorio, entro il 2017, un numero di cittadini stranieri richiedenti protezione internazionale in conformità al Piano Anci-Viminale e a reperire unità abitative di soggetti pubblici o privati necessarie alla copertura dei posti". Spetterà poi alla prefettura stipulare le convenzioni con gli enti gestori dell’accoglienza al "prezzo unitario pro-capite di 35 euro al giorno oltre Iva". Sul fronte della lotta agli irregolari, il Viminale avvia invece l’apertura di 11 nuovi Cpr (i centri permanenti per il rimpatrio, ex Cie) in altrettante regioni, destinati all’identificazione ed espulsione dei migranti. In gran parte si tratta della ristrutturazione di Cie preesistenti. Si va da Gradisca d’Isonzo in Friuli Venezia Giulia alla caserma di Montichiari in Lombardia; da Ponte Galeria a Roma al carcere di Iglesias in Sardegna. Migranti. L’Onu: "Non criminalizzate chi salva vite umane" di Francesco Martone Il Manifesto, 10 maggio 2017 Critiche a Italia, Francia e Ungheria per gli attacchi indiscriminati alle Ong. "Davvero non capisco perché politici in Francia, Ungheria ed Italia cercano di mettere in cattiva luce il lavoro di difensori dei diritti umani, di quelle persone che cercano di salvare vite, ed invece vengono accusate di essere nemici dello stato. Faccio un appello a tutti i politici affinché smettano di fare tali affermazioni". Questo il commento e l’invito del Relatore Speciale Onu sui difensori dei diritti umani Michel Forst al termine della sua visita "accademica" in Italia, invitato dalla rete "In Difesa Di - per i diritti umani e chi li difende" (www.indifesadi.org). Parole ripetute ieri alla Commissione Diritti umani del Senato ed il giorno prima in un evento pubblico presso la sede della Fnsi, dove accanto a Forst, sono intervenuti il segretario generale del Tribunale permanente dei popoli Gianni Tognoni, e la difensora dei diritti umani afghana Malalai Joya. Evento chiuso con la testimonianza del connazionale Cedric Herrou, messo a processo per "crimine di solidarietà". Tra il pubblico attivisti di Msf, Baobab Experience, Jugend Rettet, Rainbow4Africa, ed altre associazioni che poi Forst ha incontrato per uno scambio di informazioni. Forst ha partecipato al Festival di Milano dove ha incassato un’ importante segnale di interesse del Comune di Milano alla sua prima proposta. Quella di creare una rete di città-rifugio - sarebbe la prima in Europa - che permetta di accogliere temporaneamente le attiviste che ritengano necessario lasciare temporaneamente il paese per sfuggire alle minacce crescenti verso la loro incolumità e quella dei loro familiari. Nei suoi rapporti all’Assemblea Generale dell’Onu - i prossimi saranno sulle imprese e i difensori dei diritti umani e poi sulla criminalizzazione della solidarietà verso i migranti - Forst denuncia un attacco crescente verso i difensori e difensore in tutto il mondo. Solo lo scorso anno secondo l’Ong Frontline Defenders almeno 280 attivisti e attiviste hanno perso la vita per aggressioni o omicidi e in mille sono stati sottoposti a vessazioni, minacce, arresti arbitrari. Gran parte di loro erano ambientalisti, leader indigeni, e contadini. Una guerra totale contro la società civile ed i movimenti, al riguardo della quale Unione europea ed Osce si sono dotate di linee guida per il proprio personale diplomatico, al fine di accompagnare, monitorare o proteggere difensori e difensore a rischio. "Quello che sono venuto a proporre all’Italia è di essere più attiva nella protezione dei difensori e difensore dei diritti umani, ed ho incontrato vari attori, dal ministero degli Esteri, al parlamento, alle organizzazioni della società civile, per capire assieme come migliorare le modalità con le quali il personale diplomatico italiano attua le linee guida sulla protezione dei difensori" ha aggiunto. Già la Commissione Esteri della Camera, sulla scia di un convegno internazionale promosso dalla rete, aveva adottato a febbraio un’importante risoluzione che impegna il governo ad intensificare le attività in tutela dei difensori e difensore, seguendo l’esempio di altri paesi Ue. Gli attivisti ed attiviste delle oltre 30 tra ong, associazioni, organizzazioni ambientaliste, dei diritti umani, di solidarietà internazionale avvocati e giornalisti aderenti alla rete, ricordano al riguardo che l’Italia avrà la presidenza dell’Osce nel 2018, anno nel quale si celebrerà anche il 20 anniversario della Dichiarazione Onu sui Difensori dei Diritti Umani, e nel quale la diplomazia italiana lavorerà alla candidatura al Consiglio Onu sui Diritti Umani. Il momento giusto per chiedere all’Italia maggior impegno per la protezione dei "difensori", attraverso l’adozione di strumenti di lavoro che informino e formino il personale diplomatico italiano all’applicazione delle linee guida Ue e Osce e la creazione di "Shelter Cities". Con la piena consapevolezza che la sfida della protezione dei difensori e difensore dei diritti umani è sempre più globale, come dimostrano i casi di criminalizzazione delle Ong in una sessantina di paesi tra cui Ungheria, Russia, Turchia, Egitto, Israele, Repubblica Ceca. Ed ora anche in Italia. Migranti. Il pm Zuccaro all’Antimafia: "gli appetiti dei clan sul business dell’accoglienza" di Alessandra Ziniti La Repubblica, 10 maggio 2017 Il procuratore di Catania rilancia la proposta di poliziotti sulle navi delle Ong: "Se ci fossero stati avremmo arrestati chi ha sparato a quel ragazzo per un cappellino". I tedeschi accettano di rispondere in commissione Difesa del Senato. "Se a bordo delle navi delle Ong ci fossero delle unità di polizia giudiziaria sarebbe stato ad esempio possibile assicurare subito alla giustizia i trafficanti che nei giorni scorsi hanno ucciso un giovane migrante, subito prima di essere soccorso, solo per non essersi voluto togliere il cappellino". Davanti alla commissione antimafia, che lo ha convocato per chiedergli di approfondire le ipotesi di interessi della criminalità organizzata nella gestione e nell’accoglienza dei flussi migratori, il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro rilancia le sue proposte per nuove regole di ingaggio per le navi umanitarie che operano nel Canale di Sicilia. "Sabato scorso - ha spiegato Zuccaro - è arrivata a Catania una nave con 498 migranti soccorsi ed il cadavere di un giovane ucciso a freddo su un barcone da un trafficante perché non si era tolto il cappello. Se sulla nave della Ong che ha fatto l’intervento vi fossero state unità della nostra polizia giudiziaria avremmo già preso i trafficanti e li avremmo già nelle nostre galere. Ripeto, l’obiettivo delle indagini non sono le Ong ma i trafficanti ed alcune recenti modalità del traffico li stanno favorendo". Zuccaro ha quindi ribadito che "c’è una massa di denaro destinata all’accoglienza dei migranti che attira gli interessi delle organizzazioni mafiose e dico questo sulla base di alcune risultanze investigative, ma è sbagliato ritenere che la mafia operi dovunque, perché così rischiamo di aumentare l’aurea di onnipotenza". Dopo l’antimafia, Zuccaro risponderà alle domande della commissione inchiesta sui migranti. Le Ong tedesche, che fino ad ora avevano ignorato la convocazione davanti alla commissione Difesa del Senato, hanno finalmente risposto alla richiesta inviata dal presidente Nicola La Torre accettando di presentarsi a Palazzo Madama. In extremis, dunque, i lavori della commissione che si propone di arrivare alle sue conclusioni a fine settimana, hanno subito un aggiustamento facendo spazio alle audizioni dei rappresentanti delle organizzazioni umanitarie tedesche, una delle quali è al centro dell’inchiesta della procura di Trapani, l’unica che ha iscritto nel registro degli indagati un comandante di nave e i membri dell’equipaggio per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per un soccorso in acque libiche che sarebbe avvenuto senza alcuna richiesta di soccorso. I primi a presentarsi, oggi alle 14, saranno i tedeschi di Jugend Rettet, che dal 2016 hanno messo in mare la nave Juventa. Spostata a domattina alle 8.30 l’audizione del procuratore di Trapani Ambrogio Cartosio e del pm Andrea Tarondo, titolari dell’inchiesta che, a differenza di quella catanese, è in fase avanzata. Domani sera alle 20 toccherà invece alla Ong tedesca Sea Watch (qui l’intervista al portavoce dell’organizzazione) nel Mediterraneo con due navi e giovedi mattina, prima che la commissione si riunisca per le conclusioni, è prevista la prosecuzione dell’audizione dell’ammiraglio Vincenzo Melone, comandante generale delle Capitanerie di Porto che dovrà rispondere alle domande dei commissari. Bullismo. Gli effetti sulla salute: depressione, abuso di alcol e stupefacenti di Lucia Tironi e Rosita Rijtano La Repubblica, 10 maggio 2017 Gli effetti del bullismo vanno ben oltre l’immediato, si ripercuotono nel tempo. I bimbi che lo subiscono fin dalle scuole elementari hanno molte probabilità di soffrire di depressione, nonché di fumare, abusare di alcol e sostanze stupefacenti negli anni successivi all’episodio. Lo dimostra uno studio dell’Università di Delaware, pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Pediatrics, che ha analizzato i dati provenienti da sei nazioni statunitensi. Una ricerca condotta dal 2004 al 2011 che scandaglia la vita scolastica di 4,297 ragazzi seguiti nel corso di cinque anni. Grazie a un’analisi comparativa, i ricercatori hanno scoperto che le vittime "predilette" dai bulli sono ragazzi, minoranze sessuali e giovani che convivono con malattie croniche. Mentre età, obesità, razza/etnia, scarso rendimento scolastico e bassi introiti famigliari non sembrano trovarsi tra i motivi che mettono i più giovani nella condizione di essere presi di mira. Ma ancora più interessanti delle cause, sono gli effetti che l’abuso ha sulla salute dei piccoli. Non si tratta di una ripercussione soltanto immediata, che intacca la vita quotidiana, determinando una chiusura dei ragazzi in se stessi. Il bullismo presenta il proprio conto anche dopo anni. "Chi ha subito abusi in quinta elementare ha più probabilità di mostrare sintomi di grave depressione l’anno successivo e ancora più probabilità di usare alcol, marijuana e tabacco dopo cinque anni", ha detto Valerie Earnshaw, psicologa e autrice dello studio. "I sintomi depressivi mostrati nella ricerca aiutano a spiegare anche perché il bullismo è associato all’utilizzo di sostanze, suggerendo che i giovani potrebbero sfruttarle come forma di auto-medicamento per alleviare queste emozioni negative". In particolare, in seconda superiore il 24 percento delle vittime prese in considerazione nella ricerca ha fatto uso di alcol, il 15,2 percento di marijuana, e l’11.7 percento di tabacco. Il commento. "È vero: il tasso di depressione è altissimo tra adolescenti o giovani adulti che hanno subito forme di bullismo", spiega a Repubblica Maura Manca, psicoterapeuta. "Questo perché, soprattutto nel caso in cui si tratta di vittime sistematiche, i ragazzi si identificano nel ruolo di bullizzati. E costruiscono le loro relazioni sulla base della paura, dell’insicurezza e della mancanza di espressione. Una volta adulti, la repressione porta alla depressione, a disturbi del sonno, e nei casi più gravi si arriva anche all’autolesionismo. Mentre l’abuso di sostanze, per quel che riguarda la mia esperienza, è meno frequente". Come si può evitare questi effetti a lungo raggio? "Interventi tempestivi", ribatte Manca. "Bisogna riconoscere subito i segnali d’isolamento, ricostruire intorno al giovane una rete di relazioni che lo sostenga, capire a che livello è arrivato il problema, e prevedere - se necessario - il supporto di uno specialista". Mauritania. "Liberate mio figlio", l’appello lanciato alla "Edicola Fiore" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 maggio 2017 La madre si è rivolta alla trasmissione di Fiorello per denunciare la vicenda e sollecitare l’aiuto del Ministro degli Esteri Alfano per riportare l’uomo in Italia. Cristian Provvisionato è detenuto da quasi due anni in Mauritania senza aver commesso alcun reato. "Fate liberare mio figlio", dice affacciata al balcone dello Speaker’s corner di Edicola Fiore, Doina Coman, mamma dell’italiano Cristian Provvisionato che da quasi due anni è detenuto in Mauritania. Lei ha chiesto aiuto a Fiorello per dare visibilità alla sua protesta. Esponendo una maglietta con la foto del figlio con la scritta "Libertà per Cristian Provvisionato", la donna ha avuto la possibilità di denunciare la vicenda. "È un prigioniero politico - ha spiegato la mamma del detenuto italiano all’estero che ha anche sollecitato sul caso l’aiuto del ministro degli Esteri Angelino Alfano -, non ha commesso assolutamente alcun reato né in Italia né tantomeno in Mauritania. Tra 8 giorni sono 21 mesi che si trova detenuto lì senza un’accusa precisa. È stato inviato in Mauritania dal suo datore di lavoro di Milano e dopo 14 giorni è stato trattenuto in arresto. Per quattro mesi non abbiamo saputo più nulla di lui. Ora sappiamo che è ancora lì, ma è innocente". Una vicenda complicata e anche piena di ombre inquietanti. L’uomo è un 43enne, di professione bodyguard, che da poco meno di due anni è in stato di fermo in Mauritania senza che la diplomazia italiana sia ancora riuscita ad ottenere alcun risultato. È in stato di arresto nel paese africano dall’agosto del 2015 in seguito alle accuse per una presunta truffa informatica a discapito del governo locale da parte di alcune società impegnate nella vendita di software- spia. In realtà, però, queste accuse non risultano direttamente a carico del giovane, il quale sarebbe trattenuto dal governo mauritano come "figura di garanzia", per indurre il pool di società estere responsabili della truffa per oltre un milione e mezzo di euro a pagare le conseguenze del loro atto criminale. Tra le società incriminate, infatti, risulterebbe anche la società milanese che nell’estate di due anni fa ha convocato Cristian in Mauritania per sostituire un professore esperto di O. S. Int. (Open Source Intelligence, cioè notizie che si possono trovare su fonti pubbliche, come libri, articoli o internet). Cristian non ha alcuna competenza, ma conosce l’inglese perché ha fatto un corso di sicurezza in Inghilterra. Quello che avrebbe dovuto fare, infatti, è soltanto leggere un documento durante un meeting organizzato dalle società informatiche per vendere i loro prodotti. Ma non accadrà perché il meeting salta e Cristian viene arrestato. C’è chi parla di trappola, intrighi con intelligence e addirittura responsabilità che vogliono coprire dall’alto. Resta il fatto che Provvisionato è rimasto solo: trattative diplomatiche - almeno ufficialmente - inesistenti. Provvisionato attualmente sarebbe bloccato nella caserma dell’antiterrorismo della capitale Nouakchott. Da cittadino che non ha commesso reati, ha la possibilità di utilizzare il telefono cellulare per tenersi quotidianamente in contatto con i suoi cari e può circolare libe- all’interno della caserma, ma non può in alcun modo allontanarsi da essa. L’uomo, inoltre, essendo diabetico e non avendo a disposizione le cure adeguate, negli ultimi mesi avrebbe perso trenta chili mettendo a repentaglio la sua salute. Di italiani detenuti nelle carceri straniere ce ne sono tanti. ll ministero degli Esteri ha messo a disposizione gli ultimi dati riguardante l’anno 2016. Risulta un totale di 3288 reclusi dove 687 sono condannati, 2567 in attesa di giudizio e 25 in attesa di estradizione. Il numero maggiore, ben 2 554, sono concentrati nei paesi dell’Unione europea, 173 nei paesi non aderenti alla Ue come Albania, Svizzera e Turchia, 461 nelle Americhe, 42 nel Medio oriente, 15 in Africa e 43 in Asia e Oceania. Il dato più curioso riguarda la Germania: ha il record della detenzione di italiani all’estero con un totale di 1191 detenuti, tra i quali 1048 in attesa di giudizio, 126 condannati e 17 in attesa di estradizione. Per quanto riguarda le Americhe, al primo posto ci sono gli Stati Uniti con 79 detenuti italiani, a seguire il Brasile con 77, il Perù con 60 e il Venezuela con 48. Nel medio oriente ci sono gli Emirati Arabi con 11 detenuti, mentre in Africa abbiamo il Marocco con 16 detenuti e il Senegal con 5. Dal dossier del Viminale emerge comunque un dato sconcertante: più della metà sono in attesa di giudizio e risultano poche decine le persone in attesa di essere estradate in Italia per scontare la pena nei nostri penitenziari, condizione che dovrebbe essere garantita dalla Convenzione di Strasburgo del 1983 e da diversi Accordi bilaterali nei casi che riguardano le persone già condannate. In molti casi gli italiani non hanno nessun diritto per un equo processo. Basti pensare che in alcuni paesi è negata l’assistenza di un avvocato, non è presente un interprete durante gli interrogatori e in molti casi le autorità non fanno trapelare nessuna notizia in modo tale che è impossibile farsi un’idea dettagliata del processo. In India ci fu il caso emblematico di Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni che - dopo cinque anni di calvario perché condannati all’ergastolo - sono stati liberati e fatti rientrare due anni fa in Italia. Furono accusati di omicidio nei confronti di Francesco Montis, il loro compagno di viaggio. La tragedia ebbe inizio il 4 febbraio del 2010 quando i tre, di passaggio nell’hotel Buddha di Chentgani, fecero uso di droghe e Francesco si sentì male. I due lo portarono in ospedale ma Francesco morì. Il responso dell’autopsia fu fatale: morte per soffocamento. A nulla valsero le dichiarazioni della madre di Francesco che avrebbero potuto scagionarli: il figlio soffriva di gravi crisi d’asma. Vennero incarcerati il 7 febbraio 2010 e dopo un anno di detenzione il pubblico ministero chiese la condanna a morte per impiccagione. A luglio del 2011 la pena venne convertita in ergastolo e confermata poi nel settembre 2012. Da quel giorno i due aspettavano la sentenza della Corte Suprema di Delhi che per lentezza dovuta ad assenze e rinvii, non arrivava mai. Nel frattempo i due italiani erano stati reclusi nel carcere di Varanasi in condizioni precarie: i barak, ospitano circa 140 detenuti con temperature che arrivano a 50 gradi. Costretti a bere acqua non potabile, senza alcun contatto con il mondo esterno. Poi, per fortuna il lieto fine. Russia. Corsa al riarmo, anche Putin annuncia l’aumento delle spese militari di Yurii Colombo Il Manifesto, 10 maggio 2017 Il presidente, impegnato a definire le prossime mosse verso l’Occidente, parla di difesa durante la tradizionale parata del 9 maggio. La Russia spende già 69 miliardi l’anno: il timore è quello di tagli al già magro Stato sociale. Ieri grandi nuvole nere si stagliavano sul cielo sopra Mosca. Così la tradizionale parata militare del 9 maggio sulla Piazza Rossa per la vittoria della "Grande Guerra Patriottica" antinazista ha fatto a meno del sorvolo a bassa quota dell’aviazione. Imprevisto che non ha tolto molto alla magniloquenza della sfilata militare. Nel suo discorso i toni e le parole di Putin si sono però distaccati dal formale, orgoglioso, ricordo delle tragiche e gloriose vicende di 72 anni fa. Il presidente russo ha infatti voluto richiamare il popolo russo ai problemi posti dall’attuale congiuntura. "Tanto più il ricordo della Grande Guerra Patriottica si proietterà nel futuro - ha affermato il leader del Cremlino - e tanto più grandi saranno le nostre responsabilità verso le generazioni future". Putin, seppur affermando formalmente la necessità di collaborazione internazionale per sconfiggere "neonazismo, fondamentalismo, terrorismo ovvero i totalitarismi odierni", ha sottolineato la necessità che i russi contino in primo luogo su se stessi: "Le lezioni dell’ultima guerra ci chiedono di essere vigili e alle forze armate della Russia di essere in grado di scongiurare qualsiasi potenziale aggressione - ha proseguito - Oggi la realtà ci impone di di migliorare le nostre capacità di difesa". La Russia spende 69 miliardi di dollari l’anno per la difesa, ma resta assai lontana dai 600 miliardi degli Usa. Il dubbio è se con una crescita economica stentata, che quest’anno sarà poco superiore al 1%, possa permettersi un ulteriore aumento della spesa militare senza intaccare il già magro welfare state. Del resto Putin ha necessità di riflettere sulle sue prossime mosse verso l’Occidente. Dopo l’elezione di Trump, che aveva destato così tante attese al Cremlino, il candidato filorusso di estrema destra alla presidenza austriaca Norbert Hofer è stato sconfitto. La tradizionale politica russofoba della Gran Bretagna, malgrado l’arrivo al Foreign Office di Boris Johnson (considerato fino a poco tempo fa non ostile a Mosca), non è mutata. La sconfitta di Le Pen ha aggiunto un ulteriore tassello al "domino" politico di Putin in Europa Occidentale degli ultimi mesi. Da politico pragmatico e poco incline agli ideologismi dovrà pensare a trattare con nuovi accenti con leader europeisti ostili. Alcune novità su Ucraina e Siria potrebbero già venire dall’atteso incontro Lavrov-Tillerson di domani a Washington. Secondo le indiscrezioni di think thank vicini al presidente, ci sarebbe anche un inedito interesse di Mosca verso la sinistra europea. Un dialogo non facile, ma segnali a Mélenchon in campagna elettorale sono già giunti. La sinistra resta debole nel Vecchio Continente, ma Podemos, Bloque de Izquerda portoghese e Linke tedesca (oltre che alcuni partiti socialisti) potrebbero diventare nuovi interlocutori del Cremlino. Iraq. Evitare nuove atrocità nella Mosul liberata dall’Isis di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 10 maggio 2017 Si corre il rischio molto concreto che vengano commessi abusi gravi e persino operazioni di "pulizia etnica" ai danni delle popolazioni sunnite. Nella Mosul liberata dai criminali di Isis si corre il rischio molto concreto che vengano commessi abusi gravi e persino operazioni di "pulizia etnica" ai danni delle popolazioni sunnite. Non c’è pace nell’Iraq post-invasione americana del 2003. E Mosul si rivela il catalizzatore delle tensioni future. La battaglia per eliminare gli ultimi jihadisti irriducibili del "Califfo" Abu Bakr al Baghdadi si sta protraendo molto più del previsto. Ricordate? Da Bagdad il premier Haider al Abadi in ottobre prometteva la vittoria entro il 31 dicembre 2016. Ora pare che le sue divisioni, anche grazie al sostegno aereo Usa, siano davvero alle battute finali. Nel solo quartiere di Harmat, presso la cittadella medioevale, sarebbero stati rinvenuti 250 cadaveri di jihadisti negli ultimi cinque giorni. Da febbraio si contano circa 430.000 civili in fuga. Isis li utilizza come scudi, uccide chi scappa; mancano acqua, cibo, elettricità, medicine. Nel frattempo tornano le cronache dello scontro etnico e religioso, che oltre dieci anni fa alimentò il radicalismo sunnita, motivò Al Qaeda e condusse alla nascita dello stesso Isis. Già il 21 aprile i capi tribali e i sindaci arabi sunniti e cristiani delle cittadine liberate attorno a Mosul mettevano in allarme sulla presenza delle Ashd al Shaabi, le milizie sciite, accusate di avere aperto "dozzine di uffici" che adesso sequestrano case, campi, automobili, danno la caccia ai giovani sunniti. La milizia Shahid Sadr si è insediata a Bartalla, Sukar, Tamim, Somar. E così pure le Brigate Bader. Le Asaeb Al Haqq sono a Quds, Karama, Buawezah. Il partito sciita Dawa, guidato dall’ex premier Nouri Al Maliki che tanto ha contribuito a fomentare lo scontro interno ed è sospettato di lavorare con Teheran, si è insediato a Intisar e Hamdaniyah. Il due maggio il sindaco sunnita della cittadina di Hazar ha accusato le Ashd al Shaabi di aver rapito circa cento giovani uomini di cui non si sa più nulla. Va evitato che la vittoria contro i terroristi di Isis divenga incubatrice di nuove guerre. Nigeria. Laura Boldrini tra i profughi che fuggono da Boko Haram di Francesca Paci La Stampa, 10 maggio 2017 Il Presidente della Camera sostiene gli aiuti allo sviluppo: "Servono alternative per i giovani e bisogna puntare sull’educazione e sulle donne". "Europa, vogliamo venire in Europa". Tra i 1500 profughi del campo di Kuchingoro, alla periferia di Abuja, il sogno di tornare in quel Borno da cui sono scappati per paura di Boko Haram si perde tra fango e polvere lasciando il posto al desiderio più standard di raggiungere il vecchio continente. La congiuntura tra l’intensificarsi dello scontro con i talebani d’Africa e il crollo del petrolio tiene in scacco il gigante economico che fa i conti con la sfida jihadista ma anche con 2 milioni di sfollati interni, una crescita demografica esponenziale (191 milioni di abitanti di cui il 42% under 14) e un’emigrazione nuova (nel 2016 sono sbarcati in Italia 37 mila nigeriani, la nazionalità più numerosa). "Quanto accade in Nigeria deve interessare il mondo, dobbiamo sostenere il Paese nello sforzo contro il terrorismo e nell’impegno a creare alternative per i giovani, dobbiamo puntare sull’educazione e sulle donne" dice il Presidente della Camera Laura Boldrini tra le baracche di Kuchingoro, una delle ultime tappe della sua visita in Nigeria, la prima istituzionale in Africa subsahariana dalla quale deriverà una conferenza Italia-Nigeria sulle donne da organizzare a Roma in autunno. Sotto la pressione dei flussi migratori l’Europa cerca da tempo la via per risolvere il problema alla radice. Anche il neo presidente francese Macron parla di aiuti allo sviluppo fino al 7% del pil per fermare l’esodo. Solo nelle ultime 48 ore ci sono stati circa 6 mila sbarchi. "La Nigeria è cruciale" ripete la Boldrini, che in 4 giorni ha cercato d’intercettare le contraddizioni dell’ottavo esportatore mondiale di greggio dove il 53% della gente vive con 2 dollari al giorno. Un viaggio al termine della notte, dalla capitale Abuja, che ha festeggiato la liberazione di 82 ragazze di Chibok consapevole di quante ne manchino all’appello nei troppi campi profughi, alla Lagos in cui la miseria assoluta della bidonville di Macoco si specchia nella futuristica Dubai africana di Eko Atlantic. Dal Parlamento, dove le donne hanno sudato per conquistare il 5,6% dei seggi, a Benin City, l’epicentro della tratta. "Ogni settimana decine di ragazze finiscono in mano ai trafficanti, oggi riusciamo a tracciarle, negli ultimi 15 giorni ne abbiamo rimpatriate 150 dall’Italia e 120 dalla Libia e dal Niger" racconta Julie Okah Donoi, responsabile di Naptia, l’organizzazione governativa che dal 2003 ha recuperato oltre 10 mila schiave del sesso e consegnato ai giudici 323 sfruttatori. Nella sede del centro, tappezzata di poster "Ti troverò un lavoro in Italia", s’incontrano adolescenti marchiate da violenza, umiliazione, la paura instillata con la magia e depurata dai volontari attraverso protezione, psicanalisi, scuola. Le nigeriane in arrivo in Italia sono in aumento: nel 2016 sono state 11 mila, si stima che l’80% sia destinato al marciapiede. "Sognavo l’Europa e mi sono svegliata in Libia senza documenti, prigioniera" spiega Beki, 28 anni, tuta sporca di grasso, nell’officina di Sandra, un centro di recupero sponsorizzato dal governo dell’Edo State dove, dopo aver studiato meccanica, le vittime della tratta aggiustano le auto scassate da una città priva di piano regolatore quanto di asfalto. La presidente della Camera vuole riportare in Italia la voce di Beki e le altre per dire che bisogna aiutare in loco gli aspiranti migranti e soprattutto le donne, la chiave della stabilizzazione di un Paese critico, con 26 Stati in 12 dei quali legifera la sharia, un livello di corruzione da fondo della classifica di Transparency International, grosse chance di crescita e la maglia nera di Amnesty per i diritti umani (il governatore dell’Edo State ha garantito alla Boldrini che prenderà in considerazione la moratoria sulla pena di morte). "Ho camminato due mesi per arrivare ad Abuja dal Borno, Boko Haram bruciava le nostre case" sussurra Priscilla, turbante colorato e croce al collo. Tiene al seno Daddy di 9 mesi, nato a Kuchingoro come i tre figli di Asfat, stessa sorte ma fede musulmana. Sono i nigeriani di domani, quelli su cui lavora la sezione de-radicalizzazione dell’intelligence di Abuja impiegando insegnanti e imam per "depurare" le menti affette più o meno indirettamente da Boko Haram. La loro storia è gia la nostra. Cecenia. "Così noi gay veniamo torturati" di Riccardo Amati L’Espresso, 10 maggio 2017 Il racconto choc di Andrey e gli altri omosessuali in fuga dal Paese dove vengono seviziati e uccisi (sotto gli occhi complici della Russia): "Urli di dolore che ti scoppia la gola, ti senti cadere, e poi ricomincia". La tecnica si chiama "zvonok Putinu", nel gergo dei servizi di sicurezza russi. Vuol dire "telefonata a Putin". Consiste in una dinamo che fa passare scariche elettriche nel corpo del prigioniero, di solito attraverso il lobo dell’orecchio. Alle botte coi tubi di gomma si resiste: "Ti mordi le mani fino a sanguinare ma ce la puoi fare". L’elettricità è un’altra cosa. "Vedi che iniziano a girare la manovella, e sai che arriverà, e quando arriva il tuo corpo inizia a tremare, sai cos’è perché ci sei già passato, ma non capisci più cosa succede, urli di dolore che ti scoppia la gola, ti senti cadere, e poi ricomincia". A raccontare è Andrey, ma il suo vero nome è un altro. Era stato arrestato perché gay, spiega. Volevano che denunciasse i suoi amici. I carnefici l’hanno liberato dopo un paio di settimane, consegnandolo alla famiglia con la raccomandazione che ci pensassero loro a finire d’ammazzarlo. Lo "ubiystvo chesti", il delitto d’onore, è ancora diffuso e impunito in Cecenia. Dove "i gay non esistono": parola di Alvi Karimov, portavoce del presidente Ramzan Kadirov. "Se esistessero, ci penserebbero i loro familiari a mandarli là da dove non si torna". Dalla fine di marzo in 80 hanno contattato il numero verde istituito da Lgbtn per chi vuol essere aiutato a fuggire dalla repubblica caucasica. Una quarantina sono stati salvati. Qualcuno è già all’estero. Gli altri aspettano visti che tardano ad arrivare. Nella safe house di Andrey c’è anche Mikhail (anche questo nome di fantasia). Ha un sussulto a ogni macchina che passa. "Abbiamo paura a rimanere qui perche "loro" possono venire in qualsiasi momento, e portarci via per ammazzarci da qualche parte", dice all’Espresso. "Nessuno troverebbe mai i cadaveri". Conta le gocce del medicinale che fa cadere nel bicchiere. "E dire che non avevo mai preso neanche un’ aspirina". Mikhail da quando è arrivato qui è sotto psicofarmaci. Almeno dorme. "Loro potrebbero anche infiltrare qualcuno tra noi, per sapere chi siamo e dove siamo: potrebbero mandare un "provokator"", dice. Usa il termine che in Russia e dintorni significa doppiezza, spionaggio e tradimento, almeno fin dalla fondazione dell’Okhrana, il Kgb al tempo degli zar. Nella safe house le pause sono lunghe e la paura è vera. Questa è gente coi nervi a pezzi. Sanno solo che vogliono andare il più lontano possibile dalla Cecenia e dalla Russia, al più presto. La paura dei fuggitivi è giustificata. I killer inviati dalla Cecenia hanno spesso agito indisturbati a Mosca. Il presunto assassino del leader d’opposizione Boris Nemtsov, ucciso due anni fa a due passi dal Cremlino, è un ex ufficiale della sicurezza di Kadirov. "Abbiamo richiesto i visti a diversi Paesi", spiega Olga Borovna, responsabile di Lgbn nella capitale russa. L’Italia non è fra questi. "Funzionari dell’ambasciata tedesca sono venuti qui nella safe house, e hanno parlato con le vittime. Ma per ora non abbiamo saputo niente, né da loro né da altri". Contattata dall’Espresso, l’ambasciata di Germania a Mosca ha risposto che non rilascia informazioni su singoli casi consolari (ma questo caso è "singolo"?). Però ci fan capire che la procedura è avviata. "I visti sono il primo passo per un’ azione penale internazionale per crimini contro l’umanità", annuncia il presidente di Lgbtn, Igor Kochetkov, raggiunto per telefono a San Pietroburgo. Anche se la Cecenia fa parte della Federazione Russa, "Mosca di fatto non la controlla, l’unica legge cecena è Ramzan Kadirov: solo davanti a un tribunale internazionale si potrà aver giustizia", sostiene Kochektov. Le cifre sono quelle di una persecuzione sistematica e organizzata dall’alto. Negli ultimi tre mesi, oltre 100 persone sono state detenute illegalmente e in molti casi torturate in sei diversi centri di reclusione nella repubblica caucasica perché omosessuali o presunte tali, secondo il giornale indipendente russo Novaya Gazeta, che ha "prove certe" di quattro uccisioni e sta cercando riscontri su altre morti sospette. Secondo il Cremlino, invece, "non ci sono prove". Parlando con Vladimir Putin di fronte alle telecamere della televisione di Stato russa, Kadirov ha definito "false e provocatorie le notizie sui presunti fatti" e le "presunte detenzioni". Ma ha fatto il nome di un "presunto" detenuto per omosessualità di cui nessuno era al corrente a parte tre giornalisti, che non lo avevano mai pubblicato. Putin non ha insistito per chiarimenti. La Novaya Gazeta ha passato documentazione e informazioni della sua inchiesta al Comitato investigativo federale (Sledcom), che dipende direttamente dalla Presidenza. Si stanno leggendo le carte. Non risulta sia stata ancora aperta un’indagine. Oltre alla "telefonata a Putin", tra gli strumenti di tortura utilizzati in Cecenia sui gay c’è la "sedia". È una sedia elettrica fai da te: fili collegati ai braccioli, e altri fili attaccati sul corpo della vittima. Andrey e altre nove persone che non si conoscevano tra loro, sentite separatamente, hanno descritto la "sedia" del centro di detenzione di via Kadirov numero 99, ad Argun. Nel carcere segreto oltre ai "colpevoli" di omosessualità c’erano anche persone prese per terrorismo o per droga, dicono i testimoni. Le urla di chi veniva torturato erano continue. La "telefonata" e la "sedia", le tecniche preferite. Come lo furono per i miliziani ceceni leali a Mosca durante le due guerre contro i separatisti combattute tra il 1994 e il 2009, registrarono i rapporti di alcune organizzazioni in difesa dei diritti umani, tra cui Human Rights Watch (in particolare in un suo briefing del novembre 2006). Molti di quei miliziani oggi sono ufficiali dei servizi di Ramzan Kadirov. Mikhail in prigione non ce l’hanno mai portato. Niente telefonate e niente sedie. È stato picchiato e taglieggiato perché si è fidato di un "provokator" in un giorno che maledirà per tutta la vita. "Sai com’è", racconta, "quando non sei il tipo che prende rischi e non sei abituato a queste cose, ma eccoti in macchina con una persona che hai trovato su Vkontakte (il Facebook russo, ndr) e lui ti sta portando alla sua dacia? Sai, quando hai un po’ di timore ma anche tante aspettative? Bene, nella foresta tra i due villaggi lui svolta per una strada sterrata in mezzo agli alberi. "Ma dove vai?", gli dico. Lui guarda avanti e non risponde. Come se non ci fossi. Allora mi spavento. La macchina si ferma in una radura e ci sono tre militari in divisa nera. Mi tirano giù dal sedile, e arriva il primo calcio. Mi pestano per dieci minuti, forse 15. Mi urlano che sono un pederasta schifoso, e che gente come me in Cecenia non deve esistere. Uno riprende tutto col telefonino. Poi resto raggomitolato nel fango e spero solo che non arrivino altre botte. Loro guardano le foto e i contatti nel mio cellulare. Mi gridano in faccia che devo dargli 200mila rubli sennò mettono tutta la mia storia e le mie foto su internet. Io ho qualcosa di rotto nella bocca, non posso parlare". Casi di estorsione da parte delle forze di polizia nei confronti di persone omosessuali sono frequenti, secondo le testimonianze raccolte da Lgbtn. Non solo in Cecenia ma anche nelle repubbliche federate confinanti di Inguscezia e Daghestan. Il fatto è che a Groznyj ora anche i casi iniziati come semplice taglieggiamento sembrano esser diventati parte di un piano strutturato. "Sì, certo che ho pagato", racconta Mikhail nella safe house. "Ho venduto lo smartphone, il computer e altre cose che avevo, e per un po’ non ho speso niente dello stipendio. Ho messo insieme i soldi e ho pagato. No, non ho parlato con nessuno di cos’era successo. A casa ho detto che avevo fatto a botte. Appena sono uscito dall’ospedale, ho cancellato numero di telefono e account sui social. Fine di ogni contatto. All’ospedale poi ho dovuto tornarci per operarmi per le fratture alle ossa del viso. Mi hanno messo una protesi, ma non si vede. Il problema non è fisico. È che quel giorno mi hanno fatto a pezzi dentro". E la cosa non era finita lì. Perché un mesetto fa a casa di Mikhail è arrivata la polizia. Lui era fuggito dalla Cecenia, pochi giorni prima. "I poliziotti hanno detto a mia madre che sono gay. Non lo sapeva. Da noi è tabù. Le hanno chiesto i nomi dei miei amici, l’hanno minacciata. L’ho convinta ad andarsene per un po’ altrove. Quando la sento sto attento a quel che dico. Meno sa e meno è in pericolo. Eppoi cerco di dirle che va tutto bene, che non corro rischi. Così è un po’ più tranquilla. No, non parliamo della mia omosessualità". Mikhail in Cecenia ha una persona molto vicina che non riesce più a contattare. Nessuno l’ha più visto da un mese. "Sono molto angosciato", dice. "Certo che vorrei rivedere lui, e mia madre. Tornare un giorno in Cecenia? Non posso pensarci. È che non so davvero che fare. Quanto alla Cecenia, dovete capire i problemi di una doppia vita. Ti piacciono gli uomini ma devi stare con una ragazza e i tuoi genitori poi ti chiedono di sposarla. E tutta la vita devi vivere per forza con una donna, con una persona che non ti piace - facendo finta. In Cecenia è così. È molto difficile avere una doppia vita". Mikhail è molto giovane e nessuno gli aveva ancora fatto domande, ma se a trent’anni non hai una fidanzata o una moglie, in Cecenia fai scandalo. "È una società estremamente tradizionale, fondata sui clan", spiega Alexey Malashenko direttore del programma Islam, religioni e Caucaso al think tank Carnegie di Mosca. "Non è una questione di religione: la religione viene usata da Kadirov per mantenersi saldamente al potere, qualche presa di posizione semi-fondamentalista serve a tener buoni alcuni clan". Ma perché le leggi russe in Cecenia non valgono? "Perché Putin è ostaggio di Kadirov e Kadirov è ostaggio di Putin", risponde Malashenko. "La Cecenia senza i soldi di Mosca non può sopravvivere, e Mosca ha bisogno che la Cecenia sia pacificata. Gli equilibri che evitano una nuova guerra di secessione li può garantire solo Kadirov. In cambio, il leader ceceno pretende l’assoluta immunità. Ecco perché le leggi russe in Cecenia non valgono". La polizia e i servizi segreti federali di fatto non sono in grado di operare in Cecenia. Ma secondo l’autrice dell’inchiesta che ha portato alla luce i pogrom contro gli uomini gay, Ramzan Kadirov potrebbe aver osato troppo: "Ha oltrepassato i limiti", dice all’Espresso Elena Milashina. "Quando solo la Novaya Gazeta e qualche organizzazione umanitaria scrivevano della Cecenia, Kadirov poteva fare quel che voleva. Ma da quando la Cecenia è al centro dell’attenzione in Russia e nel mondo, le cose sono cambiate. Specialmente dopo l’uccisione di Nemtsov, per il Cremlino Kadirov è diventato un problema". Elena Milashina si occupa della Cecenia dal 12 anni, da quando la sua compagna di scrivania Anna Politkovskaya fu ammazzata perché si occupava troppo di Cecenia. In questo momento vive in un luogo segreto e sta per la maggior parte del tempo fuori dalla Russia, secondo un protocollo di sicurezza elaborato dal direttore del suo giornale. Nessuna protezione dallo Stato, in Russia non si fa. Continua a incontrare le sue fonti cecene, all’estero. Troppo pericoloso. Sta preparando una nuova inchiesta che riguarda violazioni dei diritti umani. "Sì, c’è un rischio", ammette. "Ma i giornalisti vanno e vengono, e la gente che abita in Cecenia resta. Sono loro ad essere davvero in pericolo. E io vado avanti".