La legge sulla tortura e i vincoli della Convenzione di New York di Valerio Onida Corriere della Sera, 9 luglio 2017 Il Parlamento non era libero di restringere i confini del delitto: la Costituzione obbliga il legislatore ordinario a conformarsi alle norme internazionali. È stata definitivamente approvata la legge che introduce nel codice penale il delitto di tortura. Si tratta di un provvedimento che lo Stato italiano era tenuto ad adottare fin da quando, nel lontano 1988, fu data esecuzione in Italia alla Convenzione di New York del 10 dicembre 1984, entrata in vigore nel 1987. Siamo in ritardo di quasi trenta anni! Infatti da tempo la Corte europea dei diritti dell’uomo ha "messo in mora" l’Italia su questo tema. Nella sentenza Cestaro contro Italia del 7 aprile 2015, relativa ai noti fatti della scuola Diaz di Genova all’epoca del G8 del luglio 2001, la Corte aveva espressamente dichiarato che "è la legislazione penale italiana applicata al caso di specie a rivelarsi inadeguata rispetto all’esigenza di sanzionare gli atti di tortura in questione e al tempo stesso priva dell’effetto dissuasivo necessario per prevenire altre violazioni simili". E lo scorso 22 giugno, in un’altra pronuncia relativa agli stessi fatti (Bartesaghi Gallo e altri contro Italia), la Corte, confermando il suo giudizio, aveva ribadito "l’insufficienza dell’ordinamento giuridico italiano quanto alla repressione della tortura". Dunque, una legge assolutamente necessaria. Come si spiega allora che si sia discusso per tanto tempo, e che addirittura, in Senato, proprio uno dei primissimi firmatari della relativa proposta di legge nella presente legislatura, Luigi Manconi, abbia dovuto annunciare che non votava, non condividendolo, il testo così come portato all’esame dell’assemblea? Il punto chiave è nella definizione delle condotte che integrano il delitto di tortura. La definizione della tortura è espressamente e precisamente dettata dalla convenzione internazionale che l’Italia ha sottoscritto: "Ai fini della presente Convenzione, il termine "tortura" designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito": esclusi naturalmente il dolore o le sofferenze "derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate". Dunque si tratta di un tipico "delitto di Stato". La legge avrebbe dovuto semplicemente riprodurre la definizione della Convenzione, o comunque rifarsi integralmente ad essa, per darvi piena e fedele attuazione. Invece in Parlamento si sono elaborati e votati dei testi che hanno preteso di dare una diversa definizione. L’ultimo testo suona così: "Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". Si noterà, anzitutto, che mentre la Convenzione si riferisce unicamente ad atti compiuti da un pubblico ufficiale o per sua istigazione o con il suo consenso, la legge si riferisce a "chiunque", quindi configura un delitto comune, sia pure poi prevedendo una aggravante e quindi una pena maggiore se i fatti sono commessi "da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio". Perché questa diversa definizione? Non vale addurre che anche soggetti non investiti di funzioni pubbliche, come gli appartenenti a gruppi di criminalità comune o mafiosa o terroristica, possono ricorrere per i loro scopi criminali alla tortura nei confronti delle persone loro prigioniere. Infatti non mancherebbe comunque il modo di punire adeguatamente tali violenze commesse da privati, mentre le condotte "tipiche" da prevenire e da punire sono quelle dei pubblici funzionari che legalmente hanno il controllo fisico di una persona. Ma fin qui, si potrebbe dire, poco male: si è estesa la portata della definizione del delitto al di là dell’ambito internazionalmente definito. (anche se non è detto che questo non provochi delle conseguenze). Tuttavia la legge in discussione va al di là: ritiene che vi sia un’ipotesi di tortura solo se "il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". Perché "più condotte" e non ne basta una? Secondo la convenzione, è tortura "qualsiasi atto" intenzionale con quei caratteri, ed è logico che sia così. Si potrà forse obiettare che comunque, secondo la legge, anche un singolo atto, se comporta "un trattamento inumano e degradante", sarebbe punito. Ma che cosa conduce a discriminare una singola condotta che cagioni "acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico" senza però comportare un "trattamento inumano e degradante"? E ancora, che vuol dire che il trauma psichico deve essere "verificabile"? Un atto che cagioni "acute sofferenze psichiche" non è tortura se il trauma psichico non è "verificabile"? Il Parlamento non era libero di definire restrittivamente i confini del delitto: era vincolato dalla Convenzione internazionale, dato che la Costituzione (art. 117) obbliga il legislatore ordinario a conformarsi alle norme internazionali. Onde, una legge non conforme alla convenzione potrebbe e dovrebbe domani, nel caso in cui venga in applicazione, essere portata all’esame della Corte costituzionale e da questa censurata. Non a caso il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, aveva indirizzato una lettera agli esponenti del Parlamento italiano esprimendo la preoccupazione che proprio queste caratteristiche della legge possano dare luogo a potenziali "scappatoie" di impunità. Si è temuto forse di far apparire una "volontà punitiva" nei confronti delle forze dell’ordine? Ma chi può pensare che si esprima una "volontà punitiva" ingiustificata allorché si definiscono, in conformità alle norme internazionali, condotte illecite che non devono e non possono in nessun caso e sotto nessun pretesto essere proprie delle forze dell’ordine di uno Stato democratico? Piuttosto, suona offensivo per i nostri poliziotti e i nostri carabinieri pensare a nascondere o a mascherare o a minimizzare condotte inequivocabilmente contrarie, prima ancora che ai diritti umani, al loro statuto fondamentale di agenti e protettori della legalità. Alla ricerca di tutta la verità possibile di Agnese Moro La Stampa, 9 luglio 2017 La magistratura italiana ha certamente maturato moltissimi meriti e una grande professionalità. Tanto che in varie aree del mondo quando si è trattato di ricostruire un sistema giuridico democratico è stato chiesto l’aiuto dei nostri giudici. Cosa che ci onora e ci inorgoglisce. Alla magistratura dobbiamo tanto, perché è anche, purtroppo, una delle categorie che ha pagato un durissimo prezzo in termini di vite umane in momenti di acuta crisi della democrazia repubblicana e del Paese. Come nella stagione del terrorismo rosso e nero e nella lotta alle mafie. Tenendo conto di tutto questo credo che potremmo chiedere ai magistrati di fare un ulteriore sforzo, che va un poco al di là dei confini del loro impegno strettamente professionale, ma che sarebbe un servizio prezioso per tutti noi: spiegarci quali siano i limiti della verità che può essere accertata in sede processuale. Quando accade un fatto orrendo (pensate a Ilaria Alpi e Milan Hrovatin) con il bagaglio di dolore inestinguibile che si porta dietro, le persone colpite - e tutti noi - chiedono di sapere la verità, tutta intera. Ma è possibile raggiungere la verità tutta intera con gli strumenti del diritto penale? Non è la mia materia, ma mi sembra che la giustizia penale cerchi di scoprire cosa è successo e chi è il responsabile (la responsabilità penale è personale). E accertarlo non in base a sospetti, ipotesi o intuizioni, ma in base a prove che divengono tali nel corso del processo. Alla fine cioè di un dibattito che avviene con il contributo di tutte le parti in causa e con la garanzia che gli elementi su cui ci si basa siano stati raccolti correttamente. Dimostrando in maniera inequivocabile che è proprio la persona imputata ad aver compiuto quell’atto. Cosa abbastanza complessa e che - malgrado la buona volontà e l’impegno - a volte non si riesce a fare. Lasciandoci pieni di amarezza e di interrogativi. Non conoscere i vincoli e i limiti entro cui opera la giustizia penale crea false aspettative che alimentano sofferenze, fraintendimenti, sospetti, e sfiducia nel sistema. Rischiando di farci rifiutare anche quel po’ di verità - magari molto più banale di ciò che vorremmo - che, con tanta fatica, può farsi strada grazie al lavoro vincolato a regole precise, e fondamentale, di tanti addetti ai lavori. Andrea Orlando: "Bocciare il Codice antimafia sarebbe solo un regalo ai boss" di Liana Milella Las Repubblica, 9 luglio 2017 Il ministro della Giustizia: "Il dibattito sulla corruzione non può cancellare la bontà del provvedimento. L’obiettivo è ottenere il sì definitivo a settembre". "È una legge garantista. Attenzione a buttarla alle ortiche per un articolo che ne rappresenta l’un per cento". Il Guardasigilli Andrea Orlando, con Repubblica, difende il nuovo Codice Antimafia, "che va assolutamente approvato in questa legislatura". I "nemici" del Codice si stanno moltiplicando. Dai fini giuristi alla destra super-garantista. Non vede già il binario morto? "È molto importante che il Codice venga definitivamente approvato perché contiene misure di contrasto forte contro la criminalità organizzata, in particolare sul fronte economico, che finora non esistevano, a partire dalla confisca allargata per le ecomafie, la maggiore snellezza nella procedura del passaggio dal sequestro alla confisca, e poi - finalmente - un’Agenzia per i beni confiscati in grado di gestire l’enorme patrimonio che oggi rischia di andare in malora e di non essere utilizzato, diventando il peggior regalo ai boss per screditare lo Stato". Beh, ma di tutto questo si è parlato poco in questi giorni. Alla fine pare che il Codice sia solo un’arma invasiva e giustizialista contro i corrotti... "Mi spiace che il dibattito su un singolo articolo cancelli il carattere fortemente garantista di alcune misure contenute nel Codice. Come quelle che trasformano la procedura del sequestro dei beni in un mini processo, mentre oggi l’interessato non può nemmeno difendersi. O quelle che introducono un istituto molto importante come il "controllo giudiziale", per cui quando l’infiltrazione mafiosa è solo all’inizio non si procede al sequestro, ma si nomina un "controllore" che ripulisce l’azienda senza toglierla alla proprietà, quando essa è stata vittima della mafia. Una terza novità è importantissima, il regime d’incompatibilità tra chi gestisce i beni sequestrati e i magistrati per evitare altri casi Saguto a livello nazionale. Mi dispiace che tutto si sia ridotto alla discussione su un singolo articolo, su cui peraltro sono state dette cose molto lontane dalla verità". L’elenco dei detrattori è lungo. Ultimo Renzi che chiede di recepire i suggerimenti di Cantone e Canzio. Ma visto che il Codice, nel testo Camera, era ancora più duro non lo si poteva criticare prima? "Se queste misure dovessero provocare effettivamente dei danni gravi, allora meglio tardi che mai, quello dei tempi non è un argomento dirimente. Semmai il problema è un altro, avere la garanzia, se proprio bisogna intervenire, che non si butti l’intero ddl alle ortiche, perché tutto il resto è molto più importante del singolo punto della corruzione". Lei che pensa di quella norma? La condivide? "Ci sono pareri di Cantone e Canzio che rispetto, ma ci sono anche quelli di Roberti e del Csm che vanno in un’altra direzione. Forse la stesura della Camera era eccessivamente generica. Ma oggi l’estensione delle misure di prevenzione alla corruzione è stata corretta perché per esserci la misura non basta che ci sia uno dei reati della platea della corruzione, ma bisogna dimostrare la presenza di un’associazione che abbia un carattere duraturo nel tempo. Insomma, un’organizzazione che deve assomigliare molto a quella di tipo mafioso, tanto più in un momento in cui le reti corruttive e mafiose che commettono questo reato spesso si confondono". Scusi, tutti parlano di lotta alla corruzione, poi quando si crea uno strumento forte, arrivano i Gianni Letta e i Niccolò Ghedini a bussare alla porta del Pd per protestare e chiedere misure più blande. Non è un po’ schizofrenico? "Noi, i passi più importanti contro la corruzione, quello che l’Ocse chiedeva all’Italia, lo abbiamo fatto, dall’auto-riciclaggio, al falso in bilancio, alla riforma della prescrizione. Da questo punto di vista non dobbiamo dare ulteriori prove a nessuno. Il punto è un altro, è capire se questo strumento è utile per combattere la corruzione oppure complica soltanto la vita. Ovviamente è una discussione lecita. Non mi pare che l’ultima stesura si presti ad arbitri perché contiene la soluzione alle principali preoccupazioni sollevate...". Non vede che i dubbi proliferano e il Pd di Renzi li raccoglie? "Se in un confronto a 360 gradi emerge che sussistono ancora dei rischi interpretativi, allora vediamo se è il caso di intervenire. Ma partendo dal presupposto, insisto, che non si può buttare alle ortiche il 99% del provvedimento che non è mai messo in discussione. Tant’è che la commissione Antimafia l’ha votato all’unanimità e alla Camera è stata a favore anche la Lega ed è passato con una maggioranza molto più ampia di quella del governo". Ha già un’idea? "Facciamo una valutazione laica per vedere se, senza fare crociate, sono possibili delle modifiche. Arriviamo a settembre con una verifica fatta congiuntamente, ben sapendo che gran parte di questa montatura si basa su un equivoco". Facciamo un calendario. Alla Camera il Codice approderà a settembre. Vede i tempi per due passaggi? "Non lo so, perché le condizioni del Senato sono complicate. Intanto vediamo prima se si deve intervenire. E se sì, dove. Si tratta di una questione specifica su un singolo punto di un singolo articolo, non di un impianto. Si può anche decidere di utilizzare per altre eventuali modifiche un altro veicolo normativo". Cassazione e Consulta non potrebbero assestare la norma? "Solitamente la giurisprudenza ha delineato in modo preciso l’ambito di intervento di questi strumenti. Se si crede che non funzionerà, ripeto, c’è la massima disponibilità a cambiare, ma a patto che non si butti via tutto. Perché questo ddl risolve i problemi di una piccola Iri con un patrimonio di miliardi che rischiano di andare in malora". Torino: il fratello del detenuto morto in carcere "lo hanno abbandonato" di Simona Lorenzetti La Stampa, 9 luglio 2017 "Non era un santo, però non doveva morire in quel modo". "Voglio solo capire cos’è successo, perché è morto abbandonato in una cella". Walter Di Lonardo è il fratello maggiore di Luigi, il detenuto deceduto lo scorso 13 febbraio nel carcere Lorusso e Cutugno. Assistito dall’avvocato Chiara Luciani, l’uomo ha depositato un esposto in procura. Luigi era gravemente malato e avrebbe dovuto essere portato in ospedale. Invece è morto solo, in cella, dopo tre giorni di sofferenza. Lei pensa che qualcuno abbia sbagliato e che suo fratello sia una vittima del sistema giustizia? "Io so che mio fratello è una vittima. Ma non spetta a me dire se ci sono delle responsabilità e di chi siano. Io non punto il dito contro nessuno, ma la storia di Luigi è emblematica. Qualcosa non ha funzionato e voglio sapere cosa". Perché ha deciso di presentare un esposto per omicidio colposo? "Per conoscere la verità. Lo devo a mio fratello e alla mia famiglia. Non posso far finta di nulla. Mi chiedo in continuazione se oggi Luigi sarebbe ancora vivo se lo avessero portato in ospedale. Di sicuro sarebbe libero, avrebbe finito di scontare la pena. Luigi non era un santo, ma non si è mai sottratto alle sue responsabilità. Ha sempre pagato e affrontato la vita a viso aperto. Forse troppo". Lei andava a trovarlo in carcere, si era accorto che la sua salute peggiorava? "Accompagnavo mia madre. È una donna molto anziana che ha avuto una vita difficile. Aspettavo fuori con mio padre. Lei era molto preoccupata, lo vedeva dimagrire a vista d’occhio. Luigi era sempre più scavato in volto. Non poteva mangiare tutti gli alimenti e spesso saltava pranzi o cene. C’erano giorni in cui mamma diceva che stava meglio e anche lei era più serena. Altri in cui era divorata dalla preoccupazione perché aveva notato dei peggioramenti". L’ultima volta che avete incontrato Luigi era sabato 11 febbraio... "Ecco, quel giorno sul volto di mia madre era disegnata la paura. Quando è terminato il colloquio, era disperata. Piangeva, diceva che Luigi stava malissimo, che doveva essere portato in ospedale. In effetti quel pomeriggio è stato trasferito a Torino per essere ricoverato alle Molinette". Perché un viaggio così lungo? "Perché l’ospedale di Novara non è dotato di un reparto per i detenuti. Ma Luigi non è stato trasferito a Torino in ambulanza, lo hanno accompagnato con il furgone della penitenziaria. È stato un viaggio infernale, durato quasi tre ore. Mio fratello soffriva di atroci dolori". Poi cos’è successo? "Non lo so. So che doveva essere portato in ospedale, ma giunto al Lorusso e Cutugno lo hanno sistemato in sezione. Nessuno si è preoccupato della sua salute. Lo hanno lasciato lì, in cella. Poi lunedì la situazione è precipitata e lo hanno portato nell’infermeria del carcere. È morto nel pomeriggio. Non è giusto, avrebbe dovuto morire a casa, con la sua famiglia". Che persona era Luigi? "Uno scapestrato, ma fondamentalmente un buono. Nessuno vuole nasconderne gli errori e la vita borderline. Da ragazzo era generoso e solare, poi ha perso la retta via. Comunque era benvoluto da tutti. Non si è mai sottratto alla giustizia e alle responsabilità. Ma qualsiasi cosa abbia fatto mio fratello in vita, penso che un uomo abbia diritto di morire con dignità. Questo diritto a Luigi è stato negato". Messina: accusato di omicidio, assolto dopo 5 condanne e 10 anni di processi Corriere della Sera, 9 luglio 2017 Il calvario giudiziario di un imprenditore messinese accusato di essere stato il mandante dell’assassinio di un commerciante, nel 1992. "Sono felice finalmente giustizia è stata fatta, ho sofferto molto ma ora il mio calvario è finito". Antonino Romano, imprenditore messinese, ha scontato un anno di carcere per un omicidio che non ha mai commesso. Ma la sua odissea giudiziaria è stata ancora più lunga e tormentata. Per ben 46 magistrati, dopo tre gradi di giudizio, cinque sentenze e 10 anni di "calvario", era colpevole. Ma ieri la Corte di Appello di Catanzaro l’ha assolto dall’accusa di essere stato complice nell’esecuzione materiale dell’omicidio di Antonino Stracuzzi, un commerciante ucciso a colpi di pistola il 14 ottobre del 1992 a Messina. Le accuse non hanno resistito al vaglio dei giudici, dopo la richiesta di revisione del processo presentata dall’avvocato Giovambattista Freni, legale di Romano. La Corte di appello ha annullato le cinque sentenze assolvendo Romano che altrimenti avrebbe dovuto scontare 20 anni di reclusione pur essendo innocente. "Non avevo più fiducia nella giustizia, ora torno a vivere" - "La mia famiglia insieme a me ha sofferto molto - continua Romano - spero ora è stata fatta chiarezza, ma naturalmente nessuno potrà mai ripagarmi per un anno di detenzione e dieci anni di sofferenze. Dopo 5 condanne non avevo più fiducia nella giustizia, adesso sono tornato a vivere". Romano non aveva ancora espiato l’intera pena essendo stato arrestato solo dopo l’ultima sentenza della Cassazione emessa l’otto giugno del 2016. Gli altri coimputati in separati processi sono invece stati condannati all’ergastolo o a 30 anni. Romano era stato giudicato prima dalla Corte di Assise di Messina e condannato a 25 anni, in Appello la pena era stata ridotta a 18 anni e otto mesi. La Cassazione aveva annullato poi per vizio procedurale la sentenza con trasmissione alla Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria e quest’ultima aveva confermato la pena di 18 anni e otto mesi. La V sezione della Corte di Cassazione aveva quindi in seguito rigettato il ricorso. Ora la Corte di Appello di Catanzaro ha deciso di assolvere Romano. Due collaboratori di giustizia avevano indicato Romano come il mandante dell’omicidio Stracuzzi affermando anche che avrebbe indicato la vittima ai due esecutori. Secondo gli investigatori Romano avrebbe fatto uccidere Stracuzzi per vendetta avendo quest’ultimo bastonato uno dei figli di Romano, ma durante l’ultimo processo è stato dimostrato che questo pestaggio non avvenne mai. Macomer (Nu): il carcere dismesso diventerà Centro Permanente per il Rimpatrio di Piero Marongiu La Nuova Sardegna, 9 luglio 2017 Il sindaco: "Ci fa piacere che la struttura venga riaperta" L’opposizione: "Il Consiglio comunale è all’oscuro di tutto". I sopralluoghi effettuati nei giorni scorsi nell’ex carcere di Sertinu dal sindaco Antonio Succu, il vice sindaco Rossana Ledda e l’assessore Marco Manus (ma l’indiscrezione non è confermata) indicherebbero la struttura di Macomer idonea a ospitare il Centro Permanente per il Rimpatrio (Cpr). Dopo l’allungamento dei tempi necessari all’apertura dell’ex carcere di Iglesias, indicato in un primo momento, sarebbe quindi Macomer a ospitare i migranti in attesa di rimpatrio. Lo stesso sindaco Antonio Succu, sulla questione, ha confermato l’interesse verso l’ex carcere di Macomer, chiuso nel 2014, da parte della Regione. "La proposta arrivata dalla Regione Sardegna - ha detto Succu, parlando alla stampa, visto che si tratta di un centro di detenzione, così ci è stato spiegato, purché ci metta al riparo dai centri di accoglienza straordinari, può essere accolta. Ci fa piacere che la struttura venga riaperta, anche perché la sua chiusura creò molti malumori in città. Allo stesso tempo, grazie alla clausola di salvaguardia che ci mette al riparo dall’apertura di un centro di accoglienza, siamo certi dello scopo per cui sarà utilizzata". Ma l’opposizione consiliare non è dello stesso avviso del sindaco, ed esprime la propria contrarietà attraverso una nota a firma di Federico Castori, Riccardo Uda, Peppino Pirisi, Giuseppe Ledda e Rita Atzori. "La vicenda del CPR individuato nella struttura dell’ex carcere di Macomer e che potrebbe ospitare fino a 150 immigrati in attesa di rimpatrio (come previsto dal decreto 13 del 17 febbraio scorso, modificato successivamente con col decreto Minniti e Orlando), sta creando preoccupazione e disappunto nella città. Neppure un mese fa si è trattato l’argomento accoglienza migranti e nulla è stato detto sul tema CPR dal Sindaco, così come nessuna comunicazione è stata data nel Consiglio comunale di appena due settimane fa. Ci pare di capire dalle parole dello stesso Sindaco - scrivono i consiglieri di minoranza - che in quei giorni era già tutto deciso. Siamo stati presi in giro, e con noi tutta la comunità macomerese. Il Sindaco non è il proprietario della città e non può prendere certe decisioni in totale assenza di trasparenza e condivisione con la popolazione. Si diceva a gran voce, e sbattendo i pugni sul tavolo, che mai il carcere sarebbe stato usato per i migranti. Cosa ha fatto cambiare idea al Sindaco? Cos’altro dobbiamo aspettarci da questa amministrazione a pochi mesi dalla scadenza del mandato? Chiediamo che venga convocato con urgenza un consiglio comunale per parlare dell’argomento e informare la comunità. Un commento scritto sul social definisce, ironicamente, quanto detto dal sindaco "parole rassicuranti, come quelle dette in tutte le città italiane che stanno provando sulla propria pelle le conseguenze di quella, che viene definita, una mangiatoia". Volterra (Pi): ergastolano in fuga con il permesso premio, era ritenuto un detenuto modello La Stampa, 9 luglio 2017 Doveva essere un permesso premio, invece era un piano per evadere dal carcere dove era detenuto da anni per omicidio. Ismail Kammoun, 55 anni tunisino, è uscito martedì scorso dal carcere di Volterra (Pisa) dove sta scontando l’ergastolo e dopo due giorni di soggiorno in città ha fatto perdere le sue tracce. L’evaso, ora ricercato, aveva un permesso premio di 10 giorni perché detenuto modello. La sua uscita era stata pianificata nei dettagli dall’amministrazione penitenziaria: due giorni a Volterra più altri 8 da trascorrere sulla costa livornese. Una specie di vacanza. La questura di Livorno, che doveva monitorarlo, praticamente non lo ha mai visto e giovedì è scattato l’allarme: il tunisino da quel momento è latitante. Gli inquirenti assicurano che pur essendo musulmano "non risulta essere radicalizzato". Polemico Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria: "Episodio irresponsabile e gravissimo, per il quale sono già in corso le operazioni di polizia dei nostri agenti della penitenziaria per catturare l’evaso". Terni: la Confederazione Islamica Italiana in visita ai detenuti della Casa circondariale conf-islamica.it, 9 luglio 2017 Il presidente, Mustafa Hajraoui, e il segretario generale, AbdAllah Massimo Cozzolino, della Confederazione Islamica Italiana hanno partecipato, sabato 8 luglio 2017, ad un incontro interreligioso presso la Casa Circondariale di Terni con un folto gruppo di detenuti. Alle ore 8.30 la delegazione del direttivo della CII, insieme con l’imam Mimoun El Hachimi, è stata accolta all’ingresso del carcere dal Commissario della Polizia Penitenziaria, Fabio Gallo. All’interno della Casa Circondariale di Terni, dove è stato realizzato un luogo di culto islamico, l’imam Mimoun El Hachimi ha da tempo avviato un’importante attività di assistenza religiosa a favore dei detenuti di fede islamica in un clima di convivenza, di integrazione e soprattutto di non separazione. I detenuti stranieri, che per lo più risultano privi di una dimensione affettiva, vengono coinvolti in un percorso religioso e culturale che eviti situazioni di solitudine, di ripiegamento, di depressione e di aggressività. La dimensione religiosa per la maggioranza dei detenuti costituisce l’elemento coesivo e unificante le forme del loro patrimonio culturale e dei suoi simboli. La direttrice della Casa Circondariale, dott.ssa Chiara Pellegrino, in un’ottica di pluralismo religioso, ha posto particolare attenzione a tutte quelle misure che mirino al rispetto delle diverse sensibilità religiose dei detenuti, riconoscendo il valore positivo che il credo, le pratiche e i legami religiosi possono avere per i percorsi riabilitativi. La discussione con i detenuti sugli aspetti delicati di una vera integrazione è risultata vivace e appassionata e si è conclusa con il condiviso proposito di ripetere l’iniziativa in futuro, affrontando le specifiche questioni tematiche che vengono richieste dai detenuti. Hanno partecipato all’incontro il Comandante della Polizia Penitenziario, Fabio Gallo, il Presidente della Federazione Islamica dell’Umbria, Chafiq Eloqayly, il Presidente dell’Associazione Anziani e immigrati per l’integrazione, On. Mario Andrea Bartolini, e l’imam El Hachimi. Eboli (Sa): i detenuti trovano casa ai cani randagi, ecco la favola dell’Icatt di Alfredo Boccia lacittadisalerno.it, 9 luglio 2017 Soddisfatta la direttrice dell’istituto, Rita Romano: "Presto al via il progetto sui volatili". Cani educati dai detenuti a trovare famiglia. È il progetto in corso presso l’Istituto di Detenzione a Custodia Attenuata (Icatt) di Eboli diretto da Rita Romano e attivato dalla Cooperativa Dog Park di Ottaviano, di cui è presidente Michele Visone, coadiuvati da Alberto Ayala, presidente dell’associazione Al Perro Verde e docente della Fondazione Bocalan di Barcellona. I meticci, con l’aiuto degli ospiti della struttura e di esperti, vengono indirizzati verso comportamenti utili a poter vivere in una abitazione o presso una famiglia. In pratica a non venirsi a trovare nella condizione di cani randagi. Progetto che permette a chi è recluso presso l’Icatt di Eboli, struttura in cui non esistono sbarre e che ospita chi deve scontare pene per reati minori, di rendersi utili anche nella prospettiva di non reiterare comportamenti illegali una volta ritrovata la piena libertà. "Tra i prossimi progetti che a breve saranno attivati ve ne è anche uno in collaborazione con la Lipu che permetterà di accogliere e medicare all’interno della struttura volatili di piccola taglia rimasti feriti. Con un pool di esperti i nostri ospiti aiuteranno questi animali a riprendere il volo", sottolinea la direttrice Rita Romano. Porto Azzurro (Li): aperto in carcere un panificio per celiaci quinewselba.it, 9 luglio 2017 Il sottosegretario Ferri all’inaugurazione del panificio. Giornata di festa a Forte San Giacomo, inaugurata alla presenza del sottosegretario Ferri anche una struttura dedicata ai familiari dei detenuti. Aperto all’interno del Carcere di Porto Azzurro il primo forno che produce pane senza glutine. Nella mattinata di Sabato 8 luglio, alla presenza del sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, il direttore della Casa di Reclusione Francesco D’Anselmo ha presentato alle autorità e alla cittadinanza questa nuova iniziativa tesa al reinserimento dei detenuti: un forno gestito dai reclusi che produrrà prodotti per celiaci che prossimamente saranno distribuiti nei supermercati dell’Isola. La giornata all’interno di Forte San Giacomo, che ha aperto le sue porte come avveniva in passato mostrando tutta la sua bellezza in una bellissima giornata di sole, è stata nobilitata dalla presenza di numerose autorità civili, militari e religiose: dal Vescovo monsignor Carlo Ciattini e dal sindaco di Porto Azzurro Maurizio Papi, affiancati dal direttore della Casa di Reclusione e dal sottosegretario alla Giustizia, è stato officiato il taglio del nastro della nuova attività, che verrà gestita dalla neonata Cooperativa "Il Forte", alla quale partecipano a vario titolo anche imprenditori elbani. Una seconda inaugurazione, non meno importante, ha portato gli ospiti di Forte San Giacomo sulla terrazza a mare dove, di fronte ad un panorama unico sul forte Focardo e il promontorio di monte Calamita, l’amministrazione penitenziaria ha realizzato un’area giochi dedicata ai familiari dei detenuti, che potrà essere frequentata soprattutto dai bambini in attesa dei colloqui con i propri cari. Un modo significativo per far percepire anche a loro un’immagine diversa della struttura penitenziaria. Antiterrorismo da giudicare di Mario Ricciardi Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2017 "Enough is enough". Dopo ogni attacco, responsabili della sicurezza e governanti annunciano provvedimenti che dovrebbero por fine, una volta per tutte, al pericolo. Eppure ogni volta vengono smentiti. La minaccia terroristica rimane attuale. Talvolta si manifesta in modi nuovi: attraverso l’automezzo scagliato a tutta velocità sui passanti, o i coltelli da cucina usati come armi, per uccidere indiscriminatamente persone indifese. Ormai sono alcuni anni che conviviamo con tale minaccia. Gli Stati Uniti dal settembre del 2001. L’Europa è stata aggredita dopo, ma negli ultimi tempi è proprio nel vecchio continente che gli attacchi si sono fatti più frequenti. Le ex potenze coloniali, Francia e Regno Unito, ciascuna della quali ospita una numerosa popolazione islamica, sono state colpite in modo duro, con modalità che hanno creato sgomento. La promessa che qualcosa di finalmente efficace sarà fatto placa per il momento la richiesta di intervento da parte del governo, l’attenzione si rivolge altrove, fino a quando la minaccia si manifesta nuovamente. Se la richiesta di nuovi, sempre più severi, provvedimenti di pubblica sicurezza è comprensibile, la situazione che ho appena descritto fa pensare che siamo entrati in una spirale. Un circolo vizioso in cui a nuovi oltraggi seguono nuove misure di sicurezza, senza che ciò riesca a ripristinare il senso di sicurezza perduto. Certo, diranno alcuni, noi siamo colpiti solo dagli attentati riusciti. Ben poco sappiamo, per via del carattere riservato di questo tipo di operazioni, di tutti quelli che invece sono falliti grazie al lavoro delle forze dell’ordine e dei servizi di sicurezza interna. Non è certo mia intenzione sminuire il contributo dato da chi lavora per sventare le minacce. D’altro canto non credo che sia fuori luogo, in una democrazia liberale, farsi delle domande relative all’efficacia e alla giustizia delle politiche antiterrorismo attuate fino a ora. Proprio a formulare domande del genere è dedicato il nuovo libro di Mauro Barberis. Uno dei più autorevoli e lucidi filosofi del diritto italiani, che affianca da sempre alla ricerca un’attività di intellettuale pubblico. Per aiutarci a inquadrare il problema nel modo corretto, senza farci condizionare dalla pur comprensibile emotività, Barberis lo colloca in una prospettiva storica larga, ricostruendo in un agile capitolo iniziale le vicende di due nozioni chiave, "libertà" e "sicurezza", che talvolta nel linguaggio comune si confondono, ma che invece è opportuno tenere distinte. Seguono altri quattro capitoli in cui l’autore assume una prospettiva normativa, quella liberale del pluralismo dei valori, per argomentare in favore di un approccio garantista al tema della sicurezza. Valutare l’adeguatezza, la necessità e la proporzionalità dei rimedi per realizzare il fine della sicurezza nazionale, mai dare per scontato, dunque, che una misura draconiana sia solo per questo efficace, è uno degli insegnamenti che si ricavano dalla lettura del libro. Nello spirito di Cesare Beccaria, Barberis si pone come un osservatore simpatetico che, assumendo una concezione realistica degli esseri umani e della loro psicologia, proponga al legislatore gli strumenti più adatti per garantire la sicurezza possibile rinunciando al minimo di libertà. Perché, e questa è la seconda lezione che si ricava dal libro, bisogna diffidare da quei politici che, per blandire l’opinione pubblica, promettono ciò che sanno di non poter mantenere. Nessun sistema di sicurezza, per quanto sofisticato, sarà in condizione di prevenire tutte le aggressioni. La prospettiva garantista di Barberis, anche attraverso una spietata disamina delle distorsioni cui le politiche antiterrorismo hanno dato luogo, ci aiuta a fare i conti con la realtà. Abbiamo detto dell’utilità di una prospettiva storica su questi problemi. Sotto questo profilo, si rivela di grande interesse il libro di un altro filosofo del diritto italiano, Dario Ippolito, che ricostruisce le radici del garantismo penale nel pensiero di Montesquieu. Anche in questo caso, al centro è la relazione problematica tra libertà e sicurezza. Lo scrittore francese non è un rivoluzionario, al contrario, la sua è una visione moderata della società, ma il modo in cui egli pone le basi di una rigorosa difesa delle libertà degli individui contro il dispotismo, e la crudeltà in cui facilmente indulge chi esercita un potere privo di controllo, ha aperto la strada agli illuministi. C’è da sperare che libri come quelli di Barberis e Ippolito aprano la strada a una riflessione collettiva, di cui si sente il bisogno, sui modi più appropriati per difendere il nostro modo di vivere senza finire per tradire noi stessi, e i valori liberali in cui crediamo. Mauro Barberis, "Non c’è sicurezza senza libertà. Il fallimento delle politiche antiterrorismo", il Mulino, Bologna, pagg. 136, € 13. Dario Ippolito, "Lo spirito del garantismo. Montesquieu e il potere di punire", prefazione di Nadia Urbinati, Donzelli, Roma, pagg. 111, € 16. Luci e ombre sulle armi nucleari di Manlio Dinucci Il Manifesto, 9 luglio 2017 Trattato Onu. Si deve pretendere che l’Italia osservi il Tnp, definito dal governo "pilastro del disarmo", ossia pretendere la completa denuclearizzazione del nostro territorio nazionale. In base a tale consapevolezza, i 122 stati che l’hanno votato si impegnano a non produrre né possedere armi nucleari, a non usarle né a minacciare di usarle, a non trasferirle né a riceverle direttamente o indirettamente. Questo è il fondamentale punto di forza del Trattato che mira a creare "uno strumento giuridicamente vincolante per la proibizione delle armi nucleari, che porti verso la loro totale eliminazione". Ferma restando la grande validità del Trattato - che entrerà in vigore quando, a partire dal 20 settembre, sarà stato firmato e ratificato da 50 stati - si deve prendere atto dei suoi limiti. Il Trattato, giuridicamente vincolante solo per gli stati che vi aderiscono, non proibisce loro di far parte di alleanze militari con stati in possesso di armi nucleari. Inoltre, ciascuno degli stati aderenti "ha il diritto di ritirarsi dal Trattato se decide che straordinari eventi relativi alla materia del Trattato abbiano messo in pericolo i supremi interessi del proprio paese". Formula vaga che permette in qualsiasi momento a ciascuno stato aderente di stracciare l’accordo, dotandosi di armi nucleari. Il limite maggiore consiste nel fatto che non aderisce al Trattato nessuno degli stati in possesso di armi nucleari: gli Stati uniti e le altre due potenze nucleari della Nato, Francia e Gran Bretagna, che possiedono complessivamente circa 8000 testate nucleari; la Russia che ne possiede altrettante; Cina, Israele, India, Pakistan e Nord Corea, con arsenali minori ma non per questo trascurabili. Non aderiscono al Trattato neppure gli altri membri della Nato, in particolare Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia che ospitano bombe nucleari statunitensi. L’Olanda, dopo aver partecipato ai negoziati, ha espresso parere contrario al momento del voto. Non aderiscono al Trattato complessivamente 73 stati membri delle Nazioni Unite, tra cui emergono i principali partner Usa/Nato: Ucraina, Giappone e Australia. Il Trattato non è dunque in grado, allo stato attuale, di rallentare la corsa agli armamenti nucleari, che diviene sempre più pericolosa soprattutto sotto l’aspetto qualitativo. In testa sono gli Stati uniti che hanno avviato, con rivoluzionarie tecnologie, la modernizzazione delle loro forze nucleari: come documenta Hans Kristensen della Federazione degli scienziati americani, essa "triplica la potenza distruttiva degli esistenti missili balistici Usa", come se si stesse pianificando di avere "la capacità di combattere e vincere una guerra nucleare disarmando i nemici con un first strike di sorpresa". Capacità che comprende anche lo "scudo anti-missili" per neutralizzare la rappresaglia nemica, tipo quello schierato dagli Usa in Europa contro la Russia e in Corea del Sud contro la Cina. La Russia e la Cina sono anch’esse impegnete nella modernizzazione dei propri arsenali nucleari. Nel 2018 la Russia schiererà un nuovo missile balistico intercontinentale, il Sarmat, con raggio fino a 18000 km, capace di trasportare 10-15 testate nucleari che, rientrando nell’atmosfera a velocità ipersonica (oltre 10 volte quella del suono), manovrano per sfuggire ai missili intercettori forando lo "scudo". Tra i paesi che non aderiscono al Trattato, sulla scia degli Stati uniti, c’è l’Italia. La ragione è chiara: aderendo al Trattato, l’Italia dovrebbe disfarsi delle bombe nucleari Usa schierate sul suo territorio. Il governo Gentiloni, definendo il Trattato "un elemento fortemente divisivo", dice però di essere impegnato per la "piena applicazione del Trattato di non-proliferazione (Tnp), pilastro del disarmo". Trattato in realtà violato dall’Italia, che l’ha ratificato nel 1975, poiché impegna gli Stati militarmente non-nucleari a "non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il controllo su tali armi, direttamente o indirettamente". L’Italia ha invece messo a disposizione degli Stati uniti il proprio territorio per l’installazione di almeno 50 bombe nucleari B-61 ad Aviano e 20 a Ghedi-Torre, al cui uso vengono addestrati anche piloti italiani. Dal 2020 sarà schierata in Italia la B61-12: una nuova arma Usa da first strike nucleare. In tal modo l’Italia, formalmente paese non-nucleare, verrà trasformata in prima linea di un ancora più pericoloso confronto nucleare tra Usa/Nato e Russia. Perché il Trattato adottato dalle Nazioni Unite (ma ignorato dall’Italia) non resti sulla carta, si deve pretendere che l’Italia osservi il Tnp, definito dal governo "pilastro del disarmo", ossia pretendere la completa denuclearizzazione del nostro territorio nazionale. Migranti. Saviano contro Renzi: "Che ipocrisia da chi vende le armi ai regimi" La Repubblica, 9 luglio 2017 "Nessuna gaffe ma tentativo maldestro di dare in pasto una risposta alla ferocia della piazza": lo scrittore commenta duramente su Facebook le affermazioni del leader Pd sulla necessità di "aiutarli a casa loro". "Quanta ipocrisia dunque nell’affermare di voler aiutare i migranti a casa loro. Ma attenzione, quella di Matteo Renzi non è una gaffe o un errore di comunicazione, è piuttosto un frettoloso e maldestro tentativo di dare in pasto una risposta alla ferocia della piazza". Lo scrive su Facebook Roberto Saviano. "Mi permetto di parafrasare così le parole del segretario del partito di centrosinistra, ossatura della maggioranza di governo - continua- se vi considerate di sinistra non dovete sentirvi moralmente in colpa se iniziate ad avvertire impulsi razzisti. Non siete voi a essere razzisti, sono i negri a essere troppi. Ma vi assicuro che continuerò ad avere moralmente a cuore gli affari di chi tra voi produce armi da vendere ai paesi in guerra, impedendo che si creino condizioni di vita accettabili per i negri "a casa loro". Per Renzi dunque l’Italia non ha il "dovere morale di accogliere" ma di "aiutare a casa loro". Eppure, aggiunge, Saviano sul social network, "Renzi sa perfettamente che l’Italia realizza l’esatto contrario perché aiuta sì chi decide di lasciare il proprio paese, ma ad ammazzarsi a casa propria. La prova? Le esportazioni di armi italiane. 2,7 miliardi di euro nel 2014. 7,9 miliardi di euro nel 2015. 14,6 miliardi di euro nel 2016. Queste cifre mostrano come è cresciuto negli ultimi 3 anni (e Renzi ne è al corrente) il valore complessivo delle esportazioni di armi dall’Italia". "Ma il dato politicamente importante - sottolinea ancora lo scrittore - è il boom di vendite verso paesi in guerra in violazione della legge 185/1990, che vieta l’esportazione e il transito di armamenti verso paesi in stato di conflitto e responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. L’Italia nel 2014-2015 è stato l’unico paese della Ue ad aver fornito pistole, revolver, fucili e carabine alle forze di polizia e di sicurezza del regime di al Sisi (con quale faccia chiedono verità per Giulio Regeni). Nigrizia denuncia forniture militari a paesi dell’Africa settentrionale, a regimi autoritari, all’Arabia Saudita, condannata dall’Onu per crimini di guerra e per la quale il Parlamento europeo ha chiesto un embargo sulla vendita di armamenti". Sul tema è intervenuto oggi anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando. "Non ci possiamo tirare indietro - afferma - rispetto al dovere di salvare le persone in mare, ma contemporaneamente dobbiamo chiedere all’Europa di ripartire questo sforzo". "Aiutarli a casa loro non è proprio uno slogan della sinistra. Aiutarli a casa loro è anche giusto nel senso che bisogna sviluppare dei progetti di cooperazione, ma nel frattempo il flusso di arrivo di migranti continuerà e questo va gestito congiuntamente con l’unione Europea". Migranti. "Basta subire la linea d’odio altrui": Chaouki contro Renzi di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 9 luglio 2017 Intervista. Non criminalizzare le Ong e approvare presto lo Ius soli "per una risposta forte contro la paura". Tende ancora a prendere le parti del ministro Marco Minniti, magari aggiustandone il tiro, ma l’ultima svolta del segretario dem in senso neo salviniano della serie "aiutiamoli a casa loro" sta provocando più un forte mal di pancia in Khalid Chaouki, deputato Pd di origini marocchine, membro della commissione Esteri, primo musulmano eletto nella storia parlamentare italiana. Già nella sfida dei gazebo alle primarie si era allontanato dalla versione.4 del renzismo, per intenderci quella con sponda sempre più a destra, per avvicinarsi al governatore pugliese Michele Emiliano, fino a entrare a far parte della sua corrente chiamata Fronte democratico. Chaouki chiede ora, dalla tribuna dell’assemblea di Fronte democratico di un torrido week-end romano, la convocazione urgente di una riunione della Direzione Pd interamente dedicata al tema delle politiche sull’immigrazione. Con quale scopo chiede una direzione ad hoc? Vorrei capire quale linea condivisa adotta il partito democratico su questi temi. In primo luogo perché intravedo il rischio di rimanere succubi di chi, in minima parte legittimamente e in larga parte forzando, alimenta la paura e lo scontro all’interno della società italiana negando tutte le buone cose fatte in questi anni. In secondo luogo perché ancora non vedo una scelta chiara in direzione dell’inclusione dei nuovi cittadini e anche qui temo si ceda al panico delle ultime settimane. Bisogna capire che ci sono 5 milioni di cittadini che sono già parte integrante del sistema politico, economico e sociale italiano. La richiesta è che sullo ius soli non si perda altro tempo, è così? È l’obiettivo principale. Per rispondere alla paura si deve dare un segnale forte. Almeno un milione di giovani, che sono i nostri principali alleati contro chi fomenta odio e intolleranza, aspetta da troppo tempo il riconoscimento di un diritto fondamentale che riguarda la loro identità. Bisogna che siano sicuri che questa legislatura non si chiuderà senza l’approvazione di questa norma. Crede che questi nuovi italiani saranno anche potenziali elettori di centrosinistra? Non è assolutamente detto. Anzi, se si guarda ciò che è successo in altri paesi, la prima generazione che accede al voto tendenzialmente si rivolge verso i partiti conservatori. Ma è per un diritto fondamentale che l’Italia deve dar loro una risposta e per sentirsi così più forte attraverso una iniezione di energie positive in tutti i campi della vita pubblica. La linea cattivista sull’accoglienza non è stata inaugurata da Minniti e dalla polemica sulle ong- pull factor? Ci vuole riconoscenza verso le decine di migliaia di volontari che sono l’orgoglio dell’Italia, che la fanno grande, impegnandosi ogni giorno per la solidarietà e il salvataggio di vite umane nel Mediterraneo. Se ci sono ong non corrette vanno punite, ma non si può criminalizzare un mondo del volontariato, di scuole, chiese e realtà associative nei territori, anche di nostri sindaci e amministratori locali che hanno lavorato e lavorano nel silenzio per tenere alta la bandiera dei diritti umani nel nostro Paese. Non è giusto farne il capro espiatorio dell’incapacità dell’Europa di gestire un problema complesso e strutturale come il fenomeno migratorio. I governi europei a Tallinn e a Parigi hanno opposto un Niet a tutte le richieste di aiuto del governo Gentiloni. Renzi propone come contromisura di non pagare i contributi europei, è l’unica risposta? È imbarazzante constatare l’ignavia dei governi europei e l’unica risposta possibile è mobilitare le opinioni pubbliche e anche i partiti vicini in tutta l’Europa per evitare che vinca un egoismo che danneggia tutti. L’Italia deve poi aumentare il suo protagonismo nell’accoglienza attraverso canali legali e sicuri di ingresso operando ove possibile una selezione dei richiedenti asilo già nei paesi di transito e di partenza. Penso alle fortunate esperienze con Tunisia e Marocco e agli accordi con il Niger e con il Sudan. Scusi ma in Niger e in Sudan non risulta sia garantito il rispetto dei diritti fondamentali. Così non si cementano regimi autocratici? Lì porteremo l’Unhcr e le ong europee, che sorveglieranno i percorsi nei paesi terzi e monitoreranno la situazione dei diritti umani in stretto collegamento con l’Ue per canali sicuri e legali verso l’Europa. Migranti. Minniti rilancia sulla Libia con una dote di 200 milioni di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2017 Progetti destinati alle comunità locali in Libia per 200 milioni. E un’opzione politico-militare strategica: l’Italia si candida alla guida delle centrali di coordinamento delle forze speciali in Libia impegnate nella stabilizzazione. L’agenda del ministro dell’Interno, Marco Minniti, è cerchiata di rosso giovedì 13: volo da Roma a Tripoli. In un luogo ancora sconosciuto per motivi di sicurezza, ricevuto dall’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone, Minniti incontrerà i sindaci delle comunità della costiera e del confine sud. Fasce territoriali decisive per i flussi migratori. L’incontro si svolgerà con il coordinamento del Gna, il governo di unità nazionale guidato da al Fayez Serraj; è prevista la presenza di alcuni ministri del governo centrale, forse persino lo stesso Serraj. Il ministro dell’Interno illustrerà ai rappresentanti locali l’attenzione dell’Italia al processo di stabilizzazione e di ripresa delle comunità libiche. In ballo ci sono circa 200 milioni di finanziamenti dell’Unione europea. Giustificati non solo dall’obiettivo di combattere il reclutamento illegale dei migranti e i viaggi disperati nel Mediterraneo, ma anche di moltiplicare occasioni di sviluppo e di micro-imprenditorialità locale. Insieme a Minniti ci sarà Antonio De Caro, sindaco di Bari ma soprattutto numero uno dell’Anci (associazione dei Comuni): durante l’incontro sarà prospettata l’ipotesi di gemellaggi tra città italiane e libiche allo scopo di rafforzare l’intesa, la coesione con l’Italia e la collaborazione contro i traffici di esseri umani. Ma la riunione ha una prospettiva più ampia. Minniti gioca su una strategia di doppio credito: stringe i legami - tutti da consolidare - tra comunità locali e Gna, in un tavolo dove sono entrambi presenti; accentua così sempre di più il ruolo e la credibilità di Roma in Libia. Diventa perciò conseguente l’ipotesi di candidare l’Italia alla guida del coordinamento delle forze speciali internazionali, necessarie per dare la svolta al processo di stabilizzazione. Gli ultimi report giunti a Bruxelles dicono che la situazione in Libia sta migliorando. Ma occorre garantirsi un processo di pace costante e progressivo. Minniti, comunque, è certo: la soluzione alla straordinaria pressione migratoria subìta dall’Italia sta in Libia. Le azioni sulle missioni navali europee. Domani ci sarà una riunione al Viminale con il prefetto Giovanni Pinto, direttore centrale Polizia delle frontiere e immigrazione: avrà l’input politico per discutere a Varsavia il giorno dopo alla riunione di Frontex- sollecitata proprio dall’Italia - per ridiscutere l’azione di Frontex e di Triton. Anche la missione Eunavformed - Sophia, in fase di rinnovo e proroga, potrebbe avere obiezioni da parte dell’Italia. L’idea è di responsabilizzare gli Stati di bandiera, in questo caso navi militari, perché gli obblighi internazionali s.a.r. (search and rescue) non possono essere in capo solo all’Italia. Ma la partita è molto complicata. Capitolo Ong. La riunione convocata dalla Guardia Costiera con le organizzazioni non governative per i113 luglio è slittata per consentire agli attori istituzionali in campo, a partire dal Viminale, di avere un processo più compiuto sullo schema di codici di condotta per le Ong in mare. Il testo è al vaglio del servizio giuridico della Commissione europea. Intanto Franco Roberti, numero uno della Procura nazionale antimafia, darà nelle prossime settimane direttive alle procure e alle Direzioni distrettuali antimafia impegnate nel contrasto al traffico di esseri umani e al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Lo stesso Roberti sta pianificando un protocollo di accordo con le autorità giudiziarie libiche destinato a una maggiore collaborazione nella lotta a questi crimini. Quanto agli "accordi segreti" per l’afflusso dei migranti in Italia, non si placano le polemiche dopo le dichiarazioni di Emma Bonino, che ha parlato di "accordi segreti" stipulati dall’Italia con il resto dell’Europa per accettare gli sbarchi soltanto sulle nostre coste. Secondo quanto ha ricostruito Il Sole 24 Ore, non c’è stata un’intesa così suicida come l’hanno descritta alcune forze politiche. Roma, dopo aver cancellato l’operazione "Mare Nostrum" considerata da molti Stati, come la Germania di Angela Merkel, "pull factor" di immigrazione, chiese di avere il coordinamento e controllo delle operazioni in mare. Ma questa clausola si è tradotta nella via d’uscita delle altre nazioni da ogni impegno e responsabilità sul soccorso. Di conseguenza, gli sbarchi hanno avuto come unico approdo l’Italia. Migranti. L’inviata Onu: "sì ai flussi legali, dare soldi ai libici non serve a nulla" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 9 luglio 2017 La rappresentante speciale per le migrazioni del Segretario Generale Onu sta negoziando con i governi l’attuazione del Global Compact: "Il problema esiste, ma parlare di emergenza enfatizza i timori. Ma queste persone sono una vera risorsa". "L’unica soluzione per risolvere il problema dei migranti è creare flussi legali. Pensare di fermare queste persone alzando muri e impedendo loro di partire è un’utopia". Louise Arbour, è la rappresentante speciale per le migrazioni del Segretario Generale Onu e sta negoziando con i governi l’attuazione del Global Compact, accordo non vincolante per ottenere una migrazione "sicura, ordinata e regolare". L’Italia denuncia di essere sola di fronte all’emergenza. "Io non userei questo termine così catastrofico. Il problema certamente esiste, ma parlare di emergenza serve ad enfatizzare i timori. E invece queste persone rappresentano una vera risorsa per gli Stati". Anche se non sono regolarizzati? "Certamente, perché forniscono un contributo concreto: la maggior parte di loro manda nel Paese d’origine appena il 15 per cento di quanto guadagna. Il resto lo spende dove ha deciso di vivere". Perché in Europa c’è tanta ritrosia ad accoglierli? "Subentra la paura, il rifiuto alla regolarizzazione di chi riteniamo diverso da noi. Ma bisogna spiegare quali sono i vantaggi. Fermare questi flussi non è possibile, il fenomeno è irreversibile e come tale va governato. Anche perché, parlo dei rifugiati, ci sono dei requisiti di solidarietà da rispettare. Purtroppo all’interno dell’Ue si prendono impegni che poi non vengono rispettati". Le difficoltà incontrate dall’Onu per formare un governo in Libia e la fragilità dell’esecutivo in carica hanno aggravato il problema? "La Libia è uno dei problemi più seri che ci troviamo ad affrontare. Ma fino a che si procederà seguendo lo schema attuale non si raggiungerà alcun risultato". Che cosa vuole dire? "Dare soldi ai libici servirà soltanto ad aumentare il flusso migratorio e anzi contribuirà ad intensificarlo. Concedere fondi alla Guardia costiera locale non è la soluzione, anzi". È l’unico modo per cercare di fermare le partenze. "No, credere che sia così è un grave errore. L’unica strada da percorrere è quella che mira a mettere a posto le cose dal punto di vista politico. Si deve creare un governo stabile, evitare che i trafficanti continuino a spostare le armi dal sud al nord del Paese. Se non si imboccherà questo percorso la situazione peggiorerà ulteriormente". L’Onu ha provato, evidentemente non è così semplice. Non si è fatto abbastanza? "Quando la Nato ha deciso di annientare il regime di Gheddafi era prevedibile che ciò avrebbe portato al caos, ma questo sembrava non importare a nessuno. Adesso è molto più difficile trovare un rimedio. Se però l’Europa si illude che la concessione dei finanziamenti servirà a chiudere la partita commette uno sbaglio". E allora qual è la soluzione? "Lo ripeto, bisogna aprire canali di trasferimento legali anche per i cosiddetti migranti economici. Nel 2018 sarà operativo il Global Compact per favorire gli ingressi legali per motivi di studio, lavoro e ricongiungimento familiare di chi non ha diritto allo status di rifugiato. La Polonia respinge i richiedenti asilo provenienti dalla Bielorussia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 luglio 2017 Mentre l’attenzione generale si concentra sulla gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo centrale, nel cuore dell’Europa c’è una situazione che è vista con grande preoccupazione dalle organizzazioni per i diritti umani e anche dalla Corte europea. Dal 2016, in violazione del diritto internazionale dei rifugiati e della legislazione europea, la Polonia sta bloccando l’ingresso alla maggior parte dei richiedenti asilo provenienti dalla Bielorussia. Li ferma sui treni alla frontiera Brest-Terespol e li costringe, nella stessa giornata, a intraprendere il percorso inverso. In Bielorussia manca un sistema d’asilo funzionante ed è elevato il rischio che richiedenti asilo provenienti dalla Cecenia o da paesi asiatici possano essere rimandati nei luoghi di partenza, dove potrebbero subire torture. Nel giugno di quest’anno la Corte europea dei diritti umani ha adottato un "provvedimento ad interim" riguardante sei richiedenti asilo provenienti dalla Cecenia: non avrebbero dovuto essere rimandati in Bielorussia fino a quando la corte non avesse esaminato a fondo la vicenda e le autorità polacche avrebbero dovuto esaminare la loro richiesta d’asilo. Le autorità di frontiera polacche hanno rifiutato di rispettare il provvedimento e hanno respinto le sei persone. Uno dei sei richiedenti asilo respinti ha fatto ricorso alla Corte europea chiedendo questa volta un provvedimento definitivo contro il respingimento in Bielorussia, paese dove si trova tuttora e da cui rischia di essere rimandato in Russia da un giorno all’altro. La Turchia che sfida Erdogan: una marcia, tante giustizie di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 9 luglio 2017 Da Ankara a Istanbul. Operai, minatori, giornalisti, impiegati, familiari di detenuti, ultrà: ognuno porta in strada la sua storia. La protesta indetta dal partito repubblicano arriva a Istanbul, dopo 480 km: 100mila i partecipanti. La colonna in marcia compare oltre la curva dell’asfalto della superstrada D100, sotto il sole già bollente delle nove, mitigato appena dalla brezza che ha spazzato via l’afa asfissiante dei giorni scorsi. In testa uno stuolo di mezzi della sicurezza, file interminabili di nere divise della polizia e tute mimetiche dell’esercito con fucili da combattimento imbracciati. Ma prima di tutto c’è una bandiera, con i colori giallo e rosso di un’amatissima squadra di calcio di Istanbul, al cui centro campeggia l’immagine di Mustafa Kemal Ataturk, padre della repubblica turca. È suo il volto che apre la strada ad una marcia di protesta che, superati i 400 chilometri di distanza dalla capitale Ankara, si appresta a consumare gli ultimi rimasugli di percorso e che oggi raggiungerà destinazione, il distretto di Maltepe. Là si trova la prigione in cui è rinchiuso Enis Berberoglu, parlamentare del partito repubblicano finito in carcere con l’accusa di aver divulgato segreti di Stato, fotografie che provano il trasferimento di armi in Siria ad opera dei servizi segreti turchi. Il suo arresto ha dato il la a una marcia di protesta e rivendicazione della giustizia con pochi precedenti nel paese. La folla sfila interminabile e ordinata, scorre come un placido fiume sotto i ponti e i cavalcavia da cui altri cittadini osservano incuriositi: lanciano grida di sostegno, applaudono, sventolano la bandiera nazionale o l’effigie di Ataturk. Qualche individuo isolato invece ostenta il proprio disaccordo, inneggia al presidente Recep Tayyip Erdogan, mostra il segno dell’ultranazionalismo turco dei lupi grigi o quello a quattro dita dei Fratelli musulmani. I manifestanti in marcia non si scompongono, l’ordine di non reagire alle provocazioni è ben recepito e in risposta giungono soltanto applausi e cori: l’inno nazionale, qualche canto della guerra di indipendenza, il mantra cadenzato che ripete "hak, hukuk, adalet", diritto, legge, giustizia. Alla giustizia è infatti dedicata questa marcia che Kemal Kilicdaroglu, capo del partito repubblicano Chp, ha voluto per protestare contro l’appropriazione degli organi giudiziari da parte del governo. Commenta il leader Kilicdaroglu: "Ci hanno tolto il parlamento", in riferimento al referendum del 16 aprile scorso che rafforzato la presidenza, "ora cerchiamo giustizia nelle strade". La folla in marcia è riunita sotto il colore bianco di magliette e cappelli che recitano adalet. Assenti bandiere e simboli di partito, banditi dagli organizzatori per svincolare l’iniziativa da logiche di appartenenza, "perché adalet, giustizia, è un bene comune", dicono gli uomini e le donne in marcia. Eppure in questo fiume bianco convivono anime molto diverse tra loro, in un modo che per certi versi ricorda i più colorati e vibranti giorni di parco Gezi. Spicca la folta barba e il viso segnato dalle rughe di Veysel "Amca" Kilic, personaggio lontano dal kemalismo secolare targato Chp, dato che è per sua stessa ammissione vicino a Milli Gorus, movimento politico islamista in cui Erdogan ha militato. Il figlio di Kilic, Sebahattin, è tra i quasi 400 cadetti dell’aeronautica militare in carcere da quasi un anno. "Ma io non mi fido della supposta indipendenza di questa magistratura. Voglio adalet, giustizia, in questo paese; voglio vivere libero nella mia Turchia". Accanto c’è Ayten, madre di un altro di quei cadetto. I cartelli che porta chiedono giustizia anche per i soldati morti nel corso del tentato golpe e dimenticati da uno stato selettivo nella memoria: "Anche i nostri figli sono vittime di quanto accaduto un anno fa e per essi chiediamo adalet, giustizia". Ci sono gli elmetti bianchi dei lavoratori e le sigle sindacali, per i quali "adalet deve tornare anche sul lavoro", perché le purghe di Erdogan non riguardano solo il carcere in cui sono finiti in migliaia, ma anche gli innumerevoli posti di lavoro perduti e l’impossibilità di trovarne un altro. Ci sono le famiglie dei minatori di Soma, località simbolo di tragedia nel mondo del lavoro in attesa per i loro morti di adalet, giustizia. Lavoratori sono anche i giornalisti e marciano quelli del quotidiano Sozcu, chiedono che "il giornalismo non sia un crimine, perché senza giornalismo libero non c’è adalet". Marcia chi dedica i propri passi a Semih Ozakca e Nuriyeh Gulmen, in carcere per aver iniziato uno sciopero della fame per riavere il loro posto di lavoro e che ha ormai oltrepassato i 110 giorni. Marciano i gruppi del tifo calcistico organizzato. Marciano uomini in giacca e cravatta e ci ricordano "come non c’è adalet quando è in vigore lo stato di emergenza", che cancella la certezza del diritto e rende tutto confuso e arbitrario. Sorprendono i numeri imponenti raggiunti dalla marcia che secondo la procura ha ormai superato i 100mila partecipanti, un successo se si considera che a partire da Ankara il 15 giugno erano poche migliaia. Sorprende di più constatare l’assenza totale di incidenti, timore in principio più che plausibile e fortunatamente svanito chilometro dopo chilometro, in ossequio al principio di disobbedienza civile e pacifica che ha portato molti commentatori a paragonare la marcia a quelle di Gandhi in India. Certo, quest’ultimo non camminava scortato da qualche decina di poliziotti come il redivivo Kilicdaroglu che oggi percorrerà gli ultimi tre chilometri verso la prigione da solo, capitolo finale di un’iniziativa da cui esce enormemente rafforzato dopo mesi di critiche alla sua passività. La vera domanda è quale sarà il prossimo passo di Kilicdaroglu, quale il destino della marcia. Erdogan, dopo gli strali iniziali lanciati, ha consentito lo svolgimento dell’iniziativa mentre prepara le celebrazioni dell’anniversario del tentato golpe del 15 luglio, una probabile dimostrazione di forza a colpi di gente nelle strade. Capitalizzerà su questa marcia, considerandola la dimostrazione che in Turchia vive ancora adalet, nonostante in oltre 100mila abbiano marciato dicendo il contrario. Quattro anni fa il vivace fuoco di Gezi è stato spento dagli idranti e i lacrimogeni della polizia. Può il lento fluire di questo fiume che invoca giustizia vedere un finale diverso? Cina. Amnesty: le autorità devono porre fine alla repressione di avvocati e attivisti amnesty.it, 9 luglio 2017 Le autorità cinesi devono porre fine alla loro spietata campagna di detenzione e tortura di avvocati e attivisti per i diritti umani, ha dichiarato Amnesty International alla vigilia del secondo anniversario dell’inizio di una repressione senza precedenti lanciata sotto Xi Jinping presidente. Almeno 250 avvocati e attivisti per i diritti umani sono stati presi di mira durante il rastrellamento a livello nazionale che ha avuto inizio il 9 luglio 2015. Sei sono stati condannati con l’accusa di "sovvertire il potere statale" o "fomentare liti e provocare guai". Altri tre restano ancora in attesa di processo o verdetto. "Per due anni il governo cinese ha sistematicamente decimato le fila degli avvocati e degli attivisti per i diritti umani. Questa violenta repressione segnata da arresti arbitrari, detenzioni incommunicado, torture, maltrattamenti e false confessioni ora deve finire", ha dichiarato Nicholas Bequelin, direttore di Amnesty International per l’Asia orientale. "Gli avvocati e i difensori hanno un ruolo cruciale nella tutela dei diritti umani e dello stato di diritto. Il tormento a cui loro stessi e le loro famiglie continuano a essere sottoposti è in palese contraddizione con la pretesa del governo cinese di sostenere lo stato di diritto". Torture e maltrattamenti - La tortura nei confronti degli avvocati detenuti resta un problema sistemico. Un avvocato rilasciato su cauzione a maggio, Xie Yang, ha riferito ai suoi avvocati di aver subìto percosse, lunghi interrogatori e privazione di acqua e del sonno durante i suoi 22 mesi di detenzione. La moglie di un altro avvocato, Li Heping, ha descritto come suo marito fosse alimentato da farmaci e incatenato fino a 24 ore al giorno durante la sua detenzione. Li è stato sottoposto in aprile a una pena detentiva di tre anni con la condizionale per "sovversione del potere statale". Sparizioni - Le detenzioni incommunicado restano la routine. L’avvocato Wang Quanzhang è stato arrestato dalle autorità cinesi nell’agosto del 2015. A oggi la sua famiglia non ha ancora informazioni su dove si trovi, sulle sue condizioni o se sia ancora vivo. Un altro eminente avvocato cinese per i diritti umani, Jiang Tianyong, è stato portato via dalla polizia nel novembre dello scorso anno, dopo aver fatto visita alla moglie di un collega avvocato che era stato arrestato nella prima ondata della repressione. Per mesi, le autorità hanno rifiutato di fornire alla famiglia di Jiang Tianyong qualsiasi informazione riguardo a dove si trovasse. Nel mese di maggio la polizia ha infine comunicato alla famiglia Jiang che era stato formalmente arrestato per "sovversione del potere statale", un’accusa che prevede una condanna massima al carcere a vita. È trattenuto nel centro di detenzione Changsha City n.1 nella Cina centrale, ma ai suoi avvocati continua a essere impedita ogni visita. Sta ancora aspettando di sapere se i procuratori daranno seguito alle accuse contro di lui. Persecuzioni continue - La detenzione dell’avvocato Wang Yu e della sua famiglia il 9 luglio 2015 ha scatenato l’inizio della crisi del governo. Nonostante Wang Yu e suo marito Bao Longjun siano stati liberati l’anno scorso, restano sotto stretta sorveglianza e continuano a essere tormentati dalle autorità. "Le autorità devono smettere di trattare con crudeltà avvocati e attivisti per i diritti umani. Devono fermare questo tormento e liberare gli avvocati e gli attivisti che sono stati detenuti esclusivamente per aver svolto il proprio lavoro e aver difeso i diritti umani", ha ammonito Nicholas Bequelin. La repressione contro gli avvocati dei diritti umani fa parte di un’operazione calcolata da parte del governo cinese per sopprimere la società civile. Le nuove leggi o proposte di legge consentono alle autorità poteri quasi incontrollati per prendere di mira individui e organizzazioni percepiti come critici del governo e delle sue politiche. Venezuela. Scarcerato Leopoldo Lopez, oppositore simbolo La Stampa, 9 luglio 2017 Concessi gli arresti domiciliari dopo 3 anni. Una foto in cui sorride abbracciato ai due figli è la prima immagine di Leopoldo Lopez fuori dal carcere. Dopo tre anni e mezzo il più rappresentativo oppositore al governo Maduro, 46 anni, è stato rilasciato ieri a Caracas. Il Tribunale Supremo gli ha concesso gli arresti domiciliari per "problemi di salute". Lopez, leader del movimento Voluntad popular, era stato arrestato e successivamente portato nel carcere militare di Ramo Verde, nel febbraio del 2014. Un tribunale di Caracas lo aveva condannato a 13 anni e 9 mesi di carcere con l’accusa di "incitamento alla violenza" per l’organizzazione delle manifestazioni contro l’allora neo presidente Nicolas Maduro. Gli scontri in strada del 2014 causarono 43 morti, mentre è di quasi cento vittime il bilancio delle manifestazioni contro il governo scoppiate il primo aprile e ancora in corso. Da tempo l’opposizione definiva Leopoldo Lopez un prigioniero politico e diversi leader mondiali, fra cui il presidente Usa Donald Trump, il Papa e l’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu avevano fatto pressioni per il suo rilascio. Lopez, che in un video recente aveva denunciato torture subite all’interno del carcere, è ora obbligato a indossare un braccialetto elettronico.