Italia, patria del Diritto. E del rovescio di Valter Vecellio L’Indro, 8 luglio 2017 Sollecito, nessun risarcimento per l’ingiusta carcerazione. Carceri: sette detenuti su dieci con gravi patologie. Tra una immaginifica metafora e l’altra, una volta Pierluigi Bersani disse che quella italiana era la Costituzione più bella del mondo. "Non bella, buona", prontamente lo rimbeccò Marco Pannella. "Talmente buona che ve la siete mangiata pezzo per pezzo". Intendeva dire che la Costituzione più bella del mondo in larghissima parte è disapplicata. In effetti, forse l’unico articolo veramente applicato è il 12: "La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni". Certamente non è applicato come Costituzione, diritto e umanità vorrebbero l’articolo 27: "La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte". A ricordarci che esiste l’articolo 27, ogni tanto la collezione di condanne da parte della Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu); e casi che riescono a sfondare la cortina fumogena del gossip imperante che ormai costituisce la cifra di un po’ tutti i giornali. Ci siamo facilmente scrollati di dosso il caso del boss della Cosa Nostra Totò Riina. Sta male, le sue condizioni di salute sono precarie? Ebbene, che sconti ugualmente la sua pena sottoposto al regime speciale del 41-bis, e possibilmente che soffra, come lui ha fatto soffrire decine, centinaia di persone. Anche per Marcello Dell’Utri non ci si scalda troppo. Sanitari, familiari, garante dei detenuti dicono che le sue condizioni di salute sono critiche, precarie. Ma anche Dell’Utri è in odore di mafia, o almeno di contiguità con la Cosa Nostra; e poi apparteneva al cerchio magico di Silvio Berlusconi. Ricordate la bella fotografia che li ritraeva a Bermuda, tutti disciplinati e vestiti di bianco, a fare jogging dietro il capo? Berlusconi, Carlo Bernasconi, Fedele Confalonieri, Adriano Galliani, e lui, Dell’Utri…Altri tempi. Paghi anche lui, in cella fino all’ultimo minuto secondo. Peccato che non sia solo Riina, non sia solo Dell’Utri. Ecco le cifre della vergogna: il 40 per cento dei carcerati ha almeno una patologia psichica. Se i detenuti sono circa 55mila, quanto fa il 40 per cento? 22mila circa. Un esercito. Secondo una stima dell’Agenzia regionale di Sanità della Toscana (resa nota dall’associazione Ristretti Orizzonti), condotta su circa 16mila reclusi delle carceri di Toscana, Veneto, Lazio, Liguria, Umbria, 7 detenuti su 10 sono affetti da una patologia, soprattutto disturbi psichici, malattie infettive, disturbi dell’apparato digerente. Fra le malattie infettive e parassitarie, l’epatite C è quella più diffusa. Italia patria del diritto e del rovescio. Lo ricordate, vero, il caso di Raffaele Sollecito? Trascorre quattro anni di carcerazione, accusato, insieme ad Amanda Knox, dell’omicidio di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia nel 2007. Dopo un lungo iter giudiziario, viene assolto lui, assolta lei. Però i quattro anni di carcere ci sono stati, eccome se ci sono stati. Pensate che sia stato in qualche modo risarcito, ammesso che una simile esperienza possa essere risarcita in qualche modo? Neppure per sogno. La Corte di Cassazione respinge il reclamo di Sollecito per avere 500 mila euro di risarcimento per ingiusta detenzione. Innocente, lunga detenzione, nessun risarcimento. Come si spiega? Non si spiega. Lui dice: "Se ancora non trovo un lavoro è per quanto mi è successo. Sto ancora subendo le conseguenze degli anni passati in carcere da innocente e non capisco perché questo non venga compreso". Giulia Buongiorno, l’avvocato che lo ha difeso, aggiunge: "Coerentemente con la decisione della stessa Cassazione che, quando ha assolto Raffaele e Amanda aveva parlato di gravi contraddizioni, ci si attendeva un minimo di risarcimento; quindi è ovvio che questa decisione ci sembra un po’ contraddittoria. Questo ovviamente non scalfisce l’assoluzione di Raffaele e posso affermare che non finisce qui, intendo andare avanti in sede europea perché mi sembrerebbe il riconoscimento dell’ingiustizia detenzione i sembrerebbe il giusto epilogo". I suicidi. Come spesso si è ricordato in questa rubrica, non sono solo i detenuti a voler evadere uccidendosi. Spesso anche gli agenti di polizia penitenziaria si suicidano. Gli ultimi casi riguardano un assistente capo di 45 anni in servizio alla casa circondariale di Opera, e impiegato al Nucleo traduzioni e piantonamenti di Milano. Si è tolto la vita con l’arma di ordinanza. Per più di vent’anni aveva prestato servizio nella polizia penitenziaria. L’altro episodio a Montalto Uffugo, vicino Cosenza. Lui, agente di polizia penitenziaria, uccide la moglie dopo un violento litigio, poi si punta la rivoltella alla tempia e si uccide. È la figlia diciottenne a dare l’allarme. Quanto la ragazza entra in casa vede i corpi senza vita dei genitori riversi sul pavimento. L’uomo, a quanto pare, sospettava un tradimento della moglie; e per questo i litigi erano frequenti. "Di fronte a queste tragedie", commenta Donato Capece, segretario del Sappe (Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria), "la domanda che ci poniamo è sempre la stessa: si poteva fare qualcosa per impedire queste morti? Si poteva intercettare il disagio che caratterizzava questi uomini e, quindi, intervenire per tempo? Allo stato non è possibile dire quali siano state le ragioni che hanno portato a questi tragici gesti, e quindi non sappiamo se possano eventualmente esseri anche ragioni professionali. Certo è che è luogo comune pensare che lo stress lavorativo sia appannaggio solamente delle persone fragili e indifese mentre il fenomeno, colpisce inevitabilmente anche quelle categorie di lavoratori che almeno nell’immaginario collettivo ne sarebbero esenti, ci riferiamo in modo particolare alle cosiddette professioni di aiuto, dove gli operatori sono costantemente esposti a situazioni di stress alle quali ognuno di loro reagisce in base al ruolo ricoperto e alle specificità del gruppo di appartenenza". La richiesta pressante è che l’amministrazione penitenziaria interrompa quello che viene definito un "continuo tergiversare su questa drammatica realtà. Servono soluzioni concrete per il contrasto del disagio lavorativo del personale di polizia penitenziaria. Come anche hanno evidenziato autorevoli esperti del settore, è necessario strutturare un’apposita direzione medica della polizia penitenziaria, composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti". Giustizia, il gioco dei quattro cantoni di Paolo Pillitteri L’Opinione, 8 luglio 2017 Politica come giustizia, in Italia, ovvero il gioco dei quattro cantoni. Una maledizione che ci pesa sopra, tanto più grave quanto più la Seconda e la Terza Repubblica si inseguono dando la netta sensazione di giocare: ai quattro cantoni, appunto. Che è poi il non raccontarla giusta, il preferire le bugie e, soprattutto, lasciare le cose come stanno; o, quel che è peggio, aggravarle. Prendete il caso della giustizia, pardon, i casi, dai braccialetti che mancano (e la gente sta il galera) al nuovo, nuovissimo reato della tortura, alla nuova, nuovissima antimafia e ditemi voi a che gioco (perverso) si sta giocando. Per i braccialetti è dovuto spuntare il nome di un attore, più o meno famoso e finito in galera, per rendere di pubblico dominio la carenza di questi aggeggi che, tra l’altro, farebbero risparmiare tempo e denaro agli addetti ai lavori giudiziari, oltre che dare una sorta di boccata d’aria, cioè senza le sbarre, ai malcapitati. Ma tant’è, e speriamo che qualche volonteroso sottosegretario acceleri i tempi della gara per acquistarli, evitando comunque di finire attenzionato da magistrati sempre sul chi vive, e comunque sempre o quasi chiamati in causa persino per i braccialetti, per l’eccessivo potere discrezionale. Come dire: loro non giocano ai quattro cantoni E sul nuovo reato della tortura? Può darsi che nel nostro compito a cercare il cosiddetto pelo nell’uovo stiamo esagerando. Eppure non è chi non veda che l’istituzione di questo reato non fosse così obbligatoria, e questo detto da chi il garantismo non ha mai abbandonato, e mai abbandonerà. Il fatto è che il reato di tortura e di istigazione alla stessa e che riguarda essenzialmente le forze dell’ordine, esiste già nel nostro codice anche se con altri nomi: abuso di potere, lesione, lesione aggravata e in caso di morte esiste l’omicidio, se è un pubblico ufficiale che commette il reato, ci sono le aggravanti. Dunque le norme ci sono, le pene pure e basterebbe applicare quelle esistenti, o no? Aggiungiamo a latere che il delitto di tortura dovrebbe essere imprescrivibile, come l’omicidio. Mah... E delle questioni sollevate a proposito del nuovo codice antimafia e la sua - per dir così - "esondazione" verso la corruzione, le più importanti sono quelle dei giuristi come Giovanni Fiandaca, dello stesso Luciano Violante, sì proprio lui, e persino di Raffaele Cantone. E ho detto tutto se non fosse che, per fortuna, il testo deve ritornare di nuovo in aula dove, ci si augura fortemente, si guardino con qualche attenzione in più le conseguenze. Nel testo, secondo Filippo Facci, si è inventata una normativa a parte per le presunte mafie che utilizzano la corruzione non solo sdoppiando le abbondanti leggi che ci sono già, ma estendendo confische e sequestri ai danni di qualsiasi imputato per reati contro la Pubblica amministrazione, il che potrebbe rovinare innocenti, gente che non c’entra, aziende un tempo floride. Ma ciò che non può non suscitare la massima preoccupazione dei veri garantisti, sempre in lotta contro populismi, giustizialismi, gogne e galere facili, è, per l’appunto, l’aspetto della confische facili, che solleva non soltanto dubbi di legittimità costituzionale, ma contrasta apertamente con non poche convenzioni internazionali. Ci fermiamo qui non senza evocare lo spirito del grande, immortale Marco Pannella. Se ci sei, batti un colpo, Marco! Giustizia, il gioco dei quattro cantoni di Paolo Pillitteri 08 luglio 2017 Giustizia, il gioco dei quattro cantoni Politica come giustizia, in Italia, ovvero il gioco dei quattro cantoni. Una maledizione che ci pesa sopra, tanto più grave quanto più la Seconda e la Terza Repubblica si inseguono dando la netta sensazione di giocare: ai quattro cantoni, appunto. Che è poi il non raccontarla giusta, il preferire le bugie e, soprattutto, lasciare le cose come stanno; o, quel che è peggio, aggravarle. Prendete il caso della giustizia, pardon, i casi, dai braccialetti che mancano (e la gente sta il galera) al nuovo, nuovissimo reato della tortura, alla nuova, nuovissima antimafia e ditemi voi a che gioco (perverso) si sta giocando. Per i braccialetti è dovuto spuntare il nome di un attore, più o meno famoso e finito in galera, per rendere di pubblico dominio la carenza di questi aggeggi che, tra l’altro, farebbero risparmiare tempo e denaro agli addetti ai lavori giudiziari, oltre che dare una sorta di boccata d’aria, cioè senza le sbarre, ai malcapitati. Ma tant’è, e speriamo che qualche volonteroso sottosegretario acceleri i tempi della gara per acquistarli, evitando comunque di finire attenzionato da magistrati sempre sul chi vive, e comunque sempre o quasi chiamati in causa persino per i braccialetti, per l’eccessivo potere discrezionale. Come dire: loro non giocano ai quattro cantoni E sul nuovo reato della tortura? Può darsi che nel nostro compito a cercare il cosiddetto pelo nell’uovo stiamo esagerando. Eppure non è chi non veda che l’istituzione di questo reato non fosse così obbligatoria, e questo detto da chi il garantismo non ha mai abbandonato, e mai abbandonerà. Il fatto è che il reato di tortura e di istigazione alla stessa e che riguarda essenzialmente le forze dell’ordine, esiste già nel nostro codice anche se con altri nomi: abuso di potere, lesione, lesione aggravata e in caso di morte esiste l’omicidio, se è un pubblico ufficiale che commette il reato, ci sono le aggravanti. Dunque le norme ci sono, le pene pure e basterebbe applicare quelle esistenti, o no? Aggiungiamo a latere che il delitto di tortura dovrebbe essere imprescrivibile, come l’omicidio. Mah... E delle questioni sollevate a proposito del nuovo codice antimafia e la sua - per dir così - "esondazione" verso la corruzione, le più importanti sono quelle dei giuristi come Giovanni Fiandaca, dello stesso Luciano Violante, sì proprio lui, e persino di Raffaele Cantone. E ho detto tutto se non fosse che, per fortuna, il testo deve ritornare di nuovo in aula dove, ci si augura fortemente, si guardino con qualche attenzione in più le conseguenze. Nel testo, secondo Filippo Facci, si è inventata una normativa a parte per le presunte mafie che utilizzano la corruzione non solo sdoppiando le abbondanti leggi che ci sono già, ma estendendo confische e sequestri ai danni di qualsiasi imputato per reati contro la Pubblica amministrazione, il che potrebbe rovinare innocenti, gente che non c’entra, aziende un tempo floride. Ma ciò che non può non suscitare la massima preoccupazione dei veri garantisti, sempre in lotta contro populismi, giustizialismi, gogne e galere facili, è, per l’appunto, l’aspetto della confische facili, che solleva non soltanto dubbi di legittimità costituzionale, ma contrasta apertamente con non poche convenzioni internazionali. Ci fermiamo qui non senza evocare lo spirito del grande, immortale Marco Pannella. Se ci sei, batti un colpo, Marco! Reato di tortura, la legge è un colpevole compromesso al ribasso di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2017 Abbiamo la legge. Abbiamo nel codice penale italiano un reato che si chiama "tortura". Non dovremo più fare capriole con le parole, dire che sono minacce, lesioni, maltrattamenti in famiglia. Quando si abusa su qualcuno che si ha in custodia si commette tortura. "Chiamiamola tortura". Era questo il titolo dell’ultima delle tante campagne portate avanti da Antigone per l’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano, lanciata nell’aprile del 2014 e arrivata a 55.000 firme. La nostra prima proposta di legge risale al 1998. Chiamiamo le cose con il loro nome. Serve a preservare la verità storica e, come si è visto nei troppi casi di impunità di cui il nostro Paese si è reso complice, serve a punire adeguatamente un crimine orrendo. Dovremmo essere contenti e basta di quanto accaduto oggi in Parlamento, vale a dire il voto definitivo della legge che introduce il reato di tortura nel nostro codice penale. Ma non può essere così, dopo il bruttissimo dibattito che ha preceduto questo risultato e con il testo di legge che è stato approvato. Da sempre abbiamo auspicato che la Convenzione Onu contro la tortura facesse da guida al legislatore italiano. Ma così non è stato. Troppe sono le discrepanze tra gli impegni presi in sede internazionale e la legge votata dal nostro Parlamento. Le Nazioni Unite definiscono la tortura come un crimine proprio di un pubblico ufficiale. È solo chi porta una divisa che può diventare un torturatore. Gli altri devono essere puniti secondo altre fattispecie di reato. La tortura è un crimine di Stato ed è importante che come tale venga riconosciuto. La tortura è il crimine di chi dovrebbe legittimamente custodire qualcuno e invece abusa di questa persona per ottenere informazioni o per altri motivi. Ma in Italia non è così. Da noi il pubblico torturatore si confonde con il torturatore privato, che non aveva alcun fondamento legittimo nel tenere in custodia la sua vittima. Le forze dell’ordine non hanno permesso che un reato formalmente definito per loro potesse entrare nella nostra legislazione. Non hanno capito che quel reato serve a distinguere il poliziotto onesto da quello disonesto. Hanno pensato fosse un’onta al proprio potere aderire a quanto scritto dalle Nazioni Unite. Con buona pace di chi a Genova nel luglio del 2001 ha subito quella "macelleria messicana" che tutti conosciamo. La definizione Onu di tortura è stata purtroppo disattesa dalla norma italiana anche altrove. Affinché ci sia tortura deve esserci crudeltà - un concetto non ovvio da definirsi e dimostrarsi - oppure devono esserci violenze o minacce gravi. Perché utilizzare il plurale? Quale esigenza ha sentito il legislatore di lasciare all’eventuale processo penale la possibilità di divincolarsi tra una violenza, due violenze, tre violenze? E inoltre: tali violenze, affinché si abbia tortura, devono cagionare acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico. Ma quando un trauma psichico è verificabile? Quali elementi lo differenziano da un trauma psichico non verificabile, accaduto magari tanti anni prima? Parole. Ma parole che tuttavia vogliono costituire un segnale di potere e di impunità per chiunque indossi una divisa, a prescindere dal suo operato. Era sufficiente tradurre in italiano la definizione della Convenzione Onu contro la tortura del 1984 e mettere da parte la creatività. In ogni caso adesso abbiamo una legge. Da oggi la tortura è un crimine del nostro ordinamento. La speranza è che in poco tempo il brutto dibattito di questi mesi sarà dimenticato. Resta la legge. Una legge che avremmo voluto ben differente, ma che adesso c’è. Vedremo dunque se e come verrà applicata. Dipende anche dalla cultura degli operatori della giustizia. Noi monitoreremo ogni processo per violenza da parte di pubblici ufficiali e ci impegneremo affinché i giudici applichino la tortura, laddove tortura c’è stata. Separazione delle carriere, una riforma che non è più rinviabile di Alessandro Gerardi* Il Dubbio, 8 luglio 2017 La discrezionalità di giudici e pubblici ministeri si è estesa in modo abnorme, è lecito porre anche per la magistratura un problema di limiti e contrappesi. La proposta di legge costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati, sulla quale l’Unione delle Camere Penali Italiane e il Partito Radicale stanno raccogliendo le firme nell’indifferenza di pressoché tutte le forze politiche presenti in Parlamento, rappresenta una grande svolta destinata a riportare la giustizia ai suoi principi naturali. L’unicità della magistratura requirente e giudicante, infatti, si basa su una premessa che ormai è stata superata dagli svolgimenti politici e istituzionali successivi all’entrata in vigore della Costituzione. La premessa era la seguente: i giudici sono soggetti solo alla legge (sono cioè "indipendenti") e i componenti dell’ordine giudiziario si limitano a darvi esecuzione. Ebbene, oggi questo modello è saltato. Nelle democrazie moderne il giudiziario non è più quel "potere nullo" di cui parlava Montesquieu, ma costituisce il Terzo Gigante accanto agli altri due poteri dello Stato (legislativo ed esecutivo). Non a caso tutti oggi ammettono il carattere "creativo" dell’interpretazione, anche perché è la stessa complessità dei sistemi giuridici - l’integrazione europea e la globalizzazione che porta alla estensione della discrezionalità di tutti i componenti del giudiziario. Tutto ciò può anche essere visto con favore, se un giudice forte e indipendente diviene il baluardo dei nostri diritti e delle nostre libertà, c’è però un risvolto della medaglia: la magistratura che "crea" la norma e che decide i conflitti collettivi, diventa sempre più simile al legislatore, ossia esprime una sua ineliminabile politicità. Man mano che il ruolo del giudiziario si dilata, si fa strada la tendenza a diventare "controllori della virtù" delle dirigenze politiche e amministrative. Il potere giudiziario, quindi, prende decisioni di rilevanza politica, ma non è politicamente responsabile. Nella Costituente non vi era all’orizzonte l’idea di un Potere Giudiziario "forte", ed in quel contesto quindi i magistrati requirenti e giudicanti potevano essere unificati perché entrambi si limitavano a dare esecuzione alla legge, entrambi cioè erano funzionari dello Stato vincolati al rispetto della legge con ridotti margini di discrezionalità. Ma nel momento in cui la discrezionalità di giudici e pubblici ministeri si è estesa in modo abnorme, è lecito porre anche per la magistratura un problema di limiti e contrappesi. Se giustamente la cultura liberaldemocratica ha sempre nutrito forti sospetti nei confronti del potere politico eletto democraticamente al punto da imbrigliarlo in quel sistema di pesi e contrappesi che costituisce l’essenza dell’odierno costituzionalismo, la stessa preoccupazione dovremmo nutrirla oggi nei confronti dell’ordine giudiziario. Anche nei confronti di quest’ultimo, infatti, deve vivere il collaudato principio della separazione dei poteri tra pubblici ministeri e giudici ed il conseguente loro inserimento in complessi organizzativi diversi, in modo da costringere gli organi inquirenti a confrontare le loro ipotesi accusatorie non con dei colleghi, ma con degli appartenenti ad un altro potere. *Tesoriere del Comitato Radicale per la giustizia Piero Calamandrei Cantone: "troppe aspettative verso l’Autorità anticorruzione" di Mauro Favale La Repubblica, 8 luglio 2017 "Continuano ad arrivarci centinaia di segnalazioni: c’è una parte del Paese che chiede giustizia, perché l’onda lunga degli scandali non sembra arrestarsi". Non è l’Anac, l’Autorità anticorruzione istituita nel 2014, la panacea di tutti i mali italiani. L’Authority indipendente "non è un organismo che può occuparsi di ogni forma di illegalità" né, tantomeno, trasformarsi in una sorta di "consulente" della pubblica amministrazione, "sostituendola nelle scelte discrezionali". In una frase: "È sbagliato assecondare l’idea che gli appalti si possano fare solo col bollino dell’Anac". Parola del suo presidente Raffaele Cantone arrivato a metà mandato (scadrà nel 2020) e autore di una relazione annuale densa di informazioni sull’attività dell’ente. Oltre 300 pagine in cui il magistrato punta il dito soprattutto sul rischio di "inutili e ingiustificate aspettative" che si sono create in questi anni attorno all’autorità, "un’istituzione riconoscibile non solo alle amministrazioni pubbliche e agli operatori economici ma anche a gran parte dei cittadini". A tal punto che, tra le segnalazioni che vengono girate all’Anticorruzione, si può trovare di tutto, dalla professoressa alle soglie della pensione che lamenta di non essere riuscita a insegnare la legalità come voleva, allo studente che abbandona l’Italia, a chi recrimina per ingiustizie subite anche nei rapporti di vicinato. Uno spaccato del Paese che per Cantone è il segnale di una "benefica rivoluzione culturale" pur a fronte di "un’onda lunga di scandali e di indagini giudiziarie che non sembra arrestarsi". Nella relazione dell’Autorità si parla di tutto, dalle criticità delle gare Consip finite sotto la lente dell’Anticorruzione "ben prima che emergessero le note vicende giudiziarie" alle assunzioni di personale esterno in Rai, dalla sanità, settore che "continua a destare particolare attenzione" all’Anas, la società che gestisce la rete stradale, dove "un’ispezione ha mostrato una situazione estremamente problematica" fino alla ricostruzione post-terremoto dove è vero che ci sono ritardi "poco spiegabili" ma certo "non a causa della normativa sugli appalti". E poi i numeri: 32 sono stati gli appalti commissariati (di cui 9 in una forma più blanda di sostegno e monitoraggio), 845 le istruttorie avviate nei confronti di Comuni, strutture sanitarie e società pubbliche con solo 12 sanzioni comminate come "extrema ratio". Delicato il capitolo che riguarda i conflitti di interesse e di inconferibilità e incompatibilità degli incarichi pubblici: i procedimenti avviati sono stati 149 con risultati, però, definiti "deludenti" per una carenza di norme. Per Cantone si rende necessaria la modifica della legge del 2013 che i vertici delle società ispezionate aggirano semplicemente "modificando gli statuti". Sotto la lente finiscono anche i passaggi di funzionari dal settore pubblico al comparto privato con due casi citati: quello di un "importante ex dirigente della Farnesina assunto da un’impresa" e quello di un dirigente di un’Autorità indipendente "nominato assessore di un Comune che aveva quote in una società vigilata da quella stessa autorità". Capitolo a parte merita il tema dei servizi e delle forniture legate all’assistenza dei migranti dove "molti problemi si sono riscontrati" e nel 2016 "gli esposti su presunte irregolarità sono stati quasi 2.600". Dopo il Cara di Mineo, l’ispezione a quello di Castelnuovo di Porto "ha messo in luce inadempimenti del gestore su vari aspetti del servizio, carenza nei controlli degli ospiti e l’inattendibilità delle presenze dei residenti". Infine, sulla tanto auspicata "trasparenza", Cantone segnala "la rivolta" dei dirigenti pubblici contro la norma che prevede la pubblicazione dei compensi per i funzionari: la dimostrazione che "la trasparenza, al di là delle proclamazioni di principio, fatichi a essere realmente accettata". Niente condanna: la verità sul caso di Bruno Contrada arriva 25 anni dopo di Errico Novi Il Dubbio, 8 luglio 2017 Secondo i giudici di Strasburgo, Contrada era stato condannato in via definitiva per un reato, il concorso esterno in associazione mafiosa, che all’epoca dei fatti contestati ( tra il 1979 e il 1988) non era definito con chiarezza dal diritto italiano, quindi l’ex poliziotto non poteva essere processato né punito; l’altro ieri la Suprema corte ha annullato senza rinvio l’ordinanza con cui la Corte d’Appello di Palermo nell’ottobre 2016 aveva dichiarato inammissibile l’istanza di revoca della condanna del 2006, presentata dall’avvocato Stefano Giordano. Secondo il dispositivo della Cassazione, la sentenza emessa 11 anni fa dai giudici di Palermo è "ineseguibile e improduttiva di effetti penali". Vuol dire tra le altre cose che il sistema giudiziario italiano riconosce il diritto di Contrada a ottenere un maxi risarcimento per ingiusta detenzione. E, quasi certamente, anche il pagamento degli emolumenti, pensione compresa, a cui avrebbe avuto diritto come servitore dello Stato in tutti questi anni. "Chiederemo il reintegro in Polizia", annuncia infatti il suo legale. Sentenza rivoluzionaria. Perché sancisce anche nel diritto nazionale che non si può essere condannati per concorso esterno in associazione mafiosa in virtù di fatti risalenti a prima del 1994. E perché, quindi, si spalanca la possibilità di revoca della condanna anche per Marcello Dell’Utri: stesso reato contestato e analoga impossibilità di contestarlo, perché anche per lui i fatti sono antecedenti al 1994, anno in cui la giurisprudenza definì il reato. Certo, Contrada ha potuto agire con l’incidente di esecuzione sulla base di una pronuncia europea relativa al suo specifico caso. E non esiste alcun automatismo, rispetto all’applicabilità ad altre vicende giudiziarie, del principio sancito nel 2015 da Strasburgo per Contrada. Ma la possibilità che la storica pronuncia della Cassazione possa riverberarsi anche sul caso di Dell’Utri non è così remota. D’altronde le sezioni unite hanno sicuramente stabilito che se la Corte europea sancisce l’inapplicabilità di una determinata fattispecie penale a fatti di un certo periodo, tale inapplicabilità deve determinare la revoca della condanna inflitta in Italia. Del tutto ragionevole ma non tecnicamente scontato. Contrada lo sa. "Ero mentalmente predisposto ad avere l’ennesima delusione, non ero psicologicamente preparato alla revoca della condanna: non credevo più di avere giustizia", dice ora l’ex 007. Non nasconde la commozione. "Dopo 25 anni di sofferenza, mezzo secolo di dolore, sapendo di essere innocente e di avere servito con onore lo Stato, le istituzioni e la patria, arriva finalmente l’assoluzione, dall’Italia e dall’Europa", commenta a caldo. Ringrazia la moglie "che mi è stata sempre vicino". Ripete di essersi vista "devastata la vita", ma anche che "la dignità non me l’hanno mai tolta". L’ex numero 2 del Sisde quasi non ci crede ma è lucidissimo quando nel primo pomeriggio accoglie i cronisti insieme con il suo difensore. E spiega: "Non ho mai pensato di fare cadere le colpe sugli altri, amici o nemici che fossero". Poi descrive il carcere, "lo stridore della chiave nella serratura e il rumore del blindato che mi chiudeva in una cella: quello è stato un momento che non auguro neppure al mio più acerrimo nemico". Spiega che "per avere un’idea di cosa è la sofferenza del carcere bisogna averla provata: non c’è nessun trattato o libro che può descriverla". L’altro suo difensore, il professore dell’università di Bologna Vittorio Manes, evoca il principio sancito dalla pronuncia di Strasburgo: "Al momento dei fatti la legge italiana non era chiara, né certa né prevedibile, e la garanzia della chiarezza e prevedibilità della legge penale è un diritto fondamentale, che vale per tutti". Ma il pm Nino Di Matteo non la pensa così: a suo giudizio i fatti contestati continuano a rappresentare "rapporti di grave collusione con la mafia". Più o meno contemporaneamente chiedono a Contrada cosa farebbe se incontrasse Ingroia, altro suo accusatore: "Niente, mi limiterei a cambiare marciapiede". In realtà per l’ex 007 il problema della prevedibilità del rilievo penale dei suoi comportamenti non si pone neppure, perché, dice, "quando sono stato condannato in primo grado a 10 anni di reclusione nel 1996, dichiarai che qualora avessi commesso quei fatti avrei meritato non 10 anni di carcere ma la fucilazione alla schiena per alto tradimento. E oggi lo ribadisco: dico al mondo intero e di fronte alla mia coscienza che io quei fatti non li ho commessi, sono tutte invenzioni di efferati criminali pagati dallo Stato". Il "paradosso" temporale di Contrada di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2017 Ancora una volta il caso Contrada. Ancora una volta il concorso in associazione mafiosa. La decisione della Corte di cassazione, per ora nota solo nel dispositivo, e sarà invece assai interessante leggere le motivazioni con le quali si chiude (?) una vicenda che ha appassionato l’opinione pubblica e diviso gli operatori del diritto, mette nero su bianco la revoca della condanna a 10 anni di carcere dell’ex numero 2 del Sisde, Bruno Contrada. Dà in questo modo esecuzione a un’altra sentenza, quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, che, investita della vicenda, la difesa Contrada lamentava la violazione dell’articolo 7 della Convenzione (disposizione che sancisce il divieto di condanna per una condotta che, al tempo della commissione, non costituiva reato), aveva accertato che, effettivamente, violazione c’era stata. Allora, era l’aprile del 2015, i giudici di Strasburgo risposero in maniera negativa alla domanda capitale: all’epoca dei fatti ascritti a Contrada, accusato di permeabilità a sollecitazioni mafiose, la legge definiva in maniera chiara il reato di concorso esterno in associazione mafiosa? Il tribunale di Palermo aveva ritenuto di sì e disposto la condanna, nel 1996, per fatti compiuti tra il 1979 e il 1988; condanna poi annullata in appello, ma confermata (dopo rinvio) dalla stessa Cassazione. Davanti ai giudici nazionali aveva, cioè, retto un impianto accusatorio per il quale Contrada aveva in più occasioni, in qualità prima di ufficiale di polizia e poi di agente dei servizi segreti civili, fornito informazioni riservate sulle indagini in corso a esponenti di vertice dell’associazione mafiosa Cosa Nostra e interferito con alcune importanti operazioni svolte dai nuclei investigativi antimafia. Trasportato il caso in sede internazionale, la Corte dei diritti dell’uomo aveva stabilito che, sino al 1994, quando la stessa Cassazione, a Sezioni unite, con la sentenza Demitry, aveva dato pieno ingresso al reato nell’ordinamento giuridico italiano, la giurisprudenza non si fosse consolidata. Il Governo italiano aveva sostenuto il contrario, sottolineando che, sin dalla fine degli anni Sessanta, si era sviluppata una giurisprudenza precisa; tesi, però, contestata dai giudici europei che misero in luce come quelle sentenze mettevano sì in luce l’esistenza di un’attenzione dei giudici al concorso esterno, ma non in associazione mafiosa, quanto piuttosto alla cospirazione politica e all’associazione a essa finalizzata. Conclusione? All’epoca dei fatti contestati a Contrada il reato non era stato delineato, né dalla legge, né dalla giurisprudenza. Solo dal 1994 se ne sarebbe potuto parlare, ma non era il caso di Contrada che, forte del giudizio, provò una prima volta a chiedere la revoca della condanna, ma la Corte d’appello di Palermo, respinse come inammissibile l’istanza; di qui il ricorso in Cassazione e il verdetto di ieri. Che, se per certi versi suona come un monito alla ritrosia dell’Italia a dare esecuzione alla sentenza di Strasburgo, per lo stesso Contrada adesso ha l’eco di una beffa. Perché, tra un ricorso e l’altro, Contrada la condanna l’ha già finita di scontare. E adesso nei suoi confronti la pronuncia avrà un effetto limitato. L’avvocato difensore ha preannunciato l’intenzione di chiedere il reintegro in polizia che, se accolto, ripristinerebbe il diritto alla pensione, come pure cadrà l’interdizione dai pubblici uffici. Troppo per chi resta convinto della sua colpevolezza; troppo poco per chi vede nel caso Contrada uno dei paradigmi più evidenti della malagiustizia tricolore. E intanto all’orizzonte si annunciato sviluppi forse non inattesi, certo a elevato tasso polemico. "Quella emessa dalla Cassazione nei confronti di Bruno Contrada è una sentenza di grande importanza che potrebbe segnare un precedente per molti altri casi. Noi valuteremo ora i passi da fare". Questa la valutazione dei legali di un altro condannato "eccellente", Marcello Dell’Utri, anch’egli sanzionato per reati commessi prima del 1994. Morti in ospedale, l’infermiera non è più killer: assolta in appello Il Dubbio, 8 luglio 2017 La Corte di assise di Bologna ha stabilito che "il fatto non sussiste". Daniela Poggiali in primo grado era stata condannata all’ergastolo. Il suo legale ha commentato: "è stata vittima di una serie di pregiudizi". Fino a ieri era l’infermiera killer. Poi è arrivata la sentenza della corte d’assise di appello di Bologna che ha assolto Daniela Poggiali "perché il fatto non sussiste". E così per l’infermiera 45enne dell’ospedale "Umberto I" di Lugo, nel ravennate, è stata disposta l’immediata scarcerazione. La donna era imputata con l’accusa di aver ucciso una paziente, la 78enne Rosa Calderoni, con un’iniezione letale di cloruro di potassio, ed era stata condannata in primo grado all’ergastolo nel marzo 2016. Daniela Poggiali, presente in aula al momento della lettura della sentenza, non ha potuto nascondere l’emozione per l’assoluzione. Anche le sorelle dell’ex infermiera di Lugo, Barbara e Claudia Poggiali, hanno accolto con le lacrime la decisione dei giudici di secondo grado. La corte, presieduta dal giudice Alberto Pederiali, ha dunque accolto la tesi difensiva. Il pg Luciana Cicerchia aveva invece chiesto di confermare la condanna all’ergastolo inflitta alla Poggiali in primo grado. Determinante per il ribaltamento della vicenda processuale è stata la perizia medico legale disposta, a fine febbraio scorso dai giudici di appello. I periti avvalendosi di riscontri clinici e di laboratorio non hanno potuto identificare una singola causa patologica naturale a insorgenza acuta tale da causare con alta probabilità la morte della paziente. Tuttavia, allo stesso tempo, il quadro clinico della 78enne, secondo quanto emerso dalla perizia, era "solo in parte compatibile" con una somministrazione letale di potassio. L’avvocato Lorenzo Valgimigli, difensore dell’infermiera ha detto: "La Poggiali è stata vittima di una serie di pregiudizi che riguardavano alcuni tratti della sua personalità complessi e obiettivamente controversi". Aspetti che però "non avrebbero dovuto legittimare questo contagio collettivo che ha indotto a rinvenire in lei un soggetto potenzialmente criminogeno. Probabilmente - ha osservato l’avvocato - questi ribaltamenti processuali sono espressione di un fenomeno culturale all’interno della giurisprudenza italiana dove ci si confronta, appunto, su opzioni culturali diverse che riguardano i diversi standard probatori che occorre conseguire per poter condannare o prosciogliere". Intanto per la Poggiali, ha continuato l’avvocato Valgimigli: "Penso che riparta una nuova vita anche se non credo che il processo finisca qui e ipotizzo che la Procura contesterà questa decisione. Però è chiaro che oggi si è fissato un punto molto importante circa la ricostruzione della verità. La Poggiali uscirà dal carcere e verrà restituita ai propri affetti e alla propria vita". L’altro difensore della Poggiali, avvocato Stefano Dalla Valle ha accolto la decisione dei giudici di secondo grado come "un coronamento della giustizia. Bisogna aspettare la motivazione senza abbandonarsi a facili entusiasmi" tuttavia "sarà una sentenza che farà storia perché creerà dei principi giuridici interessanti". L’avvocato di parte civile, Maria Grazia Russo che rappresenta la figlia della paziente 78enne, ripota "un senso di grande dolore per la famiglia" di Rosa Calderoni. "Questa famiglia - ha detto l’avvocato Russo - non ha mai puntato il dito contro nessuno e si è trovata, suo malgrado, coinvolta in questo procedimento. Il fatto di avere avuto due verdetti diametralmente opposti lascia un profondo senso di incertezza, su cosa sia successo, molto difficile da metabolizzare". Voghera (Pv): "pentito" si toglie la vita in cella di Marco Quaglini La Provincia Pavese, 8 luglio 2017 Un 41enne milanese, M.H. le sue iniziali, collaboratore di giustizia, è morto in cella giovedì sera, nel carcere di Voghera dopo aver inalato il gas della bomboletta che i detenuti posseggono per cucinare. "È l’ennesimo morto in un carcere italiano - denuncia il sindacato di polizia Sappe. Nel carcere di Voghera i poliziotti penitenziari lavorano sotto organico e ricoprono più posti di servizio contemporaneamente". Solo giovedì il Movimento 5 Stelle ha denunciato le "terribili condizioni strutturali" del penitenziario. E il fatto che sia morto inalando il gas dalla bomboletta "deve fare seriamente riflettere sulle modalità di utilizzo e di questi oggetti nelle celle". Ogni detenuto può disporre di queste bombolette di gas, che però, sostiene il sindacato, "spesso servono o come oggetto per colpire gli agenti, come "sballo" inalandone il gas o come veicolo per tentare il suicidio". Il Sappe chiede l’intervento del ministro della Giustizia Andrea Orlando per affrontare la questione penitenziaria, in particolare quella di Voghera: "Ogni 10 giorni un detenuto si uccide in cella: aggressioni risse, rivolte e incendi sono all’ordine del giorno. A Voghera, in particolare, sono stati accorpati più posti di servizio per la mancanza di agenti, specie tra i sovrintendenti e gli ispettori, e gli agenti in servizio non possono neppure fruire di ferie e congedi. Una situazione allarmante. Se è vero che il 95% dei detenuti sta fuori dalle celle tra le 8 e le 10 ore al giorno, è altrettanto vero che molti trascorrono il giorno a non far nulla. La vigilanza dinamica ed il regime penitenziario aperto non favoriscono la rieducazione dei detenuti, Orlando intervenga". Torino: la Procura apre un’inchiesta sulla morte in cella di Luigi Di Lonardo di Simona Lorenzetti La Stampa, 8 luglio 2017 Il detenuto trasferito al Lorusso e Cutugno per essere ricoverato. La vittima è Luigi Di Lonardo, 47 anni, morto lo scorso 13 febbraio: da anni era gravemente malato. Da tre giorni stava male, tanto che dal carcere di Verbania era stato trasferito al Lorusso e Cutugno perché venisse ricoverato nel reparto detenuti delle Molinette. Ma Luigi Di Lonardo, 47 anni, in ospedale non è mai arrivato. Una volta in cella a Torino, nessuno ha predisposto il suo ricovero. E così il 13 febbraio di quest’anno, è morto in cella. Ora la procura ha aperto un’indagine e il fascicolo giace sulla scrivania del pm Cristina Bianconi. Due giorni fa Walter Di Lonardo, fratello maggiore di Luigi, ha depositato un esposto e ipotizzato il reato di omicidio colposo. Assistito dall’avvocato Chiara Luciani, il legale che per anni ha seguito le vicissitudine giudiziarie della vittima, Walter pretende adesso che venga fatta chiarezza sulle circostanze che hanno portato alla morte del fratello. La storia di Luigi è complicata e non si esaurisce in un mancato soccorso nel momento in cui è stato male. La sua morte rappresenta il tragico epilogo di una vita appesa alla burocrazia di un sistema giudiziario lento e farraginoso. L’esposto, quasi un centinaio di pagine, ripercorre in maniera minuziosa gli ultimi tre anni di vita del detenuto. Nel 2014 Luigi finisce dietro le sbarre. Condannato a 4 anni e due mesi per un cumulo di pene per reati di lieve entità, viene rinchiuso al Lorusso e Cutugno. Il suo legale ottiene una riduzione di condanna di un anno e 8 mesi e avvia una battaglia davanti al tribunale di Sorveglianza per il rinvio dell’esecuzione della pena o la possibilità di scontarla ai domiciliari. Perché Luigi è affetto da gravi problemi di salute, non compatibili con la permanenza in carcere: ha l’Hiv, una cirrosi epatica con grave deficit immunitario, un endocardite aortica e nel 2012 era stato anche operato al cuore. E c’è poi una relazione del direttore sanitario del carcere di Torino che parla di "concreto rischio di morte". Nonostante ciò, il Tribunale di Sorveglianza, nel gennaio 2016, nega ogni speranza. "Il quadro clinico appare certamente compromesso", scrivono i giudici nell’ordinanza, sottolineando anche come "le sue condizioni lo esporrebbero a identico rischio anche all’esterno del carcere, ove anzi egli sarebbe esposto a condizioni di vita meno controllate anche sotto il profilo sanitario". Luigi resta in cella e le sue condizioni di salute peggiorano. Comincia a soffrire di crisi di iperammoniemia, perde i sensi, ha le convulsioni. I medici gli impongono un severo regime alimentare con l’esclusione di alcuni cibi, tra cui uova e salse. Ma il diario alimentare che l’uomo redigeva ogni giorno racconta di pranzi e cene saltate perché il menù del carcere non rispettava le indicazioni mediche. E lui non aveva abbastanza soldi per comprarsi da mangiare allo spaccio. Una memoria racconta anche come una sera gli fosse stata servita una frittata. Il progressivo aumento delle crisi spinge il suo legale a presentare una nuova istanza. Il 9 agosto 2016 Luigi va ai domiciliari ad Arona, dalla madre. Tra ottobre e novembre viene ricoverato in coma in ospedale, poi le sue condizioni migliorano e ritorna dai genitori. Il giorno di Natale i carabinieri si presentano al suo domicilio, per un controllo. Gli era stato concesso il permesso di uscire dalle 14 alle 16. Luigi coglie l’occasione per festeggiare con la sua compagna e rientra alle 16,30. Per i militari è evasione. E il 27 dicembre Luigi finisce di nuovo in carcere, a Verbania. A questo punto l’iter giudiziario per riportarlo a casa si inceppa nella burocrazia. Al tribunale di Sorveglianza le udienze slittano per alcuni errori di notifica, mentre a Novara il giudice competente per l’evasione conferma la revoca dei domiciliari. Si arriva così all’udienza dello scorso 28 febbraio. Nel frattempo, però, le condizioni di salute peggiorano e l’11 febbraio Luigi viene trasferito a Torino per essere ricoverato in ospedale. Arriva nel nuovo carcere ma nessuno lo accompagnerà mai alle Molinette: muore il lunedì pomeriggio, alle 17, nella sua cella. È l’ultima beffa, perché a marzo avrebbe finito di scontare la pena. Voghera (Pv): in visita Consiglieri regionali e un parlamentare "il carcere scoppia" di Marco Quaglini La Provincia Pavese, 8 luglio 2017 Scoppia il caso del carcere di via Prati Nuovi. Struttura che si trova "in terribili condizioni strutturali", testimoniano le due visite tenute negli ultimi giorni da politici nazionali e regionali. Mercoledì scorso è arrivata la consigliera regionale del Movimento 5 stelle Paola Macchi, della commissione speciale per la situazione carceraria in Lombardia; ieri mattina è stata la volta dei consiglieri Pd Giuseppe Villani e Fabio Pizzul (pure parte della commissione carceraria) che, insieme all’onorevole Chiara Scuvera, hanno visitato la Casa circondariale cittadina su indicazione dell’associazione "Yaraiha Onlus", che opera per il diritto dei detenuti. La pessima situazione della struttura vogherese è diventata così un caso nazionale, visto che Chiara Scuvera si è detta pronta a preparare un’interrogazione in Parlamento. Dal canto suo, Macchi ha portato ad esempio l’episodio di un detenuto cardiopatico al quale è stata concessa una ventola contro il caldo (l’impianto è vecchio e non regge diversi ventilatori) dopo la minaccia, da parte di questi, di sospendere i farmaci salvavita. Inoltre ieri mattina la Procura ha avviato le indagini sulle cause del decesso di un detenuto, avvenuto nella notte tra giovedì e venerdì scorsi. "Il personale è sottodimensionato e si registrano momenti di tensione forte tra reclusi - spiega Villani. Gli agenti in organico sono la metà di quelli previsti". Villani spiega che "si sono verificati problemi generali di carattere sanitario, e nel padiglione più vecchio situazioni igieniche pessime". Mercoledì scorso Macchi ha visitato l’ultimo piano della parte della Casa circondariale costruita negli anni 80. "Il caldo è soffocante anche a causa delle fitte grate, e i detenuti hanno fatto richiesta di avere prese di corrente nelle celle per poter accendere dei ventilatori - sottolinea -. Ma l’impianto è vecchio e non regge 24 ventole necessarie per rinfrescare gli otto reparti. Un recluso ha dovuto minacciare lo sciopero dei farmaci per ottenere un ventilatore. Inoltre le condizioni strutturali delle docce comuni sono pessime, con soffitti verdi di muffa, e c’è una grave carenza di educatori e poliziotti". L’onorevole Scuvera ha anticipato che presenterà un’interrogazione parlamentare e ha raccontato che il sopraluogo nella struttura "ha evidenziato una mancanza di personale importante, perché solo 93 agenti procedono al servizio di sorveglianza a diretto contatto con 360 detenuti". "È stato fatto un investimento normativo sulla rieducazione dei detenuti, e ciò richiede persone e strutture - ha detto Scuvera. Farò un’interrogazione per vedere a che punto siamo, ossia che fine abbiano fatto i progetti presentati l’anno scorso alla Cassa Ammende del ministero della Giustizia per la ristrutturazione". Anche Pizzul è su questa linea: "La carenza d’organico non consente di lavorare serenamente agli agenti perché sono sottoposti a carichi di lavoro troppo pesanti. La casa circondariale di Voghera non è ambita perché periferica: non sono molti quelli che chiedono di venirci". Il consigliere ricorda che la pianta organica del carcere di Voghera è rimasta all’epoca in cui c’era solo il padiglione vecchio. Erano previsti quattro educatori, ma in questo momento ne sono operativi due, anche se la popolazione carceraria è più che raddoppiata. "Nel periodo estivo non c’è la scuola, che funziona bene, e mancano volontari - continua Pizzul. Quindi diminuiscono le attività educative e si crea più tensione: i detenuti rimangono chiusi nelle celle perché non hanno nulla da fare". Bolzano: Caritas, un anno in prima linea per carcerati, migranti e nella lotta alle dipendenze Alto Adige, 8 luglio 2017 Presentato dalla Caritas il bilancio 2016 su poveri, senzatetto, migranti e persone con problemi psichici. Questi i dati salienti della relazione annuale. Nel 2016, il numero dei richiedenti aiuto è salito soprattutto a causa degli arrivi dei migranti, ma allo stesso tempo è salito anche il numero delle persone che pur avendo una situazione economica stabile, si sentono oppresse da problemi di natura psichica o sociale. L’obiettivo della Caritas è stato non solo quello di aiutare queste persone sul momento, ma di trovare delle soluzioni durature per garantire loro un minimo di indipendenza. Un grande aiuto viene dai volontari e dai donatori. Questi gli ambiti principali in cui Caritas ha concentrato il suo impegno. Nel 2016 30 persone hanno trovato accoglienza presso la struttura di Bolzano del servizio Odòs. Il servizio di Caritas intende aiutare le persone detenute ed ex-detenute a ritrovare la strada verso una libertà effettiva. Molte delle persone con alle spalle un’esperienza di detenzione non riescono più ad abituarsi alla vita oltre le sbarre, poiché durante la permanenza in carcere hanno perso ogni tipo di contatto con il mondo esterno. Anche coloro che si trovano a scontare gli arresti domiciliari o che hanno accesso a pene alternative faticano spesso a reintegrarsi pienamente. Viene anche garantito il sostegno alle famiglie e ai parenti dei detenuti. In Alto Adige sono presenti a oggi circa 1.500 profughi, di cui 1.300 hanno chiesto aiuto: tutte persone che cercano protezione e che vengono aiutate dalla Consulenza Profughi. Questo servizio cerca soluzioni per l’alloggio, il vitto, il vestiario e l’ assistenza medica. Fondamentale è stata la collaborazione con il Servizio di Integrazione Sociale dell’Assb sia nelle fasi della prima accoglienza, che in quella della collaborazione su singoli casi. Supportate in particolare le famiglie e le donne sole. Da marzo 2016 Caritas ha deciso di investire nel settore "ricerca casa" con un’apposita figura professionale che sostiene i progetti di autonomia di chi deve uscire dai centri di accoglienza. 70 delle 90 persone che hanno lasciato una struttura hanno trovato poi una sistemazione abitativa. Quasi 400 sono gli uomini e le donne che hanno ricevuto aiuto nella lotta contro la dipendenza: più della metà dei richiedenti aiuto sono stati curati per una dipendenza da alcol, il 9% per la dipendenza da medicinali, il 3 % per disturbi alimentari mentre la percentuale dei ludopatici è salita dal 5 al 6%. Più del 90% delle persone ha migliorato la sua situazione e il 22% è stato dichiarato completamente guarito. Brindisi: visita della Cgil per verificare le condizioni del carcere di Roberta Grassi Quotidiano di Puglia, 8 luglio 2017 Il tour della Fp Cgil per le carceri della Puglia si è concluso con la visita alla casa circondariale di Brindisi. La delegazione composta da Stefano Branchi per la segreteria nazionale e Patrizia Stella per la segreteria territoriale Fp Cgil è stata accompagnata dal comandante e ha visionato dall’interno le condizioni del personale di polizia penitenziaria e dei detenuti. "Su un organico di 161 - commentano dal sindacato - sono presenti 129 unità. Si registra, dunque, una importante carenza di organico. Ciò nonostante 20 unità continuano ad essere distaccate presso altre Case Circondariali limitrofe con la conseguenza che le unità presenti per poter accedere agli istituti contrattuali (ferie, permessi, eccetera) sono sottoposte a turnazioni di 8 ore anziché 6 ore. Questo si traduce in un peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita in quanto, la maggior parte di loro sono pendolari, anche di lungo raggio, e impiegano mediamente due ore al giorno in viaggio per raggiungere il posto di lavoro e rientrare a casa". Inoltre, non potendo usufruire di una caserma agenti all’interno dell’Istituto, il personale di polizia penitenziaria è privato di una serie di servizi connessi. "L’età media, abbastanza elevata, complica il quadro della situazione - prosegue la nota - tanto da rendere assolutamente improcrastinabile un intervento di potenziamento dell’organico per la garanzia e la sicurezza del personale in servizio e della popolazione detenuta. Si conferma una valutazione positiva sul fronte della stabilità della struttura e delle condizioni di igiene generali anche se alcune postazioni di servizio mancano del comfort e degli elementi basilari come previsti dalla vigente normativa in materia di sicurezza. Sul punto la delegazione si è riservata di fare ulteriori approfondimenti al fine di rendere più vivibili le condizioni di lavoro del personale di polizia penitenziaria. Anche per il reparto sanitario si conferma la carenza di personale infermieristico e di supporto". Palermo: teatro-carcere, detenuti dell’Ucciardone alle prese con il don Chisciotte Ansa, 8 luglio 2017 Rompere l’isolamento del carcere portando in scena gli ideali di giustizia e il sogno di un altrove possibile attraverso le pagine di un classico della letteratura come don Chisciotte: è la sfida affrontata da un gruppo di detenuti del carcere Ucciardone di Palermo e presentata al complesso monumentale dello Spasimo nell’ambito del Sole Luna Doc Film festival. A promuovere la conoscenza dei classici attraverso il teatro è stato il progetto "Classici in strada" coordinato dalla docente Isabella Tondo e che con una rete di scuole e associazioni a partire dal 2013 ha realizzato eventi nei quartieri storici di Ballarò e Borgo Vecchio, con l’intento di innescare un cambiamento proprio in quelle zone dove più forte è il conflitto o l’esclusione sociale. Nel 2015 la decisione di far conoscere la forza eversiva di un testo classico anche oltre gli orizzonti ristretti di un carcere, lavorando con i detenuti dell’Ucciardone, grazie a una collaborazione con l’Asvope (Associazione Volontariato Penitenziario Palermo). "Il primo anno sono stati scelti brani di Omero dall’Iliade e dall’Odissea - spiega Giovanna Bonomonte, dell’Asvope - e i detenuti si sono riappropriati del testo utilizzando il siciliano, una vera operazione di libertà. Poi l’anno successivo è toccato alle favole di Esopo, con riflessioni sull’uso del tempo libero e il lavoro. Hanno riscattato le cicale, tanto maltrattate da Esopo, perché il divertimento, anche nel teatro, è stata una necessità per molti". Lo stesso bisogno di leggerezza che ha portato quest’anno a scegliere il don Chisciotte, come spiega la regista dello spettacolo, Preziosa Salatino: "Ci sono gli ideali di giustizia, i sogni, il senso della sconfitta e questo è piaciuto moltissimo - spiega - al punto che alla rappresentazione finale con i familiari c’era molta commozione, ma anche risate e orgoglio per un’autostima riconquistata. Ci sono episodi marginali nel testo, come la liberazione dei galeotti, che invece qui sono diventati centrali da parte di chi sperimenta ogni giorno la condizione dell’oppresso". Una conquista che ha conosciuto anche Giovanni, ex detenuto che per tre anni ha partecipato ai laboratori teatrali: "Volevo fare anche io don Chisciotte, ma ho finito prima di scontare la mia pena, e in questo senso ci sono rimasto male - scherza - grazie al teatro ho fatto delle cose a cui prima non pensavo minimamente e che mi hanno cambiato, ora sono felice". Trani (Bat): essere genitori dietro le sbarre, detenuti e figli a teatro di Ottavia Digiaro tranilive.it, 8 luglio 2017 Grazie alla partnership con la scuola di teatro "Il cielo di carta", il teatro è stato portato in carcere permettendo ai bambini di vedere uno spettacolo teatrale con il proprio padre detenuto. Porte che si aprono e si richiudono alle spalle, rumori metallici, controlli, poliziotti, documenti, metal detector, ancora controlli. Si entra nel cosiddetto "spazio verde" anche se di verde c’è solo il tendone che protegge dal sole. Siamo nella Casa Circondariale di Trani nel momento dei colloqui con i familiari. C’è una lunga fila all’ingresso, ci sono tanti bambini che fanno amicizia tra loro, mamme che chiacchierano e attendono. È la routine questa. Succede ogni mercoledì e venerdì, ma nessuno si annoia o si lamenta, sanno che dopo ci sarà un caloroso abbraccio ad aspettarli. In ambienti come questi la genitorialità è fortemente compromessa, i colloqui servono anche per vedere i propri cari e godere di quel calore che solo la famiglia può dare. Dal 2013, l’attesa dei bambini è colmata dall’Associazione Paideia che gestisce lo spazio ludico "Magikambusa", all’interno della casa Circondariale di Trani, e che attraverso giochi e laboratori intrattiene i bambini nell’attesa di incontrare i propri papà. L’associazione si occupa di tutelare la genitorialità e la condizione dei minori che si trovano a vivere indirettamente la realtà carceraria. "Gli stessi detenuti - afferma Annarita Amoruso, presidente dell’Associazione - ci confermano che il colloquio successivo a Magikambusa è migliorato, perché i bambini si rilassano e trovano un ambiente familiare in un posto che di familiare ha ben poco". Ma mercoledì 6 luglio, le famiglie hanno vissuto un colloquio un po’ particolare, infatti grazie alla partnership con la scuola di teatro "Il cielo di carta", il teatro è stato portato in carcere permettendo ai bambini di vedere uno spettacolo teatrale con il proprio padre detenuto. Un momento di condivisione senza sbarre. Con la regia di Annamaria Di Pinto, lo spettacolo "Il paese delle non meraviglie" è stato messo in scena dalle attrici e autrici Lucia Amoruso, Caterina Di Leo e Miriam Di Bartolomeo. "Il paese delle non meraviglie" diventa così metafora di vita, di chi aspetta di poter riaprire quella porta. Tra peluche e sorrisi i più piccoli hanno dimenticato la realtà in cui erano, respirando spensieratezza e condivisione con la propria famiglia. La manifestazione è stata organizzata anche in seguito alla donazione fatta dall’Interact club di Bisceglie che ha ideato il service e finanziato l’acquisto di alcune parti della struttura grazie alla raccolta fondi effettuata dall’Interact club di Bisceglie e della sua presidente Mara Pinto, con il supporto del Rotary club di Bisceglie con il presidente Mauro Pedone. Migranti. Renzi cambia rotta: "Serve il numero chiuso" di Carlo Lania Il Manifesto, 8 luglio 2017 Il segretario del Pd: "Non abbiamo il dovere morale di accoglierli. Aiutiamoli a casa loro". Chi conosce bene Matteo Renzi assicura che il cambiamento di linea definitivo sarebbe avvenuto durante lo scorso weekend quando l’ex premier - impegnato nell’ennesima revisione di Avanti, il suo ultimo libro - ha capito che dall’Europa non sarebbe mai arrivato quell’aiuto chiesto più volte per un gestione comune dei migranti. Da qui la scelta di invertire rotta e - andando anche oltre le iniziative assunte finora dal governo Gentiloni e in particolare dal ministro degli Interni Minniti - mettere ufficialmente la barra a destra alle politiche del Pd sull’immigrazione. A spingere il segretario anche la convinzione che esitare ulteriormente avrebbe solo continuato a favorire Lega e Movimento 5 Stelle. "Dobbiamo dire che ci deve essere un numero chiuso di arrivi, non ci dobbiamo sentire in colpa se non possiamo accogliere tutti", annuncia quindi ieri mattina l’ex premier a "Ore nove", la rassegna stampa che tiene quotidianamente su Facebook. Affermazione compensata solo in parte dalla contemporanea assicurazione che il Pd manterrà la promessa di far approvare lo ius soli, "una norma di civiltà". La proposta di istituire un numero chiuso per i migranti non è l’unico indizio del nuovo corso renziano. Anzi, le anticipazioni che sempre ieri appaiono su Democratica, la rivista on line del partito, confermano che la svolta ormai è definitiva. Anche per la scelta delle parole utilizzate. Insieme a una difesa delle frontiere, c’è infatti l’invito "a uscire dalla logica buonista e terzomondista per cui noi abbiamo il dovere di accogliere tutti quelli che stanno peggio di noi". A completare il quadro c’è poi un piccolo giallo, relativo a una frase del libro apparsa su Facebook e poi rimossa. Frase nella quale, parlando sempre dei migranti, si afferma che "non abbiamo il dovere morale di accoglierli, ripetiamocelo. Ma abbiamo il dovere morale di aiutarli. E aiutarli davvero a casa loro". Parole che scatenano le reazioni e l’ironia del web. Rispetto a pochi mesi fa il cambio di rotta è notevole. Fino a quando a Palazzo Chigi c’era Renzi l’accoglienza dei migranti non è infatti mai stata messa in discussione dal governo. Il che non significa che siano mancati gli scontri, anche duri, con l’Unione europea, restìa allora come oggi a farsi carico della sua parte di responsabilità. Valgano per tutti la richiesta di non far accedere ai fondi europei i paesi che non accolgono i migranti, ma anche le polemiche sulla richiesta italiana di scorporare le spese per l’accoglienza dal parametro deficit/Pil. Renzi però ha sempre rivendicato con orgoglio i salvataggi effettuati in mare e, soprattutto, non ha mai messo in discussione il fatto che i migranti venissero fatti sbarcare e accolti in Italia. Che il vento stesse cambiando, era comunque intuibile. Da dicembre a oggi, da quando al Viminale siede Minniti, Renzi non ha infatti mai criticato il nuovo e più duro indirizzo impresso dal governo alle politiche sull’immigrazione. "Certo, quando qualche giorno fa l’Austria ha minacciato di schierare i mezzi corazzati al Brennero, Matteo avrebbe voluto una presa di posizione più dura da parte del ministro degli Interni, ma ha condiviso la minaccia di chiudere i porti", confermano le persone vicine all’ex premier. La richiesta del numero chiuso rappresenta quindi l’avvio dei una strategia che, nella mente dell’ex premier, guarderebbe ormai più all’elettorato di centro che a quello di sinistra. Quanto questo sia poi realizzabile dal punto di vista tecnico, è tutto da vedere. L’unica modo per porre un tetto agli ingressi riguarda infatti solo i migranti in possesso di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, e si concretizza attraverso un decreto flussi varato dal governo. Misura che chiaramente non comprende le migliaia di disperati che rischiano di affogare nel Mediterraneo per di raggiungere l’Europa. E che per di più sono tutte potenziali richiedenti asilo e in quanto tali impossibili da rimpatriare, almeno non prima che una commissione territoriale abbia deciso sul loro destino. "La convenzione di Ginevra non prevedi tetti al numero dei richiedenti asilo", conferma l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo, presidente dell’associazione Diritti e frontiere, che ricorda anche come l’Italia non abbia firmato la lista dei Paesi Terzi sicuri che permetterebbe di rimpatriare una parte dei migranti irregolari. "Fatico - prosegue Paleologo - a trovare un brandello di fonte normativa che possa giustificare il numero chiuso. Queste affermazioni mi preoccupano come quelle fatte dal presidente estone secondo il quale non conta la cornice legale ma la volontà di fare le cose. Assistiamo a una prevaricazione dei governi rispetto ai parlamenti e alle norme vigenti". Da Tallinn ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha provato a ridimensionare le parole di Renzi: "Sono solo un modo, come la questione dei porti, di dire all’Europa che non riusciamo a gestire da soli un fenomeno che durerà ancora molto nel tempo", ha spiegato il Guardasigilli. Migranti. La tentazione di virare verso destra di Marcello Sorgi La Stampa, 8 luglio 2017 Non è stato l’unico - e forse non sarà neppure l’ultimo - il caso nato ieri sui social a proposito di un’anticipazione sugli immigrati del nuovo libro di Matteo Renzi, che ha dovuto ridimensionare il senso dello slogan appena adottato - "aiutiamoli a casa loro", ma coniato da Salvini e risultato urticante, a giudicare dalle reazioni sulla rete, per i militanti più tradizionali del Pd. Da tempo ormai, l’uomo che era salito al potere sull’onda di un consenso crescente, fino al 40 per cento delle europee del 2014, è in difficoltà. La sconfitta al referendum del 4 dicembre ha messo una lapide inattesa su un triennio innovativo di governo e di riforme. Renzi non ne ha colto subito la portata. Ha cercato una rivincita nel congresso e nelle primarie, e l’ha avuta. Ha dovuto incassare una nuova battuta d’arresto alle amministrative dell’11 giugno, e non l’ha digerita. Cosa pensi l’ex premier dei suoi compagni di partito che lo sollecitano a tornare sui suoi passi, e a recuperare un minimo di sintonia con l’elettorato di centrosinistra che in parte l’ha abbandonato, fino a qualche giorno fa si poteva intuire, ma da giovedì, dopo la direzione del Pd, è diventato noto a tutti. Li considera vecchi, superati, dediti solo al gioco correntizio, una parodia di quel che accadeva nella vecchia Dc, intenti a tessere trame per fregarlo e mettere al suo posto un altro segretario, ciò che è avvenuto quattro volte nei dieci anni di vita del Partito democratico, prima del suo avvento alla leadership e della conferma, malgrado lo scivolone del 4 dicembre, avuta nelle ultime primarie. Dipendesse da lui, Franceschini, Cuperlo, Orlando, per citare i suoi principali critici, neppure li ricandiderebbe alle elezioni, e se lo farà, non gli offrirà certo posti in lista che agevolino una facile rielezione. Renzi insomma è in guerra con una parte consistente del suo partito, e il modo in cui sta conducendo questa guerra spaventa anche qualcuno dei suoi. La ragione politica di questo conflitto sta nel fatto che il leader è convinto che alle prossime elezioni la gente sceglierà tra Grillo, Salvini (di Berlusconi, che molti considerano rinato, non si preoccupa) e lui stesso; e deciderà, non tanto in base alle proposte che ciascuno di loro avanzerà (e potranno somigliarsi o sovrapporsi, secondo criteri di marketing politico e di comunicazione, non di ancoraggio ideologico), ma al tasso di fiducia personale che saranno stati in grado di guadagnarsi presso l’opinione pubblica. Inoltre Renzi è convinto che quel 40 per cento di elettori che lo portarono alla vittoria tre anni fa, e poi scelsero il "Sì" nell’infausto giorno della vittoria del "No", siano ancora con lui e possano regalargli la rivincita alle prossime politiche. Con queste idee per la testa e incurante di quelli che nel Pd non la pensano come lui, il segretario s’è messo al lavoro e ha scritto questo libro, intitolato "Avanti", che sta per uscire, è questione di ore, neppure di giorni, ed era già pronto per andare in libreria un paio di mesi fa. Il motivo dei rinvii, più d’uno a quanto se ne sa, è che il libro contiene la summa del pensiero renziano e l’autore, benché invitato varie volte a smussare gli angoli più acuminati del testo e qualche rivelazione personale che potrebbe imbarazzare i protagonisti, se ne è guardato bene, o vi ha provveduto solo in pochissimi casi, accettando soltanto di posticipare il lancio per ragioni di opportunità. Ora, se il buon giorno si vede dal mattino, il caso nato sull’immigrazione è solo l’antipasto di quanto succederà quando l’intero testo sarà pubblico e si scoprirà che il piano di Renzi è abbastanza diverso, se non quasi completamente, da quel che aspettano gli altri leader del centrosinistra e che gli stessi attribuiscono ai loro elettori. In altre parole: questo è il libro di Renzi con il programma del partito di Renzi. Il famoso PdR che avrebbe dovuto fondare tre anni fa, quando era vincente, e che adesso i suoi avversari vogliono impedirgli di far nascere prima dell’appuntamento decisivo con le urne per il prossimo Parlamento. Migranti. Quando il Colonnello faceva il lavoro sporco di Andrea Colombo Il Dubbio, 8 luglio 2017 Così il regime di Gheddafi "controllava" i flussi. Gli storici del futuro ci si romperanno la testa. Si interrogheranno sconcertati e interdetti sull’anomalia storica assoluta, caso probabilmente unico, di un Paese, l’Italia, che partecipa baldanzoso a un’impresa militare di cui è in realtà il vero obiettivo. Si chiederanno come sia stato possibile che a decidere e imporre la missione suicida sia stato sostanzialmente un solo uomo, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Non gli sfuggirà il nesso immediato tra quella sciagurata scelta e l’emergenza migranti esplosa sei anni dopo e destinata, fondata o meno che sia, a terremotare dalle fondamenta il già traballante assetto politico nazionale. Certo, la crisi che il vertice informale di Tallin ha condannato l’Italia ad affrontare da sola, come peraltro già da un pezzo accade, non sarebbe la stessa senza un paio di scelte internazionali che dire autolesioniste è poco sottoscritte senza batter ciglio dai governi di Roma, con mirabile eleganza bipartisan. Prima il Trattato di Dublino del 2003, governo di centrodestra stante, che per cui il problema del diritto d’asilo riguarda il Paese in cui i migranti arrivano, e chi avrebbe mai potuto immaginare che a farne le spese sarebbero stati i Paesi costieri del Sud? Poi l’Operazione Triton, che nel 2014 ha lasciato all’Italia il compito di fronteggiare gli sbarchi, con il segretario del Pd assiso a palazzo Chigi. Però senza il disastro libico del 2011 le dimensioni del problema sarebbero state diverse. Il Trattato di Bengasi del 2008 affidava di fatto al regime del colonnello Gheddafi il compito di sorvegliare le frontiere terrestri e i porti di sbarco della Libia, quelli da dove partono la maggior parte delle imbarcazioni dirette verso l’Italia. Era un lavoretto ben pagato: l’Italia si impegnava in cambio a versare cinque miliardi di dollari in cinque anni. Ed era un lavoro sporco, forse peggio che sporco: i metodi adoperati dal colonnello non conoscevano il concetto di diritti umani neppure per sentito dire, i racconti dei profughi erano raggelanti, il deserto aveva finito per pullulare di cada- veri e le vessazioni della polizia libica non avrebbero sfigurato a Norimberga. Comunque era un lavoro che il colonnello svolgeva come da commessa. Era facile, in quegli anni tra il 2008 e il 2011, ironizzare sulle accoglienze riservate al dittatore di Tripoli a Roma, sulla gigantesca tenda beduina piazzata in due diverse occasioni a Villa Pamphili, sul codazzo di amazzoni e la mandria di purosangue che il colonnello si portava dietro e che stanziavano nelle scuderie del Quirinale. Veniva naturale irridere il premier italiano, Silvio Berlusconi, che si prosternava così di fronte al beduino. Risate fuori luogo: Gheddafi era da oltre 40 anni la pedina centrale nella politica energetica italiana, impostata da Enrico Mattei e poi proseguita e ampliata sia da Moro che da Craxi. Dietro le pittoresche amazzoni c’era la competizione serrata tra l’Italia e la Francia di Sarkozy per le succulente commesse militari libiche e si era appena aggiunta la casella centrale delle politiche migratorie. L’Italia, su tutti e tre i fronti, aveva in quel momento tutto da guadagnare dall’intesa con Tripoli e almeno questo non stupirà affatto i succitati storici futuri. In fondo il golpe del colonnello, proveniente dall’accademia militare italiana, era stato deciso e organizzato proprio in Italia, nel 1969, e quando, poco dopo la presa del potere del golpista, gli inglesi avevano organizzato un controgolpe che sarebbe dovuto partire da Trieste erano stati sempre i servizi segreti italiani ad avvertire del colpo di Stato il giovane dittatore libico. Sulla carta, allora, la presenza dei giacimenti petroliferi nel sottosuolo libico era ancora sconosciuta. Però solo sulla carta: l’Italia, al contrario, ne era al corrente sin da prima della guerra, e il golpe ordito dal governo di Roma si spiegava principalmente proprio con la presenza dell’oro nero e dell’altrettanto prezioso gas. Gheddafi in apparenza non era affatto tenero con gli ex colonialisti. Fresco di presa del potere, il 7 ottobre 1970, confiscò i beni dei 20mila italiani ancora presenti in Libia e fece di quella data una ricorrenza annuale destinata a resistere sino agli accordi di Bengasi, "il giorno della vendetta". Fumo negli occhi. Lo stesso ufficiale che aveva avvertito Gheddafi del contro golpe inglese fu spedito dall’Italia con la missione di trattare un accordo vantaggioso sul fronte energetico, e il successo andò oltre le migliori attese. I rapporti commerciali, tra uno strillo anti- italiano e l’altro. Si intensificarono, mentre Francia e Inghilterra schiumavano rabbia. Le primavere arabe del 2011 e la debolezza del premier italiano, affondata dalle sue olgettine, offrirono dopo quarant’anni l’occasione per rovesciare la situazione. L’epilogo, se non fosse tragico, sarebbe da comica finale. Sarkozy che, dopo essersi imbertato 50 milioni dal turpe dittatore per la campagna elettorale, decide di dichiarargli guerra. Berlusconi che incontra il presidente Napolitano al Teatro dell’Opera e si sente annunciare che l’Italia ha da combattere a fianco della Francia. Lo stesso Berlusconi che due giorno dopo corre trafelato a Parigi solo per sentirsi dire che gli aerei francesi e le navi inglesi sono già in partenza. Poco dopo l’Italia che, finalmente, entra in guerra contro se stessa. E si sconfigge. Avvocatura e Csm uniti per garantire i diritti ai migranti di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 8 luglio 2017 Firmato il protocollo tra il Consiglio Nazionale Forense e Consiglio Superiore della Magistratura. Il presidente del Consiglio nazione forense Andrea Mascherin e il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini hanno firmato ieri mattina un protocollo d’intesa in materia di patrocinio a spese dello Stato nei procedimenti di protezione internazionale. Scopo è quello di garantire una decisione in tempi celeri sulle richieste di ammissione al gratuito patrocinio per i richiedenti asilo, uniformando - per quanto possibile - le decisioni sul punto da parte dell’Autorità giudiziaria. La cerimonia si è svolta a Palazzo dei Marescialli in apertura del seminario dal titolo: "I nuovi moduli organizzativi per il diritto alla protezione internazionale: il piano straordinario del Csm", organizzato dal presidente della Settima commissione, il togato Claudio Galoppi. Un protocollo fra magistratura e avvocatura su questo tema non era più rinviabile. Il flusso migratorio, in particolare dall’Africa sub sahariana, ha subito nell’ultimo anno una crescita esponenziale. Il fenomeno, da straordinario, è diventato ormai strutturare. Ed una delle prime conseguenze è stata la proliferazione dei procedimenti per l’ottenimento dello status di rifugiato. Le novità introdotte con la legge n. 46 dello scorso aprile hanno modificato sostanzialmente la normativa di riferimento. Fra le più rilevanti, per accelerare i tempi della fase giurisdizionale delle procedure di definizione dello status di rifugiato, l’istituzione di sezioni specializzate presso i tribunali del distretto in materia di "immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea" e la cancellazione dell’appello. In caso, quindi, di diniego da parte delle commissioni territoriali, si potrà presentare ricorso avanti al giudice in composizione collegiale che dovrà decidere entro 4 mesi. Il decreto, non più appellabile, potrà essere impugnato solo per questioni di legittimità in Cassazione entro trenta giorni. Il procedimento in tribunale è trattato in camera di consiglio e udienza eventuale. Il giudice deciderà essenzialmente sulla base della videoregistrazione, obbligatoria, del colloquio personale dell’interessato davanti alla commissione territoriale. "Sono in discussione - ha dichiarato Mascherin - diritti inalienabili e costituzionalmente garantiti. È importante che la procedura si svolga con tutte le garanzie processuali, assicurando al difensore un compenso effettivo e commisurato alla delicatezza di tale procedimento", ha aggiunto il presidente del Cnf, secondo cui è auspicabile che "si possa stabilmente contare su interpreti e mediatori culturali affidabili e equamente retribuiti". "Mentre tutti discutono, il fatto che magistratura e avvocatura abbiano affrontato in maniera costruttiva, per quanto di loro competenza, il tema dell’immigrazione mi sembra un fatto molto positivo", ha concluso Mascherin. Dello stesso avviso Legnini: "Va garantito il pieno accesso alla giusti- zia. È interesse di tutti che la procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato sia rapida, verificando celermente chi ha diritto o meno alla sua concessione". "In questo senso - ha aggiunto - è fondamentale avere giudici specializzati in materia che sappiano ben valutare i ricorsi che vengono presentati". All’incontro ha partecipato anche il ministro dell’Interno Marco Minniti secondo cui "le polemiche di questi giorni sui porti sono strumentali: l’impegno del governo è quello di creare dei centri di permanenza in Libia, da cui proviene il 97% dei migranti, procedendo poi con i rimpatri di coloro che non hanno alcun titolo per restare in Italia. Bisogna distinguere, infatti, chi scappa da guerre e persecuzioni e chi è un migrante economico e l’operato della magistratura su questo aspetto è fondamentale", ha concluso il ministro. Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia presente all’evento, ha infine evidenziato gli investimenti del ministero che sta procedendo attraverso applicazioni di magistrati presso le sezioni specializzate, destinandovi anche personale amministrativo. Afghanistan. Allarme per gli italiani: la Cooperazione lascia Kabul di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 8 luglio 2017 Sempre meno occidentali nella capitale, dopo l’attentato del 31 maggio nella "zona verde". La diplomazia: "Solo una misura di sicurezza". È massima allerta per gli italiani in Afghanistan: seguendo l’esempio delle altre rappresentanze occidentali, nelle prossime ore il personale della Cooperazione verrà evacuato quasi completamente, mentre il lavoro diplomatico è ridotto al minimo. All’origine della decisione ci sarebbe la segnalazione di nuovi possibili attentati contro le rappresentanze europee, dopo l’attacco del 31 maggio che ha devastato la "zona verde", il quartiere delle ambasciate occidentali che si riteneva sicuro. In quell’occasione un camion bomba con 1500 chili di esplosivo ha fatto quasi duecento morti. Fra gli addetti si mormora a mezza voce che stavolta potrebbe esserci un allarme specifico per l’Italia. Al momento, per la Cooperazione sono presenti nella sede di Kabul quindici persone: dovrebbero restarne solo un paio, con tutta probabilità un logista e un amministrativo, per le necessità insormontabili. Anche l’impegno diplomatico andrà ridotto, mentre la sicurezza della struttura sarà aumentata con nuove protezioni passive (in sostanza, muri più elevati). Agli Esteri parlano di "misure cautelative", di carattere provvisorio: il personale rientrerà quando la situazione sarà più stabile. Ma pensare all’Afghanistan come un Paese sulla via della pacificazione è quanto meno illusorio: negli ultimi mesi all’attività terroristica per così dire "abituale", firmata dai Taliban, si è affiancata una serie di attentati di diversa matrice, di volta in volta attribuita alla rete Haqqani o a gruppi locali affiliati all’Isis. Caratteristica di questi attacchi è l’assoluta ferocia: mentre i Taliban seguono le indicazioni a suo tempo lasciate dal mullah Omar, con l’attenzione a non provocare vittime civili non necessarie, i "nuovi" attentatori non si fanno scrupoli di alcun genere, e il bilancio dei civili uccisi è sempre altissimo. Nella capitale afgana, la tensione è alle stelle. Gli ultimi due-tre anni hanno dimostrato che il governo di Ashraf Ghani non è in grado di garantire nemmeno la sicurezza nel cuore di Kabul. Nei mesi scorsi la gente della capitale è arrivata a manifestare contro il presidente proprio chiedendo un impegno per la protezione dei civili, ma la reazione di Ghani si è limitata alla repressione violenta delle proteste, con la polizia che ha aperto il fuoco sui dimostranti, uccidendone almeno cinque. Anche avantieri c’è stata una grande manifestazione, per fortuna senza incidenti. La presenza italiana è limitata: a parte la rappresentanza diplomatica e a qualche militare nei comandi della missione Resolute Support, resta il contingente schierato a Herat - circa 900 uomini - e un drappello di Organizzazioni non governative. Alda Cappelletti, di Intersos, sintetizza così: "La situazione della sicurezza di Kabul è la stessa da trent’anni. Nelle province è ancora peggio. Ma questo è l’Afghanistan". La risposta di Emergency - "È sconcertante che le rappresentanze diplomatiche lascino il paese per questioni di insicurezza mentre la Ue ci rimpatria gli afgani". Secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, ricorda l’Ong italiana, nei primi tre mesi del 2017 sono stati uccisi o feriti oltre 2.200 civili. Stati Uniti. Esecuzione in Virginia: il condannato era un malato mentale di Rachele Grandinetti Il Messaggero, 8 luglio 2017 Una iniezione letale eseguita al Greensville Correctional Center di Jaratt, in Virginia. È morto alle 9.15 di ieri William Morva: aveva 35 anni ed era accusato di duplice omicidio. Nel 2006, infatti, Morva aveva aggredito e ucciso il vigilante di un ospedale e uno sceriffo per sfuggire ad un arresto. Non ha ottenuto i risultati sperati la campagna portata avanti per far riconoscere i suoi problemi mentali. Nella battaglia legale, gli avvocati hanno cercato di dimostrare che l’uomo soffriva di una grave malattia mentale che gli rendeva difficile distinguere tra illusione e realtà. Anche il governatore dello Stato Terry McAuliffe ha sostenuto la necessità di un processo equo soprattutto in virtù del fatto che, come riporta The Guardian, negli ultimi nove anni di reclusione il detenuto non ha manifestato particolari segni di disturbo che potevano far pensare ad una mente incapace di comprendere le conseguenze di certi gesti. È la prima volta che in Virginia si arriva ad una esecuzione in base ad un protocollo che ha secretato una buona parte della procedura. I media locali hanno raccontato gli ultimi istanti di vita: invitato a pronunciare le ultime parole, il condannato a morte ha preferito tacere. Salvador. Trent’anni di carcere per aver abortito di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 8 luglio 2017 Nel paese centro-americano dal 1997 a causa delle pressioni della Chiesa cattolica l’interruzione di gravidanza viene equiparata all’omicidio volontario. L’odissea di Evelyn, rimasta incinta dopo uno stupro. Quando lo scorso anno è stata brutalmente violentata per la strada da una gang di El Salvador, Evelyn Beatriz Hernandez Cruz era poco più che maggiorenne e frequentava l’ultima classe del liceo. Poche settimane dopo lo stupro Evelyn avverte un fortissimo mal di pancia e scopre di avere un’emorragia vaginale: è quando la madre l’accompagna in ospedale che però si rende conto di essere stata incinta e di aver avuto un aborto spontaneo. Non passa neanche un’ora che la polizia perquisisce la sua abitazione dove ritrova il feto ricoperto di sangue nella fossa biologica: a quel punto scatta l’arresto immediato. Evelyn, che ha bisogno di cure, resta ammanettata alle griglie metalliche del suo letto d’ospedale per una settimana intera, poi ancora convalescente viene sbattuta in carcere con l’accusa di omicidio volontario aggravato. Lo scorso 5 luglio un giudice la condanna a trent’anni di prigione, come d’altra parte è previsto dal codice penale. "È una sentenza vergognosa, che non riflette le prove portate in tribunale. Si tratta di una decisione fondata sulla morale e non sul diritto e la giustizia", ha tuonato, inutilmente, il suo legale. La legislazione del Salvador sull’aborto, adottata nel 1997 la spinta del governo conservatore e della pervasiva chiesa cattolica locale, è tra le più repressive del mondo: l’interruzione di gravidanza viene infatti equiparata all’omicidio in ogni caso, poco importa che la madre sia stata violentata, che possa essere in pericolo di vita o che il feto presenti gravissime malformazioni. Tra il 1998 e il 2013 circa seicento donne sono finite in car- cere con l’accusa di aver abortito, mentre si stima che nello stesso lasso di tempo ci siano stati almeno 19mila aborti clandestini. Talvolta qualche "fortunata" può sperare in isolati atti di clemenza, come è accaduto a Sonia Tabora, graziata dopo 12 anni di prigione. Aveva avuto un aborto spontaneo mentre stava lavorando in una piantagione di caffe, ritrovata dai familiari in una pozza di sangue è stata salvata per miracolo dai medici di un centro sanitario privato, anche loro poi condannati per omicidio volontario. Grazie al sostegno di associazioni per il diritto all’aborto, a una minuziosa documentazione presentata dai suoi legali e all’interesse dei media internazionali, un tribunale ha stabilito che l’allora 22enne Tabora aveva effettivamente perso il feto contro la sua volontà, condannando lo Stato a un risarcimento. Ma si tratta di una goccia nell’acqua e tanti invece sono i casi di cronaca in cui la legislazione salvadoregna mostra la sua ottusa crudeltà e il suo accanimento contro i diritti delle donne. Nel 2013 un ragazza di nome Beatritz incinta del suo secondo figlio scopre di essere affetta da lupus, mentre al feto viene diagnosticata l’anencefalia, una malformazione congenita in cui il nascituro è privo, totalmente o parzialmente, della volta cranica e dell’encefalo. Nessuno può sopravvivere all’anencefalia, neanche con un intervento divino. Se avesse portato la gravidanza a termine Beatriz avrebbe rischiato di morire, mentre il piccolo non aveva a sua volta nessuna speranza di sopravvivere. Così il caso approda alla Corte suprema del paese la quale nega l’assenso per l’aborto, ma, poiché la salute di Beatriz stava peggiorando a vista d’occhio, gli alti giudici trovano una soluzione intermedia e ordinano un parto cesareo d’urgenza: Beatriz ha avuta salva la vita, il suo bambino è vissuto cinque ore. Come denuncia da diversi anni Amnesty International "nel paese centroamericano aleggia un malsano clima di sospetto nei confronti delle donne che hanno avuto false gravidanze, aborti spontanei o emergenze ostetriche e che subiscono una vera e propria persecuzione". Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità ( Oms), sono soprattutto le giovani donne delle classi popolari e delle zone rurali a subire più di chiunque la repressione di Stato, praticando aborti clandestini in condizioni sanitarie indegne di un paese civile. Un metodo molto diffuso per interrompere la gravidanza "in casa" è l’ingestione di piccole dosi veleno per topi o di altri micidiali pesticidi oppure di farmaci antiulcera, ma anche l’introduzione nel collo dell’utero di aghi e altri oggetti appuntiti. Inoltre il Salvador è il paese dell’America latina con il più alto tasso di adolescenti incinte contro la loro volontà: si calcola che il 20% delle ragazze tra i 13 e i 19 anni ha avuto almeno una gravidanza non desiderata. Per non parlare dell’inquietante numero di suicidi i quali rappresentano il 57% dei decessi tra le ragazzine incinte. Lo scorso marzo è stato presentato un progetto di legge per ammorbidire le misure penali nei confronti delle donne che abortiscono, ma il provvedimento giace mestamente in Parlamento, ostaggio dei rapporti di forza tra le formazioni politiche. Il partito ultraconservatore Arena, promette infatti battaglia aggrappandosi all’articolo 1 (paragrafo 2) della Costituzione che stabilisce la difesa della vita umana "a partire dal concepimento". Nel 2016 i deputati di Arena avevano a loro volta presentato un progetto di legge che, al contrario, induriva ulteriormente la legislazione portando da 30 a 50 la pena massima per interruzione di gravidanza. La via dell’emancipazione femminile nel medievale Salvador è ancora lunga e piena di ostacoli. Bahrein. Attivista per i diritti umani rischia stupro e tortura di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 luglio 2017 La mattina del 3 luglio Ebtisam al-Saegh, una delle figure più note tra i difensori dei diritti umani del Bahrein, aveva pubblicato un tweet sui maltrattamenti inflitti alle detenute da parte dell’Agenzia per la sicurezza nazionale, chiamando in causa la responsabilità del re Hamad bin Isa Al Khalifa quale garante dell’impunità nei confronti delle violazioni dei diritti umani. Un quarto d’ora prima della mezzanotte è scattata la rappresaglia. Le forse di sicurezza si sono presentate in forze (cinque vetture e un furgone) a casa sua. L’hanno arrestata, senza mandato e senza darle alcuna spiegazione, sequestrandole il cellulare e la carta d’identità. Nelle prime ore del mattino del 4 luglio, Ebtisalam al-Saegh è stata notata all’interno del carcere femminile di Issa Town. La mattina successiva ha fatto una rapida telefonata ai familiari, chiedendo di farle arrivare denaro ed effetti personali. Ebtisalam al-Saegh ha 48 anni e da tempo si occupa di diritti umani nel suo paese, intrattenendo relazioni con organizzazioni non governative e con gli organismi delle Nazioni Unite. Quest’anno a marzo ha preso parte, a Ginevra, alla 34esima sessione del Consiglio Onu dei diritti umani. Proprio per questo motivo, il 26 maggio era stata arrestata una prima volta e interrogata per sette ore, durante le quali era stata picchiata su ogni parte del corpo, presa a pugni sul naso (dove aveva appena subito un’operazione) e allo stomaco, stuprata e minacciata di gravi conseguenze ai danni di suo marito e dei loro figli se non avesse cessato di occuparsi di diritti umani. Uscita da quelle sette ore di incubo in stato di shock e incapace di reggersi in piedi, era stata ricoverata in ospedale. Amnesty International teme che Ebtisalam al-Saegh possa essere nuovamente sottoposta a violenza sessuale a torture, una prassi purtroppo consueta per le coraggiose attiviste del Bahrein così come per le donne arrestate per reati comuni.