Braccialetto elettronico, i guai di un sistema che in Italia non va di Guido Mariani lettera43.it, 7 luglio 2017 L’ultimo caso è quello dell’attore Diele. Bloccato in carcere prima che arrivasse il dispositivo per controllare i detenuti ai domiciliari. "Buttati" 81 milioni in 10 anni, appalti opachi e costi elevati: tutti i problemi. La vicenda dell’attore Domenico Diele, arrestato per omicidio stradale il 24 giugno 2017 e trattenuto in carcere in attesa dell’assegnazione di un braccialetto elettronico, arrivato il 6 luglio, ha riportato l’attenzione su questo dispositivo concepito per facilitare la gestione dei detenuti in libertà vigilata. In Italia la procedura non ha mai funzionato come avrebbe dovuto, tra dimenticanze, numeri insufficienti, costi esorbitanti e appalti contestati. Provvedimento subito zoppicante. L’adozione delle "procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici" risale alla legge 4 del 19 gennaio 2001 che introdusse nel codice di procedura penale l’articolo 275-bis recante disposizioni sulle particolari modalità di controllo di individui sottoposti misure cautelari personali. All’atto pratico il provvedimento si dimostrò subito zoppicante. Nel 2003 convenzione con Telecom. Vennero stipulati contratti di noleggio degli apparecchi con cinque differenti società fino a che nel 2003 il ministero dell’Interno decise di mettere ordine optando per una fornitura unica su tutto il territorio nazionale e stipulando una convenzione con Telecom S.p.A. che prevedeva installazione e assistenza di 400 dispositivi, poi aumentati in corso d’opera a 2 mila. Parallelamente le centrali operative di carabinieri, polizia e guardia di finanza delle maggiori città italiane venivano predisposte per gestire gli apparecchi. Nonostante i costi di avviamento della procedura, il braccialetto elettronico rimase un oggetto misterioso e di fatto inutilizzato. I tribunali amministrativi e contabili iniziarono a sentire puzza di bruciato. Nel giugno 2012 il Tar del Lazio con la sentenza n. 4997/2012, dopo un ricorso di Fastweb, decise di annullare l’accordo tra il Viminale e Telecom per la fornitura che faceva parte di una convenzione stipulata a trattativa diretta per una commessa complessiva di 521 milioni di euro che comprendeva non solo i dispositivi per la sorveglianza a distanza, ma anche telefonia fissa e mobile, trasmissione dati e videosorveglianza e il numero telefonico 113. Andava indetta una gara d’appalto. Secondo il tribunale amministrativo andava indetta una regolare gara d’appalto e non era accettabile la posizione del ministero dell’Interno che non aveva scorporato la fornitura dei braccialetti sostenendo che il cambio del fornitore avrebbe rischiato di disseminare impropriamente informazioni coperte da segreto. Spese enormi e un impiego scarso. Nel 2012 la Corte dei conti nella deliberazione n.11/2012/G mise in luce le spese enormi sostenute per un dispositivo che non veniva impiegato: "Dall’accordo del 2003", calcolava la Corte, "l’Amministrazione ha convenuto con Telecom un importo, una tantum, di 8 milioni 641 mila euro (Iva esclusa) per l’attivazione del servizio e un compenso annuo di 9 milioni 83 mila euro (Iva esclusa) in rate semestrali, pari, per otto anni, fino al 2011, a 72 milioni 664 mila euro, per un totale di euro 81 milioni 305 mila euro". Anche i magistrati contabili rilevavano che la convenzione con Telecom aveva qualcosa di poco opportuno, anche perché nel 2012 si era varato (prima del pronunciamento del Tar) un rinnovo automatico fino al 2018: "Ha reiterato perciò una spesa, relativamente ai braccialetti elettronici, antieconomica e inefficace, che avrebbe dovuto essere almeno oggetto, prima della nuova stipula, di un approfondito esame anche da parte del ministero della Giustizia, dicastero più in grado di altri di valutare l’interesse operativo dei magistrati". Inesattezza nel parlare di "proroga". E ancora si notava che "la conferma del contraente Telecom, avvenuta a prezzi e prestazioni non identici (per esempio con l’aumento degli strumenti disponibili) e perciò qualificata inesattamente come una "proroga", avrebbe dovuto, o potuto, essere oggetto di riflessione e/o di trattative, se non di comparazione con altre possibili offerte". Conflitto di competenze fra ministeri. La Corte non solo denunciava costi e assenza di gara d’appalto, ma anche il fatto che al Viminale il rinnovo della convenzione fosse avvenuto a prescindere delle indicazioni dei magistrati sull’applicazione effettiva della procedura dell’assegnazione del braccialetto elettronico. Si apriva quindi anche un conflitto di competenze tra il ministero dell’Interno e quello della Giustizia. Nel dicembre del 2013 Alessandra Bassi, gip al tribunale di Torino, e Christine Von Borries, pm della procura della Repubblica di Firenze, denunciarono in un articolo comparso sulla rivista Questione Giustizia le dimensioni e le ragioni di questo costoso flop. Nonostante fossero perfettamente funzionanti e operativi dal 2005, scrivevano i due magistrati, i braccialetti elettronici non venivano usati: sui 2 mila disponibili ne erano attivi solo 55. I detenuti costano 125 euro al giorno. Lo scarso appeal registrato dai dispostivi elettronici era riconducibile, sempre secondo l’articolo, "più che a una preconcetta diffidenza dei magistrati italiani, a un colossale quanto incomprensibile difetto di informazione: pochi di noi sono difatti a conoscenza della concreta possibilità di applicare i braccialetti elettronici pur previsti dal codice di rito". Riassumendo: in 10 anni 81 milioni di euro spesi per un dispositivo applicato a poche decine di persone, quando il costo medio dello Stato per detenuto in carcere è di circa 125 euro al giorno. Richiesta salita, apparecchi presto finiti. Di fronte a questo impasse è intervenuto infine il legislatore incentivando l’uso della sorveglianza elettronica. Il decreto "svuota carceri", le leggi contro lo stalking e la violenza di genere e la riforma dell’articolo 275 bis del codice di procedura penale sono andati tutti nella direzione di un massiccio impiego del braccialetto. La richiesta finalmente è salita e i dispositivi disponibili sono presto finiti. Il ministero dell’Interno nel dicembre 2016 ha indetto una gara d’appalto i cui termini sono scaduti nel febbraio 2017 a cui hanno partecipato Fastweb spa, Rti Engineering ingegneria informatica e Telecom Italia Spa. Una commissione da quasi 45 milioni di euro per due anni e mezzo e attualmente in corso di aggiudicazione. Nuovo bando in arrivo a breve? Intanto il ministro della Giustizia Andrea Orlando alla trasmissione di Radio Rai Un giorno da pecora il 29 giugno 2017 ha richiamato in causa ancora il conflitto di competenze tra ministro dell’Interno e quello della Giustizia, già sollevato dalla Corte dei Conti: "Per un errore del legislatore", ha detto", la competenza dell’acquisto è del ministro dell’Interno e non della Giustizia. È tanto che li abbiamo chiesti, il nuovo bando dovrebbe chiudersi entro qualche settimana". Certo è che il problema sembra tornare all’attenzione di informazione e opinione pubblica solo quando si tratta di casi di detenuti eccellenti. La questione della carenza dei braccialetti elettronici - che va ricordato non è una forma aggiuntiva di custodia cautelare ma una garanzia contro il pericolo di fuga - era emersa nel dicembre del 2015 quando vennero negati i domiciliari a Pierangelo Daccò, faccendiere compagno di vacanze dell’ex presidente lombardo Roberto Formigoni, ed è ricomparsa nel 2017 per il caso dell’attore Domenico Diele, ma anche per l’imprenditore napoletano Alfredo Romeo detenuto nel carcere di Regina Coeli. Britannici da record: ne usano 20 mila. L’obiettivo è che il braccialetto diventi un’estensione dei diritti degli indagati e una sicurezza maggiore per i cittadini, così come avviene in Gran Bretagna, il Paese europeo che ne fa più largo uso e dove più di 20 mila cittadini sono sottoposti a questa misura di sorveglianza. Il Guardasigilli dei pareri snobbati di Alessandro Barbano Il Mattino, 7 luglio 2017 Si dice, sbagliando, che finirà su un binario morto. Si dice, per consolarsi dopo il sì del Senato, che non sarà mai approvato definitivamente. Si dice che il codice antimafia, il più illiberale e giustizialista della storia repubblicana, si fermerà alla Camera. Si dice che la legge che azzera le garanzie, minaccia l’economia e umilia il processo sarà solo una falsa partenza, un colpo a vuoto di una democrazia arrugginita. Si dice che i sequestri e le confische di beni e aziende agli indagati di reati contro la pubblica amministrazione, disposti in assenza di qualunque giudizio di colpevolezza, ma su una mera valutazione di pericolosità sociale, non avverranno mai. Oppure, come ha detto qualcuno che se ne intende, Raffaele Cantone, se mai avverranno, saranno smentiti da un giudice finalmente terzo o cancellati dalla Corte costituzionale, insieme alla legge. Si dice, con beata fiducia, che la Camera dovrà modificarne il testo, e poi quel testo dovrà ritornare al Senato, e infine che non ci sono i tempi tecnici per condurlo in porto. Si dice, con malcelato sollievo tra quei parlamentari del Pd che questa legge l’hanno subita, che in fondo la partita è finita zero a zero, e c’è ancora il ritorno da giocare. Si dice tutto questo, ma non basta. Perché, con il suo voto di approvazione, ieri il Senato ha simbolicamente sancito la morte dello Stato di diritto e ha illividito il tramonto della legislatura. La polpetta avvelenata, così la definita lo stesso Cantone, ha avuto il suo effetto. E il cuoco, Andrea Orlando, può gongolare. Qual è la strategia del guardasigilli? A quali interessi risponde la sua ansia riformatrice dell’ultima ora? Certamente non a quelli di Matteo Renzi, che manifesta a denti stretti insofferenza per il protagonismo del ministro e per la sua deriva giustizialista. Ci piacerebbe sapere se risponde agli interessi del governo del mite Paolo Gentiloni, ma questa curiosità resterà insoddisfatta, poiché il premier tace. E se parla, sillaba. E se sillaba, lo fa troppo a bassa voce perché possa essere ascoltato. Ignorando tuttavia che chi tace acconsente. E che il premier, ancorché pro-tempore, di un governo non è il portiere di riserva di un condominio. Insomma, a che gioco gioca il guardasigilli, che prima ha fatto trangugiare alla sua maggioranza una riforma del processo penale indecorosa, approvata con due votazioni di fiducia (senza che nessuna voce politica e istituzionale si levasse ad impedirlo), e adesso ha confezionato "la polpetta avvelenata" del codice antimafia? La domanda è d’obbligo dopo quanto ha rivelato ieri il presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone: e cioè che Orlando ha costituito un tavolo su mafia e corruzione, ha chiesto allo stesso Cantone di presiederlo, coordinando il lavoro di alcuni autorevoli giuristi, e poi ha ignorato quello che è scritto nella relazione conclusiva, e cioè che l’estensione dei sequestri e delle confische agli indagati per reati contro la pubblica amministrazione è "inutile e dannosa". Esattamente quello che lo stesso presidente dell’Anticorruzione ha ripetuto al Mattino nell’intervista di qualche giorno fa, che ha sollevato il caso. Davvero il ministro crede che la sua autonomia politica lo sottragga a un dovere di coerenza nei confronti del Parlamento, dove ha difeso le nuove misure anticorruzione, omettendo di riferire il parere contrario di colui che nella lotta alla corruzione è il primo riferimento del governo? Né vale l’imbarazzante giustificazione abbozzata da Orlando di fronte a una cronista che gli chiedeva conto della relazione di Cantone: "No, non l’ho ancora vista, quel lavoro è in itinere e i miei non mi hanno ancora portato nulla". Peccato che la relazione porti la data del 20 aprile, e che il presidente dell’Anticorruzione confermi di avergliela inviata in quella data. Mancheranno pure i fattorini a via Arenula, ma certo due mesi sono due mesi. In ogni caso il guardasigilli è convinto di portare fino in fondo il provvedimento, nonostante ci siano, a suo giudizio, "opinioni molto diverse sia in dottrina che in magistratura". Ma a quali opinioni fa riferimento? Uno dei più autorevoli studiosi del diritto penale, Giovanni Fiandaca, ha giudicato questa misura abnorme e controproducente. Due presidenti emeriti della Corte Costituzionale, come Sabino Cassese e Giuseppe Tesauro, l’hanno definita incostituzionale e inutile. Giuristi del calibro di Giovanni Maria Flick, Giovanni Verde, Vincenzo Majello, Vittorio Manes hanno esortato il governo e il Parlamento a ravvedersi e a rinunciare. L’ex presidente della Camera e della commissione Antimafia, Luciano Violante, ha detto che questa legge è figlia insieme di "infantilismo politico" e "inciviltà del diritto". Da ultimo il vertice della magistratura italiana, e cioè il presidente della Corte Suprema di Cassazione, Giovanni Canzio, ha detto senza mezzi termini di "condividere in pieno i rilievi e le osservazioni del presidente dell’Anac Cantone". Quali sono allora, e soprattutto quale autorevolezza e competenza hanno i giuristi e i magistrati che sostengono le ragioni di un diritto penale eccezionale esteso a una pletora di reati, dai delitti di mafia fino al peculato semplice? Il guardasigilli, non fosse altro per la ormai lunga frequentazione delle stanze ministeriali, sa bene che non c’è un solo giurista di livello che possa in coscienza sostenere una legge che umilia il diritto di difesa e, anticipando l’afflitività della sanzione alla fase cautelare, vanifica il ruolo del giudicato nel processo. E sa anche che questa legge è figlia di gruppi di pressione che tengono in ostaggio il Parlamento e perseguono due obiettivi diversi ma convergenti: mettere l’economia, dopo la politica, sotto la tutela di una parte della magistratura; alimentare un circuito consociativo e clientelare di cui fanno parte spezzoni della magistratura, della burocrazia, delle professioni e dell’associazionismo. O piuttosto il ministro confonde ragioni giuridiche con ragioni politiche? Come quella espressa ieri in Senato da uno dei relatori del disegno di legge, Davide Mattiello. La riportiamo testualmente perché spiega meglio di ogni nostro giudizio il livello a cui è giunta, in questo tramonto di fine legislatura, la dialettica parlamentare: "Possibile che il Papa arrivi a scomunicare i corrotti - dice l’"Onorevole" - e il Parlamento non riesca ad approvare la riforma del codice antimafia"? Il giurista Giovanni Fiandaca, aprendo con un editoriale sul Mattino la discussione sul tema, aveva denunciato "la confusione, il pressappochismo e l’incompetenza" presenti in Parlamento. L’esito di questa vicenda dimostra che il suo giudizio era quasi indulgente. Non sarebbe male se i tanti padri politici della riforma compulsassero con umiltà le pagine del manuale di diritto penale del professor Fiandaca. Sempre che dopo averlo letto e, c’è da sperare, compreso, non lo mettano in un cassetto o sotto una pila di faldoni, come hanno fatto con la relazione di Cantone. Populismo giudiziario, attenuanti generiche per il ministro Orlando di Massimo Bordin Il Foglio, 7 luglio 2017 Negli ultimi mesi il populismo giudiziario ha fatto passi da gigante. Si può considerare estraneo a un fenomeno del genere il Guardasigilli? La riforma della giustizia ha scontentato settori del mondo giudiziario che pure avevano mostrato una notevole apertura di credito nei confronti del ministro Andrea Orlando. Significativa in particolare la parabola dell’Unione delle camere penali, che all’inizio era apparsa ad alcuni avvocati troppo fiduciosa sulle intenzioni del ministro. Oggi, pur dando atto di miglioramenti nel delicato settore delle carceri, la stessa Unione è impegnata, con l’aiuto del Partito radicale, in una raccolta di firme su un aspetto importante, forse decisivo, come quello della separazione delle carriere fra pubblici accusatori e magistrati giudicanti, sul quale le posizioni del governo non si sono mosse di un millimetro. In compenso è ormai moneta corrente l’interrogatorio a distanza e non più in aula, i provvedimenti di sequestro dei beni si allargano, tracimando dalla legislazione speciale antimafia in quella ordinaria, l’eccesso di reati e di sanzioni, degno delle grida manzoniane e di pari inefficacia, viene denunciato dai più stimati giuristi progressisti. In parole povere quello che si può definire populismo giudiziario ha fatto negli ultimi mesi passi da gigante. Si può considerare estraneo a un fenomeno del genere il ministro di Giustizia? No. Si possono però applicare, visto che siamo in tema, le attenuanti, per il suo impegno nel dibattito interno del suo partito, che forse lo ha distratto. Visti però i risultati anche su quel fronte, le attenuanti non possono che essere molto generiche. Nota a margine del reato di tortura di Roberto Cornelli Ristretti Orizzonti, 7 luglio 2017 Si parla molto dell’inadeguatezza della formulazione della fattispecie di tortura che è in approvazione alla Camera. Condivido le critiche di chi ritiene questa norma, nel caso venga approvata, non pienamente conforme alla Convenzione internazionale del 1984, di difficile applicazione e con qualche rischio di creare confusione. Si poteva fare molto meglio, insomma. Si parla molto poco, invece, (forse perché introdurre un reato è sempre un po’ più semplice che pensare a politiche ad ampio raggio) della necessità di adottare un sistema che renda possibile l’emersione del fenomeno, si preoccupi delle vittime e renda più difficile, al di là dello spauracchio del nuovo reato, la commissione di atti di tortura. Qualche esempio, semplicemente per far capire la direzione che si potrebbe prendere per dare consistenza all’impegno delle istituzioni contro ogni forma di tortura: 1. spesso gli atti di tortura avvengono in luoghi e situazioni separati e "coperti": la legge potrebbe prevedere forme di whistle-blowing o sistemi di monitoraggio e rilevamento di situazioni a rischio in funzione preventiva, sul modello degli early warning system previsti già in alcuni Paesi (per es. dalla U.S. Commission on Civil Rights del 1981); 2. spesso gli atti di tortura sono commessi su persone che hanno difficoltà a denunciare perché in condizioni fisiche o psicologiche di soggezione: la legge potrebbe prevedere modalità di raccolta di segnalazioni (non già denunce, ovviamente) da parte di commissioni miste indipendenti (magari anche potenziando le funzioni del Garante per i detenuti) che potrebbero agire da un lato a stretto contatto con forze di polizia (nei livelli superiori e specializzati a tal fine) e autorità giudiziaria e dall’altro per attuare progetti di prevenzione che intervengano sulle pratiche istituzionali; 3. nei Paesi dove si fa ricerca scientifica sui casi di uso eccessivo della forza (quindi stiamo parlando di fatti molto più ampi e diffusi della tortura) emerge come una piccolissima percentuale di agenti sono responsabili della stragrande maggioranza di segnalazioni. Per la tortura il dato potrebbe essere ancora più evidente, ma non lo sappiamo. La legge, in questo caso, potrebbe prevedere l’istituzione di un Osservatorio (o l’ampliamento di funzioni di osservatori o commissioni esistenti, per evitare prolificazioni di organismi) che, sulla base dei risultati di monitoraggi e ricerche, predisponga programmi di formazione obbligatori, sia generalisti (per tutte gli appartenenti alle istituzioni) sia specifici su categorie più a rischio. Dimenticavo: sono solo alcuni esempi di ciò che si potrebbe prevedere nella legge in ottemperanza alla convenzione internazionale sulla tortura, che non parla solo di introdurre il reato ma anche di adottare provvedimenti amministrativi e formativi idonei. Antimafia, al Senato la riforma del codice passa con 129 sì Corriere della Sera, 7 luglio 2017 Il testo adesso tornerà alla Camera per l’ultima lettura. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando: "Ci sono le condizioni per portarla fino in fondo". Via libera del Senato al Ddl con il codice antimafia che torna in terza lettura alla Camera. I voti a favore sono stati 129, i contrari 56 e 30 gli astenuti. Ap ha lasciato libertà di voto. M5S ha dichiarato la posizione di astensione. La Camera dovrà ora esaminare le modifiche introdotte al Senato. Lo spettro di un blocco alla Camera - La maggioranza ha preannunciato la possibilità che Montecitorio possa cambiare ancora il testo. Sotto la lente in particolare la norma che estende l’applicabilità delle misure di prevenzione personale e patrimoniale agli indiziati di reati contro la Pubblica amministrazione, come la corruzione. Norma su cui sono giunti rilievi da più parti tra cui dal presidente dell’Anac, Raffaele Cantone. Una misura su cui Palazzo Madama è intervenuto prevedendo che ci debba essere l’ipotesi di associazione a delinquere. In caso di modifiche da parte di Montecitorio ci sarà la necessità di un nuovo passaggio a Palazzo Madama e c’è chi teme che questa eventualità possa comportare la mancata approvazione del Ddl prima della fine della legislatura. Le reazioni - "Il voto del Senato sul nuovo Codice Antimafia è importante - ha commentato in una nota la presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi -. Sono contenta che alcune tardive obiezioni siano state superate dalla volontà politica di non vanificare il lungo e approfondito lavoro fatto in questi tre anni". "La riforma è attesa da troppo tempo, necessaria e nel complesso ben fatta - ha aggiunto -. Si tratta di dare maggiore efficacia e trasparenza a tutto il sistema dei sequestri, confisca e gestione dei beni dei mafiosi e di rilanciare il ruolo strategico dell’Agenzia nazionale. In questi anni la lotta alla criminalità organizzata ha fatto perno anche su questo essenziale strumento che toglie ai mafiosi la loro ragion d’essere: fare soldi e accumulare ricchezze con la corruzione e la violenza". Credo che ci siano le condizioni per portarla fino in fondo", ha detto il ministro delal Giustizia Andrea Orlando, escludendo il rischio che la riforma del Codice antimafia, dopo il via libera del Senato, si possa impantanare alla Camera. Quanto a eventuali modifiche, Orlando aggiunge che "ci sono opinioni diverse" e che "si verificherà se i rilievi sono fondati". "In caso faremo ricognizione serena, se saranno necessarie modifiche - conclude - e dove introdurle". Nel nuovo Codice antimafia più spazio alla confisca di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2017 Potenziata la confisca allargata. Più trasparenza nell’amministrazione giudiziaria. Debutto del controllo giudiziario. Misure di sostegno alle aziende sequestrate e confiscate per infiltrazioni mafiose in una prospettiva di prosecuzione dell’attività. Il Codice antimafia, nella versione approvata ieri dal Senato e adesso di nuovo all’esame della Camera, esce trasformato da un intervento di puro maquillage. E questo al di là dell’estensione delle misure di prevenzione che ha monopolizzato di fatto le polemiche. Per esempio, si stabilisce che, oltre al sequestro di valori ingiustificati ritenuti probabile frutto di attività illecita, il decreto del tribunale può disporre anche l’amministrazione giudiziaria di aziende e di beni strumentali all’esercizio delle relative attività economiche. Previsto inoltre che il sequestro di partecipazioni sociali totalitarie si estende a tutti i beni aziendali. In materia di confisca allargata, di sproporzione cioè tra tenore di vita e patrimonio "al sole", la persona interessata non potrà più giustificare la legittima provenienza dei beni sostenendo che il denaro utilizzato per acquistarli è frutto di evasione fiscale: espediente utilizzato spesso per l’acquisizione illecita di cospicui patrimoni e già censurato dalle Sezioni unite della Cassazione. Modifiche anche alla disciplina di sequestro e confisca per equivalente. Si prevede che quando, dopo la presentazione della proposta, non è possibile procedere al sequestro dei beni, perché l’interessato non ne ha la disponibilità, diretta o indiretta, anche se trasferiti legittimamente in qualunque epoca a terzi in buona fede, sequestro e confisca hanno per oggetto altri beni di valore equivalente, di legittima provenienza, dei quali il proposto ha la disponibilità anche per interposta persona. Esordio poi per il controllo giudiziario, destinato a trovare applicazione al posto dell’amministrazione giudiziaria, nei casi in cui l’agevolazione "risulta occasionale e sussistono circostanze di fatto da cui si possa desumere il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose idonee a condizionare l’attività di impresa". La misura non provoca lo spossessamento della gestione dell’attività di impresa dà invece spazio, per un periodo minimo di 1 anno e massimo di 3, a un intervento meno invasivo, affidata ad un commissario giudiziario nominato dal tribunale, con il compito di monitorare dall’interno dell’azienda l’adempimento delle prescrizioni dell’autorità giudiziaria. L’amministratore giudiziario verrà scelto, nell’ambito degli iscritti all’Albo, secondo criteri di trasparenza, di rotazione degli incarichi e di corrispondenza tra i profili professionali del professionista individuato e la tipologia e l’entità dei beni da gestire. A un futuro decreto è affidata, tra l’altro, l’individuazione dei casi in cui è vietato il cumulo degli incarichi contraddistinti dalla particolare complessità o dall’eccezionalità del valore del patrimonio immobiliare da amministrare. Orfani del femminicidio, la destra stoppa il ddl di Adriana Pollice Il Manifesto, 7 luglio 2017 Senato. Negato il via libera in Commissione senza passare per l’aula. Boschi: "Mi auguro che i deputati e le deputate di Fi facciano cambiare idea ai loro colleghi di palazzo Madama". Frenata in commissione Giustizia, ieri al Senato, sulla legge che tutela gli orfani di femminicidio. I tempi per l’approvazione del ddl potrebbero slittare a dopo l’estate. A bloccare il via libera all’esame in sede deliberante, che avrebbe evitato il passaggio in aula, sono stati i senatori di Forza Italia, Gal e Lega. Nel testo si fa riferimento ai figli delle unioni civili. E così i senatori di centrodestra hanno imposto lo stop al provvedimento, attaccando: "Si cerca di far entrare dalla finestra un tema già affrontato in altra sede". La sottosegretaria Maria Elena Boschi ha espresso "dispiacere per la scelta del gruppo di Forza Italia di stoppare la legge approvata all’unanimità alla Camera. Mi auguro che i deputati e le deputate di Fi, a cominciare dalle ex ministre Carfagna e Prestigiacomo, facciano cambiare idea ai loro colleghi". Si fa sentire anche la ministra dei Rapporti con il parlamento, Anna Finocchiaro: "È una scelta priva di senso". La replica arriva da Paolo Romani, presidente dei senatori forzisti: "Fi è indiscutibilmente a favore del rapido varo del provvedimento. La mancata assegnazione in deliberante dipende dalla necessità di correggere alcuni errori materiali del testo". A Boschi risponde anche Carfagna: "Non condividiamo la decisione dei nostri colleghi ma le loro obiezioni vadano approfondite. In ogni caso è bello scoprire che Boschi c’è. Non ricordiamo sdegno di fronte a una norma, inserita nella riforma del codice penale, che permette di estinguere il reato di stalking pagando. Né alcuna protesta quando fu approvata in consiglio dei ministri una norma che aboliva la carcerazione preventiva per gli stalker". Il presidente dei deputati Pd, Ettore Rosato, dà un’interpretazione differente della decisione di Forza Italia: "Per bloccare tutto hanno usato l’argomento del riconoscimento indiretto dei figli nati dalle unioni civili. Ma il segnale che arriva è la sottovalutazione di un dramma sociale". Il ddl prevede, tra l’altro, l’assistenza legale dei figli delle vittime a spese dello stato a prescindere dal reddito; annulla il diritto alla pensione di reversibilità per il colpevole; annulla, per il ritenuto colpevole, il diritto al godimento dell’eredità, che spetterà ai figli delle vittime. E ancora, il sequestro dei beni dell’indagato per assicurare agli orfani il risarcimento del danno e la tutela per i maggiorenni che non siano autosufficienti. Infine, la pena per il femminicidio diventa l’ergastolo. Orfani due volte: le altre vittime dei femminicidi di Anna Costanza Baldry Corriere della Sera, 7 luglio 2017 In un mese 18 figli rimasti senza madre (e padre). Stanotte due bimbi innocenti hanno visto una delle cose più strazianti che può capitare a un bimbo. Vedere la propria madre strangolata dal padre, è successo, ancora, a Seveso. All’inizio del mese, in provincia di Genova un poliziotto ha ammazzato moglie e due figlie. Il giorno dopo, 3 bimbi hanno perso la mamma uccisa dal padre a Bitonto, Bari; il piccoletto di 4 anni era presente. Qualche giorno prima un altro bambino di 7 anni, in Toscana, a Pomarance, vicino a Pisa, lo hanno trovato muto, sotto choc, non lontano dal corpo della madre, ammazzata con una coltellata dal padre che poco dopo si è ucciso; la coppia aveva altri 4 figli. Cinque orfani, di cui due minorenni. Gli orfani adulti, non meno traumatizzati: due settimane fa a Sassari, 3 figlie orfane; il 20 novembre a Nubia (Trapani), altri 3 figli. In un solo mese 18 figli rimasti orfani di madre per mano del padre: 9 maggiorenni, 9 minorenni, di questi 2 anche loro uccisi. Cosa accade? Ma che Paese siamo, che permette che vengano così deturpati i diritti dei figli? I femminicidi non sono diminuiti negli ultimi anni nonostante norme, apparente sensibilità, attenzione dei mass media e dell’opinione pubblica. Forse addirittura, dati alla mano, stanno aumentando, perché sono sempre di più le donne che si insubordinano alle violenze, ma se non tutelate tempestivamente, sono uccise. E lasciano dietro di sé i figli orfani. Bambini che perdono padre e madre nello stesso momento. Spesso anche spettatori dei litigi prima e della carneficina poi. Che ne sarà di loro? Della loro sopravvivenza e della loro formazione? Di che tipo di famiglia hanno bisogno per crescere ed elaborare l’orrore di cui sono vittime? Si stima che in 15 anni in Italia (2000-2015) 1600 figli sono rimasti orfani in questo modo, forse, visti i dati di cronaca è una sottostima. Vittime anche di chi non li ha saputi proteggere. Sono orfani speciali, perché hanno bisogni speciali. Con il progetto Switch-off.eu (Who, Where, What. Supporting WITness CHildren Orphans From Femicide in Europe) abbiamo messo a punto alcune linee guida per rispondere alle domande che le loro storie ci pongono. Abbiamo voluto capire cosa è accaduto dopo l’omicidio, cosa hanno pensato allora e oggi, quali tutele hanno ricevuto, quale percorso terapeutico, sociale, giuridico è stato intrapreso per ridurre i danni originati dal trauma. Coordinando questo progetto (guidato dal Dipartimento di Psicologia della Seconda Università degli Studi di Napoli, con la collaborazione della rete nazionale dei centri antiviolenza DiRe, e due partner stranieri) ho incontrato orfani che avevano appena subito il lutto e altri, alcuni oggi adulti, la cui madre è stata uccisa dal padre da anni. Ogni storia è diversa. Mi ha colpito, però, una costante che ritrovo a ogni racconto: l’impreparazione delle istituzioni e di alcune figure professionali che li dovrebbero proteggere ma sono incapaci di ascoltare i loro bisogni. Che siano affidati a parenti oppure a educatori di comunità, si dicono e si fanno cose contraddittorie. Manca un sostegno adeguato e specifico: economico, psicologico, sociale, culturale, normativo. Ho ancora forte il ricordo di un ragazzo di 14 anni cresciuto con la certezza che la mamma si trovasse in un posto lontano per guarire da una grave malattia e che il padre (che non sapeva essere in carcere) fosse anche lui via per lavoro. Un giorno a casa di un compagno di scuola ha saputo la verità e ha avuto un crollo psichico i cui sintomi sono durati anni. Gli adulti senza preparazione pensano che nascondere la verità sia un bene, ma l’elaborazione del lutto parte dalla presa di consapevolezza reale di quanto è accaduto. Ma ci vuole un salto culturale ancor prima che normativo. Il trauma degli orfani speciali è legato allo choc di quanto hanno visto e al lutto violento. A renderlo più profondo c’è la perdita di qualsiasi riferimento, anche la casa, la cameretta, i giochi. Ricordo due sorelline di sette e nove anni che hanno assistito all’uccisione della madre da parte del padre che poi si è suicidato, sempre davanti ai loro occhi. I vicini di casa, sentendo gli spari hanno chiamato il 112 che ha trovato le bambine immobili accanto al corpo della mamma implorandola di muoversi con le mani e il volto sporchi di sangue. Quando muore la mamma e anche il padre non c’è più perché suicida o perché in carcere, gli orfani vengono affidati ai parenti della madre (59 % dei casi) oppure a servizi sociali (25%), zii, nonni paterni (9%), sorelle, fratelli maggiorenni (7%). Non è però così scontato che senza sostegno psicologico ed economico l’affidamento a una persona della famiglia sia stata la soluzione migliore per tutti gli orfani. Anche gli adulti hanno il lutto da gestire e non è detto che siano in grado emotivamente, oltre che materialmente, di prendersi carico di uno, a volte di tre o più ragazzini traumatizzati. Mi ha colpito la vicenda di due minori, 17 anni lei e 10 anni lui, mandati a vivere dai nonni materni. Persone anziane e con problemi di salute: hanno dovuto "restituirli" ai servizi sociali perché li affidassero ad altre persone o a una comunità, perché lasciati da soli. Ho sentito lo strazio della loro scelta: preoccupati di che cosa sarebbe accaduto ai nipoti, ma non trovavano alternative. Il trauma nel trauma. Non esiste una norma specifica che tuteli o sostenga questi orfani rimasti senza genitori come esiste per altre categorie di orfani (delle vittime del dovere, del terrorismo). Neanche la legge 121 del 2016, che doveva rispondere in materia di risarcimento alla Direttiva comunitaria 2004/80/CE, circa l’indennizzo previsto per le vittime di reati violenti volontari, è riuscita a colmare questo vuoto, perdendo un’occasione di includere gli orfani speciali. Per sostenere gli orfani speciali e chi li segue è necessario garantire un immediato, gratuito e specifico programma terapeutico per la gestione del trauma e del lutto. I ragazzi vanno accompagnati nel percorso scolastico e di socializzazione. C’è bisogno di sostegno economico per gli adulti affidatari e di informazioni e formazione per docenti e operatori dei servizi sociali e forze dell’ordine e magistratura in modo che sappiano cosa dire e come dirlo. Gli interventi devono durare nel tempo e non essere limitati all’emergenza del momento. Tutto questo ancora non accade. Non hanno ricevuto specifica assistenza economica le famiglie affidatarie nel 98% dei casi. E per quanto riguarda il sostegno psicologico prolungato, alcuni comuni prevedono servizi specializzati per minori traumatizzati. In altri, invece, non c’è nulla se non la buona volontà che da sola non è sufficiente. Il tempo è scaduto. Omicidio stradale, già trenta arresti. Ma le vittime continuano a crescere di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 7 luglio 2017 I dati della Polstrada: in 15 mesi 388 indagati per il nuovo reato. Dall’inizio dell’anno 4,6% di morti in più in incidenti, nel 2016 erano invece in calo. Il bambino travolto a Roma è solo l’ultimo caso. "Troppa distrazione al volante", spiega il capo della polizia. L’ultima vittima della strada ha sei anni. Un bambino rom travolto ieri pomeriggio da un’auto a Centocelle davanti ai suoi parenti. A investirlo un trentenne romeno, aggredito dai familiari del piccolo e costretto a trasportare il bambino al pronto soccorso più vicino. Tutto inutile, purtroppo. L’automobilista rischia ora l’accusa di omicidio stradale. Dall’entrata in vigore della legge che ha introdotto questo reato, la numero 41 del 23 marzo 2016, sono passati poco più di 15 mesi. Fino a oggi, solo la polizia stradale ha proceduto per questa fattispecie nelle indagini su 456 incidenti e in 388 casi (l’85%) sono stati individuati altrettanti conducenti punibili da 2 a 7 anni. È il dato choc che emerge da uno studio della specialità di polizia che festeggia il 70° anniversario dalla fondazione e che si è riunita ieri a Roma proprio per un convegno sull’omicidio stradale al quale, oltre al capo della polizia Franco Gabrielli, hanno partecipato magistrati, avvocati e rappresentanti di tutte le forze dell’ordine. Preoccupa l’aumento di morti sulle strade da gennaio a giugno: +4,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (da 695 a 727 decessi), sebbene - ed è un dato comunque da non sottovalutare - gli incidenti siano calati del 3,2% (35.444 contro 36.615). Sul fronte degli omicidi e delle lesioni stradali, invece, la polizia ha arrestato 33 persone (solo 3 per la seconda fattispecie), denunciandone 1.176, mentre in 215 incidenti più persone sono morte o sono rimaste ferite. Tuttavia, spiega il prefetto Gabrielli, "la forza di questa legge non è nei numeri ma nella valenza culturale. Il bene della vita deve essere al di sopra di ogni giudizio. Non è con la bulimia normativa che si risolvono i problemi - aggiunge il capo della polizia: chi si aspettava miracoli rimarrà deluso". Anche perché il nuovo aumento di morti sulle strade è causato soprattutto dalla distrazione alla guida. "Un’incidenza non più tollerabile", secondo Gabrielli, legata anche alla "iattura degli smart-phone: strumenti eccezionali che ci hanno cambiato la vita, ma modificano i nostri livelli di attenzione. È importante essere connessi con il mondo, ma anche esserlo con il veicolo che guidiamo". Per il vice ministro delle Infrastrutture Riccardo Nencini è importante che "siano diminuiti gli incidenti al sabato sera", forse anche per la legge sull’omicidio stradale che cerca di stroncare il fenomeno della guida sotto effetto di droghe e alcol. Proprio sul fronte della prevenzione e della repressione nei controlli svolti dalla Stradale in ottanta province sono stati sottoposti ad alcoltest 38.936 conducenti (di auto, moto, furgoni e camion), 2.088 dei quali sono risultati positivi, mentre sono stati 675 (su 2.753) quelli "incastrati" dal test sulla saliva per il consumo di sostanze stupefacenti. Uno screening importante, anche perché le pene più alte previste dal codice penale e dal reato di omicidio stradale si applicano proprio nei casi di persone al volante sotto effetto di alcolici e sostanze stupefacenti: nel primo caso, con un tasso alcolemico fra 0,8 e 1,5, si rischiano da cinque a dieci anni di reclusione, ma oltre 1,5 o drogati si sale da otto a dodici anni, mentre per le lesioni gravissime le pene sono comprese fra quattro e sette anni. Antiriciclaggio, obblighi a due velocità di Ranieri Razzante Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2017 Decreto legislativo 25 maggio 2017 n. 90. Antiriciclaggio a due velocità. Norme a vigenza immediata e altrettante di fatto differite, direttamente o indirettamente, attraverso la conservazione delle regole applicative dettate dalle Autorità fino a nuove disposizioni. È uno dei problemi principali che sta ponendo l’entrata in vigore del decreto legislativo 90/2017, che dallo scorso 4 luglio vede obbligati a veloci recepimenti soprattutto gli o peratori non finanziari. Ciò soprattutto a motivo del fatto che, per banche ed intermediari, già maggiormente attrezzati sul punto, le variazioni sono modeste, e già in qualche modo recepite prudenzialmente prima dell’entrata in vigore della IV direttiva. Per i liberi professionisti ed i cosiddetti "altri operatori", invece, la storia è sensibilmente diversa. Ci si riferisce, tra gli altri, agli operatori di gioco, gli agenti immobiliari, gli operatori professionali in oro, le società di custodia e trasporto valori, i prestatori di servizi su valute virtuali, le società di recupero crediti. Per questi, le nuove regole sull’adeguata verifica, ad esempio, così come quelle in tema di conservazione, sono già operative. Si pensi, a titolo esemplificativo, agli agenti in attività finanziarie e soggetti convenzionati (in sostanza, esercizi commerciali) che distribuiscono carte di pagamento, i quali dovranno effettuare - ai sensi del comma 6 dell’articolo 17 - l’adeguata verifica su tutte le operazioni occasionali di importo inferiore a 15mila euro. A parte la difficoltà di individuare la casistica delle operazioni occasionali (lo è ad esempio una cessione di carte prepagate anonime, ma non la ricarica di carte emesse da soggetti obbligati tra gli intermediari finanziari), si può immaginare quanto sia difficile l’apprestamento o aggiornamento di sistemi e procedure. E ancora, le modifiche alle categorie dei cosiddetti "peps". L’allargamento della categoria dei soggetti politicamente esposti a sindaci, direttori e manager di enti ecc., non previsti nelle vecchie procedure e nei software ad oggi sul mercato, è immediatamente operativo e condiziona l’adeguata verifica rafforzata. Ancora, a proposito di quest’ultima, se ne prevede l’adozione, all’articolo 24, in una serie di evenienze (come "i prodotti e le pratiche commerciali di nuova generazione") che vanno normate nei regolamenti e policy interne, con immediata informativa e formazione del personale addetto. Stessa cosa dicasi per la definizione e monitoraggio delle operazioni con importi "insolitamente elevati" di cui al comma 3 del medesimo articolo 24 (come cambiano i controlli di chi trasporta valori?). Sia chiaro, molte o tutte queste raccomandazioni erano state esplicitate dalla Banca d’Italia nelle sue istruzioni in tema di adeguata verifica, valide, come noto, per banche e intermediari finanziari. Restano allora scoperti i settori non aventi autorità specifiche di vigilanza. E per i liberi professionisti, va ricordato, gli ordini professionali non hanno potere normativo, ma possono fornire solo orientamenti e pareri non vincolanti. Le nuove regole di conservazione, infine, non sembrerebbero prevedere più i registri unici cartacei. E allora, come procedere oggi? Mantenerli o passare ad altre procedure, nell’incertezza che queste ultime risultino compliant con quanto voluto dal legislatore? Una discriminazione che, da ultimo, pare opportuno ricordare è quella per le pubbliche amministrazioni, per le quali l’articolo 10 di fatto "sospende" gli obblighi antiriciclaggio i quali, si rammenta, sono stati dettati in passato proprio per contenere fenomeni corruttivi e di passaggio di somme rivenienti da delitto all’interno di strutture statali. Discorso a parte e più ampio meriterebbero le norme sanzionatorie, con fattispecie nuove che solo la prassi e le prime applicazioni potranno consentire di definire, ma che intanto sono vigenti e correlate a molti degli aspetti non chiari di questo decreto. Riviste le competenze dei magistrati onorari di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2017 Limitate le nuove competenze in materia civile. Cancellate quelle penali. No a un’estensione dell’impegno richiesto oltre i due giorni a settimana. No a una forma previdenziale a carico dello Stato; sì a una copertura per infortuni sul lavoro. La riforma della magistratura onoraria approda al traguardo del Consiglio dei ministri in agenda per lunedì prossimo. La versione del testo in entrata a Palazzo Chigi ha previsto alcuni correttivi, accogliendo le richiesta avanzate da Parlamento e Csm; tuttavia a molte altre ha però detto di no. La principale, forse, perché sollecitata soprattutto dalle Procure era quella, fatta propria dal parere reso dal Csm, di un aumento di un giorno (da 2 a 3) dell’impegno lavorativo richiesto ai magistrati onorari, comprensivo della partecipazione a non più di due udienze a settimana. Niet da parte del ministero della Giustizia. Che spiega come la soluzione suggerita dal Consiglio superiore della magistratura non sarebbe idonea ad assicurare la piena compatibilità dell’incarico onorario con lo svolgimento di altre attività. In ogni caso, si sottolinea, il limite dei 2 giorni è stato oggetto di una dialettica con la Commissione europea. Come pure semaforo rosso per un aumento delle indennità rafforzando la parte fissa e cancellando quella variabile. In questo senso i margini di manovra erano inesistenti, visto che, sottolinea il ministero nella relazione di accompagnamento al decreto, la stessa legge delega stabiliva un’articolazione dell’indennità in una parte fissa e in un’altra variabile di risultato. Cambia invece la parte sulle competenze, cancellando, come richiesto sia dalla Camera sia dal Senato l’estensione nel settore penale. Non saranno così sottoposte ai giudici di pace nuove fattispecie di reato come minaccia (salvo vi siano aggravanti) e furto perseguibile a querela, abbandono di animali e contravvenzioni riguardanti animali o specie vegetali protette, commercio e vendita di fitofarmaci e rifiuto di fornire le generalità alle forze dell’ordine. Sul fronte civile soppresso il trasferimento alla competenza del giudice di pace, tra l’altro, per le cause di regolamento di confini; per quelle in materia di costituzione, acquisto ed estinzione delle servitù prediali, e di accertamento della servitù; per le cause di impugnazione della divisione che ha per oggetto beni immobili; per le cause di scioglimento di comunione su beni immobili. Slitta al 2025 l’allargamento in materia condominiale. Ricorrente era poi la richiesta che il versamento dei contributi previdenziali per i magistrati onorari sia posta a carico dello Stato, anche attraverso l’adozione di provvedimenti normativi. Richiesta che non può essere accolta perché in contrasto con la legge delega che affida sì al decreto il compito di regolare un regime previdenziale e assistenziale ma "compatibile con la natura onoraria dell’incarico, senza oneri per la finanza pubblica, prevedendo l’acquisizione delle risorse necessarie mediante misure incidenti sull’indennità". Processo Bossetti, la difesa cita O.J. Simpson e porta slide e video La Repubblica, 7 luglio 2017 No dei giudici ai filmati: "Non ci lasciamo suggestionare". Il processo d’appello per l’omicidio di Yara Gambirasio dopo l’ergastolo in primo grado. I legali volevano proiettare in aula i materiali "anche per catturare l’attenzione". Ai giudici: "Siate sicuri oltre ogni ragionevole dubbio". Il giorno della difesa di Massimo Bossetti nel processo d’appello in corso a Brescia. E i legali del muratore provano a smontare l’accusa che gli è costata l’ergastolo poco più di un anno fa per aver ucciso Yara Gambirasio, la ragazzina di 13 anni, scomparsa da Brembate di Sopra (Bergamo) il 26 novembre del 2010 e trovata morta in un campo di Chignolo d’Isola tre mesi dopo. Gli avvocati del muratore di Mapello citano il caso O.J. Simpson come esempio di stato di diritto e ai giudici dicono: "Cercheremo di convincervi che i dati presenti nel fascicolo non consentono di condannare Massimo Bossetti e voi dovrete essere sicuri oltre ogni ragionevole dubbio che quest’uomo è colpevole. Se i dubbi permarranno voi dovrete assolverlo". In tribunale, la moglie del muratore, Marita Comi, la madre Ester Arzuffi e la sorella Laura Bossetti. Piena l’aula con oltre 200 persone. No ai video per smontare le accuse. La prima mossa dei legali, però, di voler accompagnare le loro arringhe con alcune slide e video "con esempi di ciò che è successo", "anche per catturare l’attenzione", è stata subito respinta. "I video non ci interessano, toglieteli pure - ha detto il presidente della Corte d’Assise d’appello di Brescia, Enrico Fischetti - noi non ci lasciamo suggestionare, non ci servono, avete già fatto 258 pagine di motivi di appello più 110 di motivi aggiunti dove avete già scritto tutto e criticato in maniera estesa". I giudici si sono detti disponibili ad accettare le slide, "purché depurate da ciò che non è contenuto negli atti e nei documenti del processo e nei motivi d’appello, i video non interessano. Facciamo 20 processi all’anno su omicidi anche gravi, con bambini morti bruciati, e nessuno ci ha mai proposto video. Il processo d’appello è un processo su documenti scritti e di discussione orale", ha aggiunto Fischetti. Il sostituto pg, Marco Martani, ha chiesto poi di poter esaminare prima delle arringhe le slide. I legali della famiglia: "Yara preda perfetta". Contrari alla proiezione dei materiali i legali di parte civile, che ne chiedere la conferma dell’ergastolo, hanno descritto Yara come "un povero fagottino nero sotto la pioggia, preda perfetta per chi ha pulsioni insane" - le parole dell’avvocato dei genitori di Yara, Andrea Pezzotta - essendo "il comportamento di Massimo Bossetti di natura sadica, riconducibile ad una devianza di natura sessuale". Il caso O.J. Simpson. Oltre ogni ragionevole dubbio. È su questo che punta la difesa di Bossetti, convinta che l’accusa in sostanza si sia basata solo su "falsità, suggestioni ed emozioni" a dispetto dell’approccio dei difensori "è scientifico, asettico". L’avvocato Salvagni ha ricordato le parole di un giudice della giuria che assolse negli Usa O.J. Simpson, il quale ha detto in sostanza di essere "convinto che fosse stato lui, ma non c’erano le prove". "Noi siamo sereni che non è Bossetti l’imputato colpevole - ha detto Salvagni - ma voi non dovrete giudicare con la pancia altrimenti non arriveremo mai a una sentenza giusta". Dell’Utri: "Il mio stato incompatibile col carcere" di Mariateresa Conti Il Giornale, 7 luglio 2017 "Stare in carcere con le patologie cardiache ho io presenta estremi di palese incompatibilità. Voglio essere trattato da detenuto normale, senza pregiudizi". L’ex senatore azzurro Marcello Dell’Utri parla in tv per la prima volta da quando è partita la mobilitazione sulle sue condizioni di salute, che il Garante nazionale per i detenuti considera critiche. Lo fa su La7 a "In Onda", in una saletta dell’infermeria del carcere romano di Rebibbia, sulle braccia i segni di un piccolo intervento fatto all’esterno, all’ospedale "Pertini", in un’intervista in cui parla sì della sua situazione clinica, ma spazia anche a tutto campo sulla politica. Dell’Utri, che sta scontando una condanna definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, dal punto di vista della sua vicenda giudiziaria ha ribadito quello che ha sempre detto, di aver subito la "persecuzione dei magistrati" e di considerarsi "prigioniero politico". Parole a cui il ministro di Giustizia Andrea Orlando, ospite in studio, ha replicato: "I processi politici non esistono in uno Stato di diritto. Il senatore Dell’Utri ha avuto un processo con tutte le garanzie e non ha subito alcuna rappresaglia di carattere politica. Non c’è nessun pregiudizio nei suoi confronti, lo dimostra il fatto che sono stati anticipati i tempi per valutare se le sue condizioni di salute sono compatibili con la detenzione. Del resto, si fa con ogni detenuto". L’udienza del Tribunale di sorveglianza di Roma, inizialmente fissata per il 21 settembre, è stata anticipata al 13 luglio dopo la mobilitazione generale che c’è stata in seguito all’allarme lanciato dal Garante per i detenuti. La moglie, Miranda, ha lanciato appelli, il quotidiano Il Tempo ha avviato una petizione. E la risposta dei giudici due giorni fa è arrivata, con l’anticipazione della decisione. Nell’intervista Dell’Utri ha raccontato la sua vita in carcere, tra giornali e tv (poca). E ha raccontato una battaglia inedita, quella per far entrare in carcere anche Il Fatto quotidiano che non veniva venduto. Dell’Utri non si è sottratto alle domande sull’attualità politica: "Berlusconi è un fenomeno - ha detto -, ha sette spiriti come i gatti. Potrebbe lasciar perdere ma non lo fa. Solo lui ha questa capacità, non lo batte nessuno". Ironico sui Cinque stelle: "Governano?", ha chiesto. Per poi tornare serio: "Ci sono due partiti, chi non vota e chi vota M5s. Se non ci fosse Berlusconi io voterei Renzi. Non lo conosco ma è l’unica via di salvezza". Su un patto nazionale Berlusconi-Renzi si è però mostrato scettico: "Sarebbe auspicabile ma il Paese non capirebbe". A Diele il braccialetto elettronico, ad altri no di Claudia Osmetti Libero, 7 luglio 2017 L’attore ha lasciato il carcere ed è andato ai domiciliari. Ma c’è un centinaio di detenuti meno famosi che aspetta. Chiariamo subito: Domenico Diele ha fatto bene. Ha fatto bene a chiamare a raccolta la stampa, a lamentarsi pubblicamente di una "giustizia" che gli ha sbattuto la porta in faccia e gli ha negato, per diversi giorni, il braccialetto elettronico che gli avrebbe concesso di uscire dal carcere. Era un suo diritto, non una pretesa accampata alla meno peggio. L’attore senese, arrestato lo scorso 24 giugno per omicidio stradale a Salerno, ha fatto bene a mettere in campo avvocati, giornalisti, radio e tv per scampare a quell’inferno di sbarre e secondini in cui è stato catapultato il mese scorso. Sì, ha fatto bene: avremmo agito tutti nello stesso modo, se ne avessimo avuto la possibilità. Il problema non è lui, tra l’altro subirà un processo e vivrà sulla propria pelle le conseguenze delle sue azioni. Il problema sono gli altri 122 detenuti per i quali la macchina del ministro Orlando non si è ancora mossa. E che continuano a passare le loro giornate in gattabuia quando non dovrebbero. "Il giudice ha deciso che dovevo scontare la detenzione a casa. La notte non riesco a dormire, rivivo l’incubo. Pagherò tutto, ma fatemi uscire di qui", raccontava Diele, tra le lacrime, pochi giorni fa a un gruppetto di eurodeputati di Forza Italia che si stava interessando al suo caso. Della serie: la misura alternativa era stata decisa, ma mancava la sua attuazione. Mancava il braccialetto, cioè. Proprio non si trovava. Ne hanno scovato uno ieri, forse nei meandri di qualche tribunale, sarà stato pieno di polvere e ancora imballato, o più probabilmente sarà stato dismesso da un altro detenuto: vai a sapere. Quel che conta è che alla fine è saltato fuori. Il ragazzo, classe 1985, un curriculum che va da Don Matteo a Mia madre, può tirare un respiro di sollievo: dopo dodici giorni di cella è stato trasferito a casa della nonna, a Roma. Non possono fare altrettanto, però, Mario e Carmelo. O magari Luigi e Gianluca. Ossia quei detenuti ignoti (i nomi qui riportati sono ovviamente di fantasia) che non hanno dimestichezza con i telegiornali e non conquistano di certo le prime pagine dei quotidiani. Ce ne sono 122 in Nella foto grande Domenico Diele, 31 anni, l’attore che nella notte del 24 giugno scorso ha investito e ucciso Ilaria Dilillo, 48 anni. È stato rinchiuso nel carcere di Salerno-Fuorni, ma ora che gli è arrivato il braccialetto elettronico andrà ai domiciliari a Roma dalla nonna. Per essere ancora più chiari: 122 persone, attualmente rinchiuse nelle patrie galere, avrebbero diritto a un braccialetto elettronico che non si trova. Avrebbero, al condizionale: perché tra il dire e il fare, nel Paese dei proclami e delle intenzioni, c’è di mezzo quasi sempre un inghippo. E se il Viminale fa sempre che entro agosto potrebbero (di nuovo, periodo ipotetico) arrivare 12mila dispositivi con ancora attaccato il cartellino della garanzia, pazienza: fa caldo, si boccheggia in città, figuriamoci in carcere. Danni punitivi, primo passo ma ci vorrà una legge ad hoc di Francesca Milano Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2017 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 5 luglio 2017 n. 16601. La sentenza della Cassazione sui danni punitivi (n. 16601/2017, si veda Il Sole 24 Ore di ieri) potrebbe aprire la strada all’applicazione di questo principio di derivazione anglosassone anche in Italia. "La sentenza segna un cambio di orientamento della Cassazione civile - commenta Federico Busatta dello studio Gianni, Origoni & partners - e apre la porta, sul piano pratico, al riconoscimento di sentenze straniere che riconoscessero anche "punitive damages" a beneficio del danneggiato. Sarà interessante osservare se e come un tale precedente orienterà le future decisioni della Corte di cassazione (e delle corti d’appello e dei tribunali)". In assenza di riforme legislative, però, "è improbabile che in Italia possano essere riconosciuti danni ulteriori a quelli che compensano un’effettiva perdita patrimoniale o morale -, sottolinea Micael Montinari dello studio Portolano Cavallo - ma non escludo che qualche giudice riconosca in casi italiani il danno punitivo sulla base di questo precedente".. Ma come funziona, oltreoceano, il risarcimento dei danni punitivi? "I punitive damages - spiega l’avvocato Tami Lyn Azorsky, dello studio Dentons Usa - non sono volti a risarcire la parte danneggiata. Al contrario, la loro finalità è quella di punire il responsabile e di avere un’efficacia deterrente anche nei confronti dei terzi, affinché non compiano illeciti simili". L’importo non è deciso da un giudice ma da una giuria ed è tipicamente liquidato in relazione alla situazione finanziaria della società condannata o in relazione all’importo dei profitti ottenuti come conseguenza del comportamento illecito. "Il cambiamento di rotta della Cassazione era da tempo nell’aria - afferma Sara Biglieri, dello studio Denton Italia -. Come chiariscono le Sezioni unite, però, ciò non significa che i giudici italiani potranno liberamente riconoscere in Italia l’applicazione dei punitive damages. L’ingresso dei punitive damages nel sistema italiano non sarà infatti senza limiti: il giudice italiano dovrà verificare che il giudice straniero abbia liquidato i punitive damages sulla base di un’espressa previsione normativa dell’ordinamento straniero (principio di legalità) che identifichi il perimetro della fattispecie (tipicità) e ponga dei limiti quantitativi alla condanna (prevedibilità). Ciò che è ancora più importante è che ci sarà sempre un controllo da parte delle Corti d’appello sulla proporzionalità del risarcimento rispetto al danno subito dal danneggiato". Silvio Martuccelli, ordinario di diritto privato alla Luiss e socio responsabile del contenzioso di Chiomenti sottolinea che "La decisione potrà certamente esercitare una influenza sulle future scelte del legislatore italiano: peraltro, la funzione non esclusivamente riparatoria, ma anche sanzionatoria, ovvero preventiva e deterrente, del rimedio risarcitorio si è già affacciata nel nostro ordinamento attraverso l’introduzione di norme che commisurano il risarcimento non solo al pregiudizio concretamente subito e provato dal danneggiato, ma anche ad altri indici quali la gravità dell’offesa, la malizia del danneggiante, il profitto lucrato da quest’ultimo (se superiore al pregiudizio subito dal danneggiato)". Per l’avvocato Filippo Danovi, dello studio Danovi, la decisione della Cassazione costituisce "un ulteriore passo avanti nella disciplina delle ipotesi di responsabilità non soltanto dal punto di vista del soggetto leso (e quindi con un necessario parametrarsi ai danni in concreto subiti) ma anche dal punto di vista del responsabile dell’evento lesivo". La pronuncia delle Sezioni unite funge quindi da "completamento di una tendenza per una generale affermazione della centralità dei principi di lealtà e fairness nelle relazioni interpersonali, quali canoni valoriali dell’ordinamento". Di danni punitivi si è parlato ieri durante il convegno del Consiglio superiore della magistratura, a Roma. "La sentenza n. 16601 - ha affermato il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini - costituisce un esempio di quanto possono essere feconde l’apertura tra giurisdizioni e la connessione tra tecniche interpretative, e che sarà con tutta probabilità anche nel futuro studiata come un paradigma delle modalità con cui il giudice deve fronteggiare queste nuove sfide". Frena Alessio Zaccaria, consigliere del Csm: "La sentenza non apre ai danni punitivi in Italia ma alla possibilità di dare ingresso alle sentenze straniere. È, però, un primo passo". Sospensione patente per guida in stato d’ebbrezza, sanzione accessoria o misura cautelare di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2017 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 27 giugno 2017 n. 16051. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16051 del 27 giugno 2017 si è interrogata a proposito della diversa natura della sospensione della patente di guida disposta ai sensi del secondo comma lettera b) del nono comma dell’articolo 186 del codice della strada. Il caso - Il Tribunale di Udine, ha rigettato l’appello proposto dalla Prefettura UTG di Udine, avverso la sentenza del Giudice di pace nei confronti di un automobilista confermando l’annullamento del provvedimento di sospensione della patente di guida disposto ai sensi degli articoli 186, comma secondo, e 223, comma primo del codice della strada. La Prefettura ritiene che ci sia stata una violazione e falsa applicazione dell’articolo 186, secondo comma, lettera b), e nono comma, e 223, primo comma del codice della strada, assumendo che la sospensione della patente di guida disposta nel caso de quo costituisce misura provvisoria con finalità cautelari, e non sanzione accessoria. Gli Ermellini nell’accogliere il ricorso ricordano che la sanzione accessoria della sospensione provvisoria della patente di guida ai sensi degli articoli 186, comma secondo, lettera b) e 223, comma primo del codice della strada è un provvedimento disposto dal prefetto ed ha il limite massimo di due anni, con finalità di tutela immediata dell’incolumità dei cittadini e dell’ordine pubblico, per impedire che il conducente del veicolo continui nell’esercizio di un’attività potenzialmente creativa di ulteriori pericoli. Diverso è il caso di cui all’articolo 186, comma nono. Trattasi infatti di sospensione cautelare che il prefetto adotta sino all’esito della visita medica, e presuppone il riscontro di un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l. La finalità del provvedimento è evidentemente diversa e risiede nell’esigenza di acquisire rapidamente il riscontro medico sulla condizione del conducente, al fine di valutarne l’idoneità alla guida, e quindi anche in funzione della revoca della patente. Cagliari: la morte di "Doddore" e i dubbi di Manconi "si doveva evitare che finisse così" di Alessandro Pirina La Nuova Sardegna, 7 luglio 2017 Il senatore del Pd chiama in causa il ruolo dello Stato. "Era suo dovere occuparsi di lui, anche se era un nemico". "Voglio capire se è stato fatto tutto il possibile per dissuadere Doddore Meloni dal continuare in un’azione che poteva portarlo alla morte". Il senatore Luigi Manconi, da sempre in prima linea nelle battaglie per i diritti umani, non si dà pace. L’esponente del Pd non è un profondo conoscitore della vicenda del fondatore della repubblica di Malu Entu - gli è stata segnalata solo qualche giorno fa - né un simpatizzante della sua politica, ma non è sicuro che sia stato fatto il necessario per evitare il tragico epilogo. "Siamo in presenza di una di quelle situazioni che i filosofi del diritto americani chiamano scelte tragiche. Un conflitto che può non trovare soluzione tra due diritti contrapposti ma ciascuno legittimo". Quali sono questi diritti? "Da un lato c’è il diritto dell’individuo all’autodeterminazione, e dunque ad assumere scelte che possono anche costargli la vita. Va ricordato che nel nostro ordinamento è reato l’istigazione al suicidio ma non il suicidio. Dall’altro, invece, c’è il diritto-dovere dello Stato di tutelare l’incolumità e l’integrità fisica dei cittadini. Ovviamente al di là delle opinioni che i cittadini possono avere dello Stato stesso". Il caso di Doddore Meloni. "Nel caso specifico quel diritto alla autodeterminazione a rischio della esistenza era legato a una strategia politica. E questo deve rendere lo Stato ancora più responsabile trattandosi del ricorso a un mezzo non violento qual è lo sciopero della fame. Allora mi chiedo: è stato fatto tutto il possibile per dissuadere l’indipendentista sardo dal continuare in una azione che poteva portarlo alla morte? Sono state messe in atto tutte le mediazioni, le forme non autoritarie di pressione che potevano agevolare l’interruzione dello sciopero?". Che idea si è fatto? "Non sono adeguatamente informato, ma, considerato il fatto che Meloni fosse lucido, consapevole e politicamente determinato, ho avuto la sensazione che si sia potuto pensare: è una sua scelta. Il che è giusto ma non sufficiente". Cosa avrebbe dovuto fare lo Stato? "Io penso che in una comunità il dovere di soccorso debba trovare le strade, anche le più complicate, le più ardue, perché quel soccorso sia accolto. Non ho informazioni per accusare alcuno ma mi è sembrato che la sua morte sia stata messa nel conto. Era in carcere per reati fiscali. E proprio per questo ritengo che ancora di più lo Stato dovesse occuparsi di lui. Se qualcuno consideralo Stato un nemico questo non è mai un motivo sufficiente perché lo Stato consideri quel qualcuno un proprio nemico. Non vale questa reciprocità. Lo Stato ha tra i suoi valori fondanti la tutela della incolumità fisica dei suoi associati. Anche quando si ribellano". Magari qualcuno pensava lo sciopero fosse un bluff... "Questa accusa è la più consueta, soprattutto quando un personaggio è ritenuto eccentrico. Così si è detto per decenni di Marco Pannella. Ma l’attribuzione di eccentricità viene solitamente data agli oppositori, soprattutto a quelli che usano strumenti non convenzionali". Velletri (Rm): suicidio di Marco Prato. Manconi "perché fu trasferito da Regina Coeli?" di Valentina Stella Il Dubbio, 7 luglio 2017 Il capitolo sul suicidio di Marco Prato dello scorso 20 giugno nel carcere di Velletri non può e non deve essere chiuso: con questo obiettivo il senatore Pd Luigi Manconi, Presidente della Commissione diritti umani, ha presentato una interrogazione al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, per chiarire alcuni punti della vicenda. Primo tra tutti "quali provvedimenti siano stati adottati dall’Amministrazione penitenziaria, in particolare dagli istituti di Regina Coeli e di Velletri, in ottemperanza della direttiva ministeriale del 2015 per evitare che un soggetto evidentemente a rischio come Marco Prato potesse suicidarsi". Il ragazzo aveva già tentato il suicidio nel 2011, dopo essere rientrato a Roma da Parigi, e una seconda volta due mesi dopo, e ancora poche ore dopo l’orribile omicidio di Luca Varani. Per il brutale assassinio del ventitreenne, ucciso il 4 marzo 2016, il reo confesso Manuel Foffo è stato già condannato a 30 anni con rito abbreviato. Il processo a carico di Marco Prato, invece, che sin dall’inizio e anche nella lettera lasciata si era dichiarato innocente, sarebbe dovuto iniziare il giorno dopo la sua "imprevista e drammatica morte", il 21 giugno, davanti alla Corte d’Assise di Roma. Dunque Prato era un soggetto che necessitava di una attenzione particolare ma nonostante questo era stato trasferito per ben due volte, contro la sua volontà, nel carcere laziale di Velletri che non ha una articolazione psichiatrica atta a fronteggiare simili casi problematici, come ha raccontato il Garante dei detenuti, Mauro Palma, proprio al Dubbio. La motivazione usata per giustificare il trasferimento di Prato a Velletri sarebbe a dir poco paradossale: "La permanenza in questo Istituto - avrebbe scritto un dirigente di Regina Coeli - è ormai un fattore a favore del soggetto che gli permette di adattarsi e crearsi un ambiente favorevole". Se queste parole trovassero conferma, per Manconi bisognerebbe sospendere i dirigenti del carcere. Non si comprende, infatti, scrive Manconi nella interrogazione a firma anche dei senatori senatori Paolo Corsini, Movimento democratico e progressista (Mdp), e Dario Stefano del Gruppo Misto "per quali ragioni sia stato disposto il secondo trasferimento di Marco Prato a Velletri, dopo che il primo era stato revocato" grazie ad una segnalazione del Garante dei detenuti. Prato lentamente si stava ambientando nel carcere di Regina Coeli, iniziando anche dei corsi di lettura e tenendo lezioni di lingua straniera ai detenuti; a seguito del trasferimento in un’altra casa circondariale trascorreva il tempo nell’ozio, a pensare ai terribili fatti della notte dell’omicidio e forse a meditare con più forza il suo suicidio. Come lui altri 22 detenuti dall’inizio dell’anno hanno deciso di togliersi la vita: quali misure ha intenzione di adottare il ministro "per evitare che analoghi episodi si verifichino in futuro? ", concludono i senatori. Sgambato ha promesso che porterà la questione all’attenzione del ministro della giustizia Orlando, affinché con il Dap si fronteggi l’emergenza con la diminuzione della popolazione carceraria nei mesi estivi e con la attivazione di misure tese a garantire l’erogazione della corrente in maniera puntuale e costante. La deputata, inoltre, suggerisce il ricorso ad energie alternative come l’installazione di pannelli fotovoltaici per cui sono previsti anche fondi statali. "Nel contempo - conclude Sgambato, anche il comune è chiamato a fare la propria parte, accelerando le procedure per l’affidamento e la realizzazione dei lavori di allaccio che sono ferme da un anno con disagi inevitabili per detenuti e agenti di polizia penitenziaria fino a lederne la dignità". Pronta anche l’interrogazione da parte della senatrice del Pd Rosaria Capacchione nella quale si evidenzia come il problema si verifica ogni anno visto che la struttura manca di un allaccio alla condotta idrica pubblica. "Non è più possibile andare avanti in questo modo", afferma ricorda la senatrice ricordando che nel carcere ci sono 20 detenuti che soffrono patologie psichiatriche molto gravi e la mancanza d’acqua ha serie ripercussioni sulla loro salute mentale e fisica. Santa Maria Capua Vetere (Ce): senza acqua ed energia elettrica, se questo è un carcere... di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 luglio 2017 "Lo Stato sta torturando i detenuti lasciandoli senz’acqua ed energia". La forte denuncia non proviene dalle organizzazioni o movimenti politici vicini ai diritti dei detenuti, ma direttamente dal sindacato della polizia penitenziaria Uilpa (Unione Italiana Lavoratori Pubblica Amministrazione). I detenuti e operatori penitenziari della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere vivono in un forte disagio nell’istituto penitenziario. Una situazione sempre più grave tanto che gli agenti penitenziari, in segno di protesta, hanno rifiutato il pasto. Nonostante la regione Campania abbia stanziato già un anno e mezzo fa un fondo per i lavori, all’interno della struttura c’è una carenza idrica ormai cronica e a questo problema negli ultimi giorni si è aggiunto il malfunzionamento dell’impianto elettrico che provoca continui black out. Ad aggravare il disagio c’è anche il sovraffollamento, ad oggi risultano 173 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare dell’Istituto. Tutte queste tematiche sono state inserite in una nota diffusa dal sindacato Uilpa e inviata alla direttrice del carcere Carlotta Giaquinto, al prefetto Raffaele Ruperto, al provveditore Giuseppe Martone, al direttore generale del Dap Pietro Buffa, ai magistrati di sorveglianza di Napoli e Santa Maria e alla Garante dei detenuti Adriana Tocco: "Lo Stato sta torturando i detenuti lasciandoli senz’acqua ed energia - si legge nella nota. I rumors indicano che c’è la possibilità di forme estreme di proteste da parte della popolazione detenuta già in stato di apprensione non mancherebbe a tutto ciò l’infiltrazione di fazioni criminali locali che cavalcherebbero l’onda del forte stato di agitazione per i loro tornaconti. È evidente che le scelte operate fino ad ora dall’amministrazione penitenziaria per l’istituto stanno portando il sistema al collasso perché ci si trova di fronte al sovraffollamento: ci sono circa 1000 detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e il personale del penitenziario è continuamente mortificato". A denunciare la grave situazione, nei giorni scorsi era stato anche il presidente nazionale dell’Unione sindacati polizia penitenziaria (Uspp) Giuseppe Moretti in una nota inviata al ministro della Giustizia, Andrea Orlando e al capo del Dap, Santi Consolo, in cui definisce "scandalosa e vergognosa la situazione che ci viene segnalata dalla Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere, dove, nonostante i ripetuti impegni da parte della politica, non si è mai pervenuti alla risoluzione". Inoltre aggiunse che "sono urgenti interventi di stabilizzazione e assegnazione di nuovo personale di Polizia Penitenziaria". Per Ciro Auricchio, segretario regionale campano dell’Uspp, "quanto sta avvenendo al carcere di Santa Maria Capua Vetere è l’ennesima dimostrazione di disinteresse da parte degli organi istituzionali preposti". Sul caso è intervenuta anche la deputata del Pd, Camilla Sgambato, che, nell’ultimo biennio, ha seguito passo dopo passo e con attenzione la vicenda della carenza idrica che attanaglia da anni il carcere di Santa Maria Capua Vetere, fino alla firma della convenzione tra regione e comune avvenuta esattamente un anno fa. "Pur in presenza dell’impegno profuso dalla direttrice dell’Istituto Carlotta Giaquinto - denuncia la deputata del Pd, è evidente che non è concepibile che la vita in carcere per tante persone si trasformi in un calvario tra assenza di acqua ed energia elettrica". Santa Maria Capua Vetere (Ce): Il Sindaco: "carcere, gara per condotta idrica in corso" Il Mattino, 7 luglio 2017 Dopo le proteste di agenti e detenuti e le reazioni politiche per la carenza idrica. Mirra: "Prima l’affidamento della progettazione dei lavori, approvazione entro ottobre". "In merito ai lavori per il collegamento della condotta idrica fra la città di Santa Maria Capua Vetere e la Casa circondariale e alle dichiarazioni degli ultimi giorni sul tema, intendo precisare che in questa fase sono in corso le procedure di gara per l’aggiudicazione della progettazione dell’opera per poi assegnare un termine di due mesi all’aggiudicatario per progettare i lavori che andranno a gara". Così il Sindaco di Santa Maria Capua Vetere Antonio Mirra sulla questione della condotta idrica per il carcere di Santa Maria Capua Vetere che ha innescato le proteste di agenti (astensione dalla mensa), che hanno paventato anche il rischio sommossa, e dei detenuti (posate battute contro le celle), e una serie di reazioni da parte di politici e sindacati. "Mi preme sottolineare - scrive il sindaco in una nota - che, a seguito della sottoscrizione del protocollo di intesa tra il Comune e la Regione Campania avvenuta nel mese di agosto 2016, il settore tecnico comunale ha posto in essere prima tutte le molteplici attività propedeutiche e poi la pubblicazione del bando di gara per la progettazione. Già nel mese di novembre 2016, nella risposta scritta all’interrogazione orale proposta dalla senatrice Vilma Moronese, avevamo potuto evidenziare, sulla base del cronoprogramma stilato dallo stesso settore tecnico relativamente a questa fase, che l’approvazione della progettazione esecutiva da porre a base della gara per l’affidamento dei lavori per cui necessitano varie autorizzazioni ci sarebbe stata solo per la fine del mese di ottobre 2017. Ho anche il dovere di evidenziare l’enorme carico di lavoro, tutto di rilevante e primaria importanza per la collettività, di cui è oberato l’ufficio tecnico comunale che registra anche un’insufficienza di risorse umane che stiamo fronteggiando con l’attivazione di procedure per nuove assunzioni". Poi il passaggio sulla carenza idrica al carcere. "Un problema che si accentua puntualmente con l’arrivo della stagione estiva, con notevoli ripercussioni sulla vita e sulla dignità stessa dei detenuti, e che risale alla stessa costruzione del carcere". "Se, in relazione ai lavori attesi da circa vent’anni, oggi si intravede una possibile soluzione - conclude - è grazie allo stanziamento delle somme necessarie, non ancora nella materiale disponibilità dell’Ente, da parte della Regione e alla stipula del citato protocollo, tenendo comunque conto dei tempi necessari per il corretto svolgimento delle procedure di aggiudicazione e per lo svolgimento dei lavori. A tal proposito mi hanno meravigliato alcuni interventi in quanto era ben chiaro a tutti che sarebbe stato assolutamente impossibile completare questo iter per questa estate. La tutela della salute dei detenuti sta particolarmente a cuore a questa amministrazione che ne ha dato concreta prova opponendosi fermamente alla possibilità di realizzazione di un impianto per il trattamento dei rifiuti organici nell’area di fronte alla struttura a dispetto del vantaggio economico che ne sarebbe derivato". Monza: una rete qualificata per dare un lavoro ai detenuti di Sarah Valtolina ilcittadinomb.it, 7 luglio 2017 A Monza una rete inter-istituzionale che coinvolge tribunale, Procura, Camera di commercio, Assolombarda, Afol, gli ordini professionisti e carcere per spiegare perché assumere un detenuto conviene. Un progetto pilota di cui si è parlato allo Sporting Club. Un tavolo di lavoro tra le associazioni, una rete inter-istituzionale che coinvolge tribunale, Procura, Camera di commercio, Assolombarda, Afol, gli ordini professionisti e carcere, per promuovere la conoscenza delle possibilità lavorative offerte dal carcere. Di questo si è parlato durante un convegno che si è svolto martedì sera nella sede dello Sporting Club. Un evento che è stato l’ultimo atto di un percorso portato avanti dalla Camera penale di Monza, dall’Ordine degli avvocati e da un team di magistrati, che ha dato la possibilità ai detenuti della casa circondariale di Monza di raccontare le proprie richieste e necessità una volta ultimata la pena. È emersa così l’urgenza del lavoro e dell’acquisizione di professionalità come elemento fondamentale per un autentico riscatto sociale, prima e dopo la scarcerazione. L’obiettivo è quello di stilare un protocollo ufficiale che permetta alle aziende e ai commercianti del territorio di conoscere quali possono essere i vantaggi messi a disposizione di chi scegli di assumere lavoratori detenuti. Non a caso al convegno erano presenti tra gli altri anche Daniele Trezzi, presidente dell’Ordine dei consulenti del lavoro di Monza e Brianza, e Federico Ratti, presidente dell’Ordine dei commercialisti di Monza. "Si tratta di un progetto innovativo mai avviato in altri istituti in Italia - ha spiegato la direttrice della casa circondariale, Maria Pitaniello - è stata un’evoluzione del percorso avviato con la magistratura e gli avvocati, e penso che il territorio risponderà positivamente ai nostri inviti alla collaborazione. Il mio è un appello alla sensibilità e al buon senso, e sono certa che qualcosa si muoverà". L’idea, dunque è quella di creare una rete istituzionale composta da diversi interlocutori, che giochi un ruolo di garanzia per superare timori e diffidenze dei datori di lavoro nel momento in cui decidono di assumere un detenuto nel proprio organico. "Solitamente l’imprenditore o il commerciante che approcciano per la prima volta il mondo del carcere lo fanno con una certa diffidenza, nonostante i notevoli vantaggi economici, fiscali e contributivi previsti (fino a 520 euro al mese di sgravi fiscali per ogni detenuto assunto, ndr) - aggiunge Emanuele Mancini, magistrato della sezione penale di Monza, membro del gruppo di lavoro - l’obiettivo è limare questa diffidenza e creare un rapporto fiduciario tra datore di lavoro e dipendente detenuto, in modo tale che il detenuto che ha concluso la pena riesca a reinserirsi, con un vantaggio per tutta la comunità con l’abbattimento del rischio di recidiva" Rieti: il carcere dona giardini alle "casette" di Amatrice di Antonella Barone giustizia.it, 7 luglio 2017 Presentazione nel carcere di Rieti del progetto di cura del verde ad Amatrice. Sono arrivati da Trento e Modica, dalla Cina e da Israele, dalla Russia e dal Cile, da ogni angolo dell’Italia e della terra i soccorsi ad Amatrice, da subito ed a lungo. Bar, trattorie e distributori lungo la Salaria dal 24 agosto ne hanno viste di tutti i colori quanto a facce, divise e uniformi, salutate come l’avanzata di un esercito di liberazione da macerie e morte. Il terremoto in Centro Italia - come altre calamità naturali, forse in quanto nemiche comuni dell’umanità tutta - è riuscito a sollevare onde di solidarietà, all’inizio anche sovrabbondante e caotica, ma poi rivelatasi capace di superare convinzioni, idiomi, pregiudizi, di mettere insieme i mondi più lontani e anche per questo di ridare fiducia alle popolazioni colpite. Anche il carcere di Rieti ha scelto di non essere un mondo a parte ma di partecipare alla rinascita di Amatrice, inizialmente, come molti altri istituti penitenziari, raccogliendo fondi destinati alle zone colpite dal sisma e poi, con un progetto che consentirà a cinque detenuti di lavorare gratuitamente alla cura del verde nelle aree destinate alle Soluzioni Abitative di Emergenza (Sae). Un’iniziativa che potrebbe essere ripetuta in altre zone terremotate (a breve detenuti dell’istituto di Pescara saranno impiegati nella rimozione delle macerie del Rigopiano) e che si è realizzata "semplicemente" utilizzando quanto già esiste nel nostro sistema penitenziario: persone in espiazione pena, formate al lavoro e disposte ad impegnarsi a titolo di volontariato; norme dell’ordinamento penitenziario - in questo caso l’art. 21 - che lo consentono, e accordi da valorizzare, come il Protocollo d’intesa firmato nel 2012 tra l’Associazione Nazionale dei Comuni e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che sottolinea "la centralità del lavoro come misura altamente risocializzante per i detenuti". A mettere insieme tali opportunità ci hanno pensato direttore, personale e detenuti della Casa circondariale di Rieti, insieme al sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi. "Quando il Sindaco è venuto in istituto per rivolgere un ringraziamento per la raccolta fondi effettuata" racconta Vera Poggetti, dirigente della struttura dove ieri è stato presentato nei dettagli il progetto "la sua sensibilità, la tenacia ed il coinvolgimento emotivo che si è instaurato, hanno generato una forte empatia nei confronti della città di Amatrice e l’intenzione di voler contribuire con aiuti più concreti". Da ciò è nato il protocollo approvato a maggio dalla Giunta Comunale di Amatrice che inizierà ad essere attuato dalla settimana prossima. Dal 12 luglio, infatti, cinque detenuti già formati in materia di sicurezza sul lavoro e dotati di attrezzature si recheranno ad Amatrice per prendersi cura delle aree verdi attorno alle SAE per poi rientrare in carcere al termine della giornata lavorativa. Un progetto che non si sarebbe potuto realizzare senza il contributo del personale di polizia penitenziaria che accompagnerà i detenuti lavoratori esterni dall’istituto ad Amatrice e senza la disponibilità di Sergio Pirozzi "a dare solidarietà ed aiuto a coloro, dai quali ha ricevuto solidarietà ed aiuto" continua Vera Poggetti che sottolinea l’importanza del protocollo proprio come opportunità di reintegrazione sociale: "Andare ad Amatrice è una scuola di vita, si coglie come dalle grandi difficoltà si può trovare la forza di ricominciare, di ripartire, di non abbattersi mai di fronte alle avversità. Incontreranno persone che hanno perso i valori più importanti della loro vita ma che lottano per ricominciare e non arrendersi. Avranno inoltre l’opportunità di confrontarsi con il "vero" mondo del lavoro, di svolgere un’attività lavorativa insieme ad altre persone, impareranno la collaborazione, si sentiranno utili e si prepareranno al mondo esterno che a breve li riaccoglierà". Parma: "scarsa igiene", l’Ausl chiude la mensa della Polizia penitenziaria parmaquotidiano.info, 7 luglio 2017 Dopo le proteste degli agenti di polizia penitenziaria e dopo una visita dell’Ausl in via Burla, la direzione del carcere di Parma ha disposto "l’interruzione temporanea del servizio di ristorazione". La mensa del carcere è chiusa. Pochi giorni fa, il sindacato delle guardie aveva proclamato lo sciopero della mensa, dopo che un poliziotto era finito al pronto soccorso con una intossicazione alimentare nello stesso giorno in cui diversi suoi colleghi avevano lasciato tutto il cibo nel piatto per quanto male si presentava. Come riferisce il sindacato Sinappe, la decisione di interrompere il servizio di ristorazione "sarebbe stata presa a seguito di un’ispezione del servizio d’Igiene pubblica dell’Ausl di Parma, al quale il Sinappe aveva chiesto di intervenire per verificare le condizioni d’igiene e salubrità della mensa ordinaria di servizio del carcere di Parma". Il problema non è certo risolto: da un piatto balordo e potenzialmente dannoso, si è passati ad un piatto vuoto… Ma il problema è ora ufficialmente all’ordine del giorno e in breve sono attese decisioni per riaprire la mensa di via Burla con ben altra qualità. "Auspichiamo ora - afferma Gianluca Giberti, segretario regionale del Sinappe - che l’amministrazione penitenziaria adotti prontamente i provvedimenti necessari ad assicurare al personale in servizio ulteriori modalità di refezione in esito ai provvedimenti adottati". Una domanda sorge spontanea: ma se il cibo delle guardie è pessimo, come sarà quello dei detenuti? Reggio Calabria: Don Ciotti "è aumentato il numero di chi denuncia le estersioni" Corriere della Calabria, 7 luglio 2017 Il fondatore di Libera nella città dello Stretto rilancia l’iniziativa "Reggio Libera Reggio - La libertà non ha pizzo". Cafiero de Raho: occorre essere coerenti con le scelte di aderire all’iniziativa. "Non sono numeri grandi quelli di imprenditori e commercianti che a Reggio Calabria hanno denunciato di essere vittime del racket delle estorsioni, ma sono numeri significativi in un contesto ed in un territorio come questo". Lo ha detto don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, a Reggio Calabria per rilanciare l’iniziativa "Reggio Libera Reggio - La libertà non ha pizzo", promossa dal movimento sette anni fa. "È un percorso che deve crescere - ha aggiunto don Ciotti - e che deve allargarsi. Nel momento in cui la magistratura sta concludendo importanti operazioni contro la ‘ndrangheta è necessario avere più’ forza e più coraggio dimostrando che il cambiamento è possibile. Sta crescendo il numero delle persone che hanno la forza ed il coraggio di denunciare. Persone che non possono essere lasciate sole. Allora c’è bisogno che le istituzioni accelerino i tempi e le modalità per essere loro più vicine, superando le difficoltà provocate da certi meccanismi burocratici. Ed al contempo è necessario che i cittadini si assumano maggiormente la loro parte di responsabilità. La libertà è un dono che tutti noi abbiamo avuto. Chi è libero, però, deve impegnare la sua libertà per aiutare chi libero non è. Chi è senza lavoro, chi è povero, non è libero perché è schiacciato anche dalla violenza mafiosa e dalle forme di usura, di corruzione, di ‘ndrangheta. Ciò che serve, allora, è una rivolta delle coscienze e dei cittadini assieme alle istituzioni serie, quelle impegnate, come la magistratura". "Il seme piantato sette anni fa - ha concluso il fondatore di Libera - sta crescendo. Sono 43, finora, gli imprenditori ed i commercianti che si sono ribellati al racket. È un dato significativo a Reggio Calabria. Questo, comunque, è il tempo della responsabilità. Ognuno è chiamato a fare la propria parte. Occorre sconfiggere la malattia più terribile, quella della rassegnazione e dell’indifferenza. Non ha alcun senso pensare che certe cose non cambieranno mai. Non è vero!". Cafiero De Raho: "non basta aderire, ma coerenti con le scelte". "L’adesione di 43 imprenditori all’iniziativa "Reggio Libera Reggio - la libertà non ha pizzo" è incoraggiante". Lo ha detto il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, intervenuto all’iniziativa di rilancio della "campagna di civiltà" promossa da Libera nel 2010. "Non si tratta - ha aggiunto - di numeri irrisori. Anzi, io credo che sia un numero rilevante. spero che all’adesione di nuovi imprenditori e commercianti segua anche in concreto una reale partecipazione di queste categorie alla battaglia per la legalità. Perché non basta aderire. È necessario avere anche dei comportamenti coerenti con quella adesione. Così come è importante fare gruppo. Fare in modo che gli imprenditori che hanno scelto la strada della legalità creando una netta separazione tra loro e la ‘ndrangheta, con la quale non intendono colludere né condividere favoritismi o altro, possano essere sostenuti. È necessario, però, creare, per questi imprenditori dei circuiti che rendano conveniente ribellarsi e contrastare la ‘ndrangheta. Lo Stato, nell’ambito delle proprie leggi, in materia di estorsione e usura deve cominciare a pensare anche a riservare una quota degli appalti pubblici agli imprenditori che hanno scelto di denunciare. Così come per i titolari di attività commerciali che denunciano si può pensare di creare dei bollini di riconoscimento. Bisogna, cioè, invogliare la popolazione, e i circuiti in cui l’impresa viene esercitata, a sostenere chi denuncia". "Sono stato e continuo a restare molto vicino - ha detto ancora il procuratore di Reggio Calabria - agli imprenditori che si ribellano al racket. Ho dato loro il mio numero di telefono, per qualunque cosa. Ognuno di loro ha delle problematiche specifiche. Sono sempre disponibile ed essere, come parte dello Stato, coerente con determinati principi. Certo, mi rendo conto che spesso chi denuncia viene isolato. Ma via via che aumenta il fronte della denuncia quella che si viene a creare è un’oasi di legalità". Agrigento: "Sapori di vita", le ricette dei detenuti raccolte in un libro agrigentotv.it, 7 luglio 2017 È stato presentato ieri alla casa circondariale Petrusa di Agrigento, il libro "Sapori di vita, pensieri e ricette dietro le sbarre". Il testo, scritto dai detenuti di tre istituti di pena rispettivamente di Sciacca, Agrigento e Bollate, nasce grazie ad un progetto che ha visto impegnati gli allievi, delle sezioni, distaccate nei penitenziari, degli istituti "Ambrosini" di Favara, "Don Arena" di Sciacca e "Primo Levi" di Bollate. Il libro rappresenta una raccolta originale di ricette, lettere e poesie, come detto redatte dagli stessi detenuti che nelle pagine raccontano le proprie esperienze in cella. Singolare ad esempio come lo spirito di adattamento in carcere è certamente maggiore rispetto alle comodità che invece si possono trovare nella cucina di casa ed ecco quindi un riadattamento delle classiche lasagne alla bolognese che diventano "Lasagna alla Petrusa" che l’autore del piatto descrive ai lettori con una scheda di preparazione nelle difficoltà di esecuzione il detenuto allievo dell’Istituto Alberghiero di Favara scrive: ovunque, media a Petrusa, elevatissima. Proprio per evidenziare lo spirito di adattamento, tra gli utensili necessari alla preparazione del piatto, il provetto cuoco, scrive che necessitano tra le altre cose anche 3 fornellini da campeggio e una rete da letto per stendere la pasta fresca. Per rassicurare i lettori comunque, l’allievo chef chiude la descrizione del piatto con queste parole: "Non per presunzione, ma le lasagne alla Petrusa sono veramente buone. Aversa (Ce): concerto per i detenuti promosso dalla comunità di Sant’Egidio di Raffaele Sardo La Repubblica, 7 luglio 2017 Concerto per i detenuti nel carcere di Aversa promosso dalla comunità di Sant’Egidio. "Vogliamo rendere la detenzione più umana e per raggiungere questo scopo, anche la musica va bene". Elisabetta Palmieri, direttrice del carcere di Aversa che da poco più di un anno è stato istituito nell’ex struttura dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, presenta così il concerto della cantante Francesca Marini, all’interno della struttura penitenziaria. Un’iniziativa promossa dalla Comunità di Sant’Egidio di Napoli ed in particolare da Antonio Mattone, che è il responsabile del settore carceri. La struttura attualmente ospita poco più di 160 detenuti che scontano pene per reati comuni. Ad Aversa arrivano quelli che sono a fine pena. Per l’occasione sono usciti tutti dalle loro celle per assistere al concerto. Lo spettacolo si svolge all’aperto, in uno spazio verde della grande struttura penitenziaria che per più di un secolo ha ospitato "i matti". Le guardie carcerarie osservano tutto con discrezione. "Oggi ci sono anche le famiglie dei detenuti - spiega la direttrice - è una scelta precisa, perché qui sta nascendo una casa di reclusione a custodia aperta. Da quando sono andati via gli ultimi internati dell’Opg, stiamo ristrutturando i vari padiglioni per farne un carcere modello. Prevediamo che da noi detenuti siano più ore fuori dalla cella per partecipare ad attività trattamentali e ad iniziative come questa che ci è stata offerta dalla comunità di Sant’Egidio. Oggi c’è un clima sereno - aggiunge la direttrice - è un buon segno. Significa che i nostri sforzi sono premiati". Non è la prima volta che i familiari partecipano ad attività all’interno della struttura carceraria. "Abbiamo ideato un progetto sulla genitorialità - dice ancora la direttrice del carcere - che prevede colloqui straordinari la mattina di ogni ultima domenica del mese, per agevolare i bambini che nei giorni feriali vanno a scuola e non possono incontrare i genitori. In quell’occasione ci sono anche degli animatori insieme a psicologi e sociologi". "Anche per noi è un giorno importante - spiega Antonio Mattone della Comunità di Sant’Egidio - in questa struttura siamo di casa. Per il passato abbiamo fatto numerose iniziative per gli internati dell’Opg. Ora siamo qui per i detenuti. Ed è significativo che l’evento si svolga all’aperto". I detenuti e i loro familiari, intanto, si sono sistemati sulle sedie. Tutto è pronto per ascoltare le canzoni di Francesca Marini che ha girato quasi tutte le carceri della Campania, sempre con la Comunità di Sant’Egidio. La cantante ha un repertorio molto vasto di canzoni napoletane, classiche italiane. Per la prima volta si esibisce nel carcere di Aversa. È anche lei visibilmente emozionata: "Faccio questo per passione - ha il tempo di dire la cantante prima di cominciare il concerto - cerco di portare un po’ di spensieratezza tra i detenuti e forse attimi di gioia, attraverso la musica. Non so se ci riesco, ma ci provo." Partono gli applausi sulle prime note di una canzone del musical scugnizzi. I detenuti apprezzano. Napoli: l’attore Pirozzi ai detenuti di Poggioreale "sono il riscatto di mio padre" di Antonella Ambrosio Il Mattino, 7 luglio 2017 Ci sono testimonianze che oltre a fare da monito, il più delle volte riescono ad essere una vera iniezione di fiducia, speranza. Sentimenti che facilmente si affievoliscono quando la vita scorre lenta nei pochi metri quadri di una cella. E allora ogni occasione è buona per lenire la consapevolezza di una colpa. "Sono il figlio di Giulio recluso nel carcere di Terni con regime 41 bis fine pena mai, ma lui non ha mai voluto che io seguissi la sua strada. Io sono il suo riscatto". Le parole di Vincenzo Pirozzi, attore e regista, hanno concluso il primo ciclo del progetto "Un film per evadere", nato dalla collaborazione tra l’Istituto per gli studi giuridici M&C Militerni e il Comune di Napoli, avviato lo scorso maggio nella casa circondariale di Poggioreale. Ieri è stata una giornata di emozioni forti poiché nell’aula, dopo la proiezione, ad alimentare il dibattito c’era Pirozzi che grazie alla sua testimonianza ha dato linfa alle riflessioni dei circa quaranta detenuti presenti e ha sfamato la loro curiosità. Domande forti, per certi aspetti intime quasi tutte legate da un unico fil rouge : il rapporto di Vincenzo figlio con suo padre. "Ascoltare le loro domande soprattutto incentrate sulla sfera intima è stato un momento davvero toccante e soprattutto ci rende orgogliosi poiché abbiamo raggiunto la finalità del progetto - ha detto Caniglia. Il forte potere evocativo del cinema è riuscito a tirar fuori riflessioni e sentimenti compressi in una cella. In tanti hanno detto che questa esperienza potrà servire anche a chiedere scusa alle loro famiglie". La discussione sulle emozioni e sulle riflessioni suscitate dal film, parte fondamentale del progetto, ha consentito anche ieri di elaborare i vissuti dei detenuti, di connettere la trama del film ad una parte della trama della propria vita. Con l’attore e regista hanno partecipato al dibattito le psicologhe Ilaria Ricupero e Francesca Scannapieco che in queste quattro settimane hanno raccolto gli elaborati dei partecipanti che saranno i protagonisti del libro che ne deriverà. Non è mancato un momento più leggero: strette di mano e fotografie con la celebrità del rione Sanità. Volterra (Pi): Punzo "detenuti che fanno gli attori? non è utopia, né terapia…. è teatro" di Anna Bandettini La Repubblica, 7 luglio 2017 La Compagnia della Fortezza, dal progetto in carcere al trentesimo anniversario. Il regista Punzo ricorda le molte difficoltà e spiega perché lascia la direzione del festival di Volterra. Sono sempre piaciuti a pubblico e critica, fin dagli inizi. Presi da una specie di incantamento per quegli attori- non attori così bravi, per l’emozione dei loro spettacoli e per il clima civile, di tolleranza, che comunica la loro esperienza. La storia della Compagnia della Fortezza è tutt’una col valore politico oltre che culturale di una avventura unica, e non solo per l’Italia: attori che sono detenuti e possono andare in tournée, in un carcere, quello di Volterra, che accoglie regolarmente al suo interno spettacoli e incontri e un teatro che non è rieducazione, terapia, aiuto psicologico, ma è proprio teatro. "Ci dicevano che eravamo un’utopia, e invece siamo qui e non siamo un sogno", dice Armando Punzo, il regista, capelli legati in un lungo codino, una lunga esperienza con Jerzy Grotowski e artefice con il gruppo Carte Banche, Cinzia De Felice e tanti altri, della più famosa compagnia di attori nata in un carcere. Nessuno avrebbe scommesso sulla sua durata nell’88 quando nacque e invece l’anno prossimo saranno 30 anni e per celebrare Punzo e compagni hanno ideato un progetto biennale, Le parole lievi, sul tema della Hybris, la tracotanza, l’arroganza che si svilupperà su due binari: da un lato Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato, preludio del nuovo spettacolo della Compagnia ispirato all’opera di Jorge Luis Borges, in scena dal 25 al 29 luglio in carcere (ci si prenota sul sito di Carte Blanche), e dall’altro una sostanziosa parte "riflessiva" che trasformerà l’istituto di pena per due anni in un istituto di cultura, con spazi ricreativi e di incontro per filosofi, psicologici, letterati, scienziati. Perché un tema così ostico come la hybris? "È emerso alla fine del nostro spettacolo precedente che terminava con un uomo e un bambino che abbandonavano l’isola desolata del mondo per abitarne un altro. Ci siamo chiesti se quello non fosse un gesto di arroganza: azzerare ogni cosa, con la presunzione di ripartire. Ma poi abbiamo riflettuto: per i greci la hybris è sempre una colpa, qualcosa che viola leggi divine immutabili, ma è possibile rovesciare quella prospettiva. Icaro che vuole volare non è solo superbia, arroganza, è sfida, coraggio, sogno, spregiudicata ricerca della felicità. È andare controcorrente. E noi della Fortezza ne sappiamo qualcosa". In che senso? "Da 30 anni ribaltiamo il principio di realtà, delle regole convenzionali. Se non avessimo provato a volare come Icaro, non saremmo qui. Saremmo forse una delle tante esperienze di teatro in carcere come educazione o animazione per povere persone rinchiuse.... Per carità non ho niente contro questi sperimenti ma fare teatro è altro. Vuol dire, per esempio, assegnare ai detenuti un ruolo non di reietti da riabilitare ma di persone che vogliono dire la loro. Per il teatro la loro biografia non è un handicap, anzi è un potenziamento". Vuol dire che nella Fortezza ci sono attori non detenuti prestati al teatro? "Sì, il nostro è un lavoro continuo e totalizzante che coinvolge un centinaio di detenuti, ognuno con la mansione che decide, tecnico, falegname, costumista, attore... Facciamo anche regolarmente delle aperture del nostro lavoro per gli agenti perché è importante far capire ciò che facciamo". State preparando il nuovo spettacolo? "Siamo agli inizi. Il nostro compagno di strada è Borges, uno degli autori che più ha rovesciato la realtà, l’ha messa in crisi da dentro. I suoi testi ci accompagneranno nella ricerca della felicità". Quest’anno lo spettacolo non sarà al Volterra Teatro. Lei ha lasciato polemicamente la direzione del festival. Perché? "Non c’erano più le condizioni: ogni anno era una chiamata pubblica al ribasso e a un mese dal festival non c’era nessuna certezza. Non ci sembrava serio". Che ne è del progetto di aprire un vero teatro in carcere? "È un sogno da venti anni e ora finalmente vediamo attenzioni concrete dal direttore Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. Siamo fiduciosi. Uno spazio aperto al pubblico in un carcere, con una regolare stagione, sarebbe un’altra utopia realizzata. Perché non è detto che Icaro debba essere sempre punito. Se lanci la sfida puoi davvero volare". L’Europa dice no all’Italia: niente porti per i migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 7 luglio 2017 Vertice di Tallinn. Dopo Francia e Spagna ieri anche Belgio, Olanda e Germania respingono la richiesta italiana. "Sarebbe un fattore di attrazione". Che dal vertice di Tallinn potessero arrivare buone notizie per il governo Gentiloni, ormai non ci credeva più nessuno. Ma che i ministri degli Interni dell’Unione europea alzassero nei confronti dell’Italia un muro così alto e ostile come quello che si è visto ieri in Estonia deve aver sorpreso anche il ministro Minniti. Senza neanche perdersi in giri di parole diplomatici, l’Europa ci ha detto chiaro e tondo che di condividere i migranti che sbarcano nel nostro paese non ci pensa neppure, quindi se il governo italiano vuole chiudere i suoi porti alle navi delle Ong straniere, come ha minacciato solo una settimana fa, facesse pure. Un altolà reso ancora più duro dalla presa di posizione del commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos che ha escluso, come aveva chiesto sempre Roma, di poter cambiare il mandato della missione europea Triton, anche se poi ha fatto una piccola marcia indietro. Di "regionalizzazione" dei migranti, ovvero della possibilità di farli sbarcare in altri porti europei e non solo in quelli italiani, alla fine se ne parlerà martedì prossimo a Varsavia in sede di Consiglio di gestione di Frontex, l’agenzia europea per le frontiere. Ma sarà meglio non farsi troppe illusioni. Per Minniti quello di ieri non deve essere stato un buongiorno piacevole. Appena il tempo di arrivare nel paese baltico e, in sequenza, prima il Belgio, poi Olanda e Spagna e infine anche la solitamente "solidale" Germania hanno dichiarato la propria indisponibilità ad aprire i rispettivi porti. "Rischierebbe di tradursi in un fattore di richiamo che vorremmo evitare", hanno spiegato fonti diplomatiche tedesche rispolverando un vecchio luogo comune sui salvataggi nel Mediterraneo che va avanti dai tempi della missione Mare nostrum. In realtà con le elezioni alla porte, dopo aver fatto slittare la riforma di Dublino la cancelliera Merkel punta ora a mettersi al riparo dalle bordate che di sicuro le arriverebbero da destra se aprisse di nuovo le porte del paese ai migranti. L’alzata di scudi di ieri - forte anche del sostegno dei Paesi del gruppo Visegrad - rende adesso ancora più difficile la situazione dell’Italia che ha di fronte a sé un’estate in cui gli sbarchi rischiano di aumentare di giorno in giorno. Ma che dopo le dichiarazioni dei giorni scorsi, si trova ora messa all’angolo e deve decidere se dare seguito oppure no alla minaccia di chiudere i porti limitando così gli sbarchi. Decisione che, se attuata, trasformerebbe una situazione già pesante in un disastro sia umanitario che politico. Per questo ieri a Minniti è convenuto puntare sui risultati ottenuti, che ricalcano i punti del Piano d’azione varato dalla Commissione europea e tutti comunque destinati a rendere ancora più difficile la vita dei migranti. Si va dal rifinanziamento del Fondo per l’Africa da utilizzare per sostenere i Paesi di origine e di transito dei migranti e in particolare la Libia, dove è previsto che a Tripoli venga costituito un centro di coordinamento dei salvataggi in mare. Sempre la Libia, insieme a Egitto e Tunisia, dovrebbero inoltre costituire proprie aree di ricerca e salvataggio (Sar) mentre contemporaneamente si intensificheranno i rimpatri. "Per l’Italia è la parte più importante delle misure avallate oggi", ha spiegato Avramopoulos. Abbiamo constato che la maggior parte dei migranti che arrivano in Italia sono economici: devono essere rimpatriati, è la sola opzione". Minniti ha spiegato infine che i Paesi di origine che non agevoleranno i rientri "avranno restrizioni sui visti da parte dei singoli Paesi europei. Anche questa è un’iniziativa senza precedenti". Infine il nuovo codice di condotta per le Ong, il punto sul quale l’Italia ha maggiormente insistito e che ieri l’Ue ha fatto proprio. Si tratta di undici divieti che le navi delle organizzazioni umanitarie impegnate nel Mediterraneo dovranno rispettare, dal divieto di ingresso nelle acque libiche a quello di spegnere i trasponder di bordo, dal non poter effettuare trasbordi di migranti su altre navi italiane o che partecipano alle missioni europee all’obbligo di avere a bordo un agente di polizia giudiziaria. Di Africa si è parlato infine anche alla Farnesina, dove ieri si è svolto il vertice con i paesi di transito dei migranti. Presenti, oltre al ministro Angelino Alfano, i ministri degli Esteri di alcuni Paesi europei e rappresentanti dei governi di Libia, Niger, Tunisia, Egitto, Ciad, Etiopia e Sudan. "Dobbiamo spostare la nostra azione a sud della Libia, per fare in modo che diminuisca il numero dei migranti che vi fanno accesso", ha spiegato Alfano al termine dell’incontro, durante il quale l’Italia si è impegnata a investire 31 milioni di euro: 10 per il rafforzamento delle frontiere meridionali della Libia, 18 da destinare all’Oim per i rimpatri volontari sempre dal Paese nordafricano e, infine, 3 milioni all’Unodc, l’agenzia Onu che si occupa di combattere il traffico di esseri umani. Migranti. Il dovere di batterci (perché abbiamo ragione) di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 7 luglio 2017 Se Merkel e Macron, incapaci di gestire una vicenda epocale, ci lasceranno soli a fare da trincea e salvagente, la casa comune europea finirà per crollare. Nonostante qualche mezza promessa e qualche pia illusione, era difficile credere che trovassimo a Tallinn una via d’uscita all’emergenza migranti da cui ormai siamo intrappolati. E infatti non l’abbiamo trovata. Troppo netta l’avversione dei nostri partner mediterranei - Francia e Spagna in testa - a condividere la pressione sui porti. Flebile fino all’irrilevanza il peso dell’Unione sulle decisioni fondamentali degli Stati membri e, dunque, teneramente inutile e sopra le righe l’intemerata di Jean-Claude Juncker contro il Parlamento di Strasburgo semivuoto al momento di discutere di profughi e accoglienza. Ci troviamo in mezzo alla tempesta perfetta e la riunione di ieri dei ministri degli Interni della Ue non ci ha cavato d’impaccio: chiuse le frontiere attorno a noi e le rotte alternative dei Balcani e del Marocco, vigente il micidiale regolamento di Dublino che impone ai migranti di restare sul territorio di prima identificazione (in pratica solo l’Italia), vanificate nel ridicolo le quote di "relocation" (soprattutto per il "niet" degli Stati ex comunisti), stretti tra doveri umanitari (ogni 100 profughi, ne muoiono tre attraversando il Mediterraneo) e interventi talvolta fuori controllo delle Ong, siamo un imbuto tappato con migliaia di chilometri di coste dove entro fine anno si riverseranno forse 250 mila disperati senza poter fluire verso altri Paesi. Hanno contribuito a questo ingorgo varie miopie politiche. Il gioco del cerino, tuttavia, andrebbe evitato: Dublino II fu varato col centrodestra al governo, la Bossi-Fini s’è rivelata una disastrosa legge-slogan che ha intasato i tribunali e reso stanziali i clandestini fino al terzo grado di giudizio... Insomma, se la sinistra ha colpevolmente coltivato troppo a lungo una visione irenica del problema, nessuno è esente da errori; e gli alti lai di queste ore contro il governo servono solo a dare l’immagine di un Paese isterico e spaccato. Marco Minniti, fin qui assai attivo, ha ottenuto, se non altro, il rovesciamento dell’agenda di Tallinn: il caso Italia ha tenuto banco, nuovi fondi sulla Libia e il placet a un regolamento sulle Ong d’impronta tutta italiana non sono vittorie ma nemmeno risultati da sottovalutare. La prossima settimana il nostro ministro giocherà in sede Frontex la partita sui porti, certo sapendo di perderla. Dunque? Possiamo a nostra volta chiudere i porti italiani (come abbiamo minacciato) alle navi Ong che non rispettino le nostre regole: ma è una scelta che salterebbe (giustamente) alla prima tragedia umanitaria che dovesse derivarne. Potremmo (lo minacciò l’allora premier Renzi) tagliare i nostri contributi al bilancio Ue: ma la nostra condizione di grandi debitori assetati di flessibilità ci rende poco credibili. La verità è che in questo frangente noi siamo la cartina di tornasole d’Europa e, finora, ci siamo coperti d’onore nei salvataggi in mare. Se Angela Merkel e Emmanuel Macron, incapaci di gestire una vicenda epocale, ci lasceranno soli a fare da trincea e salvagente, la casa comune europea finirà per crollare e le macerie ricadranno anche su di loro. Per questo dobbiamo stare uniti, abbracciati alla nostra democrazia. Continuando a battere su tutti i tavoli, con la forza tranquilla di chi sa d’aver ragione. Amnesty: politiche ciniche dell’Europa responsabili di aumento morti nel Mediterraneo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 luglio 2017 "Eravamo in 170 su un gommone. Ci hanno portato indietro in prigione e chiesto altri soldi. "Se pagate ancora, stavolta non vi fermeremo… noi siamo la guardia costiera". Questo è il modus operanti della Guardia costiera della Libia, secondo una delle tante testimonianze sulla collusione, su cui pure indaga la Corte penale internazionale, con le bande criminali e di trafficanti che gestiscono l’immigrazione, in terraferma e in mare. Che tra quanto accade in mare e ciò che succede prima e dopo a terra vi sia un’evidente connessione, le organizzazioni per i diritti umani lo denunciano da tempo. Oggi Amnesty International ha pubblicato un nuovo rapporto che collega le fallimentari e ciniche politiche dell’Unione europea tanto all’aumento del numero dei morti nel Mediterraneo centrale quanto alle terribili violenze inflitte a migliaia di migranti e rifugiati nei centri di detenzione della Libia. Avendo ceduto buona parte delle responsabilità della ricerca e del soccorso in mare alle Ong e avendo incrementato la cooperazione con la Guardia costiera libica, come confermato nei giorni scorsi dal Piano d’azione della Commissione, i leader europei non stanno prevenendo le morti in mare e chiudono gli occhi di fronte a stupri e torture. Le misure adottate nell’aprile 2015 per rafforzare le operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale avevano fortemente ridotto il numero delle morti in mare, grazie al maggior numero di imbarcazioni messo a disposizione da diversi paesi europei e collocato in prossimità delle acque territoriali libiche. Ma è durata poco. Presto, i governi europei hanno dato priorità al contrasto al traffico di esseri umani - che, di per sé, sarebbe doveroso - e contemporaneamente all’impedimento delle partenze dalla Libia: una strategia fallimentare che ha dato luogo a viaggi in mare ancora più pericolosi e all’aumento dei tassi di mortalità in mare dallo 0,89 per cento della seconda metà del 2015 al 2,7 per cento del 2017. I cambi di tattica dei trafficanti e l’aumentato ricorso a imbarcazioni inadatte alla navigazione e prive di qualsiasi dotazione di salvataggio, hanno reso le traversate del Mediterraneo centrale ancora più pericolose. Nonostante l’aumento del numero delle morti in mare - oltre 2000 nei primi sei mesi del 2017 - l’Unione europea continua a non promuovere un’operazione umanitaria dotata di risorse adeguate nei pressi delle acque territoriali libiche, preferendo rafforzare la capacità operativa della Guardia costiera libica nell’impedire le partenze ed intercettare i migranti e i rifugiati in mare. Gli intercettamenti della Guardia costiera mettono spesso a rischio le vite dei migranti e dei rifugiati. Le procedure impiegate non corrispondono agli standard minimi e possono causare panico e capovolgimenti delle imbarcazioni con conseguenze catastrofiche. Inoltre, le motovedette libiche aprono il fuoco contro altre imbarcazioni e, secondo le Nazioni Unite, sono state "direttamente coinvolte, usando armi da fuoco, nell’affondamento di imbarcazioni con migranti a bordo". Le persone intercettate in mare vengono regolarmente riportate nei centri di detenzione e torturate. In Libia non esiste alcuna legge o procedura d’asilo. Di conseguenza, coloro che restano intrappolati nel paese possono andare incontro a uccisioni, torture, stupri, rapimenti, lavoro forzato e detenzione a tempo indeterminato e in condizioni inumane e degradanti. Accordi di cooperazione per migliorare la capacità di ricerca e soccorso in mare della Guardia costiera libica senza pretendere il rapido miglioramento della qualità degli interventi in mare e senza prevedere un meccanismo d’individuazione delle responsabilità per i comportamenti illegali, rischiano di peggiorare le cose. L’Unione europea dovrebbe insistere affinché la Guardia costiera libica trasferisca le persone soccorse su navi dirette verso paesi dove la sicurezza e la protezione siano garantite. L’Unione europea dovrebbe inviare un maggior numero di imbarcazioni dove ce n’è disperato bisogno e, nel lungo periodo, convincersi che l’unica maniera sostenibile e umana per ridurre il numero di morti coloro che rischiano la vita in traversate terribili è di aprire maggiori percorsi legali e sicuri per i migranti e i rifugiati diretti in Europa. In assenza di tali cambiamenti, la seconda metà dell’anno andrà avanti come la prima e il 2017 potrà essere ricordato come l’anno più mortale lungo la rotta migratoria più mortale al mondo. Libia. Abusi, torture e detenzioni illegali nell’inferno "al di là del mare" La Repubblica, 7 luglio 2017 Il report di Oxfam. Una nuova denuncia sulle brutalità all’ordine giorno contro i migranti in Libia da parte di milizie locali, trafficanti e bande criminali. Appello urgente per la revoca dell’accordo tra Italia e Libia e per un cambio di rotta della politica Ue per il controllo dei flussi migratori. Violenze di ogni genere, detenzioni illegali, stupri e torture. È quanto denunciano di subire in Libia migranti e rifugiati secondo il nuovo rapporto "L’inferno al di là del mare", diffuso oggi da Oxfam, Borderline Sicilia, Medu (Medici per i Diritti Umani) in occasione del vertice dei Ministri degli Interni europei di Tallinn e della conferenza "Solidarietà e Sicurezza" convocata per oggi a Roma dal Ministero degli Esteri, assieme all’Alto Commissario per la Politica estera Ue Federica Mogherini e ai Ministri degli Esteri dei Paesi africani di transito dei flussi migratori. Due appuntamenti che avranno, entrambi tra gli obiettivi principali la "chiusura" della frontiera sud della Libia e il rafforzamento della cooperazione europea con il paese nord- africano. Testimonianze: "Non ti senti più un essere umano". Con questa frase si potrebbe riassumere gran parte delle testimonianze raccolte. Una fotografia in cui l’84% delle persone intervistate ha dichiarato di avere subito trattamenti inumani tra cui violenze brutali e tortura, il 74% ha dichiarato di aver e assistito all’omicidio o alla tortura di un compagno di viaggio, l’80% di aver subito la privazione di acqua e cibo e il 70% di essere stato imprigionato in luoghi di detenzione ufficiali o non ufficiali. Sullo "sfondo" però centinaia di persone - arrivate in Sicilia negli ultimi 12 mesi - che raccontano di essere state picchiate, abusate, vendute e arrestate illegalmente dalle milizie locali, dai trafficanti di esseri umani e dalle bande armate che "controllano" gran parte del territorio libico. Uomini, donne e bambini fuggiti da guerra, persecuzioni e povertà nei paesi di origine, arrivate con attese e speranze di una vita migliore in quella Libia divenuta la porta d’Europa, per poi scoprire di essere finite in un vero e proprio inferno. Altri racconti. "Sono stato arrestato da una banda armata mentre stavo camminando per la strada a Tripoli- racconta H.R, 30 anni dal Marocco - mi hanno portato in una prigione sotterranea e mi hanno detto di chiedere il riscatto alla mia famiglia (...) Mi hanno picchiato e ferito diverse volte con un coltello. (…) Un muscolo nel mio braccio sinistro è stato completamente lacerato (…) Stavo per morire a causa delle botte (…) Violentavano regolarmente gli uomini. Per spaventarci, in varie stanze amplificavano le urla per le violenze a cui gli altri detenuti erano sottoposti". E ancora..."(…) C’erano circa 300 persone nella prigione (…). Mi hanno fatto fare qualsiasi tipo di lavoro (…). Ci davano da mangiare raramente. Mi picchiavano, a volte mi hanno torturato (…)" - aggiunge C.B., 28 anni, arrivato in Libia dal Gambia. "(…) Ho lasciato il mio paese e ho raggiunto mio fratello in Libia - ricorda K.M., 27 anni, originaria della Costa d’Avorio, intervistata al Cara di Mineo - Un giorno un gruppo di soldati è entrato nella nostra casa. (…) Mi hanno picchiata e sono stata violentata davanti a mio fratello e mia figlia. Mio fratello ha cercato di difendermi ed è stato picchiato selvaggiamente (…)." "Dov’è il senso d’umanità dell’Europa?" "Si tratta di testimonianze talmente atroci da essere al limite della nostra comprensione - afferma la direttrice delle campagne di Oxfam Italia, Elisa Bacciotti - Racconti di migranti che stiamo aiutando da un anno con il progetto Open Europe in gran parte della Sicilia, che ci restituiscono uno spaccato inaccettabile di ciò che accade dall’altra parte del Mediterraneo. Di fronte a questa situazione c’è da chiedersi - conclude Bacciotti - dove stia finendo il senso di umanità dell’Europa e di molti Stati Membri, che nella migliore delle ipotesi, sembrano disposti ad offrire nel vertice di Tallinn all’Italia e ai paesi africani un aiuto rivolto esclusivamente al controllo delle frontiere, e non alla protezione dei diritti umani. Gli effetti della chiusura della rotta centrale nel Mediterraneo. Di fronte alla palese violazione dei diritti umani dei migranti in Libia, desta particolare preoccupazione quindi l’obiettivo di Italia e UE di rafforzare il controllo dei flussi migratori non solo da Italia a Libia ma anche con finanziamenti a paesi di transito come Niger, Mali, Etiopia, Sudan e Ciad, dietro una loro maggiore collaborazione nel controllo delle frontiere e nelle procedure di rimpatrio e espulsione, ma senza chiedere loro di rispettare standard nella tutela dei diritti umani dei migranti. Queste misure sembrano tracciare un disegno volto alla chiusura della rotta centrale del Mediterraneo, senza però che vengano predisposti meccanismi di ingresso regolari e sicuri verso l’Italia e l’Europa. Il rischio è quindi quello di creare così "nuovi inferni" per le persone in fuga da conflitti, abusi, violenze, fame e povertà. Quell’accordo con Al Sarraj. "Uno scenario in cui la vita di centinaia di migliaia di migranti sarebbe ancor più alla mercé delle reti di trafficanti di esseri umani che non operano solo attraverso il Mediterraneo, ma direttamente in Libia e nel continente africano. Facendo aumentare il numero dei morti in mare, che nel 2016 sono stati quasi 6000 e sono 1985 dall’inizio dell’anno" - aggiunge Bacciotti. Uno scenario inaccettabile a cui va ad aggiungersi l’effetto dei primi rimpatri in Libia. "L’accordo stipulato dall’Italia con il cosiddetto Governo di Unità Nazionale libico di Al Sarraj qualora riuscisse a diventare pienamente operativo, manterrebbe o riporterebbe le persone indietro, in un paese dove regna il caos, con abusi sistematici dei diritti di chi scappa da guerra e povertà e dove i centri per i migranti sono dei veri e propri lager", continua Bacciotti. Intanto gli sbarchi dalla Libia aumentano del 13%. "Già nel 2012 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condannava l’Italia per avere effettuato respingimenti collettivi in mare verso la Libia, in forza dell’accordo bilaterale stipulato nel 2008 sotto il regime del colonnello Gheddafi, per violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti previsto dall’art. 3 della Cedu - dichiara Germana Graceffo di Borderline Sicilia - Oggi la Corte Penale Internazionale dell’Aja indaga la Libia per crimini contro l’umanità. È inaccettabile che il governo italiano con questo tipo di accordi si renda complice in questi crimini, di cui prima o poi sarà tenuta a rispondere". Peraltro, tali accordi oltre a essere preoccupanti sul piano dei diritti umani sono lungi dall’essere efficaci: nonostante l’addestramento della guardia costiera libica da parte della missione Eunavformed e la consegna di motovedette da parte dell’Italia, ad oggi, gli arrivi via mare dalla Libia sono aumentati del 13% rispetto all’anno scorso. Un milione e 300 mila persone assistite. L’appella all’Italia e all’Europa. Di fronte al contesto di un Paese estremamente fragile in cui - secondo le stime delle Nazioni Unite - 1,3 milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria, Oxfam, Borderline Sicilia e Medu lanciano perciò un appello urgente per un radicale cambio di rotta nella politica europea e italiana nella gestione dei flussi migratori diretto prioritariamente: - a una immediata revoca dell’accordo tra Italia e Libia; - a una revisione degli accordi con i paesi di transito (cosiddetti compacts) finalizzata solo a favorire lo sviluppo sostenibile dei paesi poveri e il rispetto dei diritti umani dei migranti, senza mirare al controllo delle frontiere; - a impedire agli Stati membri di stipulare accordi con i paesi di emigrazione o transito il cui governo e le forze di sicurezza non garantiscano il pieno rispetto dei diritti umani; - all’attivazione dell’Italia per un intervento di identificazione precoce, assistenza e riabilitazione dei richiedenti asilo vittime di torture, come previsto dalla normativa europea; - al potenziamento di canali di immigrazione, sicuri e regolari verso l’Europa, facilitando i processi di ricongiungimento familiare e garantendo la possibilità di richiedere asilo nei paesi europei di arrivo; - a consentire rimpatri dei migranti dagli Stati Ue nei paesi di origine, solo attraverso procedure fondate sul rispetto dei diritti umani, e mai a condizioni che li possano mettere in pericolo. Turchia. Alla sbarra gli avvocati dei curdi di Roberto Giovene* Il Dubbio, 7 luglio 2017 Il processo contro i 46 difensori del leader Pkk Ocalan. La difesa sostiene da sempre l’inconsistenza delle accuse. inoltre molte prove raccolte dai pm sono false oppure assunte illecitamente. Arrivo ad Istanbul in un clima generale reso pesante dalle quotidiane azioni repressive ed i continui arresti di intellettuali, accademici, magistrati, pubblici funzionari, politici dell’opposizione, giornalisti, avvocati e perfino del Presidente della sezione turca di Amnesy International per partecipare, quale osservatore internazionale con delega Cnf ed "Osservatorio internazionale avvocati in pericolo", insieme al collega Sergio Palombarini del Foro di Bologna, all’ottava udienza del processo contro i 46 avvocati difensori del leader curdo Ocalan, che si trova in isolamento totale nella prigione dell’isola di Ismarili. Secondo l’accusa gli avvocati, accusati di essere collegati con la Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK), che è considerata dal governo turco come organizzazione terroristica legata al PKK (hanno subito oltre due anni di carcerazione preventiva) trasferivano istruzioni da parte di Ocalan ai suoi sostenitori. La difesa sostiene da sempre l’inconsistenza delle accuse perché i colloqui tra Ocalan ed i suoi difensori venivano video registrati ed avvenivano in presenza delle guardie carcerarie. Molte prove poste a fondamento dell’accusa so- no false oppure assunte illecitamente (ad esempio intercettazioni telefoniche disposte senza l’autorizzazione dell’A.G.) come dimostrano le indagini e i processi a carico degli inquirenti e perfino di un giudice, poi arrestato. Questi atti non sono stati ancora trasmessi nella loro interezza e questo ha provocato un nuovo slittamento del processo al 5 dicembre prossimo. L’udienza si è tenuta nonostante l’ennesimo cambio di collegio, circostanza che nel sistema processuale penale turco non determina la necessità di dover riaprire il dibattimento, tranne il caso di accordo tra le parti, come invece avviene da noi. Prima dell’inizio dell’udienza il Tribunale si è rivolto agli osservatori internazionali presenti, dando loro il benvenuto, rimarcando però che la Costituzione turca non prevede la presenza di avvocati stranieri, ammessi solo perché l’udienza è pubblica. La sensazione, condivisa, è che la presenza alle udienze di alcuni processi in Turchia di avvocati dei maggiori Paesi europei passi tutt’altro che inosservata. L’esito dell’udienza era tutt’altro che scontato, nello scorso mese di aprile il processo a carico degli imputati non avvocati, accusati di far parte del KCK, si era concluso a Dyarbakir con pesanti condanne, fino a 25 anni di reclusione. Nel tragitto verso il tribunale l’interprete mi fa notare la vecchie case abbattute per far posto a decine di grattacieli in costruzione. È il settore edilizio che traina l’economia turca, passata dai 3 mila dollari annui di reddito medio pro capite che si registravano 13 anni fa, prima dell’avvento di Erdogan, a 13 mila euro, adesso attestati sui 10 mila, con oltre 10 milioni di appartamenti venduti. Si tratta di un’economia che tira, anche se meno degli scorsi anni, ma vede la maggioranza dei cittadini indebitata con le banche, mi confida sottovoce l’interprete. Intanto Beyoglu, l’antica Galata, il quartiere fino a qualche anno fa cuore pulsante della Istanbul multietnica ed internazionale, dove nei secoli hanno convissuto ebrei, armeni, greci e musulmani, antico possedimento della Repubblica di Genova, appare irriconoscibile, tra palazzi in pessimo stato di manutenzione e la grande Istiklal Caddesi sventrata da lavori di ripavimentazione e svuotata dopo le dieci di sera. La maggior parte di Bar e ristoranti chiude infatti presto, forse anche per l’assenza di turisti occidentali. *Commissione Rapporti internazionali e Paesi del Mediterraneo del Cnf Turchia. Amnesty ancora nel mirino: 12 arresti, anche il direttore della sede di Istanbul di Marco Ansaldo La Repubblica, 7 luglio 2017 Fermati durante un meeting sulla sicurezza informatica alle porte della città. Tra loro anche due formatori stranieri, un tedesco e uno svedese. "È un grottesco abuso di potere, che sottolinea le condizioni dei diritti civili nel paese" commenta il segretario generale dell’ong che chiede il rilascio immediato. Il fermo a meno di un mese da quello del presidente della ong Taner Kiliç. Fra meno di dieci giorni sarà il primo anniversario del golpe fallito in Turchia. E grandi preparativi fervono in tutto il Paese per ricordare quelle tragiche quattro ore in cui morirono quasi trecento persone, per una giornata che verrà proclamata come "Festa della Repubblica". Ma da quel momento la repressione non si è mai fermata, nemmeno per 24 ore. Così, neppure, la scorsa notte: quando l’intero vertice locale di Amnesty International è stato messo agli arresti. Già lo scorso mese era stato spiccato un mandato di cattura contro il presidente dell’organizzazione, Taner Kilic, avvocato, l’uomo che aveva difeso il blogger italiano Gabriele Del Grande dopo il suo fermo per due settimane avvenuto ad aprile. Del Grande era stato poi rilasciato, ma da allora il suo nome figura nella lista nera e non può più rientrare nel Paese della Mezzaluna. Questa notte la polizia è entrata in un hotel nell’isola di Buyukada, un’ora di viaggio da Istanbul, sul Mare di Marmara, dove il direttorio di Amnesty si era stabilito per un incontro, e li ha arrestati tutti e 12: la direttrice dell’organizzazione in Turchia, Idil Eser, e altri 11 esponenti, fra cui due stranieri, un tedesco e uno svizzero. Non sono finora state formalizzate accuse contro di loro, e nessuno del gruppo di attivisti per i diritti umani ha potuto incontrare i legali. Lo scorso mese il presidente di Amnesty turca, Kilic, era stato accusato di legami con Fethullah Gulen, l’imam considerato dal Presidente Recep Tayyip Erdogan l’ispiratore del fallito golpe del 15 luglio scorso. A quanto scrive il quotidiano Hurriyet nella sua versione online, gli attivisti sono stati fermati durante un’assemblea, e sono stati portati in una stazione di polizia per essere interrogati. L’organizzazione umanitaria in una nota pubblicata sul proprio sito ha scritto che l’arresto è avvenuto quando il gruppo stava partecipando a un seminario di formazione. L’organizzazione ha chiesto l’immediato rilascio delle persone arrestate e ha ammesso di non sapere dove sono detenute. Fermo e amaro il commento del segretario generale di Amnesty International, Salil Shetty: "Siamo profondamente indignati e turbati dal fatto che alcuni leader a difesa dei diritti umani in Turchia, inclusa la direttrice di Amnesty International, siano stati fermati senza motivo. Si tratta di un abuso grottesco di potere e mostra la situazione precaria in cui si trovano gli attivisti in questo Paese. Le autorità turche devono rilasciare il gruppo in modo immediato e senza condizioni". In Turchia la repressione seguita al tentato colpo di Stato ha portato, nel giro di un anno, all’arresto di più di 40 mila persone, in tutti i settori: insegnanti, magistrati, poliziotti, diplomatici, giornalisti. In maggior parte sono accusati di "legami con il terrorismo", in quanto considerati affiliati o vicini oppure aventi contatti con i "gulenisti". Gulen era stato a lungo alleato di Erdogan, e quando i militari sono stati estromessi dalle istituzioni, a partire dal 2007, i dissapori fra due leader che mantengono riferimenti spirituali molto forti verso l’Islam sono cominciati. Oggi, dal suo esilio (scelto già nel 1999) in Pennsylvania, Gulen ha sempre respinto le accuse di avere organizzato il putsch in Turchia. Le persone che in Turchia dal luglio 2016 sono state licenziate perché ritenute vicine al suo movimento "Hizmet" (il servizio) ammontano oggi a quasi 150 mila. Messico. Scontri nel carcere di Acapulco, morti 28 detenuti Reuters, 7 luglio 2017 A confrontarsi delle bande rivali di narcos nel carcere di Acapulco, nella costa occidentale del Messico. Almeno 28 detenuti della prigione di Acapulco, nella costa occidentale del Messico, sono rimasti uccisi ieri in scontri tra bande rivali. Lo riferiscono fonti ufficiali ai media. Il portavoce della sicurezza dello Stato di Guerrero, Roberto Alvarez Heredia, ha precisato che gli scontri sono esplosi intorno alle 4 del mattino e dopo diverse ore grazie all’intervento delle forze dell’ordine la situazione è tornata sotto controllo. In un primo momento lo stesso Alvarez Heredia aveva diffuso un bilancio preliminare di 6 morti e un ferito, ma poche ore dopo le autorità di Guerrero, lo Stato messicano dove si trova Acapulco, hanno cambiato la versione ufficiale sul brutale episodio. Si era parlato, infatti, di un piccolo gruppo di detenuti del modulo di alta sicurezza del Centro di Reinserimento Sociale (Ceres) di Las Cruces, nella periferia di Acapulco, che si erano scontrati a colpi di coltello. Ora, invece, fonti ufficiali citate dal quotidiano Proceso riferiscono di una sparatoria avvenuta ieri dentro al carcere mentre su internet sono state diffuse immagini raccapriccianti, probabilmente riprese da un elicottero, di vari cadaveri gettati in diversi punti del centro di reclusione. Nelle foto si vedono quattro corpi decapitati davanti all’ingresso del carcere - apparentemente con cartelli recanti messaggi minatori, secondo la tradizione delle bande narco messicane - e almeno altri due in un’altra parte del centro di reclusione. Secondo Proceso, le informazioni sulla reale entità del massacro sarebbero state deliberatamente ritardate a causa della presenza ieri ad Acapulco del segretario per la Sicurezza Interna Usa, John Kelly, che ha incontrato i ministri messicani della Marina e della Difesa, Vidal Francisco Soberon Sanz e Salvador Cienfuegos Zepeda. Nel 2016 Acapulco è diventata la capitale messicana degli omicidi, e la seconda città con il più alto tasso di morti violente al mondo, dopo Caracas, a causa degli scontri fra bande criminali che si disputano il controllo dei traffici illeciti nel porto della città. Libano. Inchiesta per i rifugiati siriani morti nelle carceri nena-news.it, 7 luglio 2017 È giallo sulla morte di quattro rifugiati siriani arrestati venerdì scorso nel corso di una maxi retata compiuta dall’esercito libanese nell’area di Arsal (a confine con la Siria). Secondo i militari, i decessi sono stati causati da "malattie croniche" che si sono aggravate a causa delle cattive condizioni del tempo. Diversa la versione di Human Rights Watch (HRW): "Alla luce della dichiarazione dell’esercito secondo cui le condizioni degli arrestati sono peggiorate durante la loro detenzione - ha detto in una nota Lama Fakih, vice direttrice della sezione Medio Oriente per Hrw - deve essere aperta una inchiesta formale, trasparente e indipendente e, in caso di reato, chi è responsabile deve essere incriminato". Nella serata di ieri è giunta una dichiarazione simile da parte dell’Ufficio dell’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani. La versione della morte naturale fornita dall’esercito non convince neanche il Centro libanese per i diritti umani (Cldh) che parla di almeno 4 detenuti morti perché torturati. Più dura è la Coalizione nazionale siriana (Snc) sostenuta dalla Turchia. Secondo l’Snc, infatti, sono 10 i siriani morti mentre erano detenuti in carcere e 19 le persone uccise nel blitz di venerdì compiuto dall’esercito. "Rifiutiamo qualunque tentativo di giustificare queste violazioni e crimini contro i rifugiati siriani con il pretesto che servano a garantire la sicurezza o a combattere il terrorismo in Libano" ha affermato in un comunicato il Snc. Le operazioni di sicurezza delle autorità libanesi della scorsa settimana hanno portato all’arresto di 335 persone e sono state definite dall’esercito azioni preventive contro gli attacchi pianificati nel Paese dai miliziani jihadisti. Nel corso di quel blitz, secondo la versione ufficiale, cinque attentatori suicidi si sono fatti saltare in aria ferendo diversi soldati e uccidendo una bambina di due anni. La tensione resta altissima ad Arsal dove ieri diversi rifugiati hanno bloccato l’ingresso delle autoambulanze che avrebbero dovuto consegnare i corpi dei quattro uomini morti per la sepoltura. Secondo gli sfollati, infatti, i detenuti deceduti dovrebbero essere sottoposti prima ad autopsia. Stando a quanto ha dichiarato un residente all’Ap, di diverso parere sarebbe il sindaco della città, Bassil Hujeiri, che ha ordinato il trasporto delle salme al cimitero locale. Nelle dichiarazioni pubbliche, Hujeiri ha detto che l’autoambulanza è stata mandata su richiesta della polizia militare chiarendo che l’esercito controlla i varchi di accesso e uscita dalla città. L’Agenzia statunitense Ap, inoltre, ha detto di essere entrata in possesso di tre foto che, stando a quanto le hanno detto i rifugiati di Arsal, apparterrebbero ai deceduti in questione. In due di queste i cadaveri presentano evidenti lividure sulla faccia e sull’addome che, sostiene l’avvocato dei diritti umani Nabil Halabi, potrebbero essere state causate da percosse. Un terzo corpo, invece, non avrebbe la testa. I fatti di venerdì riportano al centro del dibattito le drammatiche condizioni in cui vivono centinaia di migliaia di siriani nei campi profughi libanesi. I rifugiati provenienti dalla Siria sono ufficialmente un milione (secondo alcune Ong, un milione e mezzo) su una popolazione totale di 4,5 milioni di persone. Questo numero così enorme di sfollati, considerata pure la situazione politica e sociale in cui versa il Paese, rappresenta un problema di non facile gestione per le autorità locali e ha causato, non di rado, attacchi xenofobi da parte di alcuni libanesi. Senza poi dimenticare che all’interno di questi campi (riconosciuti e improvvisati) hanno trovato rifugio diversi jihadisti (dall’autoproclamato Stato Islamico ai qàedisti) provenienti dalla Siria contro i quali l’esercito locale si è più volte scontrato duramente. Del pericolo del terrorismo interno è tornato a parlare ieri il capo dello stato Michel Aoun che ha ribadito come i campi rifugiati siriani potrebbero diventare un "riparo sicuro" per i jihadisti. Somalia. Una fame da morire di Tom Parry Il Manifesto, 7 luglio 2017 La siccità peggiore dal 1950: carcasse di mucche lungo le strade, padri che seppelliscono i figli uccisi dalla carestia. Come Hamdi: a sei mesi, pesava come un neonato. Il reportage vincitore del Premio Luchetta 2017. Quest’anno in Somalia le piogge stagionali, sulle quali erano riposte le speranze della popolazione, sono iniziate con due settimane di ritardo. E sono state decisamente inferiori alla media. Intrappolata nella morsa di una siccità senza precedenti per estensione e persistenza, la Somalia è sull’orlo del baratro. I dati più recenti attestano che almeno metà della popolazione somala, 6 milioni di persone, necessita di assistenza umanitaria e che sono oggi oltre 185mila i bambini somali gravemente malnutriti, in pericolo di vita. Carestia non significa solo fame, ma anche malattie e colera. Il numero di bambini a rischio di grave malnutrizione è destinato ad aumentare. Ma anche i casi sempre più numerosi di morbillo e colera pesano sull’allarmante picco di decessi infantili. L’unica prospettiva è quella degli aiuti umanitari da parte dell’Onu e di altre organizzazioni: ma il loro spazio di intervento è ostacolato da questioni di sicurezza. Gli attacchi di Al-Shabaab hanno colpito l’intero paese, impedendo alle organizzazioni di svolgere il loro lavoro in modo efficace. Per questo a fine 2017, in Somalia, conteremo oltre un milione e 400mila bambini malnutriti, a rischio di vita. Storie di bimbi sfollati che hanno seguito le loro famiglie, migrate prima per la guerra e poi sotto il peso della carestia. Storie come quella di Hamdi, che vorrei adesso raccontarvi. In un ospedale somalo dove dozzine di neonati vengono portati per trattamenti d’urgenza, a Garowe, la bambina pelle e ossa giaceva apatica fra le braccia di sua madre Ayaan. Aveva sei mesi ma pesava meno di 8 libbre, la media di un neonato in Gran Bretagna. Volgeva lentamente la testa verso di me, era coperta da chiazze bianche, la sua bocca era arrossata e piena di piaghe, gli occhi incollati e doloranti. Hamdi era così affamata che il suo sistema immunitario aveva smesso di funzionare, rendendola vulnerabile alle infezioni. Sembrava sul punto di morire. "La bimba è così malnutrita che il suo sistema immunitario davvero non risponde più - spiegava il medico, Said Hamed - Soffre in questo modo da mesi e non riesce più a mangiare. Ma sua madre non la può più allattare: anche lei è troppo malnutrita per farlo". Dopo tre anni senza piogge, la più lunga siccità registrata dal 1950, la Somalia è schiacciata dall’emergenza. La morte corre sulle aride pianure del corno d’Africa, già duramente colpito, accanendosi sui bambini, uno dopo l’altro. Hamdi è soltanto una dei venti milioni di persone colpite da una carestia senza precedenti che coinvolge quattro paesi: Somalia, Sud Sudan, Nigeria e Yemen. In Somalia la siccità ha ridotto del 60% il bestiame, una risorsa fondamentale per le famiglie. Gli ultimi sondaggi denunciano dati agghiaccianti: 363mila bambini soffrono di malnutrizione e ben 71mila risultano gravi come Hamdi. Senza bestiame o capre da barattare per un pugno di riso o farina, famiglie somale come quella di Hamdi, che vivono nel deserto roccioso di sabbia rossa, non hanno più nulla. Vagano per la loro terra arida senza nessuna speranza di aiuto. La situazione è così drammatica che quando una breve pioggia è caduta su una regione costiera, nel dicembre dello scorso anno, ben 30mila nomadi si sono spostati in quella zona nella speranza di salvare il loro gregge, lasciando le mogli e i figli da soli negli accampamenti. Non tutti, però: in una conigliera fatta di ferro ondulato nei dintorni di Garowe ho incontrato Nour Jees, 43 anni, il padre di Asluub: un uomo disperato, sua figlia non aveva nemmeno tre settimane di vita quando è rimasta uccisa da una diarrea acutissima. Aveva bevuto acqua contaminata dopo la lunga siccità. Nour Jees mi ha portato sulla sua tomba, un cumulo di pietre sopra un piccolo buco nella sabbia. Un pezzo di terra riservato ai bambini morti dove ho contato più di 100 tombe, 28 scavate solo nell’ultimo mese. Nell’arida terra del Puntland, dove fino a poco tempo fa spadroneggiavano i pirati somali, il segno della siccità è visibile ovunque. Carcasse di mucche e capre stazionano in decomposizione lungo le strade, coperte da nuvole di mosche. Non c’è vegetazione, tranne pochi cespugli spinosi di acacia. Nulla cresce nell’implacabile cocente calore desertico. Il nostro veicolo lascia dietro di sé una nube si polvere mentre ci dirigiamo verso il campo lontano di Uskure. Dopo decenni di sommosse, ancora una catastrofe nell’arida Somalia: ancora si combatte contro la natura e le prime vittime sono i bambini indifesi come Hamdi. Il suo pianto era così flebile che non si riusciva neanche a sentire fra i lamenti dei bambini disperati nella corsia dell’ospedale. Guardandola, così malata e sofferente, riuscivo quasi a vedere la sua vita che le stava scivolando via sotto i miei occhi. Hamdi ha lottato contro la fame da primo giorno in cui ha visto la luce, è il peggior caso di malnutrizione che io abbia mai visto. Rientrato in Gran Bretagna dopo una settimana ho ricevuto la notizia della sua morte ed è stato uno choc terribile. I medici avevano fatto l’impossibile per salvarla ma le sue condizioni erano disperate.