In 122 restano in carcere perché mancano i braccialetti elettronici di Grazia Longo La Stampa, 6 luglio 2017 Pronto il bando del ministero per 12.000 nuovi dispositivi. Il Viminale ipotizza che entro agosto potrebbero arrivare i 12 mila nuovi bracciali elettronici per monitorare i detenuti agli arresti domiciliari. Intanto 122 persone sono in attesa di uscire dalla prigione per la mancanza di questo dispositivo di sorveglianza. A riproporre la questione della loro annosa carenza è la mancata scarcerazione di due detenuti noti: l’attore Domenico Diele, arrestato per omicidio stradale a Salerno, e l’imprenditore Alfredo Romeo, a Regina Coeli con l’accusa di corruzione per lo scandalo Consip. Per loro due, come per tutti gli altri, è però possibile che possano essere reperibili alcuni bracciali dei duemila già in funzione - grazie al servizio "chiavi in mano" di Telecom - ma finora destinati ad altri reclusi. I duemila apparecchi sono stati attivati nel 2001 e applicati in questi anni a 8.856 detenuti per un totale di quasi 2 milioni di giorni (1 milione e 901 giorni per l’esattezza) e per una spesa complessiva di 173 milioni di euro. L’esigenza di utilizzarli, tuttavia, non ha mai fine. Di qui la gara europea bandita dal ministero dell’Interno per 12 mila nuovi dispositivi. Tre le società ammesse al bando: Fastweb spa, Rti Engineering ingegneria informatica e Telecom Italia Spa. La gara d’appalto a normativa europea, con aggiudicazione sulla base del criterio dell’offerta più vantaggiosa, ha un importo complessivo a base di gara pari a circa 45 milioni di euro. Anche questa volta si otterrà un servizio "chiavi in mano". Nel senso che tutti gli strumenti, gli apparati e il "software" messo a disposizione per rendere operativo il servizio resteranno di proprietà della società appaltatrice. Il braccialetto elettronico in realtà è una cavigliera ed è dotato di una centralina che ha la forma di una radiosveglia e che va installata nell’abitazione in cui deve essere scontata la pena. Un device riceve il segnale dal braccialetto e lancia l’allarme per eventuali tentativi di manomissione e in caso di allontanamento del detenuto. Il tema del ricorso al braccialetto elettronico si inserisce in quello più ampio del sovraffollamento delle carceri italiane. Al momento, nei nostri istituti penitenziari si trovano 57.350 detenuti, contro i 44 mila posti previsti sulla carta. "La possibilità di concedere i domiciliari con il supporto della sorveglianza elettronica contribuisce sicuramente ad alleggerire le condizioni all’interno delle nostre carceri - osserva Donato Capece, segretario del Sappe, sindacato autonomo della polizia penitenziaria. Bisognerebbe incrementarli e invece non ce n’è mai abbastanza. Non c’era certo bisogno della mancata scarcerazione di detenuti eccellenti come Diele e Romeo per sapere che le dotazioni dei braccialetti è ampiamente insufficiente rispetto alle reali necessità". Capece è convinto che "le prigioni rimangono piene di persone che invece potrebbero da subito scontare la pena sul territorio. Il dramma di questo Paese - accusa - è che nessuno mai paga per questi sprechi e per questi errori. E nel frattempo in carcere proliferano le tensioni che spesso mettono in crisi il lavoro degli agenti di polizia penitenziaria. Fino a situazioni estreme come il suicidio". Il problema dell’indisponibilità del braccialetto elettronico, del resto, è finito anche all’esame della Corte di Cassazione, sia nel 2015 che alle Sezioni Unite nel 2016. Secondo la Cassazione la mancanza dell’apparecchio di sorveglianza non può determinare la temporanea permanenza in carcere dell’indagato poiché non si tratta di "una prescrizione che inasprisce la misura" ma solo di una modalità di controllo. Di qui la convinzione che una volta valutata adeguata la misura cautelare dei domiciliari "l’applicazione ed esecuzione di detta misura non può essere condizionata da eventuali difficoltà di natura tecnica e/o amministrativa". Di fatto spetta al giudice considerare la possibilità dei domiciliari senza il braccialetto elettronico o la permanenza in carcere in attesa che esso sia a disposizione. "Il sovraffollamento non c’entra, sono i magistrati a non fidarsi" di Federico Capurso La Stampa, 6 luglio 2017 "Il braccialetto elettronico sarebbe utile ma in Italia c’è una certa resistenza alla sua applicazione", sostiene l’avvocato penalista Pietro Vincentini. "Per questo mi fa piacere che si crei un certo interesse mediatico sull’argomento". La resistenza di cui parla da dove nasce? "Partiamo da un presupposto: i braccialetti elettronici sono pochi. Ma c’è soprattutto un atteggiamento di sfiducia da parte della magistratura nei confronti di quello che viene considerato un orpello inutile, specialmente qui a Roma. E non è solo questo il motivo". C’è dell’altro? "Capita spesso, quando il braccialetto elettronico è disponibile, che nascano difficoltà nella sua applicazione alla caviglia della persona. Mi spiego: il più delle volte le forze dell’ordine rispondono che non sono in possesso degli strumenti operativi. Dove e perché la procedura si areni, però, non lo comunicano". Cosa può fare il giudice per vedere applicata la sua sentenza? "Può trovare un’alternativa. Di solito si ricorre alla detenzione domiciliare". Eppure sarebbe utile... "Il braccialetto è semplicemente uno strumento di monitoraggio. Può essere un deterrente oltre a uno strumento di garanzia. Alleggerisce l’attività di controllo della polizia giudiziaria e limita un dispendio di energie che possono essere profuse altrove. Serve, quindi, nonostante casi di persone che dopo averlo manomesso sono fuggite, senza che le forze dell’ordine se ne siano accorte". C’è chi sostiene che servirebbe anche a svuotare le carceri italiane, da sempre sovraffollate. È così? "Lo svuotamento delle carceri c’entra poco. Il problema dei troppi detenuti dipende più dalla riluttanza da parte dei giudici di ricorrere alle misure alternative al carcere. D’altra parte, mi è anche capitato di assistere una persona a cui era stata concessa la detenzione domiciliare con il braccialetto, ma per un lungo periodo, alcuni mesi, la persona non aveva potuto beneficiarne perché i braccialetti erano finiti, ed era stato costretto a rimanere in carcere". Alla fine il risultato è comunque un diritto negato al detenuto. Qualcuno paga mai per questo? "In Italia non ho mai sentito di nessuno che pagasse per i problemi del sistema giustizia. Non in questo senso, almeno. Va sottolineato però che qui la responsabilità non è certo del magistrato. Semmai del ministero". Fastweb in pole per i "braccialetti" dei detenuti domiciliari di Manuel Follis Milano Finanza, 6 luglio 2017 La proposta della società guidata da Calcagno, in tandem con Vitrociset, è risultata quella più conveniente sul piano economico. Ma è talmente bassa da indurre il ministero a chiedere ulteriori chiarimenti. Fastweb si è aggiudicata il primo posto nella graduatoria della gara per la fornitura dei braccialetti elettronici indetta dal ministero degli Interni. Mentre le cronache riportano i problemi causati alla giustizia dalla scarsa disponibilità di questi dispositivi, pochi giorni fa sono state aperte le buste relative al nuovo bando, con base d’asta di 37 milioni, che prevede una fornitura di massimo 1.000 dispositivi al mese per 36 mesi prorogabili di altri 9 su richiesta del ministero (ma la stima complessiva comunque non supera i 10-12 mila apparecchi), oltre alla manutenzione di tutti i braccialetti attualmente in uso. Alla gara erano state ammesse 3 società: Fastweb in tandem con Vitrociset, Engineering insieme a BT Italia e Telecom Italia. Quest’ultima, secondo quanto risulta a MF-Milano Finanza, sarebbe risultata la migliore nella parte tecnica per mezzo punto rispetto al gruppo guidato da Alberto Calcagno. Fastweb però avrebbe fatto un’offerta nettamente più vantaggiosa dal punto di vista economico, così bassa da ricadere (in base al codice degli appalti) nella categoria delle offerte "anomale" e quindi da richiedere ulteriori verifiche. La classifica attuale, ricordano alcuni tecnici, è quindi da considerarsi provvisoria, ma in pole position per l’aggiudicazione c’è Fastweb (davanti a Engineering e Tim) che però come detto nelle prossime settimane dovrà rispondere alle richieste della stazione appaltante. L’aggiudicazione definitiva, forse anche a causa della fretta generata dai fatti di cronaca, dovrebbe comunque arrivare nell’arco di un mese. Il tema dei braccialetti elettronici è da anni oggetto di polemiche e discussioni. La cronaca degli ultimi giorni ha riportato d’attualità la loro mancanza. L’attuale appalto è stato concesso a Telecom il 31 dicembre 2011 e poi prolungato dal ministero fino al 31 dicembre 2018 e riguardava la fornitura di 2 mila braccialetti elettronici nel quadro di un appalto complessivo di valore superiore a 500 milioni. Con la legge 10/2014 di conversione del decreto Svuota-carceri è stato però modificato l’articolo 275-bis del codice di procedura penale, e si è disposto il ricorso allo strumento elettronico come regola generale, salvo i casi in cui il magistrato non lo ritenesse necessario. Una modifica che di fatto ha aumentato l’utilizzo del braccialetto e le richieste, rendendo così insufficienti i 2.000 braccialetti forniti da Telecom. Per questo lo scorso dicembre il ministero degli Interni ha indetto un nuovo bando di gara con normativa europea (con aggiudicazione sulla base del criterio dell’offerta più vantaggiosa) che prevede appunto la fornitura di 10-12 mila dispositivi. Una gara il cui esito è atteso con trepidazione dal mondo della giustizia. I braccialetti forniti da Fastweb, da quanto risulta, sarebbero diversi da quelli attualmente in uso, prodotti da un’altra azienda con altra tecnologia e forse anche questo sta alla base del punteggio leggermente più alto ottenuto da Telecom nella parte tecnica. In ogni caso, qualora dovesse aggiudicarsi la gara in via definitiva, Fastweb dovrebbe farsi carico della manutenzione e della gestione di tutto il parco braccialetti in esercizio. Il giro di vite all’italiana: nuovi reati inapplicabili di Carlo Nordio Il Messaggero, 6 luglio 2017 La legge sull’introduzione del reato di tortura, approvata ieri sera in via definitiva alla Camera, si inserisce in quel filone di velleitario attivismo con cui il legislatore tende ad affrontare vecchi problemi con provvedimenti ispirati dalla convenienza contingente. Questa deplorevole attitudine, peraltro comune ai governi degli ultimi trent’anni, sta assumendo ora dimensioni quasi grottesche, con una proliferazione normativa caotica e scoordinata, che moltiplicando le incertezze interpretative ne consolida le difficoltà di applicazione. I numerosi esempi di riforme fallite - fallite nel senso che alla fine non hanno minimamente raggiunto gli obiettivi solennemente celebrati - non hanno insegnato nulla. Nuovi reati sono stati introdotti, con la previsione di ulteriori aumenti di pene; le garanzie costituzionali sono state vieppiù avvilite, e siamo sempre lì. Dopo il giro di vite sulla corruzione, l’omicidio stradale, il femminicidio, le misure antimafia, eccetera eccetera, i delitti non diminuiscono, e l’insicurezza aumenta. La risposta? L’introduzione del reato di tortura. Intendiamoci. In quanto tale, la tortura è una delle forme più abiette della cattiveria umana. Ha radici profonde, e talvolta è stata giustificata da ragioni politiche e persino da ragioni religiose. Come strumento di indagine, dopo essere stata adottata equamente da tutti gli stati, dai tempi di Lugalzaggisi, re di Uruk, fino alla quarta repubblica francese in Algeria, è quasi scomparsa nei Paesi democratici. Quasi. Perché purtroppo, di tanto in tanto, emergono casi di sciagurata violenza intimidatrice. Anche in Europa. Anche da noi. Essa è stata tuttavia ridotta, se non sradicata, non dalla minaccia della sanzione penale, ma da un’opera continua e benemerita di riflessione e di umanizzazione della politica criminale. Se ne rimane un residuo, essa costituisce l’eccezione, non la regola. In Italia, per di più, una nuova cultura della polizia giudiziaria, un vigile controllo della magistratura, e più in generale il ripudio sincero dell’opinione pubblica anche di fronte ai delitti più cruenti ed infami, hanno ridotto il fenomeno a livelli trascurabili. Ora questa legge complica le cose. Perché, essendo, o almeno apparendo un messaggio ostile alle forze dell’ordine, ne mina la serenità e la fiducia nello Stato. Uno Stato che già le strapazza con il centellinamento delle risorse e l’imposizione di compiti sovrumani, ed ora le umilia con una manifestazione di diffidenza. Per di più essa non soddisfa nemmeno le possibili vittime. La sua formulazione è infatti, secondo la peggiore tradizione, tanto altisonante e verbosa quanto vaga e indeterminata. E poiché il principio di tassatività è un cardine dl diritto penale, questa volatilità ne renderà difficile l’applicazione in sede processuale. Peggio. Essa consentirà una valanga di denunce e di indagini contro polizia e carabinieri, con la conseguente spedizione di informazioni di garanzia e iscrizioni nel registro degli indagati, ma renderà difficile l’accertamento delle singole responsabilità nel caso - Dio non voglia - di abusi da parte di chi veste la divisa. Come tante altre leggi, essa finirà su un binario morto, in attesa che il treno della giustizia, già rallentato da questa dissennata produzione normativa, la scarichi tra i rottami. Dalla prescrizione ai sequestri, così la giustizia sacrifica la persona di Giuseppe Guida* Il Dubbio, 6 luglio 2017 Un tempo si diceva che il grado di civiltà di un Paese si misura attraverso il sistema dei diritti e delle garanzie apprestate: diritti e garanzie come cifra identitaria di un Paese che manifesta la sua tensione liberale attraverso un sistema egalitario e bilanciato tra singolo e collettività, non asservito alla logica feudale e proditoria di applicazione della legge ex parte principis. Tutto questo vale ancora? In un Paese dove il sistema penale della giustizia annaspa dietro le sirene del giustizialismo, dove il mito della sicurezza soffoca le più naturali e costituenti garanzie del cittadino, dove il ragionevole dubbio colpisce oramai l’innocenza, dove la sofferenza non è mai troppo dignitosa e dove il "reietto", indagato, condannato, nero o bianco, uomo o donna è vittima dell’immagine mediatica del carnefice, tutto sembra dissolversi nelle fosche nebbie della "giustizia nonostante". Perché è giustizia nonostante (e oltre) la persona quella che tenta di porre rimedio alle sue patologie attraverso l’innalzamento indiscriminato delle pene, quella che, in barba ai principi fondamentali del modello accusatorio, allunga ancor di più i tempi del processo o che estende in maniera sproporzionata "la custodia cautelare dei beni". Non è immaginabile, infatti, che mere ragioni di "economicità" possano prevalere sul diritto dell’imputato a partecipare al proprio processo, sottraendogli il diritto di guardare chi lo accusa e prediligendo, quindi, una sorta di etero- processo (o meglio ancora un "etere" processo) il cui fine principale sembra essere non la giustizia, non l’accertamento dei fatti ma le ragioni legate alla "speditezza" e all’economia processuale. Proviamo ad immaginare cosa potrà mai accadere quando la partecipazione a distanza sarà in vigore nei processi con più imputati: video inattivi, collegamenti che vanno e vengono, telefoni che squillano, presidenti che sospendono, testimoni frastornati, avvocati in balia del call center processuale, un circo barnum, insomma, che veste la maschera del pagliaccio ed irride l’imputato, il suo destino e le sue sacrosante garanzie. Eppure tutto ciò è norma, voluta fortemente da un legislatore quasi involontario, forse estraneo alle "cose" della giustizia o, forse, colpevolmente prono alle logiche di quell’efficientismo giudiziario, da troppo tempo sovrapposto al ben diverso e più civile concetto di efficienza della giustizia. Non è nemmeno tollerabile che l’allungamento immotivato della prescrizione, perché prescinde da ragioni ascrivibili all’imputato, possa intendersi come norma risolutiva. Risolutiva lo è, forse, delle inspiegabili lungaggini investigative, dell’ingolfamento dei ruoli, dei continui mutamenti dei collegi giudicanti e di tutti quei guasti burocratici ed amministrativi che rallentano, sempre di più, il processo e le sue fasi. Tutti aspetti che, ictu oculi, più che migliorare finiscono per umiliare ancor di più chi lo subisce. Eppure, giustizia deve farsi. Giustizia nonostante. Soffra, quindi, l’imputato per anni il delirio del suo giudizio, tanto prima o poi finirà. E se colpevole avrà subito la sua giusta punizione, mentre, se innocente, anche dopo anni di lungaggini, gli sarà, comunque, andata bene. E con l’imputato soffrano ancor più i suoi beni. Se non intervenisse un ravvedimento che, mentre scriviamo, è solo ipotizzato, il parto normativo di questo legislatore oltremodo prolifico, consentirebbe infatti l’estensione della confisca a macchia d’olio: alla cautela personale si assommerà sovente la cautela patrimoniale, affinché sia chiaro a tutti i malfattori che il maltolto va restituito. Giusto signor legislatore! Ma se il processo durerà quanto durerà, posto che la prescrizione è commisurata alla pena ancorché ai cospicui aumenti edittali di recente introduzione nonché alla sospensione ulteriormente estesa, il bene o i beni sottoposti a sequestro in proiezione di una confisca quale apprezzabile valore economico potranno conservare una volta giunti all’esito del lungo peregrinare? Proviamo allora ad immaginare le sorti di una azienda sottoposta a sequestro, di una casa o anche una semplice autovettura, che, sottratta all’imputato in applicazione "della custodia cautelare patrimoniale", debba essere, a distanza di anni a questi restituita per la sua riconosciuta innocenza: l’azienda sarà in totale disarmo, la casa probabilmente, l’autovettura praticamente un pezzo da museo. E tutto questo solo e sempre in danno dell’imputato, che comunque e nonostante, dovrà ritenersi addirittura fortunato perché, in fin dei conti, gli andata bene. Viste le non incoraggianti premesse c’è da chiedersi se principi come l’uguaglianza dinanzi alla legge, l’inviolabilità della libertà personale, il nullum crimen sine iudicio o il più recente giusto processo possano ancora rappresentare quel nucleo essenziale del valore giustizia che, come un metronomo ideale, scandisce i tempi di uno Stato liberale e democratico; o se non sia, piuttosto, il contrario, dove lo Stato, rivestiti i panni del principe legibus solutus, segna i tratti di una giustizia servente, alterando i valori e i connotati della democrazia. La giustizia penale come istituzione di scopo, pur protesa (almeno a parole) verso la ricerca di nuovi contenuti dei valori liberaldemocratici, preferisce inspiegabilmente addentrarsi in sentieri caratterizzati da gogne, giustizialismi e panpenalismo esasperato, dove l’imputato si spersonalizza, perdendo essere e dignità, immolandosi alla suprema ragione dell’opportuno, o meglio, dell’elettoralmente proficuo. Una discesa agli inferi rapida e cruenta, dunque, che potrà essere evitata solo attraverso una rinascita della coscienza collettiva, culturalmente adeguata e calibrata sotto il punto di vista valoriale, così da ritrovare la giusta rotta e resistere al violento maestrale della inciviltà oggi imperante. *Componente della Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane Tortura, c’è il via libera della Camera alla legge: ora in Italia è reato di Franco Stefanoni Corriere della Sera, 6 luglio 2017 Il testo è stato approvato alla Camera con 198 voti a favore, 35 contrari e 104 astenuti. Ci sono voluti quattro anni perché il Parlamento approvasse la norme. Sì definitivo dell’Aula della Camera al disegno di legge che introduce nell’ordinamento italiano il reato di tortura. Il testo è stato approvato alla Camera con 198 voti a favore, 35 contrari e 104 astenuti. Le pene previste sono pesanti: la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, che salgono fino a un massimo di 12 se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei suoi doveri. Ci sono voluti quattro anni perché il Parlamento approvasse la legge che introduce il reato di tortura nel nostro ordinamento. Quattro anni di stop and go, di divisioni tra le forze politiche e di tentativi di insabbiamento. L’iter del provvedimento, frutto della sintesi di 11 diverse proposte di legge, è stato particolarmente complicato: iniziato al Senato esattamente il 22 luglio del 2013, per poi essere licenziato un anno dopo, è approdato alla Camera nel 2015 per poi tornare nuovamente all’esame di palazzo Madama e, infine, essere licenziato da Montecitorio. Più volte modificato nei passaggi tra i due rami del Parlamento, il testo non ha subito ulteriori modifiche durante l’ultimo esame. Forze politiche divise - Si tratta di un provvedimento che ha diviso le forze politiche: voluto dal Pd e sostenuto dagli alleati di governo, gli alfaniani di Alternativa popolare, è invece stato osteggiato dalle forze di centrodestra, Lega e FdI in testa. I detrattori della legge sostengono che si tratta di un provvedimento punitivo nei confronti delle forze dell’ordine, limitandone il campo d’azione. Niente di tutto ciò, hanno sempre replicato Pd e governo, nessuna "norma vessatoria", al contrario si tratta di un provvedimento che "colma una lacuna" e fa sì che l’Italia "non sia più fanalino di coda", è stata sin dall’inizio la posizione dei sostenitori del testo. In che cosa consiste - Cosa prevede il testo della legge sul reato di tortura, licenziato in via definitiva dalla Camera: vengono introdotti nel codice penale il reato di tortura (art. 613-bis) e di istigazione alla tortura (art. 613-ter). La commissione del reato da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio costituisce una fattispecie aggravata del delitto di tortura. In particolare, l’articolo 613-bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Rispetto all’art. 1 della Convenzione Onu del 1984, che prevede una condotta a forma libera da parte dell’autore del reato, l’art. 613-bis prevede esplicitamente che la tortura si realizza mediante violenze o minacce gravi o crudeltà (ovvero con trattamento inumano e degradante), si legge nella relazione tecnica che accompagna il testo. Sono inoltre previste delle aggravanti: la prima interessa la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio dell’autore del reato, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio; la pena prevista è in tal caso la reclusione da 5 a 12 anni. Viene, tuttavia, precisato che la fattispecie aggravata non si applica se le sofferenze per la tortura derivano unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti. Il secondo gruppo di fattispecie aggravate consiste nell’avere causato lesioni personali comuni (aumento fino a 1/3 della pena), gravi (aumento di 1/3 della pena) o gravissime (aumento della metà). Infine, la morte come conseguenza della tortura nelle due diverse ipotesi: di morte non voluta, ma conseguenza dell’attività di tortura (30 anni di reclusione); di morte come conseguenza voluta da parte dell’autore del reato (pena dell’ergastolo). Istigazione a commettere tortura - La legge introduce nel codice penale l’art. 613-ter, con cui si punisce il reato consistente nell’istigazione a commettere tortura da parte del pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, sempre nei confronti di altro pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. In base all’art. 414 c.p. chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell’istigazione: con la reclusione da uno a cinque anni, se trattasi di istigazione a commettere delitti; con la reclusione fino a un anno, ovvero con la multa fino a euro 206, se trattasi di istigazione a commettere contravvenzioni. Se si tratta di istigazione a commettere uno o più delitti e una o più contravvenzioni, si applica la pena da uno a cinque anni. Alla medesima pena soggiace anche chi pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti. Le pene sono aumentate se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. Se l’istigazione o l’apologia riguarda delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità la pena è aumentata della metà. La pena è aumentata fino a due terzi se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. "Forme d’immunità" - La legge, viene sottolineato nella relazione tecnica, introduce una disposizione procedurale che stabilisce l’inutilizzabilità, nel processo penale, delle dichiarazioni eventualmente ottenute per effetto di tortura. La norma fa eccezione a tale principio solo nel caso in cui tali dichiarazioni vengano utilizzate contro l’autore del fatto e solo al fine di provarne la responsabilità penale. Sono vietate le espulsioni, i respingimenti e le estradizioni ogni volta che sussistano fondati motivi di ritenere che, nei Paesi nei confronti dei quali queste misure amministrative dovrebbero produrre i loro effetti, la persona rischi di essere sottoposta a tortura. È escluso il riconoscimento di ogni "forma di immunità" per gli stranieri che siano indagati o siano stati condannati per il delitto di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale. L’immunità diplomatica riguarda in via principale i Capi di Stato o di governo stranieri quando si trovino in Italia nonché il personale diplomatico-consolare eventualmente da accreditare presso l’Italia. Viene poi previsto l’obbligo di estradizione verso lo Stato richiedente dello straniero indagato o condannato per il reato di tortura. Tortura. Non basta che sia nel codice di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 6 luglio 2017 In Italia da oggi la tortura è reato. C’è voluto un dibattito parlamentare lungo quasi trent’anni per produrre una legge definita di compromesso dal deputato del Pd Franco Vazio, relatore del provvedimento. Ma si può accettare o siglare un compromesso su un crimine contro l’umanità? Il dibattito parlamentare è stato per lunghi tratti triste, incolto, illiberale, ricco di opposizioni pretestuose. Nel nome delle mani libere delle forze dell’ordine si è cercato di renderle immuni da responsabilità. Governi di destra e di sinistra hanno in passato detto no alla tortura. Oggi c’è un reato ad hoc. Retroguardie culturali hanno condizionato il dibattito pubblico contribuendo a produrre una legge criptica, non rispondente alla definizione presente nella Convenzione Onu contro la Tortura del lontano 1984. In vari punti la legge approvata ieri è di difficile digeribilità: la previsione della pluralità delle condotte violente affinché vi sia la configurabilità del delitto, il riferimento espresso alla condizione della "verificabilità" del trauma psichico. Un tentativo pacchiano di restringere l’area della punibilità del presunto torturatore. E poi non sono stati previsti tempi straordinari di prescrizione come un crimine di tale tipo richiede. Ed è stata prevista la pena dell’ergastolo contro cui si siamo sempre battuti e ci batteremo sempre. Era il 10 dicembre del 1998 quando Antigone elaborò la sua prima proposta di legge, fedele al testo delle Nazioni Unite. Non abbiamo mai abbandonato la nostra pressione pubblica e politica su questo tema. Siamo andati davanti a giudici nazionali, europei, organismi internazionali a segnalare questa lacuna gravissima nel nostro ordinamento giuridico. Il manifesto è stato sempre al nostro fianco. Nel tempo i governi che si sono succeduti hanno usato le più svariate strategie di risposta: dilatorie, apertamente oppositive, falsamente disponibili. Da ieri comunque abbiamo una legge che incrimina la tortura. Possiamo da oggi nelle Corti chiedere che un pubblico ufficiale sia incriminato non per lesioni o abusi vari o maltrattamenti in famiglia (come è accaduto ad Asti) ma per tortura. Purtroppo il delitto è configurato in modo a dir poco arzigogolato. È definito come un delitto generico, ossia che può essere commesso anche da un cittadino comune e non solo da un pubblico ufficiale. Per noi la tortura, nonostante la divergente previsione normativa, è e resta invece un delitto proprio, ossia un delitto che, come ci tramanda il diritto internazionale pattizio e consuetudinario, non può che essere un delitto dei pubblici ufficiali. Da domani il nostro lavoro sarà quello di sempre: nelle ipotesi di segnalazioni di casi che per noi costituiscono "tortura" ci impegneremo affinché la legge sia applicata davanti ai giudici nazionali. E se questi dovessero latitare - un po’ dipende anche da loro, così come dagli avvocati, rendere quella fattispecie operativa - andremo davanti alle Corti internazionali. Uno sguardo va rivolto alle altre parti della legge ugualmente importanti le quali riguardano la non espulsione di persone che rischiano la tortura nel paese di provenienza e l’estradizione di cittadini stranieri accusati di tortura e attualmente residenti nel nostro paese. Qualora applicate in sede giurisdizionale con ragionevolezza e spirito democratico tali norme potranno salvare molte vite da un lato e rompere il circolo vizioso della impunità dei torturatori di Stato dall’altro. Nessuno è però così ingenuo dal pensare che ottenuta la legge, buona o brutta che sia, la tortura sarà di conseguenza definitivamente eliminata dalle nostre prigioni, dalle nostre caserme, dai nostri centri per migranti, dalle nostre strade. Il reato è una condizione necessaria ma non sufficiente per mettere al bando la tortura. È necessario che vi sia un cambio di paradigma che porti la dignità umana al centro delle nostre politiche di sicurezza. Antimafia. Non servono misure emergenziali di Alberto Cisterna Il Dubbio, 6 luglio 2017 L’arsenale antimafia del nostro Paese ha radici lontane. Il Codice antimafia raccoglie solo alcune delle tante misure che il Parlamento, spesso su spinte emergenziali, ha adottato per fronteggiare la minaccia mafiosa. Era il 1965 quando una nazione sgomenta da centinaia di assoluzioni di mafiosi, in particolare siciliani, pensò di adoperare per la prima volta la parola "mafia" per indicare i soggetti che meritavano di finire al soggiorno obbligato nel Continente. Nascevano le misure di prevenzione cosiddette personali. Ai mafiosi assolti e senza carcere lo Stato imponeva una "sanzione" diversa, la sorveglianza di polizia ed il divieto di restare nelle regioni di appartenenza. Qualcuno dice che, così, si siano esportate le mafie al Centronord. Ma non è questo il punto in discussione. Storicamente è vero, piuttosto, che il Parlamento reagiva così al fallimento dei processi penali, alla pioggia di assoluzioni, cercando comunque di neutralizzare i boss, sottoponendoli a vincoli di polizia spesso molto gravosi. Una situazione quasi identica balzò agli occhi di Pio La Torre alla fine degli anni 70. Stragi di mafia e pochissime condanne. Doveva ancora arrivare la stagione del pool di Palermo e l’epopea di Falcone e Borsellino. Si raccattavano cadaveri per le strade della Sicilia ed i boss si arricchivano impunemente con il sacco di Palermo e con l’economia illegale. Uno schiaffo e un insulto allo Stato. Un altro fallimento del processo penale ed un altro rimedio. Questa volta le confische di prevenzione. Non più sequestri in processi dagli esiti sempre infausti per l’accusa, ma i beni portati via con la prevenzione, questa volta patrimoniale. Alla prova dei reati si sostituivano gli indizi e prendeva corpo, soprattutto, la sproporzione ingiustificata tra redditi legali e patrimoni come elemento decisivo per confiscare i tesori dei boss. Una soluzione vincente che costò la vita al parlamentare siciliano. Lunga premessa per approcciare senza troppa retorica il tema dell’estensione ai corrotti del Codice antimafia. Argomento di grandi polemiche e che ha visto importanti prese di posizione contrarie e diffidenti (da ultimo Cantone e, con qualche distinguo, Roberti). Il retroterra è lo stesso. I processi falliscono, le indagini sono poche, i corrotti vengono assolti, per cui si deve mettere mano all’arma letale, la confisca antimafia da estendere alla nuova "mafia bianca". La storia si ripete, ma questa volta le cose stanno in modo radicalmente diverso. Se fino ai primi anni 80 mancavano pentiti e intercettazioni per fronteggiare le mafie, se le assoluzioni a pioggia vedevano uno Stato indifeso davanti a boss conclamati e riconosciuti, oggi la situazione è molto diversa. Le indagini dispongono di strumenti straordinari e l’efficienza delle forze di polizia e della magistratura è ai massimi livelli. Oggettivamente non si percepisce un’emergenza corruzione paragonabile all’emergenza mafia del 1965 o del 1982. Il ricorso alle misure di prevenzione appare, per qualche verso, una sproporzione rispetto al contesto criminale da affrontare. Questo non vuol dire che la corruzione non sia un cancro vasto e diffuso, un morbo che asfissia il paese, si vuol soltanto segnalare che le indagini ed i processi sembrano ancora capaci di affrontare la Piovra bianca. Ci vorrebbero un paio di aggiustamenti. Il primo è in corso d’opera. È appena uscita in Gazzetta ufficiale la delega al Governo sulle misure di prevenzione. Si prevede di agevolare le intercettazioni in materia di reati contro la pubblica amministrazione, di renderne più facile l’accesso ai pm. La formula è un po’ sibillina, ma realisticamente ci si deve attendere che le intercettazioni sulla corruzione siano regolate allo stesso modo di quelle contro la mafia. Soluzione ottima. Resta, poi, il nervo scoperto degli agenti sotto copertura, invocati da Davigo a gran voce e da molto tempo. Anche questa una soluzione necessaria, praticamente indispensabile. Ormai la corruzione agisce in circuiti blindati e quasi impenetrabili. La punizione, sia pure mite, del corruttore che collabora con lo Stato non funziona. L’undercover è un rimedio indifferibile, ma politica fa orecchie da mercante. Teme le provocazioni e ha qualche ragione. Ci vogliono regole severe e non è possibile lasciare lo strumento in mano a sprovveduti ed avventurieri del Far West giudiziario. Ma poste le regole i partiti dovrebbero dare il via libera allo strumento. È una ritrosia inspiegabile. O forse no. Gli agenti sotto copertura sono consentiti per un mucchio di reati (terrorismo, riciclaggio etc.), ma non per la mafia. Mafia e corruzione, un’accoppiata sospetta. Canzio liquida il codice antimafia, il Pd adesso è solo di Riccardo Tripepi Il Dubbio, 6 luglio 2017 Il leader di Ap Alfano lascia libertà di voto. Ddl a rischio. Pd e maggioranza di governo in palese difficoltà al Senato. L’approvazione delle modifiche al Codice antimafia è stata nuovamente rinviata dopo l’ennesima giornata di passione. L’esame del provvedimento è stato sospeso due volte nella giornata di ieri dal presidente Pietro Grasso. Un prima volta, per un’ora, dopo che il presidente della commissione Bilancio Giorgio Tonini (Pd) ha appoggiato la richiesta sollevata dal senatore di Fi Antonio Azzollini di fare ulteriori verifiche sulla copertura economica, al termine delle quali è stato richiesto dalle opposizioni un parere tecnico della Ragioneria generale dello Stato sulla correzione apportata dal governo. Un’operazione che ha richiesto diverse ore, per cui la seduta è stata riaggiornata al pomeriggio quando, finalmente, è stato annunciato il via libera della Ragioneria dello Stato sulle coperture e sulla riformulazione del testo. "È stato un nostro errore", è stato costretto ad ammettere il presidente della Commissione Bilancio Tonini in merito al caos creato sulla copertura del provvedimento che non specificava se i 20 milioni previsti fossero da intendersi complessivamente per tre anni o per ogni singolo anno. Poi, quando tutto era ormai pronto per il voto del provvedimento nel suo complesso, è arrivata provvidenziale come non mai l’ulteriore sospensione dei lavori per consentire le comunicazioni previste alle 18,30 del ministro dell’Interno, Marco Minniti, sull’emergenza migranti. Una sospensione quanto mai opportuna per consentire al Pd e alla maggioranza di riordinare le idee, dopo 48 ore vissute assai pericolosamente. Il Pd, infatti, si è trovato travolto da un vero e proprio fuoco di fila di critiche per un provvedimento giudicato inutilmente e gravemente repressivo. L’estensione della normativa antimafia ai reati di corruzione ha provocato le dure prese di posizione del presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone e dell’ex presidente della Camera Luciano Violante. Alle quali si è aggiunta quella, assai ferma ed autorevole, di Giovanni Canzio. "Condivido pienamente i rilievi e le osservazioni del presidente dell’Anac Cantone in merito alla riforma del codice antimafia". Ha detto a chiare lettere il primo presidente della Corte Suprema di Cassazione, interpellato a margine del plenum del Csm, ricordando che la medesima opinione era stata espressa dall’avvocato generale Nello Rossi. Se a ciò si aggiunge l’annunciato sciopero da parte dell’Unione delle Camere Penali italiane, si capisce quanto all’interno del Pd si sia fatta largo l’idea di aver impresso un’improvvida accelerazione sull’iter di approvazione del ddl. Dubbi che avevano trovato sfogo, già nella giornata di martedì, nelle parole espresse su Twitter dal presidente del Pd Matteo Orfini: "Le sollecitazioni di Cantone sul Codice Antimafia meritano di essere approfondite. Lo faremo appena il testo tornerà alla Camera". A queste difficoltà si sono poi andate ad aggiungersene altre di natura più squisitamente politica. Il leader di Alternativa Popolare Angelino Alfano aveva gelato tutti nella mattinata annunciando che il suo partito si sarebbe determinato secondo coscienza al momento della votazione, ribadendo quanto già dichiarato a palazzo Madama da Laura Bianconi. "I molti di noi che non lo condividono - ha spiegato il ministro degli Esteri - potranno in piena in piena tranquillità non votarlo. Alla Camera chiederemo robusti cambiamenti al testo". Una libertà di voto che ha fatto scattare più di qualche campanello d’allarme all’interno della maggioranza che, come è noto, a palazzo Madama gode di numeri assai risicati. Una libertà che, peraltro, è da intendersi come un voto contrario al nuovo Codice, come esplicitato nel pomeriggio da Roberto Formigoni. "Non voterò il provvedimento Antimafia, che presenta numerose contraddizioni e numerosi limiti, fra l’altro evidenziati in questi giorni da diverse personalità ed esperti. E certamente non mi fa cambiare idea l’assicurazione del Pd che il provvedimento sarà cambiato alla Camera. È noto che alla Camera il Pd è maggioranza assoluta, e quindi è al Senato che andrebbero inseriti i cambiamenti, se davvero si volesse un provvedimento migliore e condiviso". A dimostrazione ulteriore che i margini di manovra per eventuali trattative sono da considerarsi prossimi allo zero. Questo il quadro in cui oggi si dovrebbe riprendere l’esame del ddl con la votazione finale. Il condizionale, però, è d’obbligo in quanto il Pd, con il passare delle ore, si accorge sempre di più di essersi cacciato davvero in bel guaio. Codice antimafia. L’indiziato dovrà dimostrare la legittima provenienza dei beni di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 6 luglio 2017 Sulle modifiche del "codice antimafia" il Pd tira dritto. Nonostante il fronte dei "per- plessi" sulla norma in discussione al Senato si stia ampliando sempre di più - un fronte trasversale composto da alti magistrati, costituzionalisti, politici (anche di sinistra) - i Cassazione Canzio, solo per fare qualche nome, hanno in queste ore espresso forti dubbi sulle effettive conseguenze che l’approvazione di questo provvedimento potrebbe avere. Il punto più discusso è quello che riguarda la possibilità di estendere l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale anche a chi sia indiziato di un reato contro la Pa. Attualmente agli indagati per questi reati è possibile sequestrare e poi confiscare i beni solo dopo aver accertato che siano corpo del reato, o comunque frutto del reato o del reimpiego dei beni profitto del reato. Con le modifiche proposte, come per i mafiosi, si estenderebbe ai corrotti quanto previsto dalla legge "La Torre" del 1982, cioè la regola del c. d. "doppio binario". Quindi un parallelo ed autonomo procedimento di prevenzione, nel quale, a prescindere dai tempi e dall’esito del processo penale, si valuta la provenienza dei beni dell’indiziato di reati contro la Pa, con l’introduzione dell’inversione dell’onere della prova. Toccherà all’indiziato dimostrare la legittima provenienza dei beni, in mancanza della cui prova, il bene verrà confiscato dallo Stato. Rispetto al testo originario è stata prevista l’abitualità della condotta, oltre alla presenza del vincolo associativo. Elementi che dovrebbero "arginarne" gli effetti. Di diverso avviso il senatore del gruppo Ala-Sc Vincenzo D’Anna. "Il Pd - dice D’Anna - rincorre la logica giacobina del M5S: il trio meraviglia dell’antimafia militante e inconcludente Casson - Lumia - Capacchione, ha confezionato un ulteriore castigo per coloro che commettono reati contro la pubblica amministrazione e cioè la confisca dei beni". "Se un sindaco - prosegue D’Anna - usa impropriamente l’auto di servizio oppure commette un reato qualsiasi, può essere soggetto alla confisca dei beni. Aggiungete che la prescrizione, per qualunque tipo di reato contro la Pa, arriva fino a 30 anni, vorrà dire che i prossimi amministratori li cercheranno col lanternino tra i truffatori e i ladri che rischiano pur di rubare ed intrallazzare. Il resto resterà a casa". Giustizia e informazione, va eliminato il mercato degli atti giudiziari di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 6 luglio 2017 Con un recente intervento su la Repubblica, Raffaele Cantone ha rispolverato un tema tuttora ignorato dalla politica, nonostante si stia discutendo di importanti e non sempre condivisibili riforme del codice di procedura penale. Cantone auspica che i giornalisti possano finalmente accedere direttamente agli atti di indagine, nel rispetto dei diritti delle parti coinvolte nel processo, per svolgere tutti ed al meglio il loro lavoro; non sollecita, però, il necessario intervento legislativo, bensì un dibattito, l’ennesimo che, come gli altri, risulterà del tutto inutile. Non si tratta, infatti, di un’idea nuova, che necessiti di un confronto, visto che l’instancabile Luigi Ferrarella ne parla da anni sul Corriere della Sera e non solo, condividendola con diversi giuristi e, da ultimo, con alcuni esponenti di spicco della magistratura. Tutti gli addetti ai lavori oramai si rendono conto della necessità di un intervento che liberalizzi tale accesso, autorizzandolo e disciplinandolo, mentre è assordante il silenzio di chi dovrebbe dar seguito agli auspici, introducendo nel codice i necessari correttivi. Nulla di più semplice, visto che l’articolo 114, comma 7 del Codice di procedura penale consente già la pubblicazione degli atti non segreti, siccome noti all’indagato; basterebbe aggiungere solo che, a tal fine, il giornalista può averne copia dai competenti uffici, al pari delle altre parti interessate. E si potrebbe farlo, utilizzando uno dei molteplici e poliedrici provvedimenti sulla giustizia, senza trincerarsi dietro la comoda scusa che altri e più importanti sono i problemi da risolvere, la disciplina delle intercettazioni, per dirne una, che è strettamente connessa, però, alla loro successiva diffusione e, quindi, alle modalità con le quali i giornalisti possono entrarne legittimamente in possesso, quando l’indagato ne ha preso cognizione, certo trattandole, al pari degli altri atti di indagine, con garbo e professionalità, oltre che secondo legge. Finora nessuno è parso porsi il problema per tentare di risolverlo, eppure chiunque abbia a cuore la democrazia e una buona informazione percepisce il vulnus che arreca all’una e all’altra la attuale totale mancanza di regole, che consentano al giornalista di chiedere ed ottenere ufficialmente copia degli atti giudiziari, quando non sono più segreti. A cascata ne derivano, infatti, la necessità di procurarseli di straforo, la difficoltà di trovare qualcuno disposto a dare una mano ed il forte rischio che la fonte sia interessata e, perciò, parziale. Ciò comporta una visione altrettanto parziale della vicenda processuale e la possibilità che la cronaca non sia esauriente, completa e, perciò, corretta per le parti ed appagante per chi voglia informarsi. Dunque, tutto tace sul fronte legislativo e c’è da chiedersi se davvero il potere ha voglia di lasciar le mani libere al suo guardiano, in un settore così sensibile, al punto da agevolare un accesso totale ed indiscriminato agli atti di indagini anche delicate, che spesso coinvolgono esponenti di spicco di questo o di quel partito, di questo o di quell’altro settore dell’economia. O se, piuttosto, non preferisca lasciare le cose come stanno, mantenendo intatta l’ambiguità dei rapporti fra giornalisti e fonti, sperando che prevalga l’interesse al silenzio, che accomuna le parti coinvolte nelle indagini. C’è da scommettere - ma sarebbe davvero un sollievo perdere - che tutto rimarrà così com’è. Quieta non movere et mota quietare dicevano gli antichi e mai motto è apparso più calzante per chi sembra preferire lo status quo, un equilibrio fragile, che favorisce il manovratore e convenienze di compromesso, sedando con l’inerzia chi dovesse apparire un po’ troppo agitato nel chiedere una riforma: il mercato degli atti giudiziari rimane aperto e non sempre chi vince è il migliore. Alpi-Hrovatin, il somalo in carcere da innocente per 17 anni chiede un maxi risarcimento tgcom24.mediaset.it, 6 luglio 2017 I suoi legali hanno presentato istanza per 12 milioni di euro. La famiglia Alpi, intanto, fa sapere che si opporrà alla richiesta di archiviazione dell’inchiesta. I difensori di Hashi Omar Hassan, il somalo che è stato in carcere per 17 anni in relazione agli omicidi di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin e poi assolto, chiedono un risarcimento da 12 milioni di euro per l’errore giudiziario subito dal loro assistito. L’ammontare rivendicato è basato sull’ingiusta detenzione e i danni morali, biologici e materiali, patiti da Hassan, secondo il calcolo degli avvocati Antonio Moriconi e Duale Douglas. Sull’istanza degli avvocati si dovrà pronunciare la corte d’appello di Perugia, ma nel frattempo la famiglia di Ilaria Alpi ha fatto sapere che proporrà opposizione alla richiesta di archiviazione della Procura di Roma sul duplice omicidio dell’inviata del Tg3 e dell’operatore Miran Hrovatin, avvenuti a Mogadiscio il 20 marzo 1994, e sui presunti depistaggi che avrebbero scandito l’inchiesta giudiziaria. Secondo Domenico D’Amati, legale della famiglia Alpi, "non è vero che non ci sono i moventi e le prove dei depistaggi, ce ne sono in abbondanza, ma non si vogliono leggere le carte". La stessa Luciana Alpi, madre di Ilaria, ha espresso sconcerto per la conclusione dell’inchiesta della procura di Roma. Ora il gip dovrà fissare un’udienza, che quasi certamente si dovrebbe tenere entro la fine dell’anno. "Omicidio stradale" per il pedone che attraversa con il rosso e causa incidente mortale siciliainformazioni.com, 6 luglio 2017 Cassazione - Sentenza n. 32095/2017. Attraversare la strada distratti, provocando un incidente stradale, può portare in carcere. È questa l’ultima decisione della Suprema Corte che ha condannato un pedone, Massimiliano Lepratti, che aveva provocato la morte di un motociclista che arrivava dal senso opposto e che, dopo esser stato sbalzato dalla sella, era finito contro un palo della segnaletica stradale. Il pedone, di 51 anni, aveva attraversato la strada con il rosso subito dopo essere sceso da un autobus. La vittima, Salvatore Zammataro, vide spuntare all’improvviso il pedone e fino a un istante prima era coperto dalla sagoma del bus 91. Oltre al carcere, il pedone deve risarcire i familiari del centauro con 150mila euro di indennizzo, in base a quanto statuito dalla Corte di Appello di Milano. Il motociclista morì per le gravissime lesioni alla testa e al torace riportate nell’impatto. Ad avviso della Cassazione - sentenza n. 32095/2017 - "tenuto conto dell’assenza di tracce di frenata, della presenza di almeno un mezzo di grosse dimensioni che occultava la visibilità dei pedoni e della rapidità con cui è avvenuto l’investimento del Lepratti, correttamente i giudici di merito, hanno concluso che lo Zammataro si trovasse a così breve distanza dall’attraversamento pedonale, da non poter utilmente arrestare il proprio veicolo in condizioni di sufficiente sicurezza anche volendo ipotizzare che il semaforo proiettasse per i veicoli luce gialla e non verde". Sardegna: morto dopo due mesi di sciopero della fame l’indipendentista "Doddore" di Alberto Pinna Corriere della Sera, 6 luglio 2017 Arrestato il 28 aprile scorso, Salvatore "Doddore" Meloni aveva annunciato il gesto entrando in carcere e sventolando un libro dell’indipendentista irlandese Bobby Sands. È entrato in carcere sventolando un libro di Bobby Sands, l’indipendentista irlandese lasciatosi morire nel 1981 in carcere dopo un lungo sciopero della fame. "Farò come lui" aveva annunciato a denti stretti. È stato di parola, Salvatore "Doddore" Meloni, una vita di "lotta - diceva lui - per la liberazione della Sardegna dalla tirannia dello Stato italiano": ha rifiutato cibo per 66 giorni ed è morto in ospedale, piantonato nel suo letto, da detenuto. "Tutti sapevano, era gravissimo" ha denunciato il suo difensore, Cristina Puddu, che ha presentato due richieste di concessione della detenzione domiciliari. Respinta la prima perché le sue condizioni di salute sono state ritenute "compatibili con la detenzione in carcere". Senza risposta la seconda, quando Meloni era stato già trasportato all’ospedale "in condizioni disperate", dice ancora l’avvocato. È morto dopo due giorni di coma: arresto cardiaco. La militanza per l’indipendenza - Clamori e polemiche, fino all’ultimo atto; pochi giorni fa il consiglio regionale aveva chiesto quasi unanime che fosse liberato: poteva essere salvato? Sulla scena politica sarda da più di 50 anni, Doddore Meloni era all’inizio militante e dirigente del Partito Sardo d’Azione. Ma era uscito sbattendo la porta: "Sono come gli altri partiti: non mai vogliono separare dall’Italia". Alla fine degli anni ‘70 l’arresto e l’accusa: cospirazione, per aver organizzato insieme ad altri 13 (fra i quali un cittadino libico) un "complotto" con l’obiettivo di fare della Sardegna una repubblica indipendente sotto la protezione della Libia di Gheddafi. Condanna a 9 anni di carcere, scontati. E anche allora sciopero della fame e morte sfiorata. Riuscirono a salvarlo con l’alimentazione forzata. La Repubblica di Malu Entu - Qualche tempo di silenzio: "Ho promesso alla mia famiglia di starmene tranquillo fino ai 65 anni". Ritornò con un’iniziativa clamorosa, l’occupazione dell’isola di Mal di Ventre, disabitata e di proprietà di un nobile eccentrico inglese, al largo della coste di Oristano. Con un manipolo di indipendentisti fondò la Repubblica di Malu Entu (nome dell’isola in sardo). Una tenda sulla spiaggia, una bandiera. Si proclamò presidente e nominò sei ministri. "Chiederemo il riconoscimento dell’Onu". Mostrò il vessillo, rossoblù con un cerchio al centro costellato di bronzetti nuragici, annunciò che avrebbe battuto moneta: "Si chiamerà Shardana". L’indagine per evasione - Indipendentista vero (e pericoloso) o personaggio folkloristico, abile press agent di se stesso? Polizia, carabinieri e magistrati hanno a lungo coltivato questo dubbio. Così fra comparse nelle aule di giustizia, dove pretendeva di essere interrogato in lingua sarda, cortei in verità non molto numerosi ("Ma un giorno la Sardegna intera si ribellerà") e sit in di protesta, Doddore Meloni è incespicato su un’indagine per frode fiscale e falso. La sua azienda di autotrasporti non pagava le tasse: evasione per circa 7 milioni. "Non pago - sosteneva - perché non riconosco lo Stato italiano". Processi e condanne a raffica, pene cumulate per poco meno di 9 anni, quasi quanto ne aveva avuto per il "complotto" all’ombra di Gheddafi. L’arresto - Meloni è stato arrestato il 28 aprile scorso. "Non avevo intenzione di fuggire, andavo a costituirmi in carcere. Hanno inscenato un inseguimento e mi hanno bloccato". Si dichiarò "prigioniero politico" e annunciò sciopero della fame e della sete ad oltranza: "Come Bobby Sands" disse mentre veniva caricato su un’auto dei carabinieri, mostrando il libro dell’indipendentista irlandese. Lo sciopero della fame - Non era folklore. "La sua volontà è ferma, assoluta, irremovibile", aveva segnalato da subito l’avvocato Puddu. L’aver ripreso a bere, ma soltanto pochi sorsi d’acqua al giorno, ha forse fatto credere che non facesse sul serio. Anche la moglie aveva capito che nulla avrebbe potuto fare per fermarlo. "È più forte di lui. Le sue idee sono quelle e io le rispetto". La morte - Era già debolissimo e a stento parlava, Meloni, quando un mese gli fu riferito che la Cassazione aveva cancellato le condanne di primo e secondo grado (poco più di un anno di reclusione) per aver causato danni ambientali durante l’occupazione dell’isola di Mal di Ventre. A giugno il crollo fisico: "Il perdurare del digiuno, l’età del paziente e il clima caldo umido di questi giorni potrebbero fare precipitare in modo repentino le condizioni di salute", l’allarme dato dal medico che lo aveva visitato in carcere, non sufficiente per il via libera alla detenzione domiciliare. Quando l’ambulanza è uscita dal carcere di Uta con Doddore steso in barella e semincosciente, era ormai troppo tardi e il suo avvocato già notificava "tutte le azioni necessarie per accertare eventuali responsabilità penali da parte dell’amministrazione sanitaria e carceraria". Parma: la Cassazione "ha 91 anni ed è malato, toglietelo dal regime di 41bis" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 luglio 2017 La Cassazione ha accolto il ricorso dei legali di Giuseppe Farinella contro la proroga del 41 bis. Il boss, condannato all’ergastolo nel 2008 per concorso nelle stragi di Capaci e via D’Amelio, ha 91 anni e presenta delle gravi patologie tanto da essere ricoverato - sempre in regime di 41 bis presso il "repartino" penitenziario ospedaliero di Parma dove c’è anche Totò Riina. La Cassazione invita il tribunale di sorveglianza a valutare "la rimozione del regime differenziato, ferma restando la permanenza in carcere". Dopo la decisione del giudice di sorveglianza di Roma di anticipare l’udienza al 13 luglio per Marcello Dell’Utri, l’ex senatore di Forza Italia che si trova in gravi condizioni di salute, arriva una decisione della Cassazione simile a quella di Totò Riina. Per Marcello Dell’Utri originariamente la data per l’esame della vicenda relativa allo stato di salute e alla sua compatibilità con il regime carcerario era fissata al 21 settembre. I magistrati di sorveglianza hanno così recepito la sollecitazione giunta dal Garante nazionale delle persone detenute Mauro Palma, il quale ha espresso seria preoccupazione per le condizioni evidenziate in atti documentali e ha quindi auspicato che "ogni decisione in merito al suo caso, da parte della magistratura di sorveglianza non vada al di là di tempi ragionevoli, al fine di tutelare, qualunque sia la forma che verrà decisa, la sua salute, che referti medici riportano come particolarmente critica". La Corte di Cassazione si espressa sul ricorso presentato dai legali dell’ergastolano Giuseppe Farinella, 91 anni, contro la proroga del 41 bis. Il boss, condannato all’ergastolo in via definitiva nel 2008 per concorso nelle stragi di Capaci e via D’Amelio in quanto capo del mandamento di cosa nostra di San Mauro Castelverde, presenta delle gravi patologie tanto da essere ricoverato sempre in regime di 41 bis - presso il "repartino" penitenziario ospedaliero di Parma dove c’è anche Totò Riina. Si tratta di un piccolo reparto composto da tre stanze e occupate dai tre detenuti al 41 bis, malati e con età avanzata. Nell’accogliere il ricorso, la Cassazione sottolinea il principio previsto dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali per cui vige il divieto di infliggere al condannato trattamenti contrari al senso di umanità, e per questo ordina al tribunale di sorveglianza (che ha respinto l’istanza) di pronunciarsi nuovamente valutando la "possibile incidenza delle condizioni di salute (unite all’età particolarmente avanzata)", il "divieto di trattamento inumano e degradante", e "l’attuale pericolosità" del detenuto, cui il regime carcerario differenziato vieta contatti con l’esterno. I magistrati di sorveglianza, nel respingere la richiesta, avevano scritto che pur in presenza di condizioni di salute indubbiamente gravi, le patologie "non incidono sullo stato mentale e sulle capacità cognitive del soggetto recluso" e quindi sulla sua possibilità di comunicazioni con l’esterno. Per la Cassazione, invece, considera rilevante la sua situazione patologica obiettivamente grave che, unità all’età avanzata, potrebbe determinare un concreto rischio di trattamento inumano o degradante. Quindi invita il tribunale di sorveglianza a valutare se la proroga comporti un "aggravamento delle condizioni di vita del soggetto", e se così fosse sarebbe "necessaria la rimozione del regime differenziato, ferma restando la permanenza in carcere". In secondo luogo, spiegano i giudici, non è possibile affermare, per giustificare la necessità della conferma del carcere duro, che il pericolo di comunicazione con l’esterno venga a mancare solo in presenza di "patologia psichica totalmente invalidante". Va invece considerata "l’incidenza dello stato patologico, eventualmente insorto". Come nel caso di Farinella, spiega il collegio, "caratterizzato peraltro dalla esistenza di un fattore obiettivo di aggravamento della condizione fisica correlata all’età". Santa Maria Capua Vetere (Ce): "carcere senz’acqua per ritardi del Comune sui lavori" Il Mattino, 6 luglio 2017 Niente sottovalutazioni, ma azione. È questo ciò che chiedono gli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere con tre comunicati distinti: quello dello Uil-Pa, del Sappe e della Cgil Campania. Mentre sul caso interviene anche il consigliere regionale, Stefano Graziano che oltre due anni fa cercò e trovò i fondi in Regione per finanziare i lavori di due milioni di euro - dal Ministero arrivò un "no" secco - dal carcere fanno sapere che attendono con ansia la gara, in Comune a Santa Maria Capua Vetere, per l’affidamento del progetto di creazione di una condotta idrica che conduca direttamente alla casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. "Bisognerebbe capire in che modo venne concessa l’agibilità alla struttura molti anni fa - dice Graziano - non è possibile dare per buona l’ipotesi che, in fondo, l’allacciamento alla rete comunale poteva andar bene". La carenza idrica è legata a filo doppio proprio all’allaccio sulla rete comunale del sistema idrico che giunge nella casa di reclusione. "Inoltre - continua Graziano auspico che il Comune di Santa Maria Capua Vetere faccia in fretta per indire la gara, noi come Regione abbiamo fatto l’impossibile". E intanto, dopo la richiesta della deputata Pd Camilla Sgambato e della senatrice Pd, Rosaria Capacchione direttamente al ministro Andrea Orlando, arriva una interrogazione del Movimento Cinque Stelle del Comune di Santa Maria Capua Vetere a firma di Teresa De Bernardo e Silvia Cauli: "Chiediamo l’intervento del Comune non più procrastinabile - scrivono i grillini - la mancanza di una rete idrica con accesso all’acqua corrente, sin dall’anno della sua apertura, nel 1996, fa si che puntualmente con l’arrivo della stagione estiva, il carcere vada in crisi per carenza idrica. Con delibera della Giunta regionale numero 142 del 5 aprile 2016 è stato approvato lo schema di protocollo di intesa tra la regione Campania e il Comune di Santa Maria Capua Vetere per la costruzione di una condotta idrica a servizio della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere e delle aule bunker, programmando una spesa di 2.190.000 euro. Il protocollo è stato sottoscritto il 4 agosto 2016 dal sindaco del Comune di Santa Maria Capua Vetere Antonio Mirra e la Regione Campania. Così, con anno di avvio dell’opera 2016 considerato inoltre che il 4 Ottobre 2016 la senatrice del Movimento 5 Stelle, Vilma Moronese, ha inviato un’interrogazione all’attenzione del Ministro della Giustizia sulle problematiche del carcere e il 3 Luglio 2017 la Sgambato, denunciava l’immobilismo del Comune di Santa Maria Capua Vetere, chiediamo di sapere se corrispondono al vero le dichiarazioni rilasciate a mezzo stampa dalla deputata Camilla Sgambato e cioè se le somme necessarie alla costruzione della condotta idrica stabilite con il protocollo di intesa sottoscritto il 4 agosto 2016 dal sindaco sono già nelle disponibilità dell’Ente". Sullo sfondo, la Cgil con un comunicato spiega: "La struttura del carcere di Santa Maria è di recente costruzione con 970 detenuti a fronte di una capienza di 833 unità, nella quale il progetto non ha tenuto conto dell’assenza dell’allacciamento dell’acqua. Si può immaginare quanto questa gravissima situazione stia determinando condizioni di invivibilità e di allarme fra i reclusi, ma anche tra il personale addetto. Il tutto nel pieno della calura estiva". E così, non potendo più sopportare la carenza d’acqua in una struttura come il carcere, la Fp Cgil chiede un intervento del Ministero della Giustizia, di quello delle Infrastrutture e delle Amministrazioni locali interessate per un rapido rimedio a una condizione di "autentica disumanità". "Non è più tollerabile - si legge ancora in una nota del segretario regionale Gaetano Placido - in un paese civile pensare a soluzioni tampone, come quelle adottate dalla Direzione dell’Istituto attraverso l’utilizzo di pozzi artesiani, che consentono solo docce razionate, acqua ad intermittenza, con il pericolo incombente di gravi rischi igienico sanitari". Intanto, il sindacato della polizia penitenziaria Uilpa parte con l’affondo: "In questi giorni di blackout elettrici e idrici e di sommosse annunciate dai detenuti, abbiamo ricevuto solerti promesse di interessamenti - dice Domenico Di Benedictis - ma proprio quando c’erano le promesse poi non è successo nulla. Per questo motivo noi continuiamo sulla nostra strada: ci asterremo dalla mensa fino a quando la situazione non verrà risolta". Sulmona (Aq): nel nuovo ospedale ci sarà un reparto per il ricovero dei detenuti cityrumors.it, 6 luglio 2017 "Nel nuovo ospedale di Sulmona verrà realizzato un reparto per detenuti che, grazie a una variante, sarà migliorativo rispetto a quanto già previsto nel progetto originario". Lo ha reso noto il Manager della Asl, Rinaldo Tordera, spiegando che "nel recente incontro con i vertici del carcere di Sulmona i nostri tecnici hanno preso atto delle richieste prospettate dalla direzione del penitenziario e l’hanno recepite negli atti progettuali. Il nuovo reparto per detenuti sarà quindi realizzato, all’interno del nuovo ospedale attualmente in costruzione, proprio in base alle necessità degli operatori penitenziari che devono accompagnare le persone ristrette bisognose di assistenza". "Nello specifico, verranno realizzate 2 stanze di degenza riservate a detenuti, rispettivamente con uno e due posti letto nonché bagni annessi, e una terza stanza, anch’essa dotata di servizi igienici, che accoglierà il personale di sorveglianza addetto al piantonamento. Il reparto di cui parliamo sarà collocato al terzo piano del nuovo ospedale, in una posizione vicina alle scale d’emergenza, e avrà una superficie di circa 70 metri quadrati che, tra l’altro, comprenderanno anche una piccola anticamera". "Avremmo potuto limitarci - conclude Tordera - ad attuare quanto previsto dal progetto iniziale, sicuramente meno adeguato alle necessità degli agenti penitenziari e con soluzioni logistiche meno efficaci; invece siamo andati oltre, ascoltando e accogliendo appieno le richieste avanzate dalla direzione dell’istituto di pena". Perugia: il ministro Orlando convoca un incontro sulla situazione del carcere senatoripd.it, 6 luglio 2017 "Il ministro Orlando ci ha annunciato la decisione di convocare, la prossima settimana, il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Umbria, Giuseppe Martone, e la direttrice del carcere di Capanne, Bernardina Di Mario, per fare il punto ‘sulla situazione del carcere di Perugia e verificare quali risposte dare davanti alle emergenze di questo ultimo periodo". Lo rendono noto i senatori umbri del Pd Nadia Ginetti, Valeria Cardinali e Walter Verini, dopo aver incontrato il guardasigilli oggi a Roma per "rappresentare al ministro della Giustizia le istanze raccolte nel corso di una recente visita al presidio dei sindacati di polizia penitenziaria presso il carcere di Capanne". "Avevamo assunto l’impegno - spiegano - di rappresentare al più presto le criticità relative al sistema carcerario umbro e, in particolare, le problematiche che investono il personale impiegato presso il carcere di Capanne. Si tratta di un primo importante impegno che ci auguriamo possa portare in tempi brevi - concludono i parlamentari del Pd - alla risoluzione dei problemi più sentiti dal personale della polizia penitenziaria, dagli operatori e dagli stessi detenuti". Catanzaro: incontro nel carcere di Siano con la Calabria dolente di Filippo Veltri zoomsud.it, 6 luglio 2017 L’altro giorno - su invito della bravissima direttrice del carcere di Catanzaro, Angela Paravati - sono stato per tre ore a discutere con quasi 200 detenuti, in una sala strapiena del penitenziario nel quartiere Siano, sulla Calabria dolente. Esperienza coinvolgente ma anche sconvolgente per molti tratti, visto che lì dentro, in quell’umanità reclusa, arrivano distintamente e senza alcuna eccezione i problemi della nostra terra; vengono colti e dibattuti in un laboratorio di lettura e di scrittura e, quando ce n’è l’occasione come l’altro giorno, messi a confronto con l’ospite. Anzi gli ospiti, visto che con me c’era anche la consigliera regionale Wanda Ferro. Quello che è venuto fuori è uno spaccato di richieste e di domande che vanno ben al di là del carcerario in senso stretto, o della legalità, o della critica al funzionamento della giustizia. Temi, cioè, attesi e normali. No: anche fin dentro quelle mura altissime arriva l’eco seppur soffusa di un dibattito sulla Calabria che soffre e sulla Calabria che potrebbe essere raccontata, letta, diretta, gestita in un altro modo. In un testo che mi hanno consegnato i detenuti hanno addirittura ricopiato una frase di Mao Tse-Tung: "Non siamo solo capaci di distruggere il vecchio mondo, siamo anche capaci di costruirne uno nuovo". E detto da loro fa riflettere… Un detenuto mi ha poi consegnato quest’altra frase: "Credo sia necessario ripartire dalle cose buone, ritornando un po’ indietro con il tempo". Un altro andando più nel profondo: "Siamo noi meridionali che ci siamo rifiutati di diventare società, rimanendo una comunità dalle ristrette vedute o è lo Stato che non ha fatto nulla per favorire la trasformazione della comunità meridionale in società comune?". Pietro Oppedisano è stato il detenuto che ha letto il testo introduttivo al serrato dibattito: quattro fogli scritti a mano, densi e con mano sicura. Ha chiuso con due domande: quali forze occulte costringono la Calabria a vivere nell’isolamento completo? Quali partiti politici giocano sulle nostre speranze? Gli abbiamo risposto che di forze occulte non se ne vedono, sono tutte pubbliche e note quelle che ci costringono a questo stato di cose e che la colpa ricade tutta su di noi, nel bene e nel male, e che a fare le vittime non ci si guadagna granché. Sui partiti politici abbiamo steso un velo, più o meno pietoso, ma lasciando ovviamente aperta la speranza. E non tanto per il luogo in cui avveniva questa discussione ma perché - e sta qui il cuore e la bellezza stessa di quel confronto - se coltivano possibilità di cambiamento persone che hanno sulla loro testa anni di galera già scontati e da scontare, o persino ergastolani (e c’erano l’altra mattina e sono stati i più fiduciosi per certi aspetti) allora il problema che noi abbiamo fuori da quelle mura è doppiamente più arduo e responsabilizzante. Lavorare sul troppo che non va ma cambiare la narrazione della Calabria, agire sulle leve di novità per responsabilizzare la gente, per non coprire il poco di buono che c’è con il manto del nero: sarebbe uno sforzo che tutti dovrebbero compiere ma - si sa - è tanto più facile urlare che cercare di capire. Quei detenuti di Siano, però, anche loro, persino loro ci chiedono l’esatto contrario. E sono cittadini italiani e calabresi e meridionali pure loro. Monza: convegno "Il lavoro in carcere, un’occasione per tutti" di Paola Biffi ildialogodimonza.it, 6 luglio 2017 Sul carcere si dice sempre troppo o troppo poco, è difficile non perdersi in un discorso pieno di contraddizioni, forse perché il carcere è ad oggi una delle dimensioni sociali ancora più controverse. Tra il parlarne troppo o stare in silenzio la scelta migliore rimane comunque la prima: la riflessione sul sistema penitenziario e riabilitativo, sulle condizioni di vita dei detenuti, sui doveri legali e morali della comunità dev’essere costante e sempre attiva. Per queste ragioni il progetto della Casa Circondariale di Monza e Brianza, presentato in una luminosa sala dello Sporting Club martedì 27 giugno, ha ragione di essere ascoltato, promosso e condiviso, perché rappresenta la messa in campo non solo di intenzioni ma di una concreta attività di confronto e ricerca per garantire nuove opportunità ai detenuti che hanno finito di scontare la pena. Il convegno "Il lavoro in carcere, un’occasione per tutti" ha visto la partecipazione di diverse figure, istituzionali e non, unite dall’obbiettivo di far conoscere la necessità sociale e umana di permettere ai detenuti una possibilità di cambiamento e riabilitazione grazie al lavoro. Il lavoro, come ha sottolineato il Prefetto di Monza e Brianza Giovanna Vilasi, è infatti l’anello di congiunzione tra il carcere e la società, il forse unico strumento in grado di creare una strada tangibile di allontanamento dalla delinquenza. La cittadinanza tutta ha il dovere morale di concorrere e contribuire a rendere possibile questo cambiamento. Il neo-sindaco Dario Allevi, che ha aperto il convegno, ha ricordato la difficoltà incontrata nel trovare imprese disponibili a partecipare a un bando che incentivava l’assunzione di ex detenuti, rifiutando un’opportunità non solo per chi è assunto ma anche per chi assume. Per questi motivi la Casa Circondariale di Monza è giunta alla conclusione, che è poi diventata un inizio, di dover necessariamente creare una rete di confronto e ricerca tra i diversi enti impegnati nel progetto di reinserimento, come spiega Maura Traverso, Presidente della Camera Penale di Monza. Avvocati, giudici, commercialisti, rappresentanti di imprese, educatori e detenuti si sono seduti a tavolino per capire quali sono i punti da seguire e da evidenziare per migliorare il reinserimento lavorativo degli ex detenuti. Il direttore della Casa Circondariale Maria Pitaniello, ricordando l’Articolo 27 della Costituzione, ha sottolineato come il lavoro sia la dimostrazione attiva di un cambiamento, il motore stesso che trasforma l’impotenza in utilità, la vera chiave di apertura della cella. Come dalla teoria passare alla pratica è stata la domanda che ha interessato la seconda parte del convegno, aperta dalle testimonianze di Marco Brivio, responsabile della Cooperativa Sociale 2000 e Alberto Biella, della Cooperativa Sociale Re Tech Life, che collaborano con la casa circondariale offrendo ad alcuni detenuti dei posti di lavoro dentro e fuori il carcere. Il lavoro, secondo Marco Brivio, è un modo per diminuire la distanza fisica e mentale da un luogo che è spesso nascosto e dimenticato, per questo la Cooperativa segue una serie di attività all’interno della struttura penitenziaria, quali per esempio la lavanderia, un laboratorio di imballaggio del legno, una falegnameria; attività manuali, pratiche che trasformano concretamente una volontà astratta in un oggetto tangibile. La Cooperativa Re Tech Life si occupa invece del percorso di reinserimento lavorativo di ex detenuti, aiutandoli trovare posti di lavoro stabili e soddisfacenti: Alberto Biella ha infatti sottolineato quanto un posto di lavoro, uno stipendio, una stabilità economica anche minima siano la componente essenziale per abbattere la recidiva e uscire realmente dalla delinquenza. La parola è poi passata a Federico Ratti, Presidente dell’ordine dei Commercialisti di Monza, e a Daniele Trezzi, Presidente dell’Ordine dei Consulenti del lavoro di Monza, i quali hanno definito i procedimenti legislativi che un’azienda deve compiere per assumere un ex detenuto, incentivata da un credito di imposta per le imprese di circa 520 euro. Ratti ha sottolineato la chiarezza della legislazione in merito, una semplificazione che ha il senso di motivare l’impresa all’assunzione dei nuovi lavoratori. L’assistenza di tipo normativo però, secondo il Magistrato Emanuele Mancini, non è sufficiente se manca la fiducia da parte dell’azienda verso il nuovo assunto. La diffidenza è infatti comprensibile anche dagli stessi detenuti che hanno partecipato al gruppo di lavoro, e bisogna creare anche in questo senso dei canali di avvicinamento alla realtà penitenziaria, una rete che riesca a trasmettere fiducia nell’imprenditore. In conclusione i relatori del convegno hanno deciso di dare parola ai veri protagonisti dell’incontro, circa 30 detenuti che lavorano presso le cooperative sopracitate e che hanno voluto raccontarsi attraverso una rappresentazione teatrale frutto di un progetto "S’Oggetti Smarriti…S.O.S." promosso dall’area educativa della Casa Circondariale di Monza, tenuto da Elisa Candida, regista e autrice dei testi insieme ai detenuti. Così, i tecnicismi, i dati, le parole importanti ma anche complesse, si sono trasformate in pane, masticate nelle scene di vita quotidiana rappresentate su un palco costruito da pochi, finalmente semplici, oggetti. "Carlos: sei lì seduto sul letto, prima eri seduto sulla sedia, poi ti ho sentito, di là, eri seduto sul cesso.? Lamai: tu ci stai delle ore al cesso, a me si blocca la circolazione, a te no?? Carlos: Dico si può vivere così? sdraiato, seduto sul letto, poi sulla sedia, poi sul cesso." "Ivan: -Lascia che ti dica cosa succede domani, ok? Li ho contati io, anche per te. Li ho contati quando sono entrato. Ho fatto fatica a non perdere il conto, lo sai, qui in cella ci si arriva a tappe: l’osservazione, l’infermeria, la sezione, la cella, sembra una via crucis! Lamai: - cosa hai contato? Ivan - i passi. Sono 4.598 passi, passo più passo meno. Ora tu li devi percorrere al contrario. Lamai - per andarmene Ivan - esatto! Un piede davanti all’altro, ma questa volta contali anche tu. Un respiro un passo, un respiro un passo, osserva tutto in torno a te, prendi nota per l’ultima volta dello squallore e della solitudine che ti lasci alle spalle." Palermo: "Classici in strada" al Sole Luna, con i detenuti-attori dell’Ucciardone ilsicilia.it, 6 luglio 2017 Giovedì 6 luglio alle 19 nel Complesso Monumentale di Santa Maria dello Spasimo, a Palermo, nell’ambito del Sole Luna Doc Film Festival, per la sezione #crearelegami, sarà presentato il progetto "Classici in Strada" che per tre anni ha sostenuto laboratori teatrali con i detenuti della Casa di Reclusione Ucciardone. Saranno presenti anche alcuni ex detenuti che hanno preso parte all’iniziativa. Interverranno la regista Preziosa Salatino (Teatro Atlante), Gabriella D’Agostino, direttrice scientifica del festival e docente di Antropologia Culturale presso l’Università di Palermo; Isabella Tondo, docente liceo scientifico Benedetto Croce e coordinatrice del progetto "Classici in Strada"; Francesco Chinnici, presidente Asvope (Associazione di Volontariato Penitenziario) e Maria Antonietta Spinosa, docente di filosofia alla Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia. Inoltre, dalle 16.30 alle 21 verrà proiettato in loop il video dello spettacolo teatrale "Don Chisciotte, sogni di giustizia" (Palumbo Editore). L’ingresso libero. Nel 2013 nasceva a Palermo il progetto "Classici in strada" ovvero una rete di scuole, l’Università e associazioni palermitane impegnate nel promuovere la conoscenza dei testi classici attraverso lo strumento del teatro, realizzando eventi in strade e piazze di quartieri storici come Ballarò o Borgo Vecchio, realtà ad alto tasso di immigrazione, di disagio sociale e di dispersione scolastica. Questo progetto, giunto quest’anno alla quarta edizione, prevede che la letteratura si studi in palestra, cucendo vestiti, montando luci e impianti, dipingendo pannelli, riscrivendo i testi, rappresentandoli in scena. Non si tratta soltanto di far conoscere in modo ‘direttò le opere dell’antichità, ma, soprattutto, di innescare o far crescere, attraverso la forza eversiva e di denuncia di un testo classico o la sua realizzazione teatrale, la riflessione sul grande tema della violenza, dell’esclusione, del conflitto. Nel 2015 il progetto varcava anche i cancelli della casa di reclusione Ucciardone, grazie alla collaborazione con l’Asvope Palermo (Associazione di Volontariato Penitenziario). I primi due anni sono stati dedicati a due grandi classici della letteratura greca, Omero ed Esopo, adesso raccontati in un emozionante libro che uscirà a breve, Attori del loro futuro. Note su un’esperienza di teatro in carcere. L’edizione di quest’anno dei "Classici in strada" - Orlando Furioso. Le donne, le armi e gli amori - ha individuato nella letteratura cavalleresca l’orizzonte con cui misurarsi. Per il laboratorio teatrale all’Ucciardone è stato scelto il Don Chisciotte, capolavoro di Cervantes, un autore che nella vita sperimentò anche la condizione di detenuto. Ci si è interrogati sul tema della follia, dell’utopia, sull’importanza del sogno e degli ideali di giustizia. Lo spettacolo ha visto rappresentati alcuni fra gli episodi più noti del romanzo: la lotta con i mulini a vento, l’osteria, il teatrino di Mastro Pedro, l’amore per un’improbabile Dulcinea, ma ci si è presi la libertà di modificarli, riscriverli, di stravolgerne l’ordine e le proporzioni, in collaborazione con gli "attori" dello spettacolo, mettendo in risalto, ad esempio, l’episodio della liberazione dei galeotti in cui la voce di Cervantes si mescola a quella di chi sperimenta sulla propria pelle la condizione di oppresso che auspica, anche inconsapevolmente, la possibilità di espiare la pena secondo i principi della giustizia riparativa. Migranti. Ius soli, la strettoia del Pd di Stefano Folli La Repubblica, 6 luglio 2017 Il tema dell’immigrazione sarà centrale nella campagna elettorale prossima ventura. La gestione dei migranti si presenta fin d’ora come la principale discriminante fra centrodestra e centrosinistra. È ormai chiaro che il tema dell’immigrazione sarà centrale nella campagna elettorale prossima ventura. Che si voti in febbraio o un po’ più in là, in aprile o maggio, la gestione dei migranti si presenta fin d’ora come la principale discriminante fra l’area del centrodestra e quella del centrosinistra. Non senza contraddizioni che toccano soprattutto il Partito Democratico. Esiste infatti un’area di sinistra che rimane fedele alla linea dell’accoglienza e della solidarietà come valori irrinunciabili: è il mondo che comprende il volontariato laico e soprattutto cattolico, con costante riferimento a papa Francesco; è anche un’area che sul piano politico si è riconosciuta fin qui nel Pd, almeno in una certa misura, ma che oggi è ben rappresentata nella galassia di sigle che stanno faticosamente tentando di riunirsi dietro l’iniziativa di Pisapia (e non è detto che ci riescano). Basta questo per comprendere che non c’è vera coesione all’interno del centrosinistra nel suo complesso. La frattura di fondo è sempre quella che sul piano dell’identità divide destra e sinistra. E le recenti elezioni comunali dimostrano che Salvini ha fatto abilmente i suoi conti, cogliendo lo smarrimento dell’opinione pubblica di fronte all’invasione" vera o presunta - e comunque ben enfatizzata - dei migranti. Con altrettanto fiuto politico Grillo si è spostato da tempo su posizioni molto simili, anzi è stato il primo a innescare la polemica sul ruolo delle varie sigle Ong. Quanto a Forza Italia, al nord i suoi esponenti non dicono cose diverse dalla Lega, evitando solo di condividerne l’estremismo nazionalista e anti-europeo. Il partito di Renzi è invece l’immagine di un dramma politico che non vedrà una soluzione tanto presto. E che si riflette nel modo sofferto con cui Gentiloni e Minniti stanno affrontando l’emergenza. Non c’è solo la sordità dell’Unione o l’estrema difficoltà di controllare gli arrivi ovvero, a maggior ragione, di stringere accordi con le mille tribù libiche in vista di frenare le partenze. Come un singolare mosaico, ogni tassello è connesso a un altro. Per cui la legge sullo "Ius soli", in origine bandiera di civiltà, si è rapidamente trasformata in un problema nel problema. Il passaggio cruciale del testo in Parlamento ha finito per coincidere con la grande ondata estiva degli sbarchi sulle nostre coste. E se è vero che le due questioni si sono sovrapposte nell’immaginario collettivo, contribuendo a spostare voti nei recenti ballottaggi, ecco che molti nel Pd cominciano a giudicare "inopportuna" l’approvazione della legge a tambur battente. Non si discute il merito, quanto la tempistica. Per cui in Senato nessuno si dispera per il rinvio di qualche giorno della discussione: è solo rimandata alla prossima settimana, ma non si esclude che - un passo dopo l’altro - lo "Ius soli" slitti a dopo l’estate. In altre parole, fra la destra che ha trovato nell’immigrazione il cavallo di battaglia capace di nascondere gravi carenze politiche nonché profonde spaccature interne e la nuova sinistra che rivendica la linea umanitaria come grande tema unificante, il Pd cammina lungo uno stretto sentiero. Rischia di perdere consensi a sinistra perché la sua posizione sui migranti non è abbastanza solidale (vedi le critiche in tal senso al ministro dell’Interno, anche nel governo); e a destra perché non sa imporsi in Europa e non rinuncia allo "Ius soli". Se Renzi dovesse impuntarsi e chiedere il voto di fiducia sulla legge, senza dubbio l’avrebbe vinta e il provvedimento passerebbe. Ma nel Pd rimarrebbero dubbi e mugugni, specie fra coloro che devono essere rieletti nei collegi a rischio, in particolare al nord. Se viceversa il segretario lasciasse decidere al Parlamento, allora il probabile slittamento della legge offrirebbe buoni argomenti all’arcipelago della sinistra (Pisapia e gli altri) per acquisire consensi a scapito di un Pd "destrorso". In entrambi i casi la scelta è ardua, ma è solo un aspetto della più generale questione migranti. Un tema suscettibile di decidere il futuro dell’Europa, certo, ma anche in tempi più rapidi il destino del centrosinistra. Migranti. Finite le minacce, oggi a Tallinn l’Italia è più sola di Carlo Lania Il Manifesto, 6 luglio 2017 Minniti mette le mani avanti: "È solo un vertice informale". E chiede più soldi per la Libia. I toni battaglieri con cui solo la settimana scorsa minacciava di chiudere i porti italiani se l’Europa non si fosse decisa ad accogliere i migranti, appartengono già al passato. Al punto che Renato Brunetta quasi li rimpiange: "Ministro Minniti torni quello che era qualche giorno fa, apra una crisi con l’Europa e avrà con sé il parlamento intero", dice il capogruppo di Forza Italia intervenendo alla Camera dopo il titolare degli Interni. E in effetti c’è da chiedersi dove è finita la sicurezza mostrata dal governo quando ancora pensava di poter convincere i partner europei - magari anche con le minacce - a condividere il peso degli arrivi dei migranti nel nostro paese. Il rifiuto di Francia e Spagna prima, e poi il piano d’azione della Commissione europea che concede poco o niente alle richieste italiane, hanno evidentemente convinto Viminale e Palazzo Chigi dell’opportunità di abbassare i toni. E in effetti nelle comunicazioni che nel pomeriggio fa prima alla Camera e in seguito al Senato Minniti pesa bene le parole. Non a caso parlando del vertice dei ministri degli Interni Ue che comincia oggi a Tallinn sottolinea ben due volte come si tratti di un summit "informale". Quasi a voler mettere le mani avanti anticipando che, probabilmente, sarà difficile che dall’Estonia possano arrivare buone notizie. Rispetto ai giorni scorsi, è un Minniti decisamente sulla difensiva quello visto ieri in parlamento. Il titolare del Viminale rivendica giustamente i numerosi salvataggi in mare compiuti dall’Italia ma spiega anche come dall’inizio dell’anno a oggi i migranti sbarcati siano ormai più di 85 mila, con un incremento del 18,4% rispetto allo stesso periodo del 2016. Numeri che hanno portato l’ambasciatore italiano a Bruxelles Maurizio Massari a muoversi con la Commissione europea prospettando la possibilità di un blocco degli scali per le navi delle Ong straniere. Per poi arrivare al mini-vertice di domenica scorsa a Parigi tra Minniti e i colleghi francese e tedesco. "Un incontro difficile, impegnativo - spiega il ministro alla Camera - ma era importante che un gruppo di paesi europei avesse una posizione comune da adottare al vertice di Tallinn". Risultato raggiunto? "È stato fatto un piccolo passo, ma un passo", riconosce Minniti ammettendo implicitamente che ci si poteva aspettare di più. A questo punto è chiaro che oggi l’Italia sarà praticamente sola a Tallinn nel chiedere una regionalizzazione dei salvataggi, lavorando anche sulla riscrittura delle norme che regolano la missione europea Triton. "È difficile pensare che ci possa essere una missione internazionale di salvataggio ma poi l’accoglienza viene fatta in un solo paese", aggiunge. La condivisione dei migranti salvati in mare è un punto decisivo per i governo ma sarà diffile che trovi ascolto in Europa. Francia e Spagna hanno già detto come la pensano. Stessa cosa l’Austria, nonostante la marcia indietro fatta ieri sul Brennero, mentre i Paesi dell’Est sono da sempre contrari ad accogliere i migranti. Minniti dovrà dunque faticare per convincere i colleghi europei a un ripensamento. Meglio per tutti quindi - Italia compresa - spostare l’attenzione sulle navi delle Ong impegnate nel Mediterraneo e alle quali si deve il 34% dei salvataggi. L’Italia sta preparando le regole del nuovo codice al quale dovranno attenersi in futuro e basato su un maggior coordinamento tra le organizzazioni umanitarie e la guardia costiera libica per i salvataggi nelle acque territoriali di Tripoli, ma anche sull’obbligo d avere a bordo un agente di polizia, cosa che dovrebbe risultare utile nelle azioni di contrasto dei trafficanti di uomini. Infine la Libia. Il piano della Commissione Juncker prevede la costituzione di un coordinamento dei soccorsi marittimi a Tripoli, scelta che quando diventerà operativa sottrarrà la gestione delle operazioni alla Guardia costiera italiana, almeno per i salvataggi in acque libiche. Tutto operò è inutile se non si arriva a una stabilizzazione del Paese. "Da lì arriva il 97% delle persone che sbarcano in Italia, ed è lì che dobbiamo intervenire", prosegue il ministro. "Ma la Libia non è la Turchia, la Libia è fragile, instabile e questo rende tutto più difficile". Minniti ricorda infine come la Commissione Ue abbia stanziato 150 milioni di euro da destinare al paese nordafricano per il 2017 e altri 200 per il 2018. "Ma non basta", dice. "C’è una sproporzione evidente tra quello che si è investito per la rotta balcanica (i sei miliardi di euro promessi alla Turchia, ndr), e quello che si sta investendo oggi nel Mediterraneo, ed è incomprensibile". Oggi a Tallinn forse verrà promesso qualche finanziamento in più. Ma al momento è tutto che l’Italia può sperare di ottenere. Migranti. "Spostare l’attenzione sulle Ong non serve: gli Stati si assumano responsabilità" La Repubblica, 6 luglio 2017 La dichiarazione di Concord Europe (Confederazione di 2600 Ong di 28 Paesi europei) in occasione dell’incontro di Tallinn dei Ministri di Giustizia e degli Interni europei che avrà luogo oggi e domani 7 luglio. La Confederazione che riunisce 2600 Ong di 28 Paesi europei - Concord Europe - si dice preoccupata dopo le recenti dichiarazioni in merito alla gestione dei flussi migratori a livello europeo. Dopo le minacce italiane di chiudere i propri porti alle navi che trasportano migranti e di istituire un codice di condotta per le Ong, si teme che nuove misure possano limitare la loro azione nel mar Mediterraneo, spostando l’attenzione, dalla mancanza di solidarietà tra gli Stati membri, alle organizzazioni della società civile. La dichiarazione congiunta rilasciata lo scorso 3 luglio dal Commissario europeo Dimitris Avramopoulos e i Ministri degli Interni di Italia, Francia e Germania, alimenta queste preoccupazioni. I Ministri dovranno discutere della minaccia italiana di impedire alle navi di salvataggio di attraccare nei porti europei e dell’introduzione di un codice di condotta obbligatorio per le Ong che minerebbe la loro capacità di prestare immediato soccorso in mare, per esempio vietando il trasferimento dei naufraghi sulle imbarcazioni delle Guardie Costiere e di Frontex. "Riscrivere le regole d’ingaggio". "È fondamentale evitare qualsiasi restrizione che possa ostacolare la capacità delle Ong e di qualsiasi altro attore di rispondere all’imperativo umanitario di salvare vite umane in pericolo", dice Francesco Petrelli, portavoce di Concord Italia. "Riscrivere le regole di ingaggio per le Organizzazioni della società civile non dovrebbe compromettere gli obblighi internazionali e i Trattati ratificati da tutti i paesi dell’Unione Europea. Se l’Ue è convinta della necessità di un codice di condotta, allora esso deve essere discusso con tutte le parti in causa, in particolare con le Ong e le organizzazioni umanitarie". Nella sola Italia, il numero degli sbarchi per i primi 5 mesi del 2017 ha raggiunto quota 60228. Mentre 6.896 migranti sono stati ricollocati dall’Italia dal momento del lancio del programma di ricollocamento adottato dal Consiglio nel settembre 2015. Urgente un accordo equo a livello europeo. Le migliaia di donne, uomini e bambini che scappano da guerre, povertà e persecuzioni non possono pagare il prezzo del disaccordo interno all’Europa sui ricollocamenti. La risposta dell’Ue deve basarsi su decisioni chiare e realistiche che garantiscano il ricollocamento all’interno di tutti gli Stati membri. Nessun paese di approdo può essere spinto - in assenza di una iniziativa europea comune - a prendere decisioni inaccettabili che minano gli obblighi umanitari. "Questa proposta riflette la volontà politica di non affrontare i veri problemi. Uomini, donne e bambini stanno fuggendo da violenza e conflitti mettendo a rischio la propria vita perché gli Stati Membri non si assumono la responsabilità di garantire canali di ingresso legali e sicuri per le persone che necessitano di protezione internazionale. Situazioni drammatiche lungo le coste libiche potrebbero essere evitate, ma un codice di condotta per le Ong che sostituiscono gli Stati Membri che non fanno il loro dovere non è la risposta giusta" dichiara Adeline Mazier, Segretario Generale di Coordination Sud, la piattaforma nazionale francese membro di Concord Europe. Migranti. Mignone (Unhcr): "oggi è impossibile chiudere la rotta del Mediterraneo" di Stefano Feltri Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2017 La Libia è ancora adesso così pericolosa che l’Onu non riesce neppure ad aprire un quartier generale. Realizzeremo dei siti a Sud per informare chi arriva sui rischi della traversata e aiutarlo a tornare indietro. Due giorni fa l’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, è riuscita a trovare un posto sicuro per sei donne in un altro Paese. Presto altre sette verranno messe al riparo, dopo che l’Unhcr è riuscita a farle uscire - perché titolari dello status di rifugiato - dalle carceri dove erano detenute, "avevano sofferto terribili abusi e tenute in schiavitù da un gruppo armato". Perché in Libia si procede così, goccia dopo goccia, persona dopo persona, nel posto più pericoloso del mondo. L’unico Paese in cui i funzionari internazionali dell’Unhcr non possono avere una base: solo il personale locale libico (40 persone) ha attività permanenti sul territorio. Il nuovo responsabile dell’Unhcr in Libia è un italiano, si chiama Roberto Mignone, un veterano delle aree di crisi, è arrivato due mesi fa da Ginevra, come parte di uno sforzo crescente dell’Unhcr nell’area. Mignone deve operare da Tunisi, con frequenti missioni in Libia ma senza poter installare lì il quartier generale. Troppo rischioso, la scorsa settimana un convoglio delle Nazioni Unite è stato attaccato da una milizia. Anche con questi limiti, negli ultimi 18 mesi l’Unhcr, guidato dall’alto commissario Filippo Grandi, è riuscita a far rilasciare 900 rifugiati e richiedenti asilo dai centri di detenzione. Oltre 90.000 persone nel 2017 hanno usato la Libia come punto di partenza verso l’Italia. Più di 2.000 sono morte in mare. Roberto Mignone, perché lavorare in Libia è così difficile? Io sono stato in Sud Sudan, in Iraq, nello Yemen, in Somalia, posti molto pericolosi, ma lì le Nazioni Unite possono operare con staff internazionale basato nel Paese. Mentre dalla Libia sono dovute uscire e ora tornarci è estremamente complicato. Inoltre la Libia non ha firmato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e non ha un sistema di gestione del diritto di asilo e non si fa carico dei rifugiati. Tutti coloro che entrano illegalmente, anche se titolari di diritto d’asilo, vengono detenuti. E quindi? Ci dobbiamo pensare noi. In primo luogo registriamo quelli che chiedono asilo: 42.000, soprattutto siriani, iracheni, palestinesi, un 10 per cento sono dell’ultimo anno e mezzo, e parte del flusso verso l’Italia. In Libia ci sono anche 250.000 sfollati libici più altre 250.000 persone che erano sfollate ma sono tornate. Noi lavoriamo con loro e con le comunità che li accolgono. Vi occupate anche dei migranti che partono via mare? Lavoriamo nei punti di sbarco: quando le barche dei migranti vanno verso l’Italia e vengono intercettati o salvati dalla Guardia costiera libica, poi vengono sbarcati in 12 punti che copriamo insieme all’Organizzazione internazionale delle migrazioni, che si occupa di migranti economici. Distribuiamo coperte termiche, vestiti, barre energetiche e ci sono équipe mediche per una prima assistenza. La Guardia costiera libica riesce a gestire il fenomeno? Ha bisogno di appoggi esterni per risultare efficace. Insieme all’Oim, stiamo lavorando con loro e il ministero della Giustizia per programmi di formazione e per definire modi di intervento conformi al diritto internazionale. È possibile chiudere la rotta mediterranea delle migrazioni come è stato fatto con quella balcanica? In questo momento no, e comunque bisogna lavorare su una strategia regionale. Come abbiamo visto in Grecia, è molto difficile agire in quello che per i migranti e rifugiati è soltanto un Paese di transito. Che si può fare di concreto? Stiamo cercando di aprire alle frontiere Sud di entrata Libia tre antenne dell’Unhcr, con centri che facciano campagne di informazione, perché la gente sia più consapevole dei rischi che corre attraversando la Libia e con i viaggi in mare. Poi registreremo i rifugiati, con documento Unhcr per avere protezione (relativa, non dalle milizie o trafficanti) e offriremo alternative al viaggio. Se qualcuno è interessato a tornare nel suo Paese d’origine in condizioni di dignità e sicurezza, magari perché traumatizzato dal viaggio o torturato, noi lo aiuteremo. Offriremo assistenza e progetti per garantire la sussistenza economica a chi resta in Libia. La terza opzione (se hanno i requisiti) sarà il reinsediamento o la riunificazione familiare in Paesi terzi che li accettino. Sud Sudan. Come la guerra ha distrutto il granaio del paese di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 luglio 2017 Solo un anno fa, la produzione agricola della regione di Equatoria era sufficiente a sfamare milioni di sud-sudanesi. Da quando la guerra civile scoppiata nel 2013 è arrivata lì, il granaio è diventato un campo di morte, teatro di ripetuti crimini di guerra, e quasi un milione di persone si è riversato nella vicina Uganda. Per quasi tre anni la regione era stata prevalentemente risparmiata dal conflitto. Intorno alla metà del 2016 sia le forze fedeli al presidente Salva Kiir che quelle legate all’ex presidente Riek Machar si sono dirette verso Yei, un centro strategico di 300.000 abitanti 150 chilometri a sud-ovest della capitale Giuba, lungo un’importante arteria commerciale verso l’Uganda e la Repubblica Democratica del Congo. Una missione di ricerca di Amnesty International è appena tornata dal Sud Sudan e ha reso noto ieri quanto ha visto: uomini, donne e bambini uccisi, pugnalati a morte coi machete e bruciati vivi nelle loro abitazioni; donne e ragazze rapite e sottoposte a stupri di gruppo; abitazioni, scuole, ambulatori e uffici delle organizzazioni umanitarie razziati, vandalizzati e rasi al suolo. La maggior parte delle violazioni delle leggi di guerra chiama in causa le forze governative, appoggiate da milizie locali tra cui la famigerata e impunita "Mathian Anyoor" (composta per lo più da giovani combattenti di etnia dinka) ma, sebbene su scala minore, anche i gruppi armati di opposizione hanno compiuto gravi abusi. Tutto questo è ancora in corso, sotto gli occhi della missione di peacekeeping delle Nazioni Unite. Il cibo è usato come arma di guerra. Sia il governo che i gruppi di opposizione hanno bloccato le forniture in determinate zone, si dedicano a saccheggiare i mercati e le abitazioni private e prendono di mira chi prova a passare lungo la linea del fronte anche con una minima quantità di cibo. Ognuna delle parti accusa i civili di passare cibo a quella avversa o di essere sfamata da questa. A Yei, dove la maggior parte degli abitanti è fuggita nel corso dell’ultimo anno, i pochi civili rimasti sono praticamente sotto assedio. Non potendo più andare in cerca di cibo nei campi, soffrono per la grave penuria di prodotti alimentari. Il 22 giugno le Nazioni Unite hanno ammonito che l’insicurezza alimentare ha raggiunto livelli senza precedenti in Sud Sudan.