Carceri sovraffollate, quasi 7.000 reclusi in più di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 luglio 2017 Le situazioni peggiori nel Lazio e in Campania. Confermato il trend del sovraffollamento nelle carceri. La conferma proviene dai dati aggiornati al 30 giugno messi a disposizione dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Su 50.241 posti regolamentari, risultano 56.919 detenuti. Ciò significa che abbiamo una eccedenza, rispetto alla capienza regolamentare, di ben 6678 detenuti. Altro dato, questa volta positivo, è l’aumento dei posti disponibili di 172 unità rispetto al mese precedente. Ma evidentemente non è bastato e rimane il dato reale denunciato da tempo dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini (da giorni ricoverata in ospedale a seguito di un infarto manifestatosi dopo la sospensione dello sciopero della fame di 25 giorni), confermato in seguito dal capo del Dap Santi Consolo durante un’intervista ai microfoni di Radio Carcere e ribadito dal rapporto annuale del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Mauro Palma: ovvero l’alto numero di camere o sezioni fuori uso, per inagibilità o per lavori in corso, che alla data del 23 febbraio scorso erano pari al 9,5 per cento. Cioè parliamo di circa 4.700 posti non disponibili. Questo vuol dire che il dato reale del sovraffollamento potrebbe essere molto maggiore rispetto ai dati ufficiali. Nel frattempo dai dati pubblicati sul ministero della Giustizia si evince che nella sola regione del Lazio abbiamo un sovraffollamento di 1.008 detenuti. Il carcere di Regina Coeli è tra i più a rischio con 299 detenuti in più. A seguire Rebibbia con 252 detenuti oltre la capienza regolamentare e Viterbo con 187 detenuti in più. Ma ci sono anche Velletri (+ 161); Cassino (+ 94); Frosinone (+ 51); Civitavecchia (+ 86); Latina (+ 55) e Rieti (+ 70). La situazione più difficile per quanto riguarda il sovraffollamento si registra in Campania, più specificatamente nel carcere di Poggioreale con una presenza di 545 detenuti in più, a seguire c’è il carcere di Secondigliano con 318 detenuti in eccedenza. Un dato allarmante che potrebbe aggravarsi ad agosto, quando i magistrati di sorveglianza andranno in ferie e non potranno concedere eventuali misure alternative, vero antidoto al sovraffollamento. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, esprime preoccupazione. "La popolazione detenuta cresce a ritmi preoccupanti - spiega Gonnella. Siamo quasi a 57 mila detenuti. Erano 2 mila detenuti in meno solo 8 mesi fa. Erano 5 mila in meno due anni e mezzo fa. Va ricordato che nel 2013 l’Italia, a causa del sovraffollamento, fu condannata dalla Corte europea per i diritti umani per violazione dell’articolo 3 che proibisce la tortura e i trattamenti inumani e degradanti". Il presidente di Antigone spiega che tra il 2010 e il 2013 sollevarono con i propri ricorsi la questione davanti ai giudici di Strasburgo e che c’è il rischio di ritornare, in pochi anni, a quei numeri che in pratica significavano maltrattamenti generalizzati. Gonnella avverte che in quel caso, se necessario, non si tireranno indietro nel loro contenzioso. Risarcimenti anche per i detenuti in custodia cautelare di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 5 luglio 2017 La Cassazione li ha riconosciuti per tutti i ristretti in celle che non rispettano i parametri Cedu. Quelli in attesa di giudizio, secondo i dati del Ministero della Giustizia, rappresentano il 40% del totale e molti alle fine del processo risultano innocenti. Anche i detenuti in custodia cautelare potranno accedere ai rimedi risarcitori previsti dall’art. 35 ter. dell’ordinamento penitenziario. Fino ad oggi, gli otto euro con cui lo Stato risarcisce ogni giorno trascorso in celle anguste, con spazio inferiore ai tre metri quadri per detenuto, erano riservati solo ai detenuti con condanna definitiva. Per tutti gli altri, cioè i detenuti in custodia cautelare, non era previsto alcun risarcimento. Oltre il danno, dunque, la beffa, visto che si tratta di soggetti innocenti ai sensi dell’art. 27 della Costituzione. Con una decisione storica, la Prima sezione penale della Corte di Cassazione ha stabilito che, almeno nella sofferenza, i detenuti sono tutti uguali. La pronuncia della Cassazione, la numero 2194/2017, nasce in seguito ad un quesito posto da un detenuto in custodia cautelare che era stato ristretto per diverso tempo in una cella sotto gli standard previsti dalla Cedu. La Corte di Strasburgo, infatti, ha ripetutamente condannato in questi anni gli Stati che "sottoponevano a trattamenti inumani o degradanti" i detenuti ristretti nello loro prigioni. Uno dei parametri oggettivi per definire il trattamento inumano e degradante è stato proprio quello dello spazio a disposizione del detenuto. Tre metri quadri, appunto, la spazio libero minimo, esclusi gli arredi, che deve essere lasciato nella disponibilità del ristretto. A tal riguardo non si può non citare la sentenza Torreggiani, dal nome del detenuto ristretto nel carcere di Busto Arsizio con cui la Cedu condannò l’Italia anni addietro per trattamenti inumani e degradanti, contrari a quanto stabilito dalla Convenzione dei diritti dell’uomo. Sul punto è importante ricordare che il numero della popolazione carceraria è in costante aumento. Finito l’effetto del provvedimento "svuota carceri" con cui si aumentava lo sconto del semestre ai definitivi, le prigioni italiane hanno nuovamente raggiunto livelli di guardia. In molti istituti penitenziari, infatti, il sovraffollamento è ormai la regola. Ed a nulla valgono le forme di protesta attuate in questi mesi da diversi esponenti Radicali finalizzate a riportate la "legalità" nelle carceri italiane. Una delle cause del sovraffollamento è dovuta ai detenuti in custodia cautelare che rappresentano, dati del ministero della Giustizia, circa il 40% del totale. Molti dei quali, al termine del processo, vengono poi riconosciuti innocenti. La recente riforma di questo istituto processuale penalistico, evidentemente, non ha prodotto gli effetti sperati. I magistrati continuano ad "abusare" della custodia cautelare, una sorta di "anticipazione" della pena a tutti gli effetti. Per quanto concerne le modalità di richiesta del rimedio risarcitorio, i giudici di piazza Cavour hanno precisato che la domanda andrà presentata al magistrato di sorveglianza. Un compito nuovo, dunque, per la magistratura di sorveglianza che esercita la sua funzione solo per quanto riguarda le modalità di esecuzione della pena dei condannati definitivi. Ultima annotazione. La maggiore difficoltà che stanno incontrando i magistrati di sorveglianza nell’erogazione del rimedio risarcitorio è legata alla ricostruzione del "percorso" carcerario del detenuto. In caso di trasferimento in altro carcere, o semplicemente in altra cella, è difficile per il detenuto provare di essere stato rinchiuso in un ambiente che non rispetta gli standard Cedu. Le storture del 41 bis e i Garanti dei detenuti di Massimo Bordin Il Foglio, 5 luglio 2017 Una Circolare limita gli incontri dei reclusi sottoposti al regime speciale con il Garante regionale dei detenuti. Ma un Magistrato di Sorveglianza ha fatto emergere il problema. Questa volta per trovare il famoso giudice che sta a Berlino occorre fermarsi a Terni, dove il magistrato di sorveglianza, Fabio Gianfilippi, con una ordinanza depositata la scorsa settimana, ha mostrato, correggendola, una delle tante storture del regime speciale di detenzione prescritto dall’articolo 41 bis. Il problema è rapidamente spiegabile: nulla vieta a un recluso sottoposto al regime speciale di chiedere un incontro con il garante regionale dei detenuti, che è una figura istituzionale che proprio di questi temi deve occuparsi. Solo che il Dap, la struttura che amministra le carceri per il ministero di Giustizia, sulla questione aveva emanato una circolare in cui si stabiliva che se un detenuto al 41 bis chiedeva un colloquio con il garante, doveva rinunciare all’unico colloquio mensile con i suoi familiari e comunque l’incontro si sarebbe svolto con le medesime modalità: vetro divisorio, presenza della polizia penitenziaria, eventuale richiesta di registrazione da parte del pm. Il magistrato di sorveglianza, rispondendo a un esposto del garante dei detenuti di Umbria e Lazio, Stefano Anastasia, ha, in sostanza, equiparato il colloquio col garante a quello con l’avvocato difensore, decidendo di disapplicare una circolare ministeriale che di fatto lede i diritti dei detenuti e limita l’operato di una autorità di garanzia. Sarà ora interessante vedere se il ministero correggerà quella circolare alla luce dell’ordinanza del magistrato di Terni. Lo Stato ha paura dei libri in carcere, dopo Dell’Utri la Lioce di Frank Cimini glistatigenerali.com, 5 luglio 2017 Marcello Dell’Utri e Nadia Desdemona Lioce. Due persone, entrambe detenute, molto diverse tra loro. Agli antipodi, insomma. Ma accomunate nella sorte da uno Stato che sembra aver paura dei libri. All’esponente delle cosiddette nuove Br che sconta due ergastoli per gli omicidi D’Antona e Biagi sono stati sequestrati libri e quaderni. All’ex senatore di Forza Italia condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa era stato imposto di poter tenere in cella solo un libro per volta. La storia relativa a Nadia Lioce emerge perché la donna venerdì prossimo sarà processata per disturbo della quiete pubblica avendo protestato tramite "battitura" sulle sbarre della cella, tipica manifestazione di protesta dei reclusi. E si è saputo dei libri sequestrati, nell’ambito, sembra di capire, dell’applicazione restrittiva oltre ogni limite dell’articolo 41 del regolamento carcerario. Evidentemente non basta più neanche l’ergastolo ostativo. Chi sconta il carcere duro sembra non possa aver alcun diritto, nemmeno di leggere quando, quanto e come gli pare. Dell’Utri e Lioce sono detenuti noti che in qualche modo sono riusciti a farsi sentire attraverso chi li sostiene da fuori, familiari o amici. Altri reclusi sono costretti a subire in silenzio misure afflittive che non hanno senso che non sia quello di una vera e propria tortura, quantomeno psicologica. E la tortura in Italia non esiste come reato. Una norma in via di approvazione è già stata definita da autorevoli giuristi largamente insufficiente. Per esempio non sarebbe servita a sanzionare adeguatamente la "macelleria messicana" di cui furono protagoniste le forze di polizia al G8 di Genova nel 2001. Limitando e togliendo libri dalle celle lo Stato come minimo si accanisce ai danni di persone già private della libertà. Pochi giorni fa il presidente della Repubblica Mattarella aveva parlato contro la tortura. Ecco, tra lui e Napolitano dal Quirinale erano arrivati quattro provvedimenti di grazia per altrettanti responsabili del sequestro di Abu Omar, organizzato dalla Cia con la complicità dei servizi segreti italiani. Insomma il pesce puzza dalla testa. Controlli a distanza: solo 2mila apparecchi, settecento detenuti restano nel limbo di Francesco Lo Dico Il Mattino, 5 luglio 2017 I nomi di Diele e Romeo hanno riacceso i riflettori su quello che è un autentico scandalo di Stato. Ma sono ormai due anni che più di 700 detenuti vivono in una situazione kafkiana. Avrebbero il diritto di uscire dal carcere e andare ai domiciliari, ma sono costretti a restare in cella in violazione dei loro diritti per il semplice fatto che mancano i braccialetti elettronici. Dopo il varo del decreto svuota-carceri del 2013, i tribunali hanno cominciato a puntare sui dispositivi elettronici in maniera sempre più massiccia. Ma che i duemila braccialetti per il controllo a distanza commissionati a Telecom dal ministero della Giustizia non bastassero, fu abbastanza chiaro già nel 2015, quando l’avvocato di Giuseppe Tartarone Buscemi, in carcere a Palermo per detenzione di armi, si vide recapitare dal gestore un comunicato che vanificava la scarcerazione per il suo assistito con parole piuttosto sorprendenti: "Vi informiamo che la richiesta potrà essere evasa solo a fronte del recupero per fine misura di un dispositivo in esercizio". Buscemi insomma, avrebbe dovuto mettersi in fila e aspettare un braccialetto di seconda mano. O di secondo piede, per meglio dire, dato che il dispositivo si indossa alla caviglia. La vicenda, piuttosto grottesca, non ha tuttavia suggerito a nessuno l’attuazione di misure riparatorie. Passati di carcerato in carcerato, i duemila braccialetti elettronici in circolazione non sono aumentati neppure di un’unità. Pochi, desiderati, ma anche costosissimi, i dispositivi elettronici sono nella migliore tradizione italiana pagati a peso d’oro: in Italia costano 115 euro al giorno, a Londra bastano 7 euro. Ma costi così elevati, non portano in dote nemmeno benefici tecnologici. Anzi. Pochissimi degli strumenti in circolo, infatti, sono dotati di gps. Così che essi possono essere impiegati soltanto per chi deve fare tappa fissa in casa. E non sono viceversa utilizzabili in quei casi in cui il detenuto svolge un’attività lavorativa che lo costringe ad allontanarsi da casa. Introdotti nel 2001 a Milano, i braccialetti hanno avuto una storia piuttosto tormentata. Nel resto del mondo erano gettonatissimi. Nell’Italia delle celle affollatissime si arrivò a stento in dodici anni dalla loro introduzione a 111 attivazioni. A cercare di imprimere la svolta, fu l’ex ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri, che tentò di metterne in circolo altri 4mila a fronte di richieste crescenti. Ma dal 2014 a oggi, i desiderati braccialetti non sono aumentati di numero, a fronte dei 25mila disponibili in Gran Bretagna. Pochi e pagati profumatamente, si diceva. "Sono costati allo Stato fino ad oggi 173 milioni di euro - spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe (Il sindacato autonomo di polizia penitenziaria). "Il paradosso più evidente - commenta - è che i ministeri di Giustizia e Interno hanno speso 110 milioni di euro in 10 anni per pochissimi braccialetti, mentre ora che ve n’è una primaria necessità non ne sono stati acquistati a sufficienza". "Il dramma di questo Paese - conclude Capece - è che nessuno mai paga per questi sprechi e per questi errori". Il ministro Andrea Orlando provò a mettere una pezza già il 6 dicembre, quando riuscì a far pubblicare il bando di gara per la fornitura di 12mila nuovi apparecchi per un valore complessivo di 45 milioni di euro. Ammesse alla gara, risultarono a febbraio Fastweb spa, Rti Engineering ingegneria informatica e ancora Telecom Italia Spa. La faccenda si sarebbe dovuta concludere nel mese di giugno, ma così non è stato a causa di un altro pasticcio in salsa italica che lo stesso Guardasigilli ha raccontato ai microfoni di "Un Giorno da Pecora". I braccialetti "stanno arrivando - ha garantito Orlando - è già stato fatto un bando". Poi la spiegazione imbarazzata del ritardo. "Secondo me, tuttavia per un errore del legislatore - ha chiarito il ministro - la competenza dell’acquisto è stata affidata al ministero dell’Interno, e non a quello della Giustizia". Tutta colpa del Viminale dunquè Ci sarà ad ogni modo da attendere ancora. "Il nuovo bando si chiuderà tra qualche settimana", ha ammesso il ministro. A Diele e Romeo non resta frattanto che aspettare in galera, insieme ad altre migliaia di detenuti senza nome e senza voce. Un bel braccialetto di "secondo piede", magari non troppo logoro, recuperato dalla caviglia di un altro povero cristo. Johnny lo zingaro e gli altri: la valutazione della pericolosità sociale dei detenuti di Maria Elisabetta Ricci, Simona Galasso, Mary Petrillo* Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2017 La vicenda di Giuseppe Mastini detto "Johnny lo zingaro" pone al centro del dibattito pubblico il problema di come proteggere la comunità da soggetti che hanno commesso gravi reati violenti e che potrebbero commetterli di nuovo una volta fuori dal carcere o per avvenuta fine della pena, o per l’adozione di una misura che conceda loro maggiore libertà. Con il problema della predizione di un comportamento umano violento e della sua gestione fanno i conti tutte le amministrazioni penitenziarie del mondo civile, che debbono conciliare le esigenze punitive della pena con quelle rieducative, volte ad attuare un cambiamento positivo a lungo termine nel reo che possa permettergli, una volta scontata la pena, di condurre il resto della propria esistenza fuori dal circuito penale, proteggendo in questo modo l’intera comunità; o consentendogli, in caso di ergastolo, una vita più dignitosa laddove abbia dimostrato di non essere più un pericolo sociale. Non marginale, inoltre, è la notazione che una lunga detenzione è più economicamente costosa rispetto al reinserimento sociale di successo. Il cuore del problema, in Italia come nel resto del mondo civile, è spinoso, e riguarda la predizione di un comportamento futuro. L’errore in cui si può incappare non riguarda soltanto il concedere maggiore libertà ad un individuo che invece torna a delinquere, ma anche non concedere libertà ad un individuo che invece ne potrebbe fare un uso positivo, per il bene proprio e di tutta la comunità in cui vive. Ora, la letteratura scientifica ha inesorabilmente mostrato che il giudizio umano soggettivo è fallace, e lo è decisamente rispetto a procedure strutturate di giudizio sul rischio di recidiva violenta, che permettono inoltre di organizzare attività trattamentali individualizzate, volte cioè a colmare le lacune specifiche di ciascun detenuto. Per questa ragione c’è stata un’impennata, negli ultimi quindici anni, nella produzione scientifica di tali strumenti, che assistono coloro che sono chiamati a realizzare questo compito difficile. Lascia il tempo che trova puntare il dito contro magistrati e operatori ogni volta che si commette un vistoso errore di valutazione (tra migliaia di casi valutati peraltro) perché a nostro avviso il problema con cui si scontra il nostro paese è l’impianto culturale sulla base del quale l’osservazione e il trattamento vengono concepiti. Le attività valutative e trattamentali previste dal nostro ordinamento utilizzano categorie sociologiche e ideologiche, presupponendo a priori che lavoro, istruzione, famiglia e religione siano i fondamentali valori carenti all’origine di ogni delinquere e che vadano ripristinati in ogni reo per concedergli maggiore libertà, a patto che egli sia pentito e si sia comportato bene durante la detenzione. Al contrario, la valutazione scientifica strutturata è rigorosamente individualizzata e richiede di conoscere: in che modo alcuni fattori nella storia di vita del soggetto si sono organizzati psicologicamente, in modo unico e specifico tale da condurlo a scegliere di commettere violenza; in quale circostanza e per quale motivo egli potrebbe scegliere di commetterla di nuovo, e come intervenire specificatamente per evitarlo. La buona condotta è del tutto irrilevante se considerata in astratto, poiché un detenuto potrebbe comportarsi correttamente soltanto a fini manipolatori per ottenere dei benefici. Non da ultimo si pone il problema dei soggetti psicopatici, irrecuperabili, perché dobbiamo ammettere che ci sono soggetti irrecuperabili, e saperli individuare. Johnny lo zingaro, o Igor, o l’indimenticata, avvilente vicenda di Angelo Izzo. Non per tutti la detenzione è funzionale al reinserimento, ma non per tutti le misure premiali o alternative alla pena sono funzionali a limitare il rischio di recidiva. Dobbiamo muoverci in un’ottica razionale di utilizzo delle risorse a disposizione. *Gruppo di Lavoro "violenza nelle relazioni intime", Ordine degli Psicologi del Lazio Riforma del processo penale in vigore dal 3 agosto prossimo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2017 Entrata in vigore soft per la nuova giustizia penale. La legge (n. 103 del 23 giugno) è stata pubblicata sulla "Gazzetta" di ieri ed entrerà in vigore il prossimo 3 agosto. Un mese di tempo quindi a disposizione degli operatori per "digerire" novità che spaziano dal penale sostanziale alle misure più squisitamente procedurali. Un mese che però in realtà è destinato, di fatto, a raddoppiare per effetto delle ferie estive e dell’attività giudiziaria a scartamento ridotto che proseguirà per tutto agosto. Insomma, per una prima valutazione d’impatto bisognerà aspettare settembre; se non oltre. Però l’ancoraggio a una data certa permette adesso una serie di considerazioni relative ad alcune delle disposizioni più significative. La nuova causa di estinzione del reato per condotte riparatorie innanzitutto. Che si applicherà a tutti i procedimenti in corso al 3 agosto, sia a quelli in attesa di apertura del dibattimento (applicazione fisiologica della misura) sia a quelli con dibattimento in corso. Nei primi l’imputato può chiedere, se non si è mosso prima, un termine non superiore a 6 mesi per provvedere alla riparazione; nei secondi, l’imputato nella prima udienza successiva al 3 agosto, potrà chiedere al giudice 60 giorni al massimo di tempo per provvedere alla riparazione delle conseguenze della propria condotta. Quanto alla prescrizione, la legge non aumenta i termini previsti dalla ex Cirielli, evitando per esempio di agganciarli al momento del rinvio a giudizio come chiesto dall’Anm, ma irrobustisce lo stop in caso di condanna in primo grado e in appello, con 1 anno e 6 mesi in più per ciascun grado di giudizio. Per esplicita previsione, la nuova disciplina della sospensione sarà applicata ai fatti commessi a partire dal 3 agosto. E sempre ai fatti commessi a partire dal 3 agosto dovranno essere applicate le sanzioni più severe previste per alcuni reati, dai furti alle rapine, passando per il voto di scambio. Un anno ancora invece dovrà trascorrere, soprattutto per dare la possibilità agli uffici giudiziari di attrezzarsi, per la partenza a regime del processo a distanza. Con la partecipazione in video al procedimento che diventerà la regola, a partire appunto dall’agosto 2018, quando la persona è detenuta per un delitto di mafia o comunque particolarmente grave o è ammessa a misure di protezione. Ma in un provvedimento in larga parte dedicato alle misure di natura processuale, un denso pacchetto è destinato ad avere operatività immediata, fatta salva la premessa sulla pausa di fermo giudiziario ad agosto. A partire dai vincoli al Pm sull’esercizio dell’azione penale con il rinvio a giudizio oppure con la richiesta di archiviazione, sotto la spada di Damocle dell’avocazione da parte della Procura generale. Oppure è il caso del regime delle impugnazioni, dove si stabilisce che l’impugnazione può essere proposta personalmente dall’imputato a patto che non si tratti di ricorso per Cassazione; si prevede per l’atto di appello l’onere della specificità dei motivi di impugnazione, a pena di inammissibilità, oltre che l’onere di indicazione delle prove delle quali si sostiene l’inesistenza o l’omessa o erronea valutazione, sempre a pena di inammissibilità; si reintroduce il concordato sui motivi in appello, istituto abrogato nel 2008, che comporta un accordo sulla rideterminazione della pena con rinuncia agli altri motivi di impugnazione. Si impedisce però che si applicare il concordato ai reati di mafia e terrorismo e per i reati sessuali e in danno di minori. Sì immediato poi al potere della persona offesa dal reato di chiedere informazioni sullo stato del procedimento penale nel quale ha presentato la denuncia o la querela; alla disciplina degli accertamenti tecnici non ripetibili; alla disciplina della nullità del provvedimento di archiviazione e sul regime di impugnazione, semplificato, del decreto o dell’ordinanza di archiviazione. Carriere separate per giudici e pm. Petizione boom, 50mila adesioni di Enrico Lupino Il Tempo, 5 luglio 2017 "All’Anm dico che non è una battaglia contro i giudici ma per i giudici. Il controllo deve essere fatto da un giudice che è diverso dal pm". La sintesi della crociata dei penalisti sulla differenziazione dei ruoli dei magistrati è affidata al presidente dell’Ucpi, Beniamino Migliucci. La campagna intrapresa pochi mesi fa infatti prosegue a pieno regime e con risultati importanti. Sfondata quota 50mila firme in pochi mesi. Numeri da record quelli dell’iniziativa legislativa popolare dell’Unione delle Camere Penali sulla separazione delle carriere in magistratura. Ma la raccolta delle adesioni non è stata, e continua a non essere, una strada libera da ostacoli. Fra l’ostruzionismo dei tribunali che, stando a quanto detto in conferenza stampa, non sempre concedono punti di raccolta firme al loro interno e difficoltà logistiche dovute a una battaglia di piazza che gli avvocati, per loro formazione e professione, non sono soliti portare avanti. Il punto sulla campagna, appoggiata dal Partito Radicale Transnazionale, lo fa, in una conferenza stampa a Montecitorio, proprio Migliucci. "Viviamo in un Paese dove le proroghe vengono fatte pacificamente - ricorda il numero uno dell’Ucpi - i processi si allungano, e a fronte di un giudice monocratico spesso inesperto un procuratore esperto può affermare la propria autorevolezza". La soluzione per l’unione dei penalisti italiani è semplice: due percorsi diversi per pubblici ministeri e giudici. "L’unico rimedio previsto dalla Costituzione - afferma infatti Migliucci - è che il giudice sia più forte del pubblico ministero". Spesso la questione della lentezza dei processi infatti, sarebbe attribuibile alla mancata fiducia dei cittadini, coloro che al processo devono difendersi, nei confronti di chi alla fine leggerà il dispositivo. Una mancata fiducia che si riflette nelle miriadi di ricorsi in appello, dovuti, secondo Migliucci e chi si impegna per raccogliere le firme, alla poca fiducia di essere stati giudicati in maniera obiettiva. In buona sostanza chi scrive le sentenza "non deve avere paura del pm, non deve essere giudicato in un Csm attraverso le correnti e i pubblici ministeri". Al fianco delle Camere Penali e dei loro rappresentanti promotori della campagna si schiera anche il Consiglio Nazionale Forense, nella persona del presidente Andrea Mascherin. Il vertice del Cnf si dice "al fianco delle Camere penali nella costruzione tecnico giuridica di una riforma necessaria". Le 52mila firme raccolte sono un obiettivo importante ma non bisogna fermarsi. Nei quattro mesi a venire sono altri i passi che dovranno essere fatti. Ma la risposta dal territorio è arrivata. Come affermato in via della Missione, sono i piccoli centri ad aver risposto con entusiasmo e adesioni alla proposta di separazione delle carriere, Nola e Tivoli sono gli esempi citati in tal senso. E proprio mentre vengono snocciolati i dati numerici sulle adesioni raccolte, che vedono la Sicilia al primo posto come regione, arriva l’ok del primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, a un tavolo di raccolta firme all’interno del Palazzaccio. Un dato che è significativo su come non sempre l’attività di raccolta all’interno dei tribunali venga accordata. "Era di un argomento di cui non si parlava, scomodo. Ma oggi - sottolinea il vicepresidente del comitato promotore Anna Chiusano - non più". Per il numero due del gruppo che porta avanti l’iniziativa ora ci si misura sui contenuti. Ma la palla necessariamente dovrà essere passata ai legislatori. "Il nostro cercheremo di farlo e lo continueremo afa - re, ma è necessario che intervenga la politica" ricorda Migliucci. Essendo un tema scomodo per alcuni magistrati, come sottolinea il comitato, molti partiti lo avevano sì messo nei programmi di governo, ma nessuno lo ha più portato avanti. Ora l’Ucpi non vuole prestare il fianco alle strumentalizzazioni. "È una battaglia di civiltà" sostiene illegale Giuseppe Belcastro, membro del comitato promotore dell’iniziativa per la separazione delle carriere. Fuori programma l’intervento del ministro per gli Affari Regionali, Enrico Costa, che chiude la conferenza con un monito: "rischiamo di abbandonare le garanzie in favore della velocità dei procedimenti. Il reato di tortura torna alla Camera di Simona Musco Il Dubbio, 5 luglio 2017 Oggi la discussione in Aula dove arriva con un testo stravolto rispetto a quello depositato il primo giorno di legislatura dal senatore Pd Luigi Manconi. Critico Orfini: "per come è scritta è una legge inutile". Il giorno decisivo sarà oggi, quando la legge sul reato di tortura verrà discussa alla Camera, dove torna dopo essere passata dal Senato. Ma ci arriva con un testo stravolto rispetto a quello depositato il primo giorno di legislatura dal senatore Pd Luigi Manconi, che ne ha preso le distanze e criticandolo pesantemente, facendo sue i rilievi negativi dell’Europa. Le polemiche, a 24 ore del voto, hanno evidenziato ulteriormente le contraddizioni della proposta, distante dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e dalla Convenzione Onu del 1984, tanto da snaturare lo stesso concetto di tortura. Perplessità condivise anche dal Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura e stigmatizzate dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, secondo cui il testo, così formulato, garantirebbe delle scappatoie. Una valutazione messa nero su bianco, in una lettera spedita alle Camere. "Questo testo è inapplicabile ai fatti del G8", ha chiarito Manconi, che aveva provato a riempire quel vuoto legislativo lungo 29 anni. "L’Italia ha ratificato la convenzione Onu sulla tortura il primo gennaio del 1988. Come ha ricordato sua madre è l’anno di nascita di Giulio Regeni. Il fatto che nel nostro ordinamento non ci sia ancora il reato di tortura forse ha privato l’Italia dell’autorevolezza morale e giuridica necessaria per esigere dall’Egitto la verità su un nostro connazionale torturato a morte" ha detto Manconi. La lettera di Miuznieks ha dato man forte ai detrattori della proposta, in quanto evidenzia le acutissime contraddizioni del testo, a partire dal termine usato nella traduzione italiana, che prevede la tortura come un reato generico e non proprio del pubblico ufficiale, contestabile solo dopo un ripetuto numero di violenze e minacce gravi, con acute sofferenze fisiche e traumi psichici. Un disallineamento che determinerebbe "un serissimo dubbio di legittimità costituzionale", ha aggiunto Manconi, in quanto le convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia vincolano il legislatore. "Come ha spiegato il pm del processo per le violenze alla scuola Diaz al G8, il dottor Zucca, la gran parte di quegli atti efferati, se giudicate col metro del ddl che sta per essere approvato, non sarebbero qualificate come torture", ha poi spiegato. Polemiche anche da parte del presidente del Pd Matteo Orfini, che ha definito un "tema simbolico" quello relativo alla legge sulla tortura che, ha aggiunto, "per come è scritta, è inutile", fatta com’è "di compromessi al ribasso. In un Paese che ha avuto i casi Cucchi, Aldrovandi, Genova, ci vorrebbe maggior coraggio". Coraggio chiesto anche dalle vittime delle torture nella scuola Diaz, che vedono in quel testo "uno schiaffo e una nuova umiliazione". La maggioranza, però, non sembra scalfita dalle proteste. Anzi, dice: meglio questo che niente. Tortura. Manconi: "siamo lontani dal testo Onu, si rischia l’incostituzionalità" di Liana Milella La Repubblica, 5 luglio 2017 Il senatore Pd: "Si lega il reato alle "violenze reiterate". Ma la storia dimostra che si può essere torturati anche una volta sola. Con il testo che sta per essere approvato, gran parte delle violenze alla scuola Diaz non sarebbero considerate tortura". "L’Italia ha ratificato la convenzione Onu sulla tortura il primo gennaio del 1988. Come ha ricordato sua madre è l’anno di nascita di Giulio Regeni. Il fatto che nel nostro ordinamento non ci sia ancora il reato di tortura forse ha privato l’Italia dell’autorevolezza morale e giuridica necessaria per esigere dall’Egitto la verità su un nostro connazionale torturato a morte". Dice così Luigi Manconi, il presidente della Commissione per i diritti umani del Senato che ha presentato la sua proposta sulla tortura il 15 marzo 2013, primo giorno di questa legislatura. Ma di quel ddl non resta nulla in quello che finirà sulla Gazzetta ufficiale. Siamo al voto definitivo della Camera sulla tortura. Come la valuta? "Molto negativamente. Ho nutrito qualche dubbio sulla correttezza della mia posizione. Ma poi, il 22 giugno, è giunta la lettera inviata a me e, in primo luogo, ai presidenti di Camera e Senato, nella quale il Commissario per i Diritti umani del consiglio d’Europa Nils Miuznieks evidenziava le acutissime contraddizioni di quel testo di legge e ne chiedeva la riscrittura sulla base di tre considerazioni principali, più altre secondarie". Un niet super partes dunque. Su cosa si basa? "La prima critica è di ordine generale, il termine usato nella traduzione italiana è "disallineamento" del testo rispetto alla convenzione dell’Onu contro la tortura. E qui si apre una questione grande come una casa. Il giurista Valerio Onida mi conferma che questa profondissima difformità dalla convenzione Onu rivela un serissimo dubbio di legittimità costituzionale con riferimento all’articolo 117 della nostra Carta. Per il quale le convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia vincolano il nostro legislatore". Ma, nel merito, le contestazioni di Miuznieks inficiano l’applicabilità stessa del reato di tortura? "Certo. Il commissario entra nel merito ed evidenzia quel perverso slittamento di senso - lo dico con parole mie - che presenta il testo rispetto alla convenzione dell’Onu. Lì si parla di "ogni violenza". Qui, in una rovinosa precipitazione linguistica e giuridica, "ogni violenza" diventa prima "violenze" al plurale, poi "reiterate violenze". Infine la soluzione peggiore: quel "più condotte" che può arrivare a distribuire i trattamenti inumani o degradanti lungo un ampio periodo di tempo". Quindi la Camera sta approvando un reato di tortura che non servirà per punire le torture? "Come ha spiegato il pm del processo per le violenze alla scuola Diaz al G8, il dottor Zucca, la gran parte di quegli atti efferati, se giudicate col metro del ddl che sta per essere approvato, non sarebbero qualificate come torture". I sostenitori della legge, all’insegna del "meglio questa che niente", dicono però che le condanne saranno possibili. "Io guardo al testo. Anche l’altra fattispecie - "ogni violenza psichica" - è andata via via evaporando in una sorta di patologica torsione semantica. Ho sentito una vittima della Diaz parlare di come gli attacchi di panico siano insorti in lui a due anni dai fatti. Il che rende del tutto irrealistico il ricorso a quelle formule utilizzate per qualificare la violenza prima esigendo che fosse verificabile clinicamente e poi sottoponendola a un’improbabile documentazione. Circostanza tragicamente ridicola se si tiene conto che i processi per tortura si celebrano in genere a notevole distanza di tempo dai fatti". Ma il ministro per i Rapporti con il Parlamento Finocchiaro dice che in questo momento politico questa è l’unica legge possibile. "Questa legge è destinata a rimanere nel nostro ordinamento ancora per moltissimi anni, temo. Il dilemma si ripete in continuazione. Meglio una qualsiasi legge che nessuna legge? Avevo qualche incertezza, e molti miei amici la pensano come Finocchiaro. Ma la lettera di Miuznieks e la riflessione su quanto affermato a proposito dei fatti della Diaz mi inducono a ribadire il mio rifiuto. Posso sbagliarmi, lo so". Quanto hanno pesato le pressioni, che si sono verificate perfino in Parlamento, dei sindacati di polizia? "La classe politica italiana soffre da sempre di una sorta di complesso di colpa e di un senso di inferiorità nei confronti delle forze di polizia ed è intellettualmente e politicamente incapace di capire che l’individuazione e la sanzione severa dei pochissimi appartenenti a quei corpi che torturano e commettono illegalità è il solo modo per tutelare la stragrande maggioranza che quegli atti non commette e, dunque, di salvare il prestigio e, se vogliamo, l’onore della divisa". La separazione delle carriere è una riforma non più rimandabile di Francesco Petrelli* Il Foglio, 5 luglio 2017 Giuristi, filosofi e magistrati del calibro di Giovanni Conso e Sabino Cassese, del livello di Biagio De Giovanni, o dell’esperienza di Giovanni Falcone, assieme a molti altri autorevoli esponenti della cultura e dell’accademia, si sono da tempo espressi a favore della separazione delle carriere e della necessità di tale riforma per restituire credibilità al processo penale e per realizzare un moderno ed efficiente modello accusatorio. Se vogliamo infatti ricollocare il nostro sistema giudiziario e il nostro processo all’interno di un contesto europeo, moderno ed efficiente, non possiamo non dotarci di un giudice autonomo, indipendente, osservante della "cultura del limite". Questa espressione riassume efficacemente tutte le aspettative che una democrazia liberale coltiva nei confronti di un potere giurisdizionale che sia garante dei diritti di libertà dei cittadini di fronte all’autorità dello stato, all’azione dei pubblici ministeri, agli atti investigativi della polizia giudiziaria che a quei pubblici ministeri risponde. Il giudice non può che interpretare questo compito essenziale che lo pone come ultimo "controllore" degli esiti dell’azione penale promossa dai pubblici ministeri. Ma se questo è il compito del giudice non potremo non riconoscere che "controllore" e "controllato", giudice e pubblico ministero, non possono appartenere ad un unico ordine, non possono essere sottoposti al potere disciplinare di un unico organo che promiscuamente decide anche degli avanzamenti in carriera di giudici e pubblici ministeri. È per questo semplice motivo che in tutti i paesi europei di common law e di civil law, sia pure con sistemi differenti, le carriere di giudici e pubblici ministeri sono nettamente separate. Il profilo di sofferenza del nostro sistema ordinamentale, nato in un contesto autoritario nel quale "l’unità della giurisdizione" era espressione di una vocazione antidemocratica, non è dunque quello della "amicizia" in senso psicologico (riassunta nelle consuete espressioni: "pm e giudici si danno del tu e prendono il caffè insieme"), quanto piuttosto quello di natura strutturale caratterizzato della assenza di una vera e necessaria "separazione" intesa in senso politico, quale condizione di un indispensabile conflitto e di un fisiologico antagonismo fra poteri, volta alla efficienza ed all’equilibrio di ogni sistema democratico, complesso, trasparente e aperto. A questo ha pensato il legislatore costituente del 1999 quando ha voluto che il giudice non fosse solo imparziale ma anche "terzo", ovvero non solo disinteressato all’oggetto del singolo giudizio ma anche distinto da entrambe le parti del processo. Se, infatti, pubblico ministero e giudice, appartengono ad un medesimo ordine, se ritengono entrambi di essere impegnati -sia pure con funzioni differenti, e magari "concorrenti" - nella medesima lotta contro questo o quel "fenomeno criminale", il giudice non potrà mai essere terzo, non potrà mai essere, né tantomeno apparire, tutore e garante dei diritti del singolo. È per questo motivo che la separazione delle carriere con la istituzione di due distinti Csm che garantiscono reciproca autonomia e indipendenza alle due diverse magistrature, restituisce al giudice e all’intero sistema giustizia la legittimazione perduta, in una equazione semplice e razionale che i sottoscrittori hanno immediatamente compreso. Poiché da troppi anni questa semplice riforma, che non fa altro che realizzare quel che sta scritto nella nostra Costituzione e che esiste già in tutti i paesi europei, sembrava essere del tutto dimenticata dall’agenda della politica, abbiamo pensato che occorreva scriverla di nuovo e portarla in Parlamento. Farla circolare nei tribunali e fra la gente, trasversalmente, senza etichette politiche, ma con la sola forza che hanno le idee minoritarie quando mostrano semplici verità, e con questa sola forza riescono a cambiare le cose. *Segretario dell’Unione delle Camere Penali Codice antimafia in "stand by" di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2017 Si fa più incerto il destino del nuovo Codice antimafia, con i suoi 36 articoli che estendono le misure di prevenzione personali e patrimoniali, ampliano il ricorso all’amministrazione giudiziaria potenziando le incompatibilità degli amministratori, puntano a favorire la ripresa delle aziende sequestrate e rafforzano composizione e competenze dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati. Pesa la netta opposizione del centrodestra, Forza Italia in testa, ma anche qualche tentennamento nel Pd. Con il presidente Matteo Orfini che con un tweet sembra riaprire i giochi: "Le sollecitazioni di Cantone sul Codice antimafia meritano di essere approfondite. Lo faremo appena il testo tornerà alla Camera". Parole che da un lato aprono la strada al via libera finale in Senato, slittato a oggi dopo la bagarre ieri in Aula del centrodestra capitanato da Forza Italia, che ha prima cercato in ogni modo di far tornare il testo in commissione (richiesta respinta dal presidente Pietro Grasso) e poi ha di fatto battuto la maggioranza sul calendario dei lavori deciso dalla Conferenza dei capigruppo. Ma le stesse parole, dall’altro lato, mettono un’ipoteca pesante sul Ddl, bloccato nelle secche di Palazzo Madama da novembre 2015, quando fu licenziato dalla Camera. Perché modificare il disegno di legge a Montecitorio non era nei patti (nelle diverse riunioni di maggioranza dei giorni scorsi l’accordo era quello di blindare il testo per vararlo in tempi rapidissimi) e rischia di far finire l’articolato su un binario morto. Il fatto è che le perplessità di Raffaele Cantone, seguite da quelle di altri giuristi come Giovanni Maria Flick e Carlo Nordio, del presidente di Confindustria Vincenzo Boccia e di Luciano Violante, hanno fatto breccia tra i democratici più scettici. Il presidente dell’Anac ha ribadito ancora ieri i suoi dubbi non sul complesso della riforma, ma sull’articolo 1, che allarga le misure di prevenzione agli indiziati di truffa aggravata ai danni dello Stato o di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di delitti contro la Pa, dalla corruzione alla concussione. Sulla stessa norma, corretta la settimana scorsa per restringerne le maglie e invisa a Fi e alla Lega, si è però espresso favorevolmente il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Sintetizza il senatore Gaetano Quagliariello (Fl-Idea): "Il Codice ha messo d’accordo garantisti e giustizialisti nel dire che questo provvedimento è sbagliato e non va bene". Ma il relatore alla Camera Davide Mattiello (Pd) non nasconde l’amarezza: "Bisogna rassicurare i critici sulla ragionevolezza dei presupposti per l’estensione del sistema di prevenzione: non c’è soltanto l’elemento soggettivo, ma anche quello oggettivo. E occorre ricordare il miglioramento dell’intera procedura di sequestro e confisca, che rappresenta i due terzi della riforma: tempi certi, difesa dei diritti dei terzi creditori, distrettualizzazione del giudicante". Per il "sì" finale, il Pd conta in Senato sull’appoggio dei bersaniani di Mdp e degli alfaniani di Alternativa popolare, sponda del centrodestra nella maggioranza e protagonisti della mediazione sulla confisca allargata ai corrotti. Però gli stessi centristi gradirebbero volentieri un rinvio per evitare bracci di ferro su provvedimenti scomodi (compreso lo ius soli), come ha dimostrato ieri la richiesta della capogruppo Laura Bianconi di fissare una nuova capigruppo per rivedere il calendario "con animo più sereno". Molto simile alla "pausa di riflessione" invocata dalla Lega. Intanto l’Unione delle camere penali è già sul piede di guerra: ha proclamato l’astensione dalle udienze e una manifestazione nazionale a Salerno per il 18 luglio, convinta che la riforma "certamente contribuirà ad abbassare in maniera consistente lo standard delle garanzie e a collocare l’Italia al di fuori dei parametri indicati dalla giurisprudenza Cedu". Dura la reazione della Cgil, che con Libera e altre associazioni sostiene il Ddl: "Il vero obiettivo è uccidere alla radice il sistema delle misure di prevenzione". Antimafia, la maggioranza in ostaggio di Massimo Adinolfi Il Mattino, 5 luglio 2017 Quel populismo che, in spregio ai principi liberali del diritto, alle garanzie del processo, alle libertà delle persone, chiede, e a quanto pare ottiene dal Senato della Repubblica italiana, un’estensione spropositata delle misure di prevenzione personale e patrimoniale per gli indiziati di reati di corruzione. Misure che appaiono al presidente dell’Anac Raffaele Cantone inutili, inopportune e persino controproducenti, e che quindi è difficile giustificare persino in termini di maggiore efficacia nel contrasto al crimine, ma che hanno sicuramente l’effetto di ingigantire enormemente il raggio di attività delle Procure. Ancora una volta la politica si lascia mettere sotto scacco da quegli umori giustizialisti che segnano la vita della Repubblica italiana da un quarto di secolo a questa parte. Ancora una volta si confonde la capacità di perseguire e di accusare con la capacità di fare giustizia. Ancora una volta si consegna nelle mani della magistratura un potere supplementare, ampio e quasi indiscriminato, sotto la spinta di una narrazione che continua a ripetere sempre la stessa frase: i politici rubano. Se dunque muovono obiezioni, se provano ad eccepire, se coltivano dubbi, è perché sono, in buona o cattiva coscienza, complici e conniventi, per spirito di casta o per casacca di partito. Così tutti tacciono, il Presidente del Senato Grasso può respingere in maniera sbrigativa la richiesta di riportare il provvedimento in Commissione, e il partito democratico può mestamente continuare a farsi dettare la linea dai giornali che tengono quotidianamente sotto il mirino la condotta morale degli odiati politici. Il capogruppo Zanda conduce i democratici là "dove si puote ciò che si vuole". Cioè dalle parti di "Repubblica" e de "Il Fatto quotidiano", che continuano a detenere la chiave ideologica del nostro presente. Non era questa la strada che il Pd sembrava avere intrapreso in materia di giustizia, all’inizio di questa legislatura. Non era la tutela giudiziaria su settori sempre più ampi dell’economia del Paese l’obiettivo che Matteo Renzi aveva dichiarato di voler perseguire, nell’enunciare anzi un programma di riforma che doveva sprigionare nuove energie, non seminare nuove paure. Questa coda di legislatura si sta rivelando così peggiore del previsto; sta proseguendo oltre le colonne d’Ercole del referendum, con il quale è naufragato il progetto di riforme costituzionali del Paese, priva ormai di un vero respiro politico, che non fosse per gli uni il proposito di durare, e per gli altri (cioè anzitutto per Renzi) il proposito di resistere al logoramento al quale il Pd viene sottoposto. Così però non si resiste, si abdica. Di questo schema è infatti figlia anche l’impotenza e l’irriflessione con la quale si porta al voto un provvedimento palesemente illiberale, contraddetto dalla migliore scienza giuridica del Paese, a cui non si riesce a dire di no solo per non tirarsi in mezzo a nuovi guai. Il Pd è tenuto sotto schiaffo dai populisti, i riformisti sono tenuti sotto schiaffo dai giustizialisti, la maggioranza è tenuta ancora una volta sotto schiaffo dal partito delle Procure. E più non demandare. Ma questo giornale lo ha fatto, sin qui: ha domandato, ha chiesto conto, ha dato voce ai più autorevoli giuristi. Quel che ha fatto, continuerà a farlo, sperando che nei passaggi successivi questo pauroso arretramento del livello di civiltà giuridica del Paese potrà essere fermato. Codice antimafia. Prevenzione arma potente, ma da usare con cautela di Fabio Basile* Il Sole 24 ore, 5 luglio 2017 Le misure di prevenzione patrimoniale sono un’arma potente, rivelatasi estremamente efficace per contrastare determinate forme di criminalità, come le associazioni di tipo mafioso, colpite dalla confisca proprio nel loro core business: l’accumulo di capitali illeciti. Quest’arma, però, deve la sua potenza, almeno in parte, al fatto che può essere usata a prescindere dall’accertamento del reato. Senza troppi giri di parole, occorre infatti constatare che le misure di prevenzione possono comportare conseguenze assai afflittive (come la perdita totale e definitiva del patrimonio) pur offrendo solo un pacchetto low cost di garanzie sostanziali e processuali. Si pensi solo al fatto che per la loro applicazione bastano indizi, senza la necessità di prove, indizi che per giunta possono essere desunti anche da fonti che non sarebbero ammesse in un processo penale. Al di là, poi, della diatriba tecnica sull’inversione dell’onere della prova, sta di fatto che il proposto, una volta colpito dal sequestro, per scongiurare la confisca ha davanti a sé una strada tutta in salita (deve, in altre parole, difendersi attaccando, mentre l’imputato in un processo potrebbe in teoria limitarsi a parare i colpi dell’avversario). Infine, le misure di prevenzione non conoscono la prescrizione e contro di esse vi è una limitata possibilità di ricorso in cassazione. Ebbene, proprio perché così potente, quest’arma dovrebbe essere usata con estrema cautela, e soprattutto mirando bene prima di sparare. Così è avvenuto, finora, nel loro impiego contro la mafia, laddove un consolidato patrimonio di conoscenze criminologiche, da un lato, e una insidiosa perniciosità del fenomeno associativo di tipo mafioso, dall’altro, convalida e giustifica alcune "scorciatoie" del sistema preventivo. Rischia, invece, di prendere male la mira il nostro Parlamento, convinto di spuntare una vittoria facile contro la corruzione mettendo in campo le misure di prevenzione. Una prima versione della riforma dell’articolo 4 del Codice antimafia estendeva, infatti, l’elenco dei destinatari di tali misure addirittura a coloro che fossero indiziati della commissione anche di un solo delitto contro la pubblica amministrazione: e non solo dei delitti più odiosi e più gravi (come concussione e corruzione), ma anche dei delitti di minore entità. Sarebbero, insomma, bastati indizi anche di un singolo episodio di peculato (magari commesso profittando dell’errore altrui) o di indebita percezione di erogazioni pubbliche (magari un’indennità di disoccupazione continuata ad essere incassata qualche mese dopo la riassunzione) per andare incontro alla confisca dei cespiti patrimoniali di cui non si fosse riusciti a dimostrare la legittima provenienza. Con conseguente massimo stridore tra la precarietà dell’indizio (anche di un delitto non particolarmente grave) e la definitività della confisca (anche di tutto il patrimonio). Tranne che per la truffa aggravata, il Senato sembra aver abbandonato tale improvvida via, subordinando ora l’applicazione delle misure di prevenzione, in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, alla presenza di indizi dell’esistenza di un’associazione finalizzata al compimento di tali delitti. Questa modifica ridimensiona le perplessità sopra espresse, ma ne fa sorgere altre, legate alle ben scarse chance di effettiva applicazione di una siffatta previsione, se non a costo di un’altissima tensione coi principi fondamentali: basterebbero, infatti, indizi, e non certo prove, di un’associazione per delinquere semplice, quindi di un’associazione di per sé priva di quei connotati, capaci invece di rivelare - anche a prescindere dalla commissione di reati - l’esistenza di un’associazione mafiosa. Il dibattito, anche convulso, che in questi giorni ha accompagnato l’iter parlamentare ha peraltro messo nell’ombra un immportante rilievo. In realtà le misure di prevenzione già oggi sono applicate dai nostri giudici anche contro soggetti che hanno accumulato ricchezze a discapito della corretta gestione della cosa pubblica. Solo che i nostri giudici - ben consci della micidialità dell’arma - hanno preso bene la mira, applicando la confisca solo ai colletti bianchi abitualmente dediti alla commissione di delitti o che abitualmente vivano di proventi delittuosi (utilizzando, quindi, le categorie della pericolosità cosiddetta comune di cui all’articolo 1 del Codice antimafia). È proprio l’elemento dell’abitualità, infatti, che rende fondata la presunzione che una ricchezza sproporzionata sia di provenienza illecita. *Docente di Diritto penale presso l’università degli Studi di Milano Se tutto è mafia, niente è mafia. Sbagliato estendere le leggi d’emergenza di Piero Sansonetti Il Dubbio, 5 luglio 2017 Le leggi d’emergenza in genere violano lo "stato di diritto" in nome dello "stato d’eccezione". Ed è lo stato d’eccezione la fonte della loro legittimità. Quando termina lo stato di eccezione - che per definizione è temporaneo - in una società democratica, torna lo Stato di diritto e le leggi d’emergenza si estinguono. La mafia in Italia ha avuto un potere enorme, e una formidabile potenza di fuoco, dagli anni Quaranta fino alla fine del secolo. È stata sottovalutata per quasi quarant’anni. I partiti di governo la ignoravano, e anche i grandi giornali si occupavano assai raramente di denunciarla, e in molte occasioni ne negavano persino l’esistenza. Parlavano di malavita, di delitti, non riconoscevano la presenza di una organizzazione forte, articolata, profondamente collegata con tutti i settori della società e infiltrata abbondantemente in pezzi potenti dello Stato. È all’inizio degli anni Ottanta che in Italia matura una nuova coscienza che mette alle strette prima Cosa Nostra, siciliana, poi le altre organizzazioni mafiose del Sud. Ci furono due novità importanti: la prima fu un impegno maggiore e molto professionale della magistratura, che isolò le sue componenti "collaborazioniste" e mise in campo alcuni personaggi straordinari, come Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, uccisi uno ad uno nell’ordine - tra il 1979 e il 1992. La seconda novità fu l’emergere di una componente anti-mafiosa nello schieramento dei partiti di governo e in particolare nella Dc. Che spinse settori ampi dello schieramento politico, che negli anni precedenti avevano rappresentato una zona grigiastra tra Stato e mafia, a scendere in campo contro la criminalità organizzata. Questo spezzò la linearità che fino a quel momento aveva caratterizzato i rapporti tra mafia e politica. Fu proprio a quel punto che scattò l’emergenza. Perché i due contendenti alzarono il tiro. Lo Stato ottenne dei clamorosi successi, soprattutto grazie all’azione di Giovanni Falcone; la mafia, per reazione, iniziò a colpire durissimo, con una strategia di guerra, fino alla stagione delle stragi, nel 1992 - 1993. Ma anche nel decennio precedente la sua capacità militare, non solo in Sicilia, era mostruosa. Negli anni Ottanta a Reggio Calabria c’erano in media 150 omicidi all’anno (oggi i delitti si contano sulle dita della mano). Per combattere la mafia, in questa situazione di emergenza, tra gli anni Ottanta e i Novanta, vengono varate varie misure eccezionali che si aggiungono a quelle che erano state predisposte per la lotta al terrorismo. Tra le altre, il famoso articolo 41 bis del regolamento penitenziario (il carcere duro), che era stato previsto come un provvedimento specialissimo che avrebbe dovuto durare pochi anni, e invece è ancora in vigore un quarto di secolo dopo. Oggi la mafia che conosciamo è molto diversa da quella degli anni Ottanta e Novanta. I suoi grandi capi, tranne Matteo Messina Denaro, sono in prigione, o morti, da molti anni. Il numero degli omicidi è crollato. Alcuni investigatori notano che c’è stato un cambio di strategia: la mafia non uccide più ma si infiltra nel mondo degli affari, dei traffici, della corruzione, della droga. E questo - dicono - è ancora più grave e pericoloso. Ecco: io non ci credo. Resto dell’idea che una organizzazione che ruba è meno pericolosa di una organizzazione che uccide. Il grado di pericolosità della mafia è indubbiamente diminuito in questi anni, in modo esponenziale, e questa è la ragione per la quale le leggi speciali non reggono più. Molti se ne rendono conto, anche tra i magistrati. I quali infatti chiedono che le leggi antimafia siano allargate ad altri tipi di illegalità. Per esempio alla corruzione politica, che - almeno sul piano dei mass media, e dunque della formazione dell’opinione pubblica - sta diventando la forma di criminalità più temuta e più biasimata. Questo mi preoccupa. Il fatto che, accertata la fine di un’emergenza, non si dichiari la fine dell’emergenza ma si discuta su come estendere questa emergenza ad altri settori della vita pubblica. La misura d’emergenza non è vista più come una misura dolorosa, eccezionale, ma inevitabile dato il punto di rottura al quale è arrivato un certo fenomeno (mafia, terrorismo, o altro). Ma è vista come un contenitore necessario e consolidato, voluto dall’opinione pubblica, dentro il quale, di volta in volta, si decide cosa collocare. La giustizia a due binari che evidentemente è la negazione sul piano dei principi di ogni forma possibile di giustizia - cioè quella costruita per combattere l’emergenza mafiosa, diventa il modello di un nuovo Stato di diritto (in violazione della Costituzione) dove lo Stato prevale sul diritto e lo soffoca. La specialità della legislazione antimafia si basava sul principio - scoperto e affermato proprio da quei magistrati che elencavamo all’inizio - secondo il quale la mafia non è una delle tante possibili forme di criminalità, né è un metodo, una cultura, una abitudine, ma è una organizzazione ben precisa - "denominata Cosa Nostra", amava dire Falcone riferendosi alla mafia siciliana - con sue regole, suoi obiettivi, suoi strumenti criminali specialissimi e specifici. E va combattuta e sconfitta in quanto organizzazione criminale particolare e unica. E dunque con strumenti particolari e unici. Questa è la motivazione - discutibile finché vi pare, ma è questa - di una legislazione speciale e di una giustizia con doppio binario. L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio sia il reato di mafia sia la legislazione antimafia, applicandola persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa, cancella quell’idea, persino la offende, e trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. E infatti a queste nuove norme antimafia si oppongono anche pezzi molto ampi, e sani, della magistratura. Forse occorrerebbe un passo di più: avviare un moderno processo di superamento delle norme antimafia, prendendo atto del fatto che lo Stato d’eccezione è finito. E riconoscere la fine dello Stato di eccezione non significa rinunciare alla lotta alla mafia. Mentre invece procrastinare lo stato d’eccezione - si sa - è l’anticamera di tutte le azione di scassinamento della democrazia e del diritto. Dell’Utri in "gravi condizioni di salute", il Giudice di sorveglianza anticipa l’udienza di Sara Menafra Il Messaggero, 5 luglio 2017 Il tribunale di Sorveglianza ha fissato al 13 luglio l’esame del caso Dell’Utri. Il Garante nazionale dei detenuti aveva sollecitato per lui una decisione in merito allo stato di salute del settantasettenne ex senatore, detenuto nel carcere di Rebibbia dal luglio 2014, affetto "da grave cardiopatia ischemica cronica". "Il medico del carcere di Rebibbia in una recente relazione sullo stato di salute di Marcello Dell’Utri - ricordava il Garante del Lazio, Stefano Anastasia - ha descritto un quadro clinico grave per le pluripatologie diagnosticate, tanto da ritenere la sua situazione "non compatibile" con il regime carcerario". Il magistrato di sorveglianza ha dunque convenuto con le istanze della difesa di Dell’Utri e le sollecitazioni dei Garanti dei detenuti per un sollecito esame del caso. Il tribunale di sorveglianza ha anticipato di ben due mesi l’esame del caso Dell’Utri. Originariamente, infatti, la data per l’esame della vicenda relativa allo stato di salute dell’ex senatore e alla sua compatibilità con il regime carcerario era fissata al 14 settembre. "È per me di grande soddisfazione la notizia che il Tribunale di sorveglianza ha anticipato al 13 luglio prossimo l’udienza per l’esame del caso Dell’Utri. Finalmente un’accelerazione che potrebbe portare a un atto di giustizia, a mio modo di vedere, dovuto", ha commentato l’azzurro Massimo Elio Palmizio, coordinatore regionale in Emilia-Romagna di Fi e storico amico dell’ex senatore Marcello Dell’Utri. A sollevare il caso e a chiedere un rapido intervento delle autorità competenti era stato alcuni giorni fa il presidente dell’associazione per i diritti dei detenuti Antigone, Patrizio Gonnella: "La salute è un bene primario e va sempre tutelato, chiunque sia la persona detenuta. Non è un argomento sostenere che Dell’Utri non debba essere trattato meglio degli altri. La sua salute e la sua vita vanno protette al pari di quella di tutti i detenuti con malattie cardiologiche. La sua vita va protetta al pari di tutti i detenuti anziani", aveva detto commentando le valutazioni arrivate dal medico del carcere di Rebibbia. Caso Consip. Domiciliari per Romeo, ma non c’è il braccialetto elettronico di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 5 luglio 2017 Alfredo Romeo ottiene i domiciliari ma resta a Regina Coeli. La misura a vantaggio dell’imprenditore del caso Consip, arrestato il primo marzo per una tangente da 100 mila euro, non può essere applicata perché non sono disponibili braccialetti elettronici. Col paradosso che la decisione favorevole del giudice si ritorce contro l’indagato che l’ha ottenuta. Nella sua situazione ci sono in Italia 122 persone (dati aggiornati al 28 giugno) con tempi di attesa per avere il dispositivo elettronico di controllo a distanza che vanno dai 20 giorni al mese. Una settimana fa la vicenda si era riproposta identica per un altro detenuto illustre, l’attore Domenico Diele, arrestato per omicidio stradale e rimasto in carcere nonostante il via libera alla detenzione attenuata. In quella occasione il guardasigilli Andrea Orlando aveva sottolineato che c’è una richiesta pendente di 12 mila braccialetti affidata a una gara del ministero dell’Interno che doveva avviare la fornitura a partire da giugno. Il bando europeo si è chiuso il 2 febbraio scorso, lotto ristretto a tre candidati (Fastweb, Rti engineering e Telecom), base d’asta a 45 milioni di euro per 27 mesi. Il vincitore, anche se in ritardo, è stato già individuato, ma per l’annuncio e l’attivazione del contratto vanno attesi i 30 giorni concessi dalla legge per eventuali ricorsi. Ad oggi sono disponibili 2.000 braccialetti, dotazione decisa nel 2013 dall’allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano, che dopo uno studio sull’applicabilità della misura affidò il servizio da 10 milioni di euro annui a Telecom. I dispositivi sono stati utilizzati in questi anni per 9.000 detenuti e un totale di 1 milione e 900 mila giorni. Ma dopo una partenza a rilento tra diffidenza, burocrazia e poca conoscenza delle procedure (i braccialetti sono in possesso del Viminale al quale i giudici devono fare richiesta), oggi il fabbisogno eccede la disponibilità. Così, se nei primi sei mesi del 2013 i braccialetti attivati erano solo 26 e ancora nel 2014 erano 55, col nuovo bando si punta ad averne mille in più ogni mese. Nel frattempo la giurisprudenza si è divisa. E, a differenza di Romeo, altri detenuti hanno visto riconosciuto il diritto a veder applicata la sentenza a loro favorevole. È successo a Bergamo con Giovanni Cottone, l’ex marito di Valeria Marini, che dopo 184 giorni a San Vittore per il crac della Maxwork ha ottenuto ad aprile i domiciliari. Misura all’inizio non applicata e poi resa possibile da un ricorso al gip. "Il ritardo non può ricadere sul detenuto", ha riconosciuto il giudice, sposando una linea già affermata dalla Cassazione. Secondo la Suprema Corte "la tecnologia di controllo è solo un accessorio, ma non è parte integrante della misura cautelare, che va comunque eseguita nel caso in cui siano i ritardi burocratici". Sorte in parte diversa per Giandomenico Monorchio, figlio dell’ex Ragioniere dello Stato, Andrea, e arrestato nell’inchiesta capitolina sui Grandi Appalti: ha ottenuto i domiciliari a gennaio anche in mancanza del braccialetto ma con l’ulteriore limitazione di non poter risiedere a Roma. Ilaria Alpi. Dopo 23 anni non ci sono colpevoli, la procura di Roma chiede l’archiviazione La Repubblica, 5 luglio 2017 I pm ritengono che sia impossibile risalire al movente e agli autori del duplice omicidio dell’inviata del Tg3 e dell’operatore Miran Hrovatin e che non ci siano prove di depistaggi. A decidere, ora, sarà il gip. La famiglia: "Prove e depistaggi ci sono in abbondanza, procura sbaglia". Impossibilità di risalire al movente e agli autori degli omicidi dell’inviata del Tg3 Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin, avvenuti il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia, e nessuna prova di presunti depistaggi. La procura di Roma chiude, con una richiesta di archiviazione, l’inchiesta sui fatti di 23 anni fa. A decidere, ora, sarà il gip. A firmare la richiesta di archiviazione, previo visto del procuratore Giuseppe Pignatone, è stato il pm Elisabetta Ceniccola, magistrato che assunse la titolarità degli accertamenti dopo che il gip Emanuele Cersosimo, nel dicembre 2007, respinse un’analoga richiesta di archiviazione sul duplice omicidio disponendo ulteriori accertamenti. Nel provvedimento, circa 80 pagine, firmato dal pm Ceniccola ci sono le risposte ai quesiti posti all’epoca dal gip Cersosimo e l’indicazione degli elementi, a cominciare dall’impossibilità di attivare indagini in Somalia, che impediscono di accertare il movente e gli autori degli omicidi. In particolare, secondo quanto si è appreso, è citata anche la sentenza della Corte di appello di Perugia che il 19 ottobre scorso, a conclusione del processo di revisione, ha assolto l’unico condannato, il somalo Hashi Omar Hassan, con particolare riferimento all’assenza di qualsiasi indicazione su movente e killer. La parte di inchiesta dedicata ai presunti depistaggi aveva preso le mosse proprio dalle motivazioni della sentenza di Perugia, nella parte in cui si parlava delle presunte anomalie legate alla gestione di un testimone, rivelatosi falso, Ahmed Ali Rage, detto Gelle, anch’egli somalo. Fu proprio quest’ultimo a chiamare in causa Hassan una volta arrivato a Roma: poi, alla fine del 1997, sparì dalla circolazione salvo essere rintracciato in Inghilterra da "Chi l’ha visto". All’inviata del programma di Federica Sciarelli, Gelle ammise di aver dichiarato il falso, ossia che non si trovava sul luogo del duplice omicidio e di aver accusato Hassan in quanto "gli italiani avevano fretta di chiudere il caso". In cambio della sua testimonianza, precisò il somalo, ottenne la promessa che avrebbe lasciato il paese africano, dove la situazione sociale era tesissima. Ma dagli accertamenti, che hanno comportato l’audizione di tutti coloro che gestirono quello che, successivamente, si sarebbe rivelato un falso testimone, non sono emersi elementi tali da configurare un depistaggio. Luciana Alpi, la madre di Ilaria, non più tardi dello scorso marzo aveva fortemente criticato il lavoro dei giudici. "Giustizia incapace, mi arrendo", era stato il suo sfogo, "d’ora in avanti mi asterrò dal frequentare uffici giudiziari, ma vigilerò contro ogni altro tentativo di occultamento". "La prima reazione è di vivo stupore per la decisione della Procura. Non è vero che non ci sono i moventi e le prove dei depistaggi, ce ne sono in abbondanza, non si vogliono leggere. La Procura della Repubblica di Roma". Così l’avvocato Domenico D’Amati, legale della famiglia Alpi, commenta la richiesta di archiviazione dell’inchiesta fatta da Piazzale Clodio. "La Procura, dopo lungo tempo - ha aggiunto D’Amati - ha detto che non ci sono gli elementi per richiedere il rinvio a giudizio quando tutti gli elementi emersi fino ad oggi indicano una responsabilità delle autorità italiane per come sono state condotte le indagini. Questo processo, fin dall’inizio, è stato destinato ad abortire". L’avvocato D’Amati vuole poi "ricordare che sulla stessa vicenda la corte di appello di Perugia, nella sentenza depositata nel gennaio 2017, aveva dichiarato che ci si trova di fronte a condotte che generano ‘sconcerto’ riferendosi al modo in cui sono state condotte le indagini sul duplice omicidio". Secondo il legale della famiglia Alpi "ci sono stati tentativi di depistare le indagini da parte di apparati dello Stato italiano: in particolare è stato pagato un informatore per far accusare una determinata persona (il somalo Gelle ndr) e questa persona ha ammesso di essere stata pagata per mentire e far condannare un innocente, Hashi Omar Hassan, questo è emerso a Perugia". "Delusione e amarezza. Dopo la sentenza della Corte di Appello di Perugia, a mio modo di vedere c’erano, e ci sono, tutte le condizioni per dare nuovo impulso alle indagini per cercare di trovare le prove di quella che tutti sappiamo essere la verità. Ilaria e Miran furono uccisi perché avevano scoperto responsabilità di faccendieri, affaristi, pezzi deviati dello Stato all’ombra della cooperazione internazionale e traffici di rifiuti e di armi con relativi depistaggi. Per questo la richiesta della Procura di Roma lascia amareggiati e delusi". Così Walter Verini, capogruppo Pd in commissione Giustizia della Camera. "Sconcerto e rabbia. Sentimenti aggravati dalla recente sentenza emessa dal tribunale di Perugia che ha scagionato l’unico imputato e ha di fatto confermato l’impressionante serie di depistaggi e bugie che hanno caratterizzato questa vicenda". È quanto si legge in una nota di Fnsi e Usigrai. La nozione di privata dimora nel delitto di furto in abitazione. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2017 Furto in abitazione e furto con strappo (articolo 624 bis c.p.) - Privata dimora - Configurazione. Ai fini della configurabilità del delitto previsto dall’articolo 624 bis c.p., i luoghi di lavoro non rientrano nella nozione di privata dimora, salvo che il fatto sia avvenuto all’interno di un’ area riservata alla sfera privata della persona offesa: rientrano, quindi, nella nozione di dimora privata esclusivamente i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgano non occasionalmente atti della vita privata e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare • Corte di Cassazione, sezioni Unite, sentenza 22 giugno 2017 n. 31345. Furto in abitazione e furto con strappo (articolo 624 bis c.p.) - Tutela - Privata dimora - Configurazione - Fattispecie relativa a furto tentato pluriaggravato. La previsione di cui all’articolo 624-bis c.p. tutela i luoghi in cui si svolgano atti afferenti alla vita privata - ivi compresa quella lavorativa - delle persone, essendo pertanto necessario, ai fini della sua operatività, che nel luogo di commissione del furto possa essere concretamente prefigurata la presenza di qualcuno intento, anche in via occasionale, alle predette attività. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 22 marzo 2016, n. 12256. Furto in abitazione e furto con strappo (articolo 624 bis c.p.) - Concetto di privata dimora - Configurazione - Differente dalla nozione di abitazione principale. Il concetto di privata dimora sancito dall’articolo 624-bis c.p. esprime un significato ben più ampio di quello normalmente riconnesso all’espressione "luogo di abitazione" e ricomprende in sé tutti quegli spazi delimitati non pubblici all’interno dei quali le persone possano trattenersi, anche in maniera transitoria e contingente, per svolgere atti della propria vita privata. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 11 giugno 2015 n. 24763. Furto in abitazione e furto con strappo (articolo 624 bis c.p.) - Fattispecie relativa a rapina aggravata - Nozione di privata dimora. Costituisce luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora nel delitto di furto in abitazione (ex articolo 624 bis c.p.) qualsiasi luogo nel quale le persone si trattengano per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della loro vita privata, come un esercizio commerciale o uno studio medico, durante l’orario della loro apertura al pubblico; risultando del tutto minoritario l’orientamento di segno opposto, secondo il quale non rientrano nella previsione dell’articolo 624 bis c.p., le condotte di furto che si verificano all’interno di un pubblico esercizio o di un negozio durante l’orario di apertura e nella parte concretamente aperta al pubblico (in tal senso Cass. 24.1.2013, n. 11490) • Cassazione penale, sezione II, sentenza 11 giugno 2015 n. 24761. Gli errori dei magistrati ancora senza sanzione di Bruno Ferraro* Libero, 5 luglio 2017 Dodici denunzie di violenza nei confronti del marito in poco più di diciotto mesi, una evidente richiesta di aiuto e di protezione caduta nel vuoto, alla fine nel 2007 una donna maltrattata è stata uccisa sotto gli occhi del padre a sua volta gravemente ferito, tre bambini sono rimasti orfani ed in seguito adottati da uno zio. La condanna a 20 anni per omicidio non ha certamente eliminato le conseguenze di una prolungata inattività dell’Autorità giudiziaria ma, se mai, accresciuto le originarie forti perplessità circa i limiti dei poteri conferiti ai giudici e le responsabilità derivanti dal loro mancato esercizio. A distanza di circa dieci anni il Tribunale di Messina, valutando l’operato dei due pubblici ministeri di Caltagirone che istruirono le denunzie, li ha ritenuti colpevoli per dolo, colpa grave ed inerzia inescusabile, riconoscendo un risarcimento di € 300.000 ai tre minori. Il paradosso è che a pagare, al momento, non saranno i due giudici ma la Presidenza del Consiglio dei Ministri (quindi tutti noi), perché così si esprimeva la legge del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati e così si esprime, con piccole varianti, la riforma varata tra squilli di tromba dal governo Renzi. Fin qui il fatto che ha indotto a parlare di una "sentenza storica". Ma mi chiedo e se lo chiedono ovviamente i comuni cittadini, se la vigente regolamentazione è giusta e se ha ancora un senso, costituzionalmente parlando, la sostanziale disapplicazione per i magistrati dei criteri che valgono per tutti gli altri professionisti, in particolare per quelli (esempio i chirurghi) che operano in condizioni di estrema difficoltà e di accentuato rischio di errore. La mia opinione, non da oggi, è che occorre rivedere lo status del giudice alla luce di una aggiornata rilettura del dettato costituzionale, anche perché le cosiddette "guarentigie" furono stabilite in un momento in cui la magistratura, uscita debole dal conflitto bellico e dal ventennio fascista, necessitava di una tutela rafforzata per poter operare in condizioni di autonomia ed indipendenza, interna ed esterna. Girare attorno al problema non è più possibile perché la comunità non capisce né accetta il senso delle deroghe al comune regime di responsabilità. Dopo il referendum degli anni 80 fu espresso il timore che un accrescimento delle responsabilità si trasformasse in una sorta di intimidazione. Ci fu da parte di molti la corsa alle polizze assicurative. Di fatto nulla è cambiato e gli errori dei giudici, sicuramente cresciuti di numero, sono rimasti non sanzionati. Ed allora, mi sento di lanciare un appello. Perché non ci si siede intorno ad un tavolo (politici e tecnici) per fare una riflessione aggiornata? Ne guadagnerebbe la fiducia dei cittadini e si darebbe un segnale importante in termini di uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Nel caso di specie siamo al cospetto di una condotta omissiva (denegata giustizia), ma molto più numerosi sono i casi di iniziative repressive esagerate che si rivelano in seguito non adeguatamente ponderate ed equilibrate, spingendo a parlare addirittura di accanimento giudiziario. Ne scriverò in un prossimo articolo. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Gli psicologi del carcere rottamati in silenzio di Graziella Cian (Psicologa) Il Mattino di Padova, 5 luglio 2017 In questi giorni tanto si è parlato di volontari che prestano la loro opera all’interno della casa di reclusione di Padova raggruppando sotto questo termine diverse realtà, confondendo talvolta il volontariato con le cooperative sociali e soprattutto il diverso ruolo che rivestono nei confronti dei detenuti. Tanto si è scritto anche sul precedente direttore che attualmente sta ricoprendo la carica di vicario nel Provveditorato del Triveneto del Ministero di Giustizia. Ma in totale silenzio in questi giorni nelle carceri del Veneto gli psicologi che, per più di 20 anni hanno lavorato con l’Amministrazione Penitenziaria, non hanno più vista rinnovata la loro convenzione. Considerati in tutti questi anni come "liberi professionisti", perché tenuti obbligatoriamente a Partita Iva e quindi senza nessun diritto se non quello di venire pagati a presenza oraria con compensi irrisori. Nonostante le numerose rassicurazioni ricevute nel tempo da parte di politici e funzionari per una possibile soluzione del nostro inconsueto rapporto lavorativo, ciò non è mai avvenuto. Anziché valorizzare la lunga esperienza acquisita e la grande collaborazione con l’Amministrazione, si è optato per la rottamazione attraverso una pubblica selezione che premiava l’aver svolto in carcere uno stage, piuttosto che un tirocinio e non riconosceva nessun punteggio per gli anni di duro lavoro svolti dagli psicologi in servizio azzerando di fatto le loro competenze. Probabilmente non molti sanno che istituzionalmente il compito rieducativo in carcere è affidato alle figure che appartengono alla Equipe quali il direttore, il comandante, gli educatori, le assistenti sociali e gli esperti psicologi ex art 80. Compito rieducativo che passa attraverso lo svolgimento di diverse attività nello specifico l’Esperto psicologo si occupa dell’ osservazione della personalità, del sostegno e del trattamento dei detenuti. Credo sia facilmente intuibile come l’esperienza specifica in questo settore si acquisisca non in tempi brevi e rappresenti una valenza particolarmente significativa. Personalmente desideravo evidenziare, soprattutto di fronte ai non pochi problemi che necessitano di una soluzione, l’incomprensibile "accanimento" nei confronti di questi lavoratori privi di qualsiasi tutela, mentre collegialmente mi sarebbe sembrato opportuno mettere in evidenza l’inevitabile disservizio che questa scelta comporterà negli istituti penitenziari dati anche i diversi e delicati compiti ricoperti dagli esperti psicologi ex Art. 80. Sardegna: nelle carceri è boom di stranieri sardegnaoggi.it, 5 luglio 2017 In aumento in Sardegna il numero di detenuti stranieri. Nel carcere di Bancali sfiorano il 33%, a Isili superano il 40% e a Uta sono a circa il 18%. Mamone resta al top con 80,47% seguito da is Arenas-Arbus (78%). "È in progressiva crescita il numero dei detenuti stranieri nelle carceri della Sardegna. Sono passati da 623 nel mese di maggio a 652 (su 2.236 ristretti) al 30 giugno. Rappresentano il 29,1% delle persone private della libertà, con una punta massima dell’80,47% nella Casa di Reclusione all’aperto di Mamone-Lodè". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", esaminando i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che fotografano la realtà detentiva al 30 giugno. "Dalla rielaborazione dei dati forniti dal Ministero si evince - sottolinea - una consistente presenza di stranieri, decisamente superiore alla media nazionale del 34%, a Is Arenas/Arbus 78% (99 stranieri su 126) e a Isili 40,9% (34 stranieri su 83 ristretti). Di particolare rilievo però si presenta la realtà detentiva sassarese. Nella Casa Circondariale di Sassari-Bancali gli stranieri sono 152 (32,9%), un numero molto importante perché le presenze dei detenuti eccedono il limite regolamentare (sono 462 per 454 posti letto), vi sono 90 reclusi in regime di massima sicurezza (41bis) e 18 donne. Insomma una realtà molto complessa". "La massiccia presenza di cittadini stranieri privati della libertà contrasta con il principio della territorialità della pena, che dovrebbe essere sempre rispettato per evitare di sradicare persone con una parentela in genere localizzata nel centro-nord Italia. Si tratta infatti spesso di extracomunitari provenienti da strutture detentive della Penisola impegnati in lavori agricoli nelle colonie. Queste ultime, nonostante le buone intenzioni del Dipartimento, non sono ancora a pieno regime. Occorre accelerare il percorso e promuovere le produzioni di qualità altrimenti le aree interessate, peraltro con profili ambientali particolarmente apprezzabili, rischiano di essere - conclude la presidente di Sdr - solo una servitù penitenziaria che pesa sulla Sardegna". Roma: la Camera Penale al 41bis di Rebibbia "silenzio assordante, poi l’urlo di un uomo" di Maria Brucale* Il Dubbio, 5 luglio 2017 Una delegazione di avvocati ha visitato i reparti del carcere romano: da quello dove si applica la vigilanza dinamica alla media sicurezza, dalla sezione dedicata ai detenuti transessuali al carcere duro. Tra condizioni di degrado e criticità strutturali anche per gli agenti della Polizia penitenziaria. Una delegazione della Commissione Carcere della Camera Penale di Roma, composta dagli avvocati Maria Brucale, Caterina Calia, Mauro Danielli, Claudia Prioreschi, unitamente all’avvocato Roberta Giannini dell’Osservatorio Carcere, ha visitato il carcere di Rebibbia N.C. Dopo avere incontrato la Direttrice del carcere, dottoressa Santoro, accompagnati dalla Vice Comandante Angela Briscese e dal Sostituto Commissario Luigi Bove, i membri della delegazione hanno fatto ingresso in numerosi reparti detentivi, comprese le sezioni che ospitano persone detenute in regime ex art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario. Il primo reparto visitato è stato il G8, un luogo che ospita detenuti di lungo corso che vi accedono dopo un esame dell’equipe intramuraria e una osservazione in altri reparti. Nel G8 si applica la vigilanza dinamica, un regime, cioè, che consente ai ristretti di trascorrere fuori dalle camere di pernottamento 12 ore. Ci sono postazioni fisse di controllo ed alcune unità in movimento. Oltre ai passeggi, la sezione dispone di una sala musica, una piccola area bricolage al momento dismessa, una palestra, un bel campo da calcio in erba sintetica, un campetto da tennis. Il G8 ospita anche un’area destinata al lavoro presso il call center dell’ospedale Bambino Gesù. Aperto da Telecom nel 2006, con il servizio 1254 di Telecom Italia, lo sportello è stato rilevato dalla cooperativa E- team che dà lavoro a 11 interni e cinque esterni. Le persone detenute nel G8 godono di una carcerazione privilegiata rispetto al resto dell’istituto. Per questo, sottoscrivono un "patto trattamentale" con il quale si impegnano al rispetto pedissequo delle regole imposte e, qualora vengano meno, vengono trasferiti. Nei reparti di media sicurezza, la Direzione ha, già da anni, positivamente collaudato un sistema denominato "movie" che consente alle persone ristrette di godere di spazi più ampi di libertà attraverso l’uso di cartellini di identificazione colorati che danno ingresso ad aree determinate del carcere. Con l’uso del tesserino del colore assegnato alla zona cui deve fare accesso, la persona detenuta può muoversi in autonomia. Un sistema che non ha creato gravi problemi di sicurezza o di disciplina e che, pertanto, è stato rinnovato. Le camere di pernottamento hanno spazi di vivibilità inferiori alla lettura che da ultimo la Cassazione ha offerto della nota sentenza Torreggiani. I 3 metri quadri vengono calcolati al lordo dell’occupazione dei letti così come, del resto, prevede ancora l’applicativo 18, ossia il sistema che valuta la coerenza delle celle con i dettami della Torreggiani. Alcune celle singole, destinate a persone condannate all’ergastolo, appaiono molto piccole e condensano nell’unico ambiente letto, bagno e cucina in una vistosa promiscuità. La sezione che ospita persone transessuali, offre uno spaccato di umanità assai dolente. Le detenute lamentano l’insufficiente somministrazione di ormoni e rivolgono alla delegazione una accorata richiesta di vestiti da donna. Sono 21, quasi tutte straniere e senza familiari che mandino loro vestiario. Ricevono abbigliamento dalla Caritas ma sono abiti da uomo. I muri della sezione sono molto logori e le pareti rose da muffe. Le celle appaiono non coerenti ai dettami Cedu riguardo agli spazi di vivibilità. La delegazione fa ingresso nelle sezioni dedicate al 41 bis. Il reparto G13 si compone di due aree, una di recentissima realizzazione che ha celle abbastanza grandi, locali puliti e finestre che danno adeguato ingresso ad aria e luce. Diversamente è a dirsi per la parte più vecchia del reparto dove il bagno alla turca è sormontato dalla doccia determinando una condizione igienica allarmante. Le finestre sono strette, alte e schermate. Anche i locali del G7, l’altro reparto di detenzione 41 bis, sono più ampi. Ogni blocco ospita non più di quattro persone le cui celle sono poste sullo stesso lato della parete. Qui la circolare Dap che modifica il nome in ‘ camere di pernottamento’, non può entrare. Le celle sono celle, dove trascorrere quasi tutto il giorno in totale inazione e isolamento. Le 37 persone in regime detentivo derogatorio trascorrono in cella 22 ore. Le restanti due, le dividono tra passeggi in uno spazio grigio e asfittico sormontato da fitte reti metalliche, e la c.d. socialità, in una saletta spoglia e anch’essa angusta. La sensazione è opprimente. Il silenzio assordante. Un uomo grida che si trova lì da 23 anni. 23 anni di non vita. Anche le successive sezioni visitate dalla delegazione mostrano le ferite del carcere. Al G9, attraversando la c. d. barberia e la sala ping pong, si incontrano muri logori e locali consunti e spogli. Le celle sono anche a sei letti. La struttura del reparto è disposta a raggera. I muri sono scrostati e sono presenti crepe e muffe, soprattutto nei bagni. Nelle celle viene erogata solo acqua fredda. C’è un refrigeratore e un pozzetto congelatore nel corridoio dove i ristretti congelano pacchetti di ghiaccio per tenere in fresco acqua e altro nelle loro borse frigo. Al G11, Terra C, sono recluse le persone che fanno uso di stupefacenti. È un luogo grigio e malconcio dove si respira la sofferenza e la dipendenza di queste uomini in cura. Devono stare chiusi, nel rispetto del loro piano di terapia. Hanno un piccolo passeggio fatiscente. Nessuna attività o formazione. Non possono cucinare e lamentano una alimentazione inadeguata che ne determina il sovrappeso. Riconducono la loro incapacità di progredire nella terapia metadonica all’ assenza di attività trattamentale, di una spinta di ideazione o di distrazione. Muffe e crepe alle pareti ed una condizione, per i circa 33 ristretti, di vistoso sovraffollamento. Un uomo dice di avere i pidocchi e di attendere il barbiere da giorni. Al Terra B si trovano molti disabili. Ci sono percorsi per ipovedenti che giungono fino alle celle. Per ogni disabile è previsto un c.d. piantone o, nella nuova nomenclatura Dap, "addetto alla persona". Un uomo in carrozzella, anziano e all’apparenza colpito da ictus - vista la difficoltà di esprimersi - lamenta di non poter fare la doccia da sei giorni perché non ha acqua calda in cella e non può accedere ai locali comuni. I detenuti protestano per la lunghezza dei tempi di attesa per avere le visite richieste. La delegazione visita il G6, luogo deputato ad ospitare detenuti con sanzioni disciplinari. Non hanno contatto con nessuno e sono sorvegliati a vista. Il passeggio è un rettangolo di cemento sormontato da una fitta rete metallica. Al momento sono in dodici e due celle sono di isolamento. Al G12 Terra A, c’è la sezione di prima accoglienza o dei "nuovi giunti". Un luogo dove il detenuto deve essere sottoposto al test Mantoux per la tubercolosi ed essere, entro un massimo di 72 ore, tradotto nel reparto assegnatogli. Tuttavia pare che, invece, alcuni si trovino in quella condizione anche da tre mesi e mezzo. I nuovi giunti sono esclusi dalle attività trattamentali e vivono, anch’essi in celle sovraffollate, con le pareti scrostate e logore. È una città, Rebibbia N. C., abitata da oltre 1.400 anime. Un coacervo di bisogni sia della struttura sia dei reclusi. Alcune zone sono state di recente ristrutturate ma i fondi non sono mai sufficienti a porre rimedio alle numerose criticità. È una situazione potenzialmente esplosiva tenuta a bada solo grazie all’elevata professionalità degli Agenti Penitenziari. Questi ultimi lavorano in condizioni inaccettabili, 230 unità al di sotto dell’organico. Spesso dieci Agenti sono posti a sorvegliare circa 400 persone detenute. Di notte, a volte, si riducono a due. Gestiscono situazioni sempre imprevedibili, delicate e umanamente impegnative. A volte drammatiche. Hanno a che fare anche con la realtà tragica dei malati psichiatrici in attesa di accoglienza in strutture terapeutiche idonee alla cura e tentano di offrire, per quanto possibile, assistenza e pazienza, responsabili solitari della sicurezza dell’istituto e della tutela delle persone ristrette. *Coordinatrice della Commissione Carcere Ucpi Santa Maria Capua Vetere (Ce): carcere senz’acqua, la rabbia di agenti e detenuti di Biagio Salvati Il Mattino, 5 luglio 2017 Ma la direttrice rassicura: situazione sotto controllo. Interrogazione di Capacchione. "Tra permanente carenza d’acqua e black-out elettrici questo carcere non trova pace. I detenuti hanno protestato battendo oggetti vicino alle inferriate, gli agenti chiedono interventi urgenti, ma la situazione è comunque sotto controllo". Sono le parole di Carlotta Giaquinto, direttrice di una delle più grandi case circondariali della Campania, nuovamente alle prese - già da alcune settimane - con il problema della mancanza dell’acqua che si ripropone ogni anno all’arrivo del grande caldo. Alla struttura manca un allaccio alla condotta idrica pubblica e questo, ogni estate, si ripercuote sulla vita dei detenuti, già in sovrannumero (variano dai 940 ai 970 al giorno tra ingressi e uscite di detenuti) contro gli 833 previsti in organico. Lo scorso anno, vista l’impossibilità del Ministero di Giustizia di finanziare l’opera per intero, è intervenuta la Regione che ha stanziato i fondi, quindi è iniziata la procedura di affidamento dei lavori curata dal Comune, che è stazione appaltante. Durante la giornata l’acqua, prelevata dai pozzi, viene quasi razionata, con orari in cui non si può utilizzare, e spesso l’erogazione si interrompe per il malfunzionamento di una cabina elettrica e il conseguente stop dell’impianto di pompaggio. Molti detenuti, peraltro, visto il grande caldo, fanno docce più volte al giorno e ciò mal si concilia con la scarsità d’acqua. "Siamo nella fase della selezione dei progetti - spiega Giaquinto - purtroppo i tempi per la realizzazione dell’opera idrica, che per noi è fondamentale, sono ancora lunghi". Ma i problemi riguardano anche gli agenti di polizia penitenziaria che sono 478, in rapporto di quasi uno a tre con i reclusi (in Europa il dato è più basso) e sottodimensionati di 83 unità. Gli agenti della penitenziaria sono in agitazione da settimane; al Dap hanno chiesto di inviare venti unità per dar respiro ai poliziotti presenti (lo scorso anno furono aumentati già di 25) e qualche giorno fa hanno iniziato ad astenersi dal mangiare alla mensa. Problematiche stigmatizzate in una nota della Uil-Pa e anche della Uspp i quali, a proposito dell’astensione dalla mensa, parlano di "unica forma di protesta che possiamo attuare, ma presto potremmo decidere di organizzare una manifestazione per richiamare l’attenzione su una situazione insostenibile. Va rivista la pianta organica del carcere di Santa Maria Capua Vetere, ma anche dell’altra struttura del Casertano, a Carinola". Un super lavoro per gli agenti, denunciano i sindacati, visto che la casa circondariale di Santa Maria è tra le più difficili della Regione, ospitando gli affiliati ai clan, una femminile e un’altra per la tutela della salute mentale con 20 detenuti che hanno problemi psichici che fino al 2015 erano internati negli ex Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg); per quest’ultimi mancherebbero anche gli operatori specializzati. Altro problema è che i detenuti ex Opg spesso sono costretti a restare in carcere a causa della mancata partenza in alcune regioni italiane delle Rems (Residenze per l’Esecuzione di Misure di Sicurezza), struttura che avrebbero dovuto sostituire gli ospedali psichiatrici. Della scorsa settimana, inoltre, un episodio di aggressione ai danni di tre agenti rimasti contusi avvenuto nel reparto Danubio, a opera di un detenuto che ha avuto momenti di squilibrio. Sulla questione ieri è intervenuta con una nota la senatrice del Pd Rosaria Capacchione, annunciando la presentazione di un’interrogazione urgente al ministro della Giustizia. "I detenuti del carcere di Santa Maria sono già in sovrannumero e inoltre la struttura è tra le più difficili della regione, visto che ospita una sezione per detenuti di alta sicurezza, ovvero gli affiliati, una femminile e un’altra per la tutela della salute mentale con 20 detenuti che hanno problemi psichici gravi. La mancanza d’acqua - conclude - ha serie ripercussioni sulle loro condizioni fisiche. Mi auguro che una volta per tutte si voglia affrontare questa emergenza con misure precise ed efficienti". Caserta: "doccia con i sacchi della spazzatura, così si uccide la dignità dietro le sbarre" di Marilù Musto Il Mattino, 5 luglio 2017 Per lavarsi i detenuti facevano il "canotto". In sostanza, disponevano una busta di plastica nera a terra sostenuta da quattro bottiglie piene, il detenuto che doveva fare la doccia si poneva al centro della busta nudo e gli altri, con le bottiglie, gettavano acqua su di lui, in modo che questo poteva lavarsi e fare una sorta di doccia. Lo spiega bene l’ex sindaco di Caserta, Pio Del Gaudio, il piano di sopravvivenza dei detenuti. Lui, in carcere da innocente per 12 giorni, nel luglio del 2015, ha raccontato la vita dal di dentro, fra le quattro mura della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. La sua posizione è stata archiviata dalla Procura Antimafia di Napoli nel 2016, ma lui, Del Gaudio, ora parla del modo in cui si sopravvive. "In condizioni assurde", dice. Senz’acqua sin dalle prime luci dell’alba. Impossibile resistere. "Non mi piace parlare di ciò che ho subito racconta Del Gaudio - ma lo faccio perché lo devo ai miei compagni di cella con i quali ho condiviso 12 giorni di inferno. Ho promesso che una volta uscito avrei spiegato all’esterno il mondo del carcere. Se ‘viverè può essere un verbo adatto per definire il trascorrere inesorabile dei giorni in quel luogo senz’anima, allora vuol dire che fuori, oltre quelle mura, si sta da Dio. I detenuti chiedono sempre il trasferimento da Santa Maria Capua Vetere a Terni o ad Avellino perché in quelle Case circondariali si vive umanamente, almeno così mi dicevano. Mentre a Santa Maria la lotta è continua per ottenere il minimo. Anche perché in carcere non sei nulla. Quando io sono entrato non avevo niente con me, nemmeno le lenzuola per il letto, ciò che sono riuscito a ottenere appena entrato in cella lo devo al mio compagno di stanza, un ragazzo che si chiama Mirko e che mi ha donato persino le federe dei cuscini". Del Gaudio spiega che l’acqua non arrivava al bagno fin dalle prime ore del giorno: "Alle ore 9 i rubinetti erano a secco, quindi nessuno poteva lavarsi. C’era l’acqua delle bottiglie con cui fare il famoso "canotto", ma nient’altro. È orribile constatare che da quando sono uscito nulla è realmente cambiato lì. Se si toglie l’acqua stiamo parlando di una privazione essenziale durante l’arco dell’intera giornata". Le proteste dei detenuti iniziavano alle ore 20 di ogni sera, quando davvero non ne potevano più. "Esiste un rito che si chiama ‘battiturà- spiega ancora Del Gaudio - e consiste nel battere i coltelli e i bicchieri sulle grate in modo da far rumore e richiamare l’attenzione degli agenti di polizia penitenziaria". La popolazione carceraria deve fare anche i conti, soprattutto in estate, con la puzza del vicino sito di tritovagliatura e della discarica accanto al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Un olezzo insopportabile, una doppia condanna per la popolazione carceraria. In realtà, il finanziamento sbloccato dalla regione Campania per l’apertura del cantiere in carcere dovrebbe dare il via ai lavori che stentano a decollare da anni: il collettore idrico del carcere dovrebbe essere connesso direttamente alla centrale, bypassando i tubi del Comune di Santa Maria Capua Vetere. Per lo sblocco dei fondi s’interessò direttamente la deputata del Pd Camilla Sgambato che ora chiede l’intervento del Ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Avellino: troppi detenuti e pochi agenti, ad Ariano Irpino carcere al collasso di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 5 luglio 2017 Diciannove detenuti giunti da Poggioreale, un altro ancora da Santa Maria Capua Vetere, personale di polizia penitenziaria sotto organico e nonostante ciò ulteriormente sovraccaricato di lavoro. È caos nel carcere di Ariano Irpino, dove il delegato regionale Uspp Campania Maurizio De Fazio annuncia lo stato di agitazione: "La conta numerica dei detenuti è salita a 300, registriamo anomalie in merito al piano ferie, attuato mediante sorteggio dalla parte pubblica. Un modus operandi alquanto anomalo. La situazione attuale è preoccupante. Non mancano le ripetute aggressioni nei confronti del personale di polizia, l’ultima in ordine di tempo, ai danni di un assistente capo in servizio all’ottava sezione, minacciato e deriso da un detenuto. Ha dovuto fare ricorso alle cure dei sanitari del pronto soccorso dell’ospedale di Ariano Irpino, per il forte stato ansioso. Chiediamo un intervento urgente e non escludiamo forme di protesta ancora più forti, come lo sciopero della fame, disertando la mensa di servizio. La comunicazione dell’Unione sindacati di Polizia Penitenziaria è stata indirizzata: al Provveditore Regionale Campania Giuseppe Martone e per conoscenza a Michelina Cassese Ufficio Relazioni Sindacali Prap, Gianfranco Marcello Direttore della Casa Circondariale di Ariano Irpino, Giuseppe Moretti Segretario Nazionale Usppp, Ciro Auricchio Segretario Regionale Campania Uspp e ai delegati Uspp di Ariano Irpino. Trento: cinque detenuti "lasciano" il carcere per andare in pellegrinaggio di Nadia De Lazzari Il Trentino, 5 luglio 2017 Esperimento (riuscito) per cinque "ospiti" di Spini di Gardolo 60 km a piedi in val di Non ricordando padre Fabrizio Forti. È durata quattro giorni "l’evasione" in Val di Non per cinque detenuti del carcere di Spini di Gardolo. In un attimo hanno superato i portoni blindati, assaporato la libertà e 60 chilometri a piedi, poi hanno attraversato boschi, canyon, meleti, sostato in castelli, santuari, musei, apprezzato accoglienza, solidarietà, spiritualità e versato lacrime di gioia per un gelato, sapore dimenticato. I paesi di provenienza del gruppetto sono differenti, anche le lingue, le culture, le religioni, invece le storie sono uguali, un mix di povertà ed emarginazione. Amin arriva dall’Afghanistan, a Kabul i talebani gli hanno ucciso il padre, poi la fuga e il viaggio della speranza alla ricerca del benessere; Joel, con il tau francescano, è originario dalla Nigeria; Malang dal Gambia, la sua bocca sfodera un sorriso quando il canto del gallo trentino lo riporta alla quotidianità della terra africana; Samir è nato in Bosnia, infine Viorel della Romania si emoziona nel ricordo dei cuochi, gli sposi Ivana Taddei e Renzo Nardelli, che di buon mattino gli portavano il caffè in stanza e degli "amici" : padre Stefano Zuin, Remo Bonadiman, Donato Iob (guida), Laura Covi, Walter Dusini, Italina Fedrizzi, Lina Magnoni, Gemma Sicar. A concedere, per la prima volta, la singolare "evasione", ossia l’autorizzazione, ai detenuti con buona condotta che beneficiano dell’articolo 21 (lavoro all’esterno) il magistrato di sorveglianza, il direttore del carcere con il personale, il neo cappellano; a proporre il "cammino della misericordia" con i timbri della carta credenziale - avviato nel Giubileo insieme a padre Fabrizio Forti, cappellano morto all’improvviso - ci hanno pensato i volontari dell’associazione "Anaune Amici del Cammino di Santiago" con il presidente Remo Bonadiman che ai "ragazzi" hanno offerto l’abbigliamento: maglioni, k-way, scarpe, ombrelli, mantelle. Zaini e berretti li hanno donati le Casse Rurali. Sulle Alpi i cinque carcerati hanno vissuto giornate in mezzo alle bellezze naturali, artistiche, storiche all’insegna dell’umanità, dell’accoglienza e della convivialità. Il cammino ha preso avvio lo scorso martedì dalla basilica dei SS. Martiri Anauniesi di Sanzeno; quattro le tappe: Sanzeno-Fondo-Santuario della Madonna di Senale-Marcena di Rumo-Santuario di San Romedio, la meta. Base logistica (colazione, cena, pernottamento) è stata l’oratorio di Romeno. Dopo la positiva esperienza i primi commenti. Il neo cappellano, il missionario comboniamo Stefano Zuin, annota: "Grazie all’associazione e alle istituzioni che hanno approvato l’iniziativa. È un modo educativo di pensare il carcere e farlo vivere con il valore della solidarietà". Il presidente Remo Bonadiman aggiunge: "È nata nel 2015. Siamo emotivamente colpiti soprattutto quando hanno detto di sentirsi come a casa, si è stabilito un bel rapporto e un coinvolgimento vicendevole. C’è la voglia di mantenere i contatti". Il direttore Valerio Pappalardo conclude: "Ho due testimonianze emblematiche. Un detenuto mi ha detto che è stata un’esperienza unica dal punto di vista emotivo. Aveva le lacrime agli occhi. Un altro mi ha detto che in questi giorni è come se avesse cancellato tutta la sua precedente detenzione e fosse entrato per la prima volta. Che dire? Tutto è andato ben oltre la semplice passeggiata. È qualcosa che ha scavato nell’interiorità dell’essere umano e ha lasciato un ricordo indelebile di riflessione e commozione. Sono rimasto turbato. È da ripetere". Ora Amin, Joel, Malang, Samir, Viorel, un passato da dimenticare e un futuro da ricostruire, sono in carcere, ma da oggi non sono più soli. Sulmona (Aq): "repartino detenuti" all’Ospedale, la Uil-Pa torna alla carica contro l’Asl rete5.tv, 5 luglio 2017 "Grazie al contributo della Direzione della Casa di Reclusione di Sulmona, siamo venuti a conoscenza del fatto che la ASL sapeva tutto della necessità che si aveva di dover contare su un reparto penitenziario nel nosocomio sulmonese dotato dei requisiti idonei al ricovero di detenuti altamente pericolosi. Tuttavia, stante quanto sarebbe stato elaborato a livello progettuale, nulla di quanto concordato sarebbe stato reso esecutivo". A rilanciare la questione è Mauro Nardella Vice Segretario Regionale Uil Pa Polizia penitenziaria. "La Direzione carceraria, infatti, negli incontri che si sono tenuti negli uffici del carcere proprio sull’argomento, avrebbe più volte ribadito la necessità di avere a disposizione non una stanza 4x4, così come sarebbe stato messo in cantiere, ma un reparto vero e proprio dotato di minimo due stanze di degenza, entrambe munite di bagno ed una terza stanza per il personale di polizia penitenziaria che dovrà svolgere il servizio di piantonamento in loco precisa Nardella - si ringrazia il dottor Romice e tutti coloro i quali hanno lavorato insieme a lui per le precisazioni forniteci. A loro va il nostro plauso per la dedizione mostrata alla causa. Restiamo in attesa di risposta alla lettera che lo stesso Romice ha indirizzato Al Direttore Generale Asl - Abruzzo dr. Tordera, al Direttore del presidio ospedaliero dr. Tonio Di Biase e al responsabile del servizio aziendale di medicina penitenziaria dr. Settimio Andretti e volte a ribadire la necessità di vedere rispettate le indicazioni fornite soprattutto in considerazione del fatto che le necessità esposte sono imprescindibili o inderogabili per l’organizzazione della assistenza sanitaria extra muraria in un territorio che ospita attualmente la media di 450 detenuti di elevata caratura criminale e che prossimamente sarà destinato ad accogliere una media di circa 700. Resta ferma la diffida avanzata dalla Uil circa la richiesta di accoglimento delle richieste avanzate. In caso contrario metteremo in campo le legittime manifestazioni di protesta che nel recente passato abbiamo annunciato", conclude il sindacalista Uil. Avellino: così sport e jazz fanno la differenza in carcere di Angelo Nicastro Il Mattino, 5 luglio 2017 Acli e Casa Circondariale di Avellino insieme per "fare la differenza". Al Coni provinciale l’incontro per raccontare il positivo bilancio del progetto "Make the difference", dedicato agli operatori penitenziari e ai detenuti, alla presenza del direttore del carcere Paolo Pastena, del vicedirettore Concetta Felaco, del direttore dell’Ufficio detenuti e trattamento del Dap Campania, Domenico Schiattone, del presidente dell’Us Acli di Avellino, Tiziana Ciarcia, e del delegato Coni Avellino, Giuseppe Saviano. "Il progetto, che si concluderà lunedì con il saggio finale, è stato concepito per favorire l’inclusione e la coesione sociale attraverso attività di volontariato - spiega Tiziana Ciarcia. Abbiamo svolto ginnastica a corpo libero, pallavolo, musicoterapia e jazzercise con i detenuti mentre il personale è stato coinvolto in corsi di primo soccorso e difesa personale, elementi positivi per la salute psico-fisica e il miglioramento della convivenza". "Abbiamo avuto il merito di proporre il progetto in sinergia con il direttore Pastena, riscontrando la disponibilità di laureati in Scienze motorie e l’importante contributo di Tiziana Ciarcia - aggiunge Giuseppe Saviano. Anche se l’aumento del volontariato spesso coincide con il decremento dei servizi statali, abbiamo il dovere di rendere meno dura la permanenza in carcere poiché alla necessità di scontare la pena si accompagna l’esigenza del reinserimento in società". "All’interno del carcere tempo e spazio sono dimensioni di fondamentale importanza e quando vengono arricchite di valore con la presenza di associazioni sportive e culturali è positivo - sottolinea Domenico Schiattone. L’attività trattamentale dei detenuti va di pari passo con la sicurezza e la proficua collaborazione riscontrata tra il personale e le associazioni di volontariato rappresenta un motivo di speranza e un momento di crescita che sconvolge in positivo la vita all’interno della struttura. È un’iniziativa lodevole che possiamo prendere a modello per tutta la regione". "Ringrazio Saviano e l’impegno del Coni, grande madre delle associazioni e delle iniziative che si svolgono anche all’interno degli istituti penitenziari. - sottolinea Paolo Pastena - Tra i vari protocolli c’è anche quello con l’Us Acli della professoressa Ciarcia che ha ben coordinato l’iniziativa. Il corso Blsd ha fatto registrare molti iscritti anche grazie alle Croce Rossa e le altre attività svolte sono necessarie per dare vita a una rinascita umana e sociale. All’interno dell’istituto gli spazi sono limitati ma la volontà di cimentarsi in iniziative di volontariato culturale e sportivo crea più spazi di quanti ne abbiamo e consente di vivere in modo meno gravoso il tempo e lo spazio. Il mio auspicio è di continuare su questa strada". "Queste attività rendono la nostra mission più produttiva perché aiutano le persone nella cura della salute e coinvolgono i detenuti e il personale in progetti costruttivi e motivazionali - afferma Concetta Felaco. Portare avanti queste iniziative è un modo efficace per contrastare l’isolamento, diffondendo il rispetto delle regole e migliorando sia l’interrelazione che l’integrazione". Presenti all’incontro anche gli altri protagonisti del progetto: le professoresse Angela Ruggiero, Gloria Rigione e Angela Ranucci, il professore Pino Petrone, il consigliere nazionale dell’Us Acli, Giampaolo Londra, e i volontari della Croce Rossa di Avellino. Milano: rugby in carcere, il Papa ai ragazzi del Beccaria "sguardo in alto verso la meta" di Cesare Balbo Gazzetta dello Sport, 5 luglio 2017 Si è concluso all’Istituto minorile penale Cesare Beccaria il campus di sport, diretto dall’ex capitano della nazionale azzurra di rugby Diego Dominguez, ideato per facilitare il reinserimento post carcere dei giovani. Papa Francesco ha inviato una lettera rivolgendo ai ragazzi queste parole "rugbistiche" : "Quando vi sembrerà difficile uscire dalla mischia, ricordatevi di non abbassare lo sguardo - ha scritto Bergoglio, ma di alzarlo per non perdere di vista la meta, perché là siete chiamati ad andare. Da soli è difficile arrivarci, ma insieme, facendo gioco di squadra, si può". Abbiamo sentito a conclusione di una settimana serrata di impegni il direttore del Beccaria, la dottoressa Olimpia Monda, per fare un bilancio della prima esperienza del genere in un carcere minorile italiano. "È stata una settimana improntata alle regole sportive e al fair play nonché impegnativa per noi - ha detto la Monda - perché ha indotto un sistema rigido (come quello di un’istituzione totale) a essere estremamente flessibile. Questo campus sportivo andava ad inserirsi negli strumenti previsti dal progetto d’Istituto per conseguire gli obiettivi del recupero di questi giovani: attraverso lo sport passano i messaggi del rispetto delle regole, dell’avversario e della sana competizione, la sperimentazione di esperienze altre rispetto a quelle che normalmente hanno vissuto questi ragazzi. Sono certa che i nostri ragazzi hanno vissuto un’esperienza unica considerate le loro storie di vita grazie a una bella integrazione tra lo staff sportivo, tra cui atleti del Cus Milano nello staff di Dominguez nell’organizzazione delle attività, e il personale interno". Ancora una volta la pratica dello sport si è confermato come elemento concreto per promuovere la socialità per poi facilitare il processo di reinserimento dei minori nella fase di post detenzione. Nel corso del campus l’entusiasmo di Dominguez è stato contagioso per i ragazzi, all’incirca quaranta ragazzi tra i 16 e i 21 anni, che si sono cimentati in numerosi sport di squadra (rugby, calcio, nuoto e pallacanestro), riducendo così al minimo i tempi vuoti della vita detentiva. La classifica finale ha visto tutte pari merito le squadre, soprattutto per premiare il loro fair play e l’impegno profuso da tutti i partecipanti perché ciò che contava era misurarsi con una nuova esperienza e sperimentare i valori positivi dello sport. Il camp ha visto anche la partecipazione di Eduardo Oderigo, carismatico avvocato e rugbista argentino che sotto l’insegna degli Espartanos da otto anni ha iniziato a portare il rugby all’interno delle carceri argentine con risultati molto positivi relativamente ai tassi di recidiva e al reinserimento delle persone che partecipano al programma. "Quando un carcerato, seguendo le regole del rugby, getta a terra un avversario più grosso di lui, nella sua testa si fa largo un’idea: "Io ce la posso fare, io posso vivere in questa società senza commettere crimini", ha sintetizzato Oderigo. Trani (Bat): al carcere maschile lo spettacolo teatrale "Il Paese delle non meraviglie" di alessia paradiso batmagazine.it, 5 luglio 2017 Il 6 luglio 2017, alle ore 9,00 presso la Casa Circondariale di Trani ci sarà lo spettacolo "Il Paese delle Non meraviglie". L’associazione Paideia gestisce lo spazio ludico "Magikambusa all’ interno della casa circondariale di Trani, da ormai quattro anni attraverso le competenze che le associate mettono a disposizione del servizio in modo del tutto volontario, si occupano di tutelare la genitorialità e la condizione dei minori che si trovano a vivere indirettamente, attraverso un parente o un genitore detenuto, la realtà carceraria. L’associazione ha organizzato questa manifestazione, in seguito alla donazione fatta dall’Interact club di Bisceglie che ha ideato il service e finanziato l’acquisto di alcune parti della struttura grazie alla raccolta fondi effettuata dall’Interact club Bisceglie e dalla sua Presidente A.S. 2016-17 Mara Pinto, con il supporto del Rotary club Bisceglie con il presidente A.S. 2016-17 Mauro Pedone. L’obiettivo della manifestazione è quello di portare il teatro per bambini in carcere, permettendo ai genitori detenuti e figli di vivere un momento di condivisione senza sbarre, in nome di quella tutela della genitorialità fortemente compromessa in situazioni come questa, Grazie alla partnership con la la scuola di teatro "Il cielo di carta" si porterà in scena lo spettacolo "Il paese delle non meraviglie" della regia di Annamaria Di Pinto, con le attrici e autrici Lucia Amoruso, Caterina Di Leo e Miriam Di Bartolomeo. "Il paese delle non meraviglie" è liberamente ispirato al racconto di Lewis Carrolle vede nel suo protagonista il "Bianconiglio", un curioso personaggio affaccendato nella ricerca di una chiave che riaprirà la porta del paese delle non meraviglie chiedendo aiuto ai vari personaggi dei cartoni animati come Peter pan, La regina di cuori e Biancaneve abbandonati in una polverosa soffitta di una bambina che ormai sta crescendo. Aversa (Ce): festa e concerto nel carcere con la Comunità di Sant’Egidio napolivillage.com, 5 luglio 2017 Ancora un evento musicale organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio nelle carceri della Campania nel periodo estivo. In quello che una volta era l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario e che oggi si sta trasformando in un istituto a custodia attenuata, la cantante Francesca Marini si esibirà davanti a 60 detenuti. L’esibizione si terrà alla presenza dei familiari degli ospiti dell’istituto e avverrà all’aperto, nel giardino del penitenziario, in uno scenario del tutto inedito. La Comunità di Sant’Egidio presente da anni con iniziative di solidarietà e promozione sociale nelle carceri della Campania, ha voluto essere vicina ai detenuti grazie alla sensibilità di una grande artista che si esibirà con il suo repertorio di canzoni classiche, napoletane e internazionali. Un pomeriggio di solidarietà e di buona musica nel periodo più afoso dell’anno, mentre torna a crescere il numero dei detenuti negli istituti italiani. Migranti. Ius soli, la riforma si ridiscute in un clima di tensione di Marcello Sorgi La Stampa, 5 luglio 2017 Non poteva esserci momento meno adatto per il ritorno del testo di legge sullo ius soli, la concessione di cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati sul territorio nazionale. Il magro risultato delle trattative con l’Europa sul problema dei migranti crea una coincidenza adatta a rinfocolare le polemiche, soprattutto da parte della destra più radicale, anche se, va ricordato, le due questioni sono distinte. Gli sforzi del governo, e in particolare del ministro dell’Interno Minniti, per ottenere ascolto dai partner della Ue sulla drammatica escalation degli sbarchi nei porti italiani non hanno dato finora grandi risultati. A parole c’è una generica disponibilità a farsi carico dei problemi italiani (sia il presidente della Commissione Juncker, sia il commissario per l’immigrazione Avramopoulos hanno ripetuto che "L’Italia non può essere lasciata da sola"), ma di risultati pratici, in termini di accettazione di possibili ripartizioni dei nuovi arrivi, non se ne vedono. Dopo la delusione da parte di Macron, che ha escluso che la Francia, per dare una mano all’Italia, possa aprire le sue frontiere, da cui vengono riportati indietro anche gli immigrati che riescono a passare, ieri è stata la volta dell’Austria, che ha militarizzato il confine. In entrambe i Paesi, va ricordato, la sconfitta dei movimenti populisti xenofobi era stata salutata come un’occasione per recuperare un minimo di solidarietà interna all’Unione, dopo un inverno in cui la risposta all’incremento degli sbarchi era stata solo, o quasi soltanto, la costruzione di muri. Evidentemente Macron s’è reso conto che Marine Le Pen, al di là della modesta rappresentanza conseguita nell’Assemblea nazionale, grazie al sistema elettorale a due turni, rappresenta pur sempre il quaranta per cento degli elettori, almeno di quelli votanti, ed è in grado di condizionare le prime mosse del nuovo Presidente, che pure aveva salutato la propria vittoria nel segno dell’Europa e al suono delle note dell’Inno alla gioia. Lo stesso dicasi per l’austriaco Van der Bellen, vincitore, dopo due tornate elettorali, a Vienna, sul suo avversario Hofer, ma a quanto pare non in modo decisivo. L’ombra dei movimenti di estrema destra che si giocano tutto sul timore dell’invasione degli immigrati è insomma ancora presente e condiziona le scelte dei neonati governi nazionali europei. E un quadro del genere si riproporrà presto in Italia - e ancora prima in Parlamento, approfittando della discussione sullo ius soli - nella prossima campagna elettorale per le regionali siciliane e le elezioni politiche. Una campagna, manco a dirlo, già partita da tempo. Migranti. Ius soli, tutto per fermare la cittadinanza di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 5 luglio 2017 Al Senato la convergenza tra Forza Italia, Lega e Movimento 5 Stelle riesce a far slittare ancora l’esame della legge che può avvicinare l’Italia al resto del mondo. Decisiva la collaborazione dei centristi di Alfano, che preferisce prima incassare il sì al decreto Lorenzin sui vaccini. La legge sulla cittadinanza arriva finalmente nell’aula del senato. Ma solo per poche ore. Poi la manovra a tenaglia di Forza Italia, Lega e Movimento 5 Stelle riesce ad allontanare ancora il voto sul provvedimento che dovrebbe avvicinare l’Italia al resto del mondo sui diritti dei nati nei confini nazionali. Ci riescono, le opposizioni, con la collaborazione dei centristi di maggioranza. Il partito di Alfano non fa mistero di preferire un altro provvedimento, il decreto sulle vaccinazioni obbligatorie, allo "ius sanguinis temperato", accettato solo per non rischiare la crisi di governo. La legge infatti può passare solo con la fiducia. Aspettando ancora, però. Accade tutto nel pomeriggio a palazzo Madama. Nella conferenza dei capigruppo il Pd tiene il punto rispetto agli annunci di Renzi e conferma lo ius soli nel calendario dei lavori dell’aula. Al secondo punto, dopo il via libera alla riscrittura del codice antimafia, legge criticatissima da magistrati e giuristi di diversa estrazione. Ma alla quale il presidente del senato Grasso tiene molto. Di fronte alle richieste di inversione dell’ordine dei lavori la maggioranza tiene e conferma il calendario. Si perde però in un mare di assenze e voti fuori linea quando arriva la richiesta di inserire nel calendario una leggina che serve a spostare il comune dolomitico di Sappada dal Veneto al Friuli. Niente di che, un solo articolo, ma un modo per rinviare sulla cittadinanza. La richiesta di anticipare Sappada è della ex leghista Bellot ora in orbita Pd, i democratici non la fermano, i 5 Stelle l’aiutano, la richiesta passa con 118 sì (e 90 no). È una prima soddisfazione per tutti gli avversari della legge sulla cittadinanza, da Forza Italia convinta che "lo ius soli è un esplicito invito che la sinistra rivolge ai clandestini", a Fratelli d’Italia - "Renzi e il Pd vogliono regalare la cittadinanza alla faccia degli italiani" - alla Lega. "Siamo pronti a bloccare, pacificamente, il parlamento, e a raccogliere le firme per il referendum", annuncia Salvini. Intanto proprio oggi il consiglio di presidenza del senato dovrà occuparsi della gazzarra inscenata da leghisti e 5 Stelle quando la legge è stata incardinata in aula. E i 5 Stelle restano indistinguibili dalla Lega. "Discutere adesso dello isu soli è un’accelerazione irresponsabile, Con tutto quello che sta accadendo in tema di immigrazione questa legge non è certamente una priorità per i cittadini", spiega il capogruppo grillino Cappelletti. E infatti il Movimento vota a favore dell’inversione dell’ordine dei lavori. Inversione che sarà realizzata nei fatti, perché anche solo un giorno di ritardo per la discussione generale della legge sulla cittadinanza comporterà il sorpasso proprio da parte del decreto vaccini, quello al quale tiene Alfano. Ed è proprio questa la linea che la capogruppo di Ap Bianconi esprime intervenendo in aula, lasciando soli gli alleati di governo. Prima la legge che porta la firma della ministra Lorenzin. Solo dopo, spiega, può arrivare il tempo "per quello che sta a cuore anche al partito democratico, ovvero il disegno di legge in materia di cittadinanza". Ad Ap interessa incassare il provvedimento sui vaccini, malgrado la commissione lo abbia nel frattempo ridimensionato rispetto ai furori iniziali della ministra centrista. Sia dal punto di vista del numero dei vaccini obbligatori (scesi a dieci) sia dal punto di vista delle sanzioni per i genitori inadempienti e anche sul fronte dell’obbligo scolastico. Si tratta però di un decreto la cui scadenza non è più tanto lontana (il 6 agosto) che deve ancora passare alla camera. Dunque avrà la priorità sullo ius soli quando - presumibilmente domani - riuscirà ad arrivare in aula avendo superato l’esame della commissione. In teoria oggi ci sarebbe il tempo per chiudere sull’antimafia e anche su Sappada, prima dell’intervento in aula (alle 18.30) del ministro Minniti. Ma sul primo punto la destra riprenderà l’ostruzionismo - "siamo riusciti a guadagnare un giorno, cercheremo di farli ragionare", ha detto il senatore Quagliariello. Intanto il rinvio non riguarda solo la cittadinanza. La legge sul testamento biologico, infatti, è stata inserita in calendario nell’ultima settimana prima della pausa estiva. Quando arriverà anche il decreto salva banche. Vale a dire che se ne parlerà a settembre. Migranti. Blindati al Brennero, Roma convoca ambasciatore austriaco di Paolo Gallori La Repubblica, 5 luglio 2017 L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) aggiorna i numeri sugli arrivi in Europa dal Mediterraneo nel 2017, segnalando lo sfondamento della soglia dei 100mila. Dallo scorso gennaio al 3 luglio, il totale è di 101.210. Quasi l’85% è giunto in Italia (85.183), mentre il resto è suddiviso tra Grecia (9.290), Cipro (273) e Spagna (6.464). Le acque hanno inghiottito 2247 persone, ma i morti sarebbero stati di più se la guardia costiera libica non avesse salvato 10mila migranti, sottolinea Eugenio Ambrosi, direttore regionale dell’Oim. Proprio le motovedette libiche, accusate di aver sparato sui migranti e di aver provocato naufragi. "Ci sono molti difetti - ammette Ambrosi -, ma è quanto abbiamo al momento. L’addestramento è l’unico modo per migliorarlo. Sostenerli è l’unica scelta possibile, ma non è un assegno in bianco, c’è un monitoraggio". Papa Francesco all’Ansa: "La presenza di tanti fratelli e sorelle che vivono la tragedia dell’immigrazione è un’opportunità di crescita umana, di incontro e di dialogo tra le culture, in vista della promozione della pace e della fraternità tra i popoli". In troppi, nell’Unione europea, non colgono l’opportunità di crescita. Quanto alla pace e alla fraternità, l’Austria minaccia di schierare l’esercito al Brennero, dove vengono avvistati quattro blindati. E la Farnesina convoca l’ambasciatore di Vienna a Roma, Renè Pollitzer. A parte i "simpatici" scambi con i frontalieri, l’aggravarsi dell’emergenza migranti in Italia, con il conseguente richiamo del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni a una concreta dimostrazione di solidarietà da parte degli Stati membri della Ue, scarica anche sulle istituzioni europee una pressione senza precedenti. Come spiega bene un episodio avvenuto questa mattina, durante l’assemblea plenaria all’Europarlamento di Strasburgo. Il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, chiamato a relazionare sui risultati del semestre di presidenza maltese della Ue e della crisi migratoria, ha polemicamente preso atto che ad ascoltarlo sarebbero stati ben pochi parlamentari. "Saluto i deputati che si sono presi la pena di essere presenti, ma il fatto che siano una trentina (su 751, ndr) dimostra a sufficienza che il Parlamento non è serio". Poi, Juncker è andato giù duro: "Siete ridicoli, il Parlamento europeo è ridicolo". Parole inaccettabili per il presidente del Parlamento Ue, Antonio Tajani, che non ha esitato a interrompere Juncker: "Moderi i termini, signor presidente, può criticare il Parlamento, ma le ricordo che non è la Commissione a controllare il Parlamento, ma il contrario". Al che Juncker ha replicato con una ironica e velenosa constatazione: "In questa plenaria solo pochi deputati controllano la Commissione". Quindi, la promessa di non mettere più piede "a riunioni di questo genere". Il portavoce di Antonio Tajani, Carlo Corazza, fa sapere in una nota che il presidente del Parlamento Ue si è successivamente incontrato con Juncker, che si è scusato per i termini utilizzati. "Per Tajani l’incidente è chiuso" sottolinea il portavoce, ricordando come lo stesso presidente del Parlamento Ue abbia sollevato "il tema della presenza degli europarlamentari in Aula durante determinati dibattiti alcune settimane fa, durante la Conferenza dei Presidenti". La Commissione Europea discute e presenta oggi a Strasburgo anche le misure in sostegno dell’Italia, che dovrebbero formare la base per la discussione nel prossimo Consiglio Affari Interni informale di Tallin. Da Strasburgo, Juncker ha promesso: "Con quanto la Commissione europea delibererà oggi dimostreremo con i fatti che vogliamo rimanere solidali, soprattutto con l’Italia che dimostra un atteggiamento eroico. La solidarietà è d’obbligo. Non abbiamo diritto di perderci negli egoismi nazionali. La Commissione ha fatto molto ma non tutto quanto avrebbe dovuto fare perché i nostri mezzi tecnici e finanziari sono limitati". Quindi il presidente della Commissione ha concluso il suo intervento alla plenaria del Parlamento europeo con un emblematico: "Viva l’Italia". Gli ampi vuoti tra i banchi dell’Europarlamento sono la plastica rappresentazione di quella sensazione di disinteresse per i problemi italiani che persiste nell’azione, e soprattutto nella non azione, di molti Stati membri. Francia e Spagna hanno lasciato intendere di essere pronte ad accogliere richiedenti asilo, non ad alleggerire l’Italia del peso dei migranti cosiddetti economici, che poi sono la stragrande maggioranza di quanti sbarcano nei porti italiani provenienti dall’Africa attraverso l’ "hub" libico. Il premier francese Edoaurd Philippe, in particolare, parlando della crisi dei migranti nel suo primo intervento davanti al Parlamento riunito in seduta solenne a Parigi, ha motivato la linea: "Accogliere, sì, aiutare sì, subire no, mai". La Commissione europea ha appena aperto la procedura d’infrazione contro Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca, tre dei quattro Paesi del gruppo di Visegrad che non hanno ricollocato al loro interno la quota di richiedenti asilo concordata a livello Ue nel 2015. Loro, non hanno fatto. Sostenuti, nel condiviso atteggiamento di chiusura, da un’Austria che invece fa. Dopo il minacciato dispiego dell’esercito al confine da parte del ministro della Difesa, Hans Peter Doskozil, al Brennero sono già stati avvistati quattro mezzi corrazzati Pandur delle Forze armate austriache. Come scrive l’agenzia austriaca Apa, il dispositivo potrebbe essere attivato nel giro di tre giorni e comprende 750 militari, 450 dei quali da reparti stanziati nella regione del Tirolo, i restanti dal comando militare della Carinzia. Con il plauso del governatore della regione tirolese Günther Platter: "Occorre dare segnali inequivocabili nei confronti dell’Italia e dei profughi, che al Brennero non è possibile transitare. Se la situazione lo richiedesse, sono dell’avviso che non si debba tenere conto delle norme dell’Unione Europea". La solidarietà è un fallimento, come denuncia laconicamente il primo ministro maltese Joseph Muscat, intervenendo nella plenaria dell’Europarlamento proprio per illustrare i risultati della presidenza maltese del Consiglio Ue, conclusasi il 30 giugno. "Sulle migrazioni, con tutte le buone intenzioni e le dichiarazioni, quando si tratta di una solidarietà effettiva, noi, gli Stati membri dell’Ue, dovremmo vergognarci tutti di quello che abbiamo fatto. Paesi come l’Italia hanno visto centinaia di migliaia di bambini, donne e uomini raggiungere le sue coste: guardiamo a questa Europa che, su questo argomento, è un fallimento". Il Parlamento Ue, dove è in corso il lavoro dei gruppi parlamentari sulla proposta di riforma del Trattato di Dublino da negoziare con la Commissione e il Consiglio Ue, si aspettava un’accelerazione sulla via della responsabilizzazione collettiva con l’esordio del semestre di presidenza estone, dopo le delusioni della molle reggenza maltese. La doccia fredda è stata pressoché immediata, quando il ministro dell’Interno estone, Andres Anvelt, ha messo chiaro che giovedì prossimo a Tallin, nell’attesissimo vertice con i suoi omologhi dell’Unione, si ascolteranno le argomentazioni italiane, ma non sarà adottata alcuna decisione per venirle incontro. Anche se la Commissione Europea incalza con le misure in sostegno dell’Italia, che dovrebbero formare la base per la discussione nel prossimo Consiglio Affari Interni informale di Tallin. In un’intervista a Le Figaro, il commissario europeo per le migrazioni, Dimitri Avramopoulos, ha posto l’accento sulla necessità di un maggior impegno "collettivo" dei Paesi Ue sui rimpatrii dei migranti economici, aspetto di per sè indispensabile in una politica migratoria globale, ma che di fronte a una situazione "insostenibile" devono necessariamente aumentare. Dall’inizio dell’anno, ha spiegato il commissario Ue, l’agenzia Frontex ha organizzato 168 voli congiunti e favorito il rimpatrio di oltre 7.886 persone. I rimpatri costano e presuppongono "condizioni umane" per chi viene rispedito a casa. Avramopoulos ha quindi ricordato come l’Italia abbia sbloccato un contributo da quattro milioni di euro per il Fondo per l’Africa, la Germania 50 milioni mentre la Francia appena tre: "Cifra è troppo bassa" per Avramopoulos, che ha invitato Parigi a "impegnarsi di più". "La principale sfida", ha sottolineato il commissario Ue, è "ottenere la cooperazione dei Paesi di origine perché accolgano i migranti" di ritorno. Ma in quei Paesi, ha deplorato Avramopoulos, "manca la volontà politica". Per i migranti l’alternativa c’è di Luigi Manconi Il Manifesto, 5 luglio 2017 Tra le molte insidie della discussione pubblica sul tema dell’asilo e dell’immigrazione, c’è quella - velenosissima - che porta a raffigurare la situazione come uno scenario nichilista senza salvezza, senza rimedio e senza via d’uscita. Non è affatto così. In questa materia, politiche razionali e intelligenti, pur ardue e faticose, sono possibili e previste tra le pieghe dalle normative e delle convenzioni europee; e alcune di esse sono state già sperimentate e diffusamente applicate con un certo successo. Nel 2013, all’indomani del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre, avanzammo una serie di proposte molto concrete per affrontare la crisi umanitaria nel Mediterraneo. L’obiettivo era quello di evitare la lunga e dolente teoria delle morti in mare e l’intenzione quella di indurre l’Unione europea a farsi carico della questione migratoria adottando meccanismi di condivisione e solidarietà tra gli Stati. Innanzitutto fu elaborato un piano di ammissione umanitaria, molto dettagliato e circostanziato, che prevedeva canali legali e sicuri verso l’Europa per i profughi bisognosi di protezione: un piano ancora attuale e sempre più necessario. La seconda proposta riguardava la possibilità che il governo italiano ricorresse alla concessione della protezione temporanea ai profughi sbarcati sulle nostre coste in base a quanto previsto dalla direttiva 55 del 2001. Ed è, questa, una opportunità estremamente importante che va presa in serissima considerazione al più presto. Quella direttiva, infatti, stabilisce standard minimi per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio, nonché la promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che accolgono gli sfollati. La durata della protezione temporanea è di un anno e gli Stati membri sono obbligati a indicare la propria capacità di accoglienza; e a cooperare per il trasferimento della residenza delle persone da uno Stato all’altro. Nei giorni scorsi ho riproposto in molte sedi l’adozione di questo provvedimento, e così hanno fatto Radicali italiani e Comunità di Sant’Egidio, come alternativa all’idea, difficilmente praticabile e da scongiurare, della chiusura dei porti italiani alle navi dei profughi. A ulteriore sostegno della richiesta sulla protezione temporanea, da avanzare rapidamente in sede Ue, si ritrova nella storia recente del nostro Paese un concreto e istruttivo precedente. Nel 2011 il governo Berlusconi di fronte agli arrivi, già allora consistenti, di profughi provenienti dalla Tunisia, concesse "un permesso di soggiorno per motivi umanitari", della durata di 6 mesi, rinnovati in seguito per un altro anno. Qualora una richiesta analoga del governo italiano al Consiglio europeo non venisse accolta, si potrebbe comunque procedere all’adozione a livello nazionale di un provvedimento simile a quello del 2011. A marzo di quell’anno, alcune migliaia di tunisini entrarono o provarono a entrare in Francia muniti di permesso temporaneo valido per attraversare le frontiere: si aprì un contenzioso con l’Italia e la questione si impose a livello europeo. A maggior ragione oggi, in un contesto molto più delicato, precario e complesso, porre in questi termini la necessità di una presa in carico della gestione dei flussi da parte di tutti gli Stati membri avrebbe un impatto forte, senza mettere a rischio l’incolumità delle persone in fuga. Velleitario? Poco credibile? Ma davvero qualcuno può pensare che la concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari sia meno realistica della cupa distopia della "chiusura dei porti italiani"? Droghe. Canapa terapeutica, è caccia alle farmacie di Leonardo Fiorentini Il Dubbio, 5 luglio 2017 Un conto salato di 60.200 euro. È l’importo complessivo delle multe che sette farmacie galeniche italiane dovranno pagare allo Stato italiano. Il motivo? Violazione dell’articolo 84 del Dpr 309/90, ovvero il divieto di "propaganda pubblicitaria di sostanze o preparazioni comprese nelle tabelle" delle sostanze sottoposte a controllo dalle convenzioni internazionale, "anche se effettuata in modo indiretto". Le sette farmacie comparivano in siti che elencano le aziende che realizzano preparati a base di cannabis terapeutica. Una utile informazione agli utenti, peraltro resa senza che sia nota una richiesta di corrispettivo, ma che per la legge Jervolino-Vassalli diventa passibile di sanzione. Le farmacie hanno ovviamente già presentato ricorso che ci auguriamo sia accolto. Alcune hanno anche oscurato il proprio sito per protesta. L’azione, evidentemente pretestuosa da parte dello Stato, conferma come la legislazione italiana sulle droghe sia un coacervo di norme dal puro intento vessatorio e repressivo. Ma non solo. Tutto probabilmente nasce da un sospetto. Alcune di queste farmacie all’inizio dell’anno erano state oggetto di controllo da parte del Ministero per la loro richiesta di fornitura di Fm2, il preparato a base di cannabis dell’Istituto Farmaceutico Militare di Firenze che "sostituisce" uno dei prodotti olandesi, il Bediol. Al Ministero della Salute il quantitativo richiesto sembrava eccessivo, forse temendo vendite "sottobanco" a persone senza prescrizione. Semmai il problema è la quantità assolutamente insufficiente della prima produzione statale, pari a soli 47 chilogrammi. Alla fine a chi aveva richiesto 500 grammi di Fm2, stimando l’ordine sulla domanda storica, ne sono stati concessi 50. Purtroppo le richieste, come da tempo denunciato dalle associazioni e dai pazienti, sono assolutamente fuori scala rispetto all’attuale produzione dello Stato, e si continua ad importare grossi quantitativi dall’estero. Con un aggravio di costi per il paziente e per l’intero sistema sanitario nazionale. Ricordiamo che una terapia può costare al paziente, se non coperta dal sistema sanitario - per mancanza di una legge regionale o per una patologia non ricompresa fra quelle prescrivibili a carico del Ssn - anche alcune centinaia di euro al mese. Ma non solo: per un problema di crisi di produzione da alcune settimane risultano di fatto bloccate le importazioni in Italia dei farmaci olandesi. In risposta ad una recente interrogazione al governo dell’on. Mucci, a seguito anche del digiuno di Rita Bernardini, la Ministra Lorenzin ha annunciato di aver disposto la distribuzione delle scorte dell’Ifm (sul perché siano rimaste nei magazzini, l’interrogativo è d’obbligo) e ha assicurato che lo stesso Istituto nel secondo semestre del 2017 metterà a disposizione ulteriori 12 kg che non appaiono comunque sufficienti a rispondere alla domanda totale. C’è da domandarsi se non valga la pena di cogliere al balzo la timida proposta del Pd di stralcio della cannabis terapeutica dalla proposta dell’Intergruppo riempiendola di contenuti efficaci. Se si riuscisse entro la legislatura a prevedere l’allargamento della produzione di cannabis, su autorizzazione, anche a soggetti diversi dal Farmaceutico Militare di Firenze ed infine, uscendo dalla logica degli elenchi restrittivi, la prescrivibilità per qualunque patologia il medico curante la ritenga utile e la completa depenalizzazione della coltivazione ad uso personale, sarebbe un successo parziale, anzi parzialissimo rispetto alla battaglia per il cambio di politica sulle droghe, ma una vittoria per i malati che subiscono ancora gli effetti della guerra, incomprensibile, ad una pianta millenaria. Gran Bretagna. Ergastolano 17enne è in isolamento da 3 anni. "Sto impazzendo" di Monica Coviello vanityfair.it, 5 luglio 2017 La madre di Kyefer, 17 anni, accusato di omicidio e condannato a vita, racconta la detenzione del figlio, tra solitudine e tentativi di suicidio. Kyefer ha 17 anni e passa 23 ore e mezza al giorno tra le pareti di una piccola cella con un letto, una doccia e una scrivania. Sta sul letto e non fa nulla. È un detenuto in isolamento: a 14 anni è stato condannato a vita per concorso in omicidio e si trova nella prigione di Cookham Wood, vicino a Rochester, in Inghilterra, da gennaio. Una sera d’autunno, Keyfer era in giro con un amico vicino a casa sua, a Anfield. Ha visto un paio di ragazzi del posto che si picchiavano con un altro adolescente, e si è avvicinato in bici con l’amico per vedere cosa stava succedendo. Quei ragazzi ce l’avevano con il 19enne Sean McHugh, e lo inseguivano. Nessuno notò che uno di loro, Reece O’Shaughnessy, 19 anni anche lui, tornò indietro. I filmati di una telecamera di sicurezza hanno ripreso McHugh mentre entrava in una lavanderia e cercava rifugio in una stanza. Keyfer è entrato e, insieme a tre altri ragazzi, è scomparso nello stanzino. Poi appare un altro personaggio: è O’Shaughnessy che, tornato indietro, attraversa la lavanderia con un grande coltello e scompare dietro la porta. Uscirà di nuovo dopo pochi secondi, con la mano vuota, per andarsene rapidamente. I giudici hanno stabilito che O’Shaughnessy abbia pugnalato McHugh alla gamba sinistra recidendogli l’arteria femorale. Quattro giorni dopo, McHugh morì in ospedale. E sebbene Keyfer e i suoi amici non abbiano pugnalato McHugh, sono stati condannati alla detenzione a vita, per la controversa dottrina legale "dell’impresa comune", che afferma che non è necessario infliggere il colpo letale per essere condannati. Si può trovare colpevoli di quella che è riconosciuta come "responsabilità secondaria", in base alla quale è necessario prevedere che la persona con la quale si è potrebbe commettere un atto violento. La madre di Keyfer è stata intervistata dal quotidiano inglese The Independent, e ha spiegato che l’isolamento sta avendo un grave impatto sulla sua salute mentale del figlio. Tre volte al giorno Kyefer riceve il pasto: gli viene consegnato attraverso una fessura nella porta, poi mangia da solo. Non ha la televisione e ha a disposizione solo pochi libri per occuparsi. E da quando si trova a Cookham Wood, non va a scuola e non riceve nessun tipo di istruzione. L’unica deroga all’isolamento è alle 8,30, quando i detenuti della sua ala possono prendere mezz’ora d’aria. Una relazione pubblicata quest’anno dall’Inspectorate of Prisons su Cookham Wood, dove sono detenuti ragazzi dai 15 ai 18 anni, conferma che i carcerati vengono sistematicamente bloccati nelle loro stanze per più di 23 ore al giorno, in un regime descritto come "inadeguato". "È deprimente. È stressante", si lamenta Kyefer, secondo quanto riferisce la madre. Usa frasi brevi. Sono circa le 14, ma dice di essersi svegliato da poco. "Dormo molto. A volte pensare di essere bloccato qui mi fa arrabbiare. Soprattutto soffro la solitudine", aggiunge. Isolare i minori per 23 ore e mezza è una violazione della legge sui diritti umani, secondo il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt). All’inizio di quest’anno, il Comitato ha scoperto che i giovani detenuti a Cookham Wood si trovavano in condizioni di isolamento per motivi di "disciplina e ordine". Kyefer, cresciuto a Liverpool, dopo la sua sentenza è stato detenuto in cinque prigioni differenti, e gli è stato recentemente diagnosticato un disturbo di personalità borderline. Sua madre, Sheena Evelyn, dice che, secondo lo psicologo, le condizioni mentali del figlio stanno peggiorando a causa del trauma per la separazione dalla sua famiglia e per l’assenza di contatti umani. Kyefer telefona alla madre ogni volta che può, ed è sempre angosciato. "Mi chiama ogni volta solo per parlare con qualcuno. Qui non c’è possibilità di ottenere istruzione. Niente. Questi ragazzi possono uscire mezz’ora dalla cella, e basta", ha detto a The Independent. "Mio figlio è sempre stato un bambino energico. Adesso è scostante e depresso. Anche quando lo vanno a trovare i suoi fratelli più piccoli, non è entusiasta come era di solito. Questo carcere lo sta distruggendo", dice Evelyn. E ancora: "Ha minacciato di uccidersi in più occasioni. Il personale dice di non sapere il perché. Sta facendo orecchie da mercante. Deve suicidarsi uno di questi ragazzi prima che succeda qualcosa?". Egitto. "Reato" di giornalismo: fotoreporter in carcere da quattro anni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 luglio 2017 Imputato del reato di "giornalismo", Mahmoud Abu Zeid, noto come Shawkan, è in carcere da ormai quasi quattro anni in una prigione del Cairo, dove ha anche contratto l’epatite C. Oggi c’è stato l’ennesimo appuntamento di fronte al giudice in quella che, di mese in mese, si è trasformata in una serie infinita di udienze brevi e rinvii immediati. E non è andata diversamente: la prossima udienza sarà il 5 agosto. Shawkan è stato arrestato nell’agosto 2013 mentre si trovava, per conto dell’agenzia fotografica Demotix di Londra, in piazza Rabaa al-Adawiya, al Cairo, a documentare il violentissimo sgombero di un sit-in della Fratellanza musulmana. Fu un bagno di sangue: le forze di sicurezza fecero centinaia di morti. Le accuse contro Shawkan e oltre 700 co-imputati sono queste: "adesione a un’organizzazione criminale", "omicidio", "tentato omicidio", "partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione, per creare terrore e mettere a rischio vite umane", "ostacolo ai servizi pubblici", "tentativo di rovesciare il governo attraverso l’uso della forza e della violenza, l’esibizione della forza e la minaccia della violenza", "resistenza a pubblico ufficiale", "ostacolo all’applicazione della legge" e "disturbo alla quiete pubblica". Se giudicato colpevole, Shawkan rischia l’ergastolo. Amnesty International continua a raccogliere adesioni all’appello per la sua scarcerazione. Venezuela. Tribunale militare condanna al carcere 27 studenti parstoday.com, 5 luglio 2017 Un tribunale militare ha ordinato la carcerazione di ventisette studenti venezuelani arrestati in un’università di Maracay, nel nord del Paese, dopo manifestazioni contro il presidente Nicolas Maduro. Lo ha annunciato l’ong Foro Penal. "La procura li ha incriminati per i reati di appello alla rivolta, furto di effetti appartenenti alle forze armate, distruzione e violazione delle zone di sicurezza", ha indicato l’avvocato Alfredo Romero, direttore dell’ong. I ventisette studenti, arrestati domenica all’università Upel di Maracay, sono stati detenuti nelle carceri di diritto civile, secondo il legale. Che ha chiarito che con quest’ultimo affare, sono "433 i prigionieri politici in Venezuela". Il tribunale ha inoltre condannato ai domiciliari cinque donne arrestate nella stessa operazione. L’ong ha denunciato a più riprese i processi di civili di fronte ai tribunali militari, contravvenendo alle norme internazionali e come mezzo di sanzione contro l’ondata di manifestazioni al presidente Maduro che hanno provocato 89 morti da inizio aprile. Canada. Detenuto per 10 anni a Guantánamo, risarcimento milionario e scuse per Omar rainews.it, 5 luglio 2017 Nato in Canada fu catturato a 15 anni in Afghanistan durante un conflitto a fuoco dove morì un soldato americano. La Corte Suprema canadese ha stabilito oggi che fu sottoposto a costrizione durante gli interrogatori a "Gitmo". La Corte Suprema del Canada ha sancito che Omar Khadr fu interrogato in "circostanze oppressive" e ora il governo canadese dovrà pagare un risarcimento milionario e fare ammenda pubblica nei confronti del prigioniero di Guantánamo, condannato per l’uccisione di un soldato americano in Afghanistan. All’epoca Khadr era un quindicenne. È trapelato oggi che il risarcimento contrattato il mese scorso tra gli avvocati di Khadr e il governo canadese dovrebbe ammontare a 10,5 milioni di dollari canadesi (circa 8 milioni di dollari americani). Omar, canadese di nascita, fu catturato in Afghanistan dall’esercito Usa dopo una battaglia in quello che si sospettava essere un compound di al-Qaida. Nel conflitto a fuoco fu ucciso il Sergente Christopher Speer, un medico arruolato nelle forze speciali. Khadr, sospettato di aver lanciato la granata che aveva ucciso Speer, fu preso e trasferito a Guantánamo dove fu accusato di crimini di guerra. Nel 2010 fu condannato a 8 anni di carcere per omicidio. Nel 2012 tornò in Canada per finire di scontare la pena rimanente ma nel maggio 2015 fu scarcerato pendente un appello in cui dichiarava che la confessione di colpevolezza era avvenuta sotto costrizione. Nei 10 anni di prigionia a Guantánamo il caso di Omar Khadr era salito alle cronache e per la sua giovanissima età era stato soprannominato il soldato bambino, è stato infatti il più giovane detenuto di Guantánamo e anche l’ultimo cittadino "occidentale". La Corte ha stabilito che i servizi di ‘intelligencè canadesi avevano ottenuto le dichiarazioni di Omar in "circostanze oppressive" come la deprivazione del sonno durante gli interrogatori effettuati nel 2003. Queste informazioni così estorte erano state poi condivise con funzionari Usa. I legali di Khadr intentarono una causa per ingiusta detenzione contro il governo canadese, accusato di non aver protetto un proprio cittadino e anzi di essersi reso complice degli abusi delle autorità americane, chiedendo un risarcimento di 20 milioni di dollari. La difesa di Khadr ha sempre puntato il dito contro il padre del "bambino soldato", un uomo egiziano morto nel 2003 sotto le bombe pakistane mentre si trovava in compagnia di terroristi di al-Qaida. Dopo la scarcerazione del 2015 - a cui risale la foto - Omar ha chiesto perdono alle famiglie delle vittime, rinnegando la jihad e auspicando di poter cominciare una nuova vita là dove ora vive, a Edmonton nello stato canadese dell’Alberta.