La mia solidarietà con Ornella Favero e "Ristretti Orizzonti" nel carcere Due Palazzi di Padova e a livello nazionale di Marco Boato Ristretti Orizzonti, 4 luglio 2017 Nella mia lunga esperienza parlamentare (cinque volte alla Camera e una al Senato) ho avuto molti rapporti con l’universo carcerario di molte città italiane, avendo contatti con detenuti, con operatori penitenziari, con magistrati e giornalisti e ho anche presentato numerose iniziative legislative di riforma sui temi della giustizia penale e del carcere, insieme a molte interrogazioni e interpellanze. E anche dopo la conclusione della mia esperienza parlamentare, ho continuato in maniera diversa e inevitabilmente più diradata ad interessarmi di questi problemi. Credo di poter dire senza esagerazione e senza nulla togliere all’importanza di altre iniziative, che la redazione di "Ristretti Orizzonti" e la sua direttrice Ornella Favero rappresentino quanto di più significativo esista a livello nazionale per informarsi e "formarsi" sul carcere, sui suoi protagonisti, sulle problematiche della pena e delle pene, sul significato dell’art. 27 della Costituzione, sui rapporti tra il carcere e la società esterna (in particolare, ma non solo, con il mondo scolastico e quindi con le nuove generazioni). Da vent’anni "Ristretti Orizzonti" e anche la sua rassegna stampa quotidiana, oltre alle periodiche iniziative pubbliche dentro e fuori il carcere, rappresentano il principale strumento di informazione, di conoscenza, di analisi, di discussione di tutte le problematiche penitenziarie. Di tutto questo va dato merito sia ai volontari sia ai detenuti che vi collaborano, ma soprattutto alla straordinaria capacità di guida e di orientamento che la direttrice Ornella Favero ha sempre espresso con grande intelligenza e con inesauribili energie. In particolare, è di enorme importanza il recente libro di Ornella Favero, pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele (Torino, 2017), che si intitola: "Cattivi per sempre? Voci dalle carceri: viaggio nei circuiti di Alta Sicurezza". Un libro di cui è auspicabile la massima diffusione non solo tra gli "addetti ai lavori" (compresi i magistrati e gli operatori penitenziari), ma anche nella più vasta opinione pubblica, spesso disinformata e per questo strumentalmente manipolata. A fronte di tutto ciò, si può ben capire perché negli ultimi tempi si sia scatenata, soprattutto a Padova, ma anche con qualche penosa e strumentale risonanza parlamentare da parte dei soliti noti, una indecente campagna di diffamazione e calunnia, che ha colpito sia Ornella Favero, oltre a Nicola Boscoletto della cooperativa "Giotto", sia anche l’ex direttore del carcere Due Palazzi, Dott. Salvatore Pirruccio, uomo di grande correttezza e di assoluta onestà istituzionale. Il prestigio, la riconoscenza e la stima di cui Ornella Favero gode a livello nazionale, anche come autorevole interlocutrice del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) e dello stesso ministro della Giustizia Orlando, dopo aver anche incontrato personalmente Papa Francesco (che è assai sensibile alle problematiche carcerarie), sono dimostrate inoltre dal fatto che è stata eletta presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia (Cnvg), di cui ha recentemente presieduto la decima Assemblea nazionale all’interno del carcere romano di Rebibbia. Innumerevoli in questi mesi sono state le testimonianze di solidarietà nei suoi confronti, a cui intendo aggiungere la mia, conoscendo da decenni la correttezza, l’umanità, la generosità di Ornella Favero, che esprime una teoria e una prassi della giustizia e dell’intervento sui problemi carcerari in totale sintonia e corrispondenza con il dettato costituzionale. Immagino - e lei stessa lo ha scritto e detto in questi mesi - l’amarezza e l’ansia che può provocare questo tipo di campagna diffamatoria, che ha trovato eco in qualche giornalista e giornale privi di scrupoli, o quantomeno incapaci di verificare i fatti prima di dare spazio a calunnie e diffamazioni. Ma anche da parte della magistratura c’è da augurarsi che si sappia fare al più presto chiarezza e che si sappia ristabilire l’onore e la dignità di chi è stato ingiustamente infangato. Paradossalmente, tuttavia, tutto questo ha prodotto l’effetto opposto di quanto i facili calunniatori potevano strumentalmente augurarsi. Perché si sono moltiplicate le testimonianze favorevoli a Ornella Favero e a "Ristretti Orizzonti" e si è creato un clima di grande solidarietà, che è il segno di quanto lo straordinario impegno di questi vent’anni abbia alla fine lasciato una traccia profonda nelle persone e nelle coscienze. Ornella Favero e "Ristretti Orizzonti" (insieme alla cooperativa "Giotto" e allo stesso ex direttore Pirruccio) non hanno nulla da temere e questa vicenda finirà nel nulla, se ancora esiste una giustizia degna di questo nome. Dal riciclo creativo all’agricoltura, i progetti che danno lavoro ai detenuti di Francesca Sanguineti Redattore Sociale, 4 luglio 2017 Una rete di 13 associazioni coordinata dal Csv Celivo fa il punto su difficoltà e prospettive del lavoro in carcere insieme alle eccellenze di altre regioni. I casi virtuosi di Bottega solidale, Sc’Art!, Grafiche KC e Nabot. Il Rete tematica Carcere si è riunita qualche giorno fa a Genova per fare il punto sulle attività in corso e per lanciare nuovi progetti e idee. La rete, nata nel 2010, è coordinata dal Centro servizi al volontariato Celivo ed è composta da 13 associazioni non profit della provincia. All’incontro hanno partecipato anche le eccellenza di altre regioni italiane per confrontarsi sugli elementi comuni e rispondere alla domanda: è davvero possibile fare impresa all’interno del carcere? L’obiettivo primario delle associazioni di volontariato in carcere - cioè fare sì che il diritto al lavoro sia rispettato e il più possibile applicato - si scontra con una serie di problemi sintetizzati da Sandra Bettio, coordinatrice della Conferenza regionale volontariato giustizia Liguria: "Il primo riguarda il livello culturale e pratico mediamente basso delle persone che ci troviamo di fronte, mentre dall’altra parte la struttura penitenziaria non analizza il curriculum dei detenuti, facendo così perdere competenze che potrebbero essere utilizzate internamente. Molti ostacoli all’ingresso delle imprese private in carcere infatti sono poi dovuti al sistema interno dell’amministrazione penitenziaria, spesso inconciliabile con i modelli produttivi. C’è infine il turn over dei detenuti, che rende difficile l’investimento imprenditoriale". Eppure, ha concluso Bettio, "siamo qui a dimostrare che il lavoro produttivo in carcere è possibile". Perché se da una parte c’è lo scenario nazionale ben poco soddisfacente ricordato da Paolo Trucco di "Bottega Solidale" - dei 16 mila detenuti che hanno lavorato nel 2016, anche saltuariamente, solo 2.700 lo hanno fatto per aziende esterne (ma per due terzi dall’interno degli istituti) - dall’altra ci sono cifre che testimoniano un calo drastico della recidiva per i detenuti che lavorano rispetto agli altri. E si accumulano i casi di eccellenza in cui le persone in carcere riescono a guadagnarsi uno stipendio e ad assimilare competenze e regole aziendali. Lo hanno testimoniato gli interventi di Nicola Boscoletto della pasticceria artigianale Giotto (carcere Due Palazzi di Padova), di Gian Luca Boggia di Extraliberi (Lorusso e Cotugno di Torino, serigrafia e stampa in digitale) e della Rete Freedhome-Creativi dentro, Liri Longo di Rio Terà dei Pensieri (Venezia; riciclo PVC, cosmetica, serigrafia, agricoltura biologica, pulizia aree urbane), Giusy Brignoli e Giusy Biaggi del progetto I buoni di Cà del Ferro-Coop. Nazareth (Cremona, confezionamento prodotti alimentari). Ma protagoniste sono state soprattutto le esperienze locali, tutte concordi sulla necessità di continuare a lavorare in rete e di comunicare meglio l’efficacia dei progetti in carcere, sottolineandone il beneficio sociale ed economico per l’intera società. Vediamole in dettaglio (tra parentesi i nomi di chi ha svolto le presentazioni). Bottega Solidale (Claudio Trucco) è una cooperativa con quasi trent’anni di attività, ha una mission legata al commercio equo solidale, ma negli anni ha sviluppato attività diverse. Dal 2008 ha avviato all’interno della casa circondariale di Marassi un laboratorio serigrafico dove vengono realizzate t-shirt lavorando su supporti di filiera garantita. Il laboratorio impiega 5 persone. Il mercato di riferimento è la rete di negozi equo solidali che commercializzano una linea di magliette dei cantautori italiani, ma la cooperativa è anche riuscita a entrare nella grande distribuzione con Carrefour e Coop ed ha avviato un sito di e-commerce che fa già numeri discreti. Il fatturato annuo varia da 350 e 220 mila euro, i ricavi coprono i costi diretti e di struttura e permettono di fare investimenti. Sc’Art! (Etta Rapallo) è un’associazione di promozione sociale costituita da un gruppo di 10 donne (pensionate, creative, insegnanti, casalinghe) che ha ideato e avviato il progetto "Creazioni al fresco" condiviso con il Centro di solidarietà della Compagnia delle Opere: comprende due laboratori, uno nella casa circondariale di Genova Ponte Decimo e uno fuori. Si realizzano borse da spesa e complementi di arredo utilizzando gli striscioni pubblicitari dismessi e la tela degli ombrelli rotti. A Genova gli ombrelli si rompono facilmente per il vento ed esistono diversi punti di raccolta. Il coordinamento è svolto da una volontaria e da una persona a tempo pieno; attualmente sono impiegate 4 donne in borsa lavoro che lavorano all’interno del carcere e 3 assunte con contratto tessili in esterno. Una delle soddisfazioni maggiori è stata la firma di un contratto di lavoro per donne che hanno già raggiunto la cinquantina. Fatturato 70 mila euro, di cui 50 mila dal carcere. Grafiche KC (Giacomo Chiarella) gestisce una tipografia-legatoria aperta 30 anni fa. Nel 2009, grazie all’incontro con la Veneranda Compagnia di Misericordia, ha tentato di aprire una succursale nel carcere di Marassi, ma senza successo. Qualche anno dopo, grazie all’apporto del Centro di solidarietà della Compagnia delle Opere, ha realizzato un progetto nel carcere di Ponte Decimo riuscendo ad aprire la succursale. A distanza di un anno e mezzo sono state formate 6 persone di cui 3 avviate al lavoro. Hanno iniziato con borse lavoro, ma l’obiettivo è l’assunzione. Il progetto è ancora in negativo, le difficoltà quotidiane sono tante. Per questo l’azienda si sta inventando servizi concorrenziali, come la lavorazione a punto giapponese, una pratica molto manuale che nessuno propone. Nabot (Claudio Solari) è una cooperativa sociale di tipo B nata nel 2003 a Chiavari per dare lavoro a un detenuto del carcere locale. Oggi conta 21 soci lavoratori di cui 10 svantaggiati e 2 agli arresti domiciliari, più un detenuto in borsa lavoro. La cooperativa ha iniziato con la raccolta degli indumenti, successivamente ha aggiunto alle attività traslochi e sgomberi. In tempi più recenti ha avviato il progetto "verde" gestito con persone agli arresti domiciliari: pulizia di terreni e loro coltivazione con prodotti orticoli. Attualmente gestisce 15 terreni per circa 30 ettari sparsi sul territorio, ha iniziato a seguire gli uliveti, producendo olio, e i noccioleti (fonte di reddito notevole) ripristinando i boschi e raccogliendo le nocciole che vengono vendute a una ditta di Genova che realizza crema spalmabile e altri prodotti. Dalla spremitura delle nocciole ricava anche olio da condimento per il pesce e olio cosmetico. Ultimamente ha avviato un rapporto con il carcere di Chiavari per il ripristino di mobili antichi provenienti dagli sgomberi e la realizzazione di oggetti con il legno di ulivo. Infarto per Rita Bernardini, reduce da uno sciopero della fame per le carceri di Robert Perdicchi Il Secolo d’Italia, 4 luglio 2017 Radicali in ansia, nelle ultime ore, per un malore che ha colpito la battagliera esponente del partito di Pannella, Rita Bernardini, che dovrà essere sottoposta a un intervento chirurgico. Lo rende noto un comunicato di Radio Radicale, nel quale si ricorda che l’ex deputata e segretaria dei Radicali italiani è stata ricoverata 13 giorni fa in una struttura ospedaliera di Roma e che il suo quadro sanitario si sta normalizzando, dopo la diagnosi di infarto del miocardio che ha reso necessario un intervento chirurgico che verrà eseguito alla fine di questa settimana. Bernardini era stata ricoverata lo corso 21 giugno a causa di un malore manifestatosi dopo la sospensione dello sciopero della fame di 25 giorni portato avanti con l’obiettivo di far approvare la parte penitenziaria della riforma penale e il diritto alle cure dei malati che assumono farmaci a base di cannabis e che, come il Bediol, che non sono attualmente reperibili sul mercato. Un’azione nonviolenta che ha fatto seguito ai due precedenti scioperi della fame di 30 giorni portati avanti in occasione delle marce per l’amnistia del 6 novembre 2016 (giubileo dei carcerati) e di Pasqua 2017. Iniziative - ricorda ancora il comunicato di Radio Radicale - che hanno registrato la mobilitazione di più di 25.000 detenuti e loro familiari, associazioni di tutti gli orientamenti, professionalità del mondo penitenziario, sindaci, rappresentanti delle istituzioni, giuristi. Orlando: "Dodicimila braccialetti in arrivo. Ma l’appalto è del Viminale" di Alberto Custodero La Repubblica, 4 luglio 2017 È rimpallo di responsabilità con il ministero dell’Interno che gestisce gli acquisti, mentre quello della Giustizia deve affrontare l’emergenza dei magistrati che vorrebbero applicare la misura alternativa ma non possono perché mancano i dispositivi elettronici. La mancata scarcerazione ai domiciliari dell’attore Domenico Diele fa scoppiare il caso della mancanza di braccialetti elettronici. I magistrati vorrebbero applicare questa misura cautelare alternativa, ma non possono per carenza dei dispositivi elettronici. Sulla vicenda è intervenuto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Ospite di "Un Giorno da Pecora", su Rai Radio1, il Guardasigilli ha confermato l’arrivo di "12 mila braccialetti". "Stanno arrivando - ha detto il ministro - è già stato fatto un bando. Secondo me, tuttavia, per un errore del legislatore, la competenza dell’acquisto è stata affidata al ministero dell’Interno, e non a quello della Giustizia". La responsabilità sarebbe dunque del Viminale. "È tanto che li abbiamo chiesti - ha precisato Orlando - fino a oggi ne sono stati utilizzati 10mila, non è che non esistano". Quel che è certo è che non bastano. "Ora - ha aggiunto il Guardasigilli - c’è questo nuovo bando che si dovrebbe concludere entro qualche settimana". L’attore Domenico Diele - ma nella stessa situazione anche altri detenuti meno famosi - per andare agli arresti domiciliari deve attendere che si liberi un braccialetto elettronico. Il gip del tribunale di Salerno, Fabio Zunica, ha infatti subordinato l’attenuazione della misura cautelare allo strumento di controllo che però al momento è indisponibile. Diele è in carcere da sabato scorso, dopo che nella notte ha investito e ucciso una donna di 48 anni, la salernitana Ilaria Dilillo, travolta mentre percorreva in sella al suo scooter nel territorio di Montecorvino Pugliano (Salerno) la A/2 del Mediterraneo. L’allarme per la carenza di braccialetti elettronici era stato lanciato già nel gennaio del 2015 quando a non poter uscire dal carcere toccò a Giuseppe Tartarone Buscemi, arrestato per detenzione di armi. Ecosì, quello che avrebbe dovuto essere uno dei meccanismi per svuotare le carceri continua ad evidenziare i suoi limiti. La Telecom, che ha firmato una convenzione con il ministero della Giustizia, ne aveva messi a disposizione 2.000 in tutta Italia, ma in molte aree - come il caso Diele ha dimostrato - non bastano. L’esaurimento dei duemila dispositivi chiesti dal ministero della Giustizia a Telecom Italia, tramite una convenzione, testimonia come i vari tribunali stanno ricorrendo, in maniera sempre più massiccia, a questa misura di custodia cautelare alla luce del decreto svuota-carceri del 2013. Il dispositivo funziona su un’infrastruttura a banda larga realizzata da Telecom attraverso una centrale operativa. Il braccialetto si applica alla caviglia ed è composto da una centralina a forma di radiosveglia, che va installata nell’abitazione in cui deve essere scontata la pena. Un device riceve il segnale dal braccialetto e lancia l’allarme per eventuali tentativi di manomissione o di fuga del detenuto. Giudici di Pace in sciopero per tre settimane: 300mila processi sospesi Italia Oggi, 4 luglio 2017 È cominciato ieri, 3 luglio, lo sciopero dei giudici di pace, che si protrarrà per tre settimane sino al 23 luglio. È prevista la sospensione di oltre 300.000 processi. "Malgrado i pareri fortemente critici del Consiglio Superiore della Magistratura e delle Commissioni parlamentari", dichiara Alberto Rossi, segretario generale dell’Unione nazionale giudici di pace, "il Ministro Orlando intende portare avanti un decreto legislativo di riforma della magistratura onoraria e dei giudici di pace avversato da tutti gli addetti ai lavori, a partire dai capi degli uffici giudiziari. A parità di dotazioni organiche, si raddoppiano le competenze dei giudici di pace e degli altri magistrati onorari, limitandone, tuttavia, il loro impegno lavorativo ad appena 2 giorni a settimana. Ciò vorrà dire che i processi civili dureranno 3 volte di più e una buona parte dei processi penali non giungeranno mai a compimento per prescrizione, con i Procuratori della Repubblica impossibilitati a portare avanti le indagini senza il fondamentale apporto dei pubblici ministeri onorari che li sostituiscono in udienza". "Fra le tante riforme scriteriate portate avanti dal Ministro Orlando", incalza Rossi, "questa è sicuramente la più deleteria. Per risparmiare quei pochi soldi che consentirebbero un utilizzo a tempo pieno dei giudici di pace e della magistratura onoraria, si triplicheranno i risarcimenti per lentezza della Giustizia, già oggi pari a centinaia di milioni di euro l’anno, e, cosa ancor più grave, il Governo Italiano verrà deferito dalla Commissione Europea dinanzi alla Corte di Giustizia Europea ben due volte, sia per l’eccessiva durata dei processi, che costa al Paese un perdita sul Pil quantificata in circa 40 miliardi di euro l’anno, sia per il trattamento discriminatorio riservato alla magistratura onoraria e di pace, con risarcimenti e sanzioni di svariati miliardi di euro". "Il Governo", aggiunge Rossi, "abbia la responsabilità di comprendere che questo decreto legislativo va ritirato senza indugio alcuno e che la riforma della magistratura onoraria e della Giustizia di pace va profondamente ripensata, in linea con le vincolanti decisioni e raccomandazioni dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa". Nel frattempo le organizzazioni dei giudici di pace preannunciano già a partire da settembre ulteriori e reiterati scioperi, ad intervalli di 20 giorni, che paralizzeranno gli uffici. Tortura. Amnesty: "Legge schifezza, ma meglio di niente" di Marco Preve La Repubblica, 4 luglio 2017 L’Ong criticata dal pm del processo Diaz: "Posizione politica". Contrari anche i vertici di Magistratura Democratica: "Un passo falso". La "legge truffa" diventa "legge schifezza". Il disegno di legge sulla tortura che dopo il passaggio in Senato sta per essere approvato alla Camera, se da un lato vede crescere le fila dei critici, tra gli ultimi il presidente Magistratura Democratica Riccardo De Vito e la corrente Area che da soli rappresentano circa un terzo dei giudici italiani, registra però, e il fatto sorprende, tra coloro che sono schierati a favore il presidente di Amnesty International Italia, Antonio Marchesi. Una vera e propria frattura nella galassia dei difensori dei diritti fondamentali, in nome della più cruda realpolitik. "Il ddl non ci piace - ha detto Marchesi ai microfoni di Radio Radicale - Riteniamo che comunque rappresenti un piccolissimo passo avanti. Amnesty è un’organizzazione pragmatica, che si dà obiettivi concreti". E quando il pm del processo Diaz (per quei fatti del G8 del 2001 la Corte Europea dei Diritti dell’uomo ha condannato il nostro paese) Enrico Zucca lo ha duramente contestato accusandolo di "aver preso una posizione politica "paradossale che Amnesty lo sostenga. Lei sta dicendo che prevedere un po’ di tortura è comunque un passo avanti, ed è una posizione grottesca", Marchesi è sbottato: "Tra il niente e questa schifezza, Amnesty sceglie di avere qualcosa". Una "legge schifezza" è per Amnesty quel disegno di legge che l’Italia attende da decenni ma che, nonostante le condanne al nostro paese per le vicende del G8 di Genova, continua ad aver un percorso tortuoso, opaco, tanto che il Commissario europeo per i diritti umani, Nils Muižnieks, ha invitato il Parlamento a cambiare il testo di legge sui punti più controversi che si distaccano dagli indirizzi della Convenzione dei Diritti dell’uomo: un reato non comune ma specifico del funzionario pubblico, la prescrizione, l’accertamento del danno psicologico. Da un lato - e sono coloro che avevano pubblicamente definito il ddl "legge truffa" - c’è chi vuole una legge che segua i dettami internazionali, dall’altro il partito trasversale di chi teme che una legge europea sia sgradita dalle forze dell’ordine. Questo turarsi il naso lo ha spiegato benissimo lo stesso Marchesi: "Io ho contribuito a scrivere la lettera inviata a Repubblica nei giorni scorsi (firmata da un gruppo di giuristi tra cui Vladimiro Zagrebelsky, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, con cui si definisce "informe creatura" il ddl e se ne chiede il ritiro, ndr) ma ho rifiutato di firmarla perché, ripeto, è importante avere qualcosa". Un qualcosa che secondo un gruppo sempre più folto di addetti ai lavori, vittime, studiosi, sarebbe un pericoloso "passo falso". Lo hanno scritto undici tra pm e giudici dei processi del G8 Diaz e Bolzaneto in un appello al presidente della Camera Laura Boldrini in cui spiegavano come questa legge sarebbe stata inutile per punire molti degli abusi del 2001, lo ribadisce un comunicato diffuso oggi da Lorenzo Guadagnucci, giornalista che venne pestato alla Diaz e imprigionato a Bolzaneto, e che per la pria volta porta la firma di Riccardo De Vito e Mariarosaria Guglielmi, presidente e segretaria generale di Magistratura Democratica. Pochi giorni fa era stata Area a chiedere "un cambio di rotta" alla politica sulla "legge truffa". Quale sarà la risposta del parlamento rispetto a questa alzata di scudi? Fino ad oggi sembra prevalere la linea Amnesty. Basti leggere cosa ha scritto l’onorevole Franco Vazio, avvocato e deputato del Pd, relatore alla Camera sul disegno di legge. Alle obiezioni pervenute da molti soggetti tra i quali il Commissario europeo per i diritti umani, Vazio risponde: "In realtà, si tratta di preoccupazioni che possono essere superate attraverso una corretta interpretazione delle norme introdotte, senza la necessità di modificare il testo". Non pare essere una posizione che possa conciliarsi con l’appello di Zagrebelsky e degli altri giuristi che chiedevano delle urgenti modifiche perché: "Ne va palesemente della serietà, e quindi della credibilità, dell’Italia, in Europa e nel mondo". Legge contro la tortura: "norma troppo distante dagli standard internazionali" Il Manifesto, 4 luglio 2017 L’appello. Associazioni e magistrati scrivono ai parlamentari: "Dopo 30 anni di attesa, si rischia un brutto passo falso". Nei prossimi giorni la Camera dei deputati discuterà e probabilmente approverà una nuova legge sulla tortura. Il 14 giugno scorso, al termine di un importante convegno a Roma dal titolo "Legittimare la tortura?", avevamo firmato e diffuso un appello ai parlamentari, per invitarli a non votare il testo uscito dal Senato (e sconfessato dal primo firmatario della versione iniziale, Luigi Manconi), perché confuso, inapplicabile e controproducente. Invitavamo i deputati a tornare alla definizione del crimine scritta nella Convenzione Onu contro la tortura, cioè la versione più seria, equilibrata e condivisa al momento disponibile. Il nostro appello non è stato preso in considerazione e sono stati anche ignorati, ed è ben più grave, il preciso e pressante invito - reso noto il 21 giugno - del commissario europeo per i diritti umani, Nils Muižnieks, a cambiare il testo di legge, nonché le prescrizioni della Corte europea dei diritti umani contenute nella sentenza Cestaro contro Italia (sul caso Diaz) dell’aprile 2015 e ribadite con la nuova condanna inflitta all’Italia dalla Corte il 22 giugno scorso. È stato ignorato anche l’appello di undici giudici e magistrati del tribunale di Genova coinvolti negli scorsi anni nei processi per le torture nella scuola Diaz e nella caserma di polizia di Bolzaneto: il testo in esame - hanno scritto il 26 giugno alla presidente della Camera - non sarebbe applicabile alla maggior parte dei casi che abbiamo esaminato e che la Corte europea qualifica come tortura. Si profila un esito legislativo disastroso e siamo perciò rammaricati che in queste settimane gli autorevoli appelli appena citati siano caduti del vuoto; se fossero stati sostenuti da una decisa azione della cittadinanza attiva e da un’adeguata attenzione dei mezzi di comunicazione, forse il parlamento li avrebbe presi in considerazione, riportando così il nostro paese lungo la via maestra della tutela effettiva dei diritti fondamentali. Non è accaduto e ne portiamo tutti la responsabilità: si è purtroppo creato nel paese un clima di desistenza e rassegnazione al peggio che non può portare niente di buono. I deputati stanno per approvare una norma-feticcio, che porta il titolo "legge sulla tortura" ma non ne ha la sostanza: davvero basta la parola, come sostiene ad esempio la sezione italiana di Amnesty International? Noi non crediamo che sia così e anzi spiace e amareggia che un’organizzazione come Amnesty International si attesti su posizioni tanto arrendevoli e così in contrasto con le importanti e coraggiose prese di posizione italiane e internazionali degli ultimi giorni. Noi, come il commissario Muižnieks, come la Corte di Strasburgo, come i giudici genovesi e molti altri, pensiamo che la prevenzione e la punizione degli abusi di potere siano questioni troppo importanti per essere ridotte a giochi di parole e a compromessi al ribasso che svuotano di senso provvedimenti normativi attesi da trent’anni. Il parlamento si appresta a compiere un passo falso che non farà certo avanzare la tutela dei diritti fondamentali e la qualità della nostra democrazia. Firmatari: Lorenzo Guadagnucci; Arnaldo Cestaro; Enrica Bartesaghi (Comitato Verità e giustizia per Genova); Enrico Zucca (sostituto procuratore generale a Genova, già pm nel processo Diaz); Roberto Settembre (già giudice nel processo d’appello per i fatti di Bolzaneto); Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo (associazione Stefano Cucchi); Michele Passione (avvocato del foro di Firenze); Adriano Zamperini (università di Padova, autore di "Violenza e democrazia"); Marialuisa Menegatto (università di Padova, autrice di "Violenza e democrazia"); Marina Lalatta Costerbosa (università di Bologna, autrice di "Il silenzio della tortura"); Donatella Di Cesare (università di Roma La Sapienza, autrice di "Tortura"); Tomaso Montanari (presidente Libertà e Giustizia); Riccardo De Vito e Mariarosaria Guglielmi (presidente e segretaria generale di Magistratura Democratica); Vittorio Agnoletto (già portavoce del Genoa Social Forum); Pietro Raitano (direttore) e la redazione della rivista "Altreconomia". Pioggia di critiche al nuovo Codice antimafia, ma il Senato vota di Giulia Merlo Il Dubbio, 4 luglio 2017 Oggi via libera alle nuove norme, poi si torna alla Camera. Secondo Cantone "un’estensione così ampia anche a reati non mafiosi rischia una declaratoria di illegittimità dell’intero ddl". Risponde Orlando: "non sono d’accordo". Il via libera al nuovo Codice antimafia è atteso per la giornata di oggi, ma non si placano le polemiche intorno al testo del ddl, già rimaneggiato dai relatori di maggioranza per raggiungere una mediazione, dopo le sirene d’allarme lanciate dal Procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti. Nonostante la correzione emendativa, che ha introdotto l’associazione per delinquere come requisito per disporre le misure di prevenzione, sia personali che patrimoniali, nel caso di reati contro la pubblica amministrazione (peculato, malversazione, corruzione propria, concussione, induzione indebita), non si ferma la pioggia di critiche contro la riforma. A soffiare sul fuoco della polemica è stato il presidente di Anac, Raffaele Cantone, che dalle pagine del Mattino di domenica ha bollato la riforma come "né utile, né opportuna, e rischia persino di essere controproducente". Parole dure, riferite soprattutto alle modifiche imposte sui reati di corruzione: il Ddl "non è utile nei confronti delle organizzazioni mafiose che utilizzano la corruzione, perché in tali casi può già utilizzarsi la normativa vigente; non è opportuna nemmeno per le altre vicende di corruzione, perché, come ha già sperimentato con successo la Procura di Roma, la confisca di prevenzione può essere adottata a legislazione vigente, in presenza, però, di episodi reiterati che dimostrino che il soggetto trae risorse in via non episodica dalla corruzione". La critica del presidente Anac è precisa e circostanziata: "Un’estensione così ampia anche a reati non mafiosi, per paradosso, potrebbe rendere concreto il rischio di una declaratoria di illegittimità dell’intero impianto normativo". La smentita del pericolo di incostituzionalità arriva direttamente dal Guardasigilli Andrea Orlando, che ha rispedito le critiche al mittente con un secco "non sono d’accordo", senza però entrare nel merito delle critiche: "Ne parleremo nei prossimi giorni, credo che Cantone parlasse di un punto specifico che è stato modificato". Eppure, nonostante il tentativo d’argine di via Arenula, le parole di Cantone pesano come macigni su un dibattito parlamentare già inasprito durante la discussione in Aula della scorsa settimana e riaccendono il fuoco di fila contro il testo, con la minoranza pronta a fare barricate. "Il Codice antimafia è scritto male, uno scandalo", ha commentato il parlamentare Cinquestelle Roberto Fico. "Non va approvato, ma va combattuto in tutti i modi". Per Gaetano Quagliariello, leader di Idea, "le norme in discussione sul Codice antimafia rischiano allo stesso tempo di produrre uno sbrego costituzionale sul versante del garantismo e di indebolire anziché rafforzare gli strumenti investigativi e repressivi nei confronti della criminalità organizzata". Un altolà al Parlamento arriva anche da Confindustria, con il presidente Vincenzo Boccia che definisce il Codice antimafia come "cortocircuito", sia per quanto riguarda "le norme sulle misure di prevenzione applicate ai reati di corruzione", sia in merito a "un certo orientamento per cui il diritto penale non si applica più con le garanzie del processo, ma nella fase cautelare, in cui queste garanzie sono molto attenuate. I procedimenti indiziari non possono essere la regola, anche per i fenomeni di corruzione". Nel mirino di Boccia, infatti, c’è il termine "indiziati", contenuto nell’articolo 1 del Codice, come destinatari delle misure di prevenzione. E il Codice antimafia divide in schieramenti anche il mondo della giustizia, con il magistrato al servizio del Csm, Antonello Ardituro (ex pm della Dda di Napoli), che plaude al legislatore: "questo codice, che riforma in sostanza le misure di prevenzione, dà risposte importanti sul tema della valorizzazione dei grandi patrimoni e delle grandi aziende create dai camorristi e prova a far diventare l’Agenzia dei Beni Confiscati qualcosa di appena appena serio, quanto a risorse e mezzi". Su posizioni diametralmente opposte, invece l’Unione Camere penali, con il presidente Beniamino Migliucci che lamenta la carenza di garanzie alla difesa e chiede di "imporre al Giudice della prevenzione di basare la decisione su prove", invece che "su meri indizi o sospetti, dichiarazioni testimoniali e sommarie informazioni raccolte al di fuori di ogni contraddittorio". Bilancio negativo, dunque, per le Camere penali, che bollano il Ddl come una "riforma che frutterà assai poco sul piano della lotta alla criminalità dei colletti bianchi, ma che certamente contribuirà ad abbassare in maniera consistente lo standard delle garanzie". Toghe e politica. Pagliari (Pd): "la migliore delle leggi possibili" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 4 luglio 2017 Nel Ddl l’obbligo di aspettativa per assumere cariche. Parla il Senatore Pd indicato come relatore insieme con Casson. Vietato candidarsi nei territori in cui si è prestato servizio nei 5 anni precedenti. Sono stati nominati la scorsa settimana i relatori in Senato del ddl che dovrà regolamentare l’incandidabilità dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni e il loro rientro in magistratura dopo la parentesi politica. La scelta è caduta sui senatori Felice Casson (Mdp) e Giorgio Pagliari (Pd). Casson è un veterano di questo provvedimento, essendone stato relatore già nel 2013. Il testo approvato alla Camera prevede "per i magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, inclusi quelli collocati fuori dal ruolo organico", l’impossibilità di essere candidati "per l’elezione alla carica di membro del Parlamento europeo, senatore o deputato o a quella di presidente della Regione, consigliere regionale, presidente delle Province autonome di Trento e di Bolzano o consigliere provinciale nelle medesime Province se prestano servizio, o lo hanno prestato nei cinque anni precedenti la data di accettazione della candidatura, presso sedi o uffici giudiziari con competenza ricadente, in tutto o in parte, nella circoscrizione elettorale". Gli stessi vincoli valgono per la candidatura alle cariche di sindaco, consigliere o l’assunzione dell’incarico di assessore comunale. Non solo, per l’accettazione della candidatura in altro collegio o luogo diverso da quello in cui svolgevano la professione, i magistrati dovranno essere in aspettativa da almeno sei mesi. Unica "deroga", lo scioglimento anticipato delle Camere o le elezioni suppletive, in questo caso sarà sufficiente essere in aspettativa al momento di accettare la candidatura. Per i magistrati sarà introdotto l’obbligo dell’aspettativa per ricoprire il ruolo di presidente del Consiglio dei ministri, vicepresidente del Consiglio dei ministri, ministro, viceministro, sottosegretario di Stato, sottosegretario regionale, assessore regionale o comunale se, all’atto dell’assunzione dell’incarico, non siano già collocati in aspettativa. La stessa dovrà, poi, durare per l’intero incarico. Il provvedimento prevede per i magistrati candidati, ma non eletti, il rientro nell’incarico con l’obbligo però dell’astensione nei due anni successivi alla data delle elezioni dalle funzioni inquirenti. Gli stessi non potranno essere assegnati ad uffici all’interno della circoscrizione elettorale in cui si sono candidati. Vengono ricollocati presso l’ufficio di provenienza coloro che provengono dai collegi giudicanti della Corte di Cassazione, del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti centrale, della Corte Militare di appello. I magistrati della Procura nazionale antimafia verranno ricollocati presso la procura generale presso la Corte di Cassazione. Al termine del mandato i magistrati verranno invece ricollocati, ove ne abbiano i requisiti, presso la Corte di Cassazione o la Procura generale della Corte di Cassazione, o in un distretto di Corte di Appello diverso da quello in cui è compresa la circoscrizione elettorale in cui erano stati eletti. Per tre anni non potranno ricoprire incarichi direttivi o semi-direttivi. "È un provvedimento - dice il senatore Pagliari - che va nella giusta direzione, pur se non è la soluzione netta del divieto del rientro in magistratura, auspicata non senza ragioni da taluno". E su questo aspetto si segnala la "delusione" del consigliere Pierantonio Zanettin (FI) che, prima di essere eletto componente laico del Csm, nel 2013 era stato relatore del ddl insieme a Casson. "L’iniziale ddl dice Zanettin - venne approvato all’unanimità. Si era trovata un’ampia convergenza sul fatto che il magistrato, terminato il suo mandato, non dovesse tornare a giudicare perché l’elemento essenziale di chi riveste la toga non è essere imparziale ma apparire tale. Mi sembra evidente che se una magistrato ha avuto ruoli politici e poi torna a giudicare la sua imparzialità può essere messa in discussione". "Il testo originale è stato "annacquato" ed è chiaro che il Pd abbia alla fine voluto rendere più ‘ blandè le regole per i magistrati che tornano in servizio dopo aver deciso di fare politica attiva", ha poi aggiunto Zanettin. Separazione delle carriere, cade un tabù di Vincenzo Maiello Il Mattino, 4 luglio 2017 In meno di due mesi la proposta di legge elaborata dall’Unione delle Camere penali in tema di separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici ha superato il quorum di ammissibilità, ottenendo la firma di oltre 50mila cittadini. I significati politici dell’evento appaiono degni della massima attenzione, in una fase - come l’attuale - nella quale la curvatura populistica ed illiberale della nostra legislazione penale si avvia ad attingere inusitati livelli di estremismo che sono all’origine di preoccupazioni diffuse non solo presso il ceto dei giuristi. Il successo dell’iniziativa legislativa sulla separazione delle carriere dimostra: A) come anche nel nostro Paese esista un’opinione pubblica che - non sempre col corredo di una appropriata riflessione culturale, ma spesso solo con il sano buon senso dello ‘spirito civile moderato’ - resiste alle sirene del giustizialismo di piazza, sbandierato quale panacea dei problemi sociali da una effimera ed irresponsabile politica del consenso; B) che questa "altra" opinione pubblica - silenziosa ma ampia - chiede al nostro legislatore riforme di sistema nel "senso della Costituzione", proiettate a realizzare il disegno di una giustizia edificata sulla tutela effettiva dei diritti; nella quale, cioè, diritto e processo penale definiscono i limiti invalicabili del più terribile dei poteri (dell’uomo sull’uomo) a disposizione dello Stato: quello di comprimere i beni supremi dell’individuo (la libertà personale ed i suoi corollari, ma anche il patrimonio in tutte le sue forme), talvolta sine die e spesso per la parte preponderante e più vitale dell’esistenza. Ad una domanda di cambiamento di questo tipo, discorso pubblico e politica non possono restare indifferenti. Sul primo incombe il dovere di informare e fare opera di divulgazione in ordine ai contenuti della riforma, finalizzata a fare giustizia dei molti luoghi comuni messi in campo da quanti perseguono l’obiettivo di delegittimarla, anche sul solo piano del confronto democratico. Alla seconda, compete l’assunzione di responsabilità sul varo della riforma - in una sede parlamentare che si auspica possa essere davvero sovrana e, quindi, capace di paralizzare il gioco dei veti incrociati e il condizionamento dei pregiudizi culturali. Fra i doveri di informazione cui è tenuto il discorso pubblico rientra quello di sottolineare come il progetto di separare le carriere dei magistrati dell’accusa e dei magistrati della decisione non persegua affatto alcuna finalità punitiva di ridimensionamento e/o di normalizzazione della funzione giurisdizionale, attentando alle sue prerogative di "autonomia" e "indipendenza"; al contrario, esso intende promuovere una espansione di tali principi, in particolare rafforzando la condizione di "terzietà" del giudice nelle fasi del processo in cui i suoi poteri incrociano i destini della persona accusata, quando, cioè, egli è chiamato a stabilirne la colpevolezza e, specularmente, a verificare la fondatezza delle tesi del pm. In queste fasi, la fisionomia costituzionale del processo pretende che sia preservato e protetto il valore finale della imparzialità della decisione, esposto a rischi ove l’accusatore "condivida" con il giudice il medesimo statuto di carriera, generando una condizione di promiscuità di interessi che, rendendoli "colleghi", altera la dimensione di funzionamento e la percezione esterna di un processo giusto. In un contesto siffatto, a restare compromesso è l’equilibrio interno del processo, correlato allo spostamento del suo baricentro sull’asse del "dialogo privilegiato" tra accusatore e giudice: il pregiudizio che, in tal modo, si arreca ai principi della "parità delle armi" e della "terzietà" del giudice finisce per spianare la strada verso decisioni non "imparziali". Si tratta di un rischio che mina il cuore delle garanzie penali: una pronuncia di colpevolezza viziata dal difetto di imparzialità corrode la sostanza complessiva dello stesso principio di legalità, in quanto baluardo e Magna Charta delle ragioni di tutela dell’innocente. Il secondo luogo comune da rimuovere sta nel prospettato rischio che la riforma conduca ineluttabilmente alla sottoposizione del pm al potere esecutivo e, dunque, alla politica. Si tratta di un pericolo che l’articolato di legge elaborato dall’avvocatura penale neutralizza a tutto tondo, prevedendo l’istituzione di un Consiglio superiore della magistratura requirente. L’augurio è che - una volta emendato dai fraintendimenti veicolati da vulgate più o meno maliziose e strumentali - l’argomento possa essere affrontato dalla politica "sine ira et studio", oltre che con uno spicchio di consapevolezza proveniente dal mondo classico. Il riferimento corre a quell’autentico atto di battesimo della concezione moderna del processo penale che viene fuori dall’Orestea di Eschilo, ed in particolare dalle Eumenidi: il racconto delle vicende che segnano il passaggio dalla giustizia penale delle Erinni (simbolo della furia vendicatrice dell’offeso) alla giustizia amministrata dal Tribunale dell’Areopago potrebbe illuminare il legislatore della riforma, permettendogli di raccordare le sue scelte alle origini della nostra civiltà. Ecomafie: 71 reati al giorno, business da 13 miliardi, ma la legge funziona di Mario Pierro Il Manifesto, 4 luglio 2017 Legambiente. Rapporto Ecomafia 2017: 13 miliardi di euro è il fatturato delle ecomafie, in calo del 32% per il taglio della spesa pubblica per opere infrastrutturali nelle 4 regioni a maggiore presenza mafiosa. 17 mila nuovi immobili abusivi nel 2016; gli incendi dolosi hanno mandato in fumo più di 27 mila ettari; i reati ambientali accertati sono stati 25.889. Settantuno eco-reati al giorno, circa tre ogni ora per un totale di 25.889 nel 2016. Per Legambiente l’ecomafia vale 13 miliardi di euro, una cifra spaventosa ma in diminuzione del 32% rispetto allo scorso anno: -6,2 miliardi. Un calo dovuto soprattutto alla riduzione della spesa pubblica per opere infrastrutturali nelle quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso e a un lento ridimensionamento del mercato illegale. Dal rapporto Ecomafia 2017, presentato ieri alla Camera da Legambiente e pubblicato da edizioni Ambiente (con il sostegno di Cobat e Novamont) emerge un’insidiosa novità: il calo degli investimenti comporta un analogo calo del fatturato della mafia. Questo può significare che una ripresa economica avrebbe, tra l’altro, l’effetto di una ripresa anche dei profitti mafiosi. Il rapporto registra anche un aumento di arresti e denunce per reati ambientali: quelli accertati delle forze dell’ordine e dalla Capitaneria di porto sono passati da 27.745 del 2015 a 25.889 nel 2016, con una flessione del 7%. Aumentano arresti (225 contro i 188 del 2015), denunce 28.818 (24.623 nel 2015) e sequestri 7.277 (nel 2015 erano 7.055). Il calo di illeciti e del fatturato e l’aumento di arresti e denunce viene attribuito alla nuova legge contro i delitti ambientali del 2015. "La legge che ha introdotto nel codice penale i delitti ambientali funziona, chi inquina finalmente paga per quello che ha fatto- sostiene la presidente di Legambiente Rossella Muroni - ora bisogna investire maggiori risorse, dare gambe forti alle Agenzie regionali di protezione ambientale che stanno ancora aspettando l’approvazione dei decreti attuativi". Il presidente della commissione Ambiente alla Camera Ermete Realacci (Pd) sostiene che gli eco-reati possono essere combattuti con un’alleanza con la "società civile" e propone l’approvazione di una legge che vieta l’uso delle microplastiche nei cosmetici, causa frequente di inquinamento dei mari. Il ministro della giustizia Andrea Orlando sostiene che "ora occorre approvare la legge sul consumo di suolo per realizzare una vera conversione ecologica, per puntare sulla rigenerazione". Gli eco-reati restano tuttavia una realtà incombente nel nostro paese. Lo si vede dai dati sull’abusivismo edilizio con 17mila nuovi immobili abusivi nel 2016, dal ciclo illegale dei rifiuti in crescita e dalla corruzione dilagante. I roghi dolosi hanno mandato in fumo 27 mila ettari. Anche se diminuisce in percentuale il peso delle quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso (dal 48% del 2015 al 44% del 2016) si confermano ai primi posti nella classifica per numero di illeciti ambientali la Campania (3.728 illeciti), la Sicilia (3.084), la Puglia (2.339) e la Calabria (2.303). Su scala provinciale, Napoli è in testa con 1.361 infrazioni, seguita da Salerno (963), Roma (820), Cosenza (816) e Palermo (811). Il Lazio è la prima regione del centro, la quinta in Italia per reati eco-mafiosi, con 2.241 infrazioni accertate, 6,1 al giorno; è al terzo posto per le illegalità nel ciclo dei rifiuti, Roma è la terza peggior provincia con 199. Agli eco-reati denunciati da Legambiente vanno aggiunti quelli "legalizzati come i fanghi di depurazione trasformati in gessi e ceneri di inceneritori infilate in conglomerati cementizi provocando l’inquinamento di suoli e falde - sostiene Alberto Zolezzi, deputato M5S in commissione Ambiente - ora bisogna perseguire i reati dei colletti bianchi". Antiriciclaggio, sanzioni aggravate al via da oggi ma c’è il "favor rei" di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2017 Decreto legislativo 25 maggio 2017 n. 90. Da oggi, 4 luglio, è in vigore il decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 90 che attua la direttiva (UE) 2015/849 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo. Il decreto era stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, serie generale, n.140 del 19 giugno. Le sanzioni - Il decreto legislativo 90/2017, scandisce i tempi per l’emanazione delle disposizioni attuative. Così se alcune delle nuove prescrizioni, come quelle sanzionatorie, sono destinate a entrare in vigore da subito facendo salvo il principio del favor rei esteso eccezionalmente dal nuovo decreto dal settore penale anche a quello delle sanzioni amministrative, altre richiedono tempi tecnici di adeguamento. Sul fronte delle sanzioni L’attuazione - Secondo le disposizioni finali del provvedimento le norme emanate dalle autorità di vigilanza di settore, in base a norme abrogate o sostituite per effetto del nuovo decreto, continueranno a trovare applicazione fino al 31 marzo 2018. Ciò dovrebbe garantire un margine di tempo sufficientemente ampio per "metabolizzare" le novità e passare alla fase operativa di implementazione del nuovo progetto normativo. Le Autorità di vigilanza di settore e gli organismi di autoregolamentazione avranno, invece, 12 mesi di tempo, dall’entrata in vigore del decreto, per individuare i requisiti dimensionali e organizzativi in base ai quali i soggetti obbligati dovranno adottare controlli e procedure per la valutazione e gestione del rischio di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo e per l’introduzione di una funzione antiriciclaggio, ivi comprese, se adeguate rispetto a dimensioni e natura dell’attività, la nomina di un responsabile della funzione antiriciclaggio e la previsione di una funzione di revisione indipendente per la verifica di politiche, controlli e procedure. Entro il medesimo termine, il Mef dovrà emanare, di concerto con il Mise, un decreto per individuare i dati e le informazioni oggetto di comunicazione al Registro delle imprese e a disciplinare i termini e le modalità di accesso alle informazioni da parte dei soggetti autorizzati, nonché le modalità di consultazione e di accreditamento da parte dei soggetti obbligati. I concessionari di gioco, nel giro di 12 mesi, dovranno adottare gli adeguamenti tecnologici dei propri processi per dare attuazione alle nuove norme. Stessa scadenza per il Mef, che dovrà emanare un decreto con le modalità tecniche per l’alimentazione e consultazione del Registro dei soggetti convenzionati e agenti di prestatori di servizi di pagamento e istituti emittenti moneta elettronica. L’Organismo per la gestione degli elenchi degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi (Oam), avrà poi tre mesi di tempo dall’entrata in vigore del decreto ministeriale per avviare la gestione del Registro. Gli agenti in attività finanziaria, qualora nella prestazione di servizi di rimessa di denaro, riscontrino in capo all’ordinante l’assenza del titolo di soggiorno richiesto dalle normative in materia, entro 12 ore dal compimento dell’operazione, ne daranno notizia al Questore del luogo in cui l’operazione è stata compiuta, unitamente ai dati relativi all’identità dell’ordinante e dell’operazione eseguita. Le disposizioni relative ai consulenti finanziari autonomi e alle società di consulenza finanziaria entreranno in vigore in concomitanza con l’avvio dell’operatività dell’organismo di vigilanza e tenuta dell’albo unico dei consulenti finanziari. Il coordinamento - Dall’entrata in vigore delle nuove norme antiriciclaggio gli allegati tecnici a norme contenute nel decreto legislativo 231/2007, abrogate o sostituite dal decreto correttivo, saranno abrogati. Infine, i rinvii effettuati da disposizioni, contenute in qualsiasi atto o provvedimento normativo, a norme abrogate, sostituite o modificate per effetto del nuovo decreto antiriciclaggio si dovranno intendere effettuati, in quanto compatibili, alle norme introdotte ovvero sostituite per effetto della riforma. Caso Mered. Ma quale boss dei migranti, quel ragazzo è solo un falegname di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 luglio 2017 Arrestato in Sudan il 24 maggio del 2016 ed estradato in Italia il 7 giugno del 2016. È sotto processo. Il Wall Street Journal ha contattato il vero Mered Medhanie Yedhego che sarebbe in Uganda. Qualche mese fa The Guardian ha intervistato la moglie del "generale" che ha confermato: quel giovane non è mio marito. È in carcere da più di un anno nel penitenziario siciliano del Pagliarelli con l’accusa di essere uno dei più pericolosi boss della tratta di esseri umani, ma lui si dichiara da sempre innocente e dice di essere vittima di un clamoroso scambio di persona. La conferma della sua innocenza è arrivata l’altro ieri da tre giornalisti americani del Wall Street Journal. Grazie a una loro inchiesta sostengono di aver trovato il vero boss delle tratte e che vive in libertà in Uganda. Il Wall Street Journal non indica la data in cui ha contattato l’africano ma scrive che "ha contattato l’uomo tramite messaggi in chat facendo riferimento ai documenti che attestano per il tribunale quella che sarebbe la reale pagina di Facebook di Mered Medhanie Yedhego". Così si chiama il boss detto anche "Il Generale" che organizza tratte lungo la direttrice che collega il Corno d’Africa alla Libia e da lì in Italia. Lui ai giornalisti americani sostiene: "Ero convinto che l’avrebbero rilasciato in poco tempo. Loro sanno che non si tratta del vero Medhanie". I giornalisti del Wall Street Journal scrivono che ci sono dozzine di testimoni che sostengono che "l’uomo dalla faccia di bambino non è il contrabbandiere". Il Mered contattato spiega: "Ero negli affari tra il 2013 e il 2015". E continua: "Non ho una residenza fissa, mi muovo da un Paese all’altro". Secondo Facebook si troverebbe adesso in Uganda. Insomma, grazie anche a questa inchiesta, i dubbi sull’operazione coordinata dalla Procura di Palermo con il supporto della National Crime Agency inglese che portò all’arresto dell’eritreo, si addensano sempre di più e si rafforza sempre di più l’idea che potrebbe esserci stato effettivamente uno scambio di persona. Qualche mese fa anche i giornalisti del quotidiano inglese The Guardian hanno messo in luce l’altra verità che i magistrati inquirenti non vorrebbero vedere: hanno pubblicato un estratto da una chat del profilo Facebook di Mered in cui il trafficante stesso afferma che gli investigatori "hanno fatto un errore con il suo nome. Tutti sanno che non è un trafficante e spero che venga rilasciato". Sempre The Guardian ha contattato e intervistato Li-È Tesfu, indicata dalle carte della procura come la moglie del "Generale", che senza esitazioni ha affermato che l’uomo sotto processo a Palermo non è suo marito. Anche dalle udienze in tribunale erano emersi altri elementi a favore dell’imputato. Come la sua carta di identità validata dalle autorità eritree, la ricostruzione dei suoi movimenti tra Eritrea e Sudan grazie ai collegamenti al suo profilo Facebook. E soprattutto la testimonianza di Seifu Haile, un eritreo detenuto a Roma e condannato per traffico di esseri umani: per mesi Haile ha lavorato in Libia a fianco del vero Mered e nemmeno lui ha riconosciuto il giovane detenuto a Palermo. Eppure, nonostante le prove a favore della difesa, il processo va avanti. Ma non solo. Come se non bastasse, nello scorso mese di gennaio, il tribunale del riesame di Roma ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Ricordiamo che il ragazzo è stato arrestato in Sudan il 24 maggio del 2016 ed estradato in Italia il 7 giugno del 2016 su mandato della Procura di Palermo. Il difensore dell’indagato, l’avvocato Michele Calantropo, aveva presentato opposizione al provvedimento del gip di Roma affermando, tra le altre cose, l’errore di persona e lo scambio di identità. In carcere ci sarebbe - è la tesi difensiva - un falegname eritreo, Mered Tasmafarian, rifugiato in Sudan. Ma niente da fare, i giudici del Riesame avevano confermato la custodia in carcere per il pericolo di fuga oltre che per il concreto rischio di reiterazione del reato ed inquinamento delle prove. Insomma, per i magistrati non ci sono dubbi: il detenuto è proprio "il Generale", l’eritreo di 35 anni che avrebbe portato in Europa almeno 13mila persone. Il business della tratta lo ha reso un uomo ricchissimo e soprattutto molto potente. "È uno dei pochi, forse l’unico che si può permettere di andare in giro con un crocifisso al collo", riferì in un interrogatorio un uomo condannato per traffico di esseri umani e che ha collaborato proprio con "il Generale". Ma sono sorte le prime perplessità già nel momento in cui l’arrestato ha messo piede in Italia: il volto del giovane estradato in Italia non assomiglia affatto a quello dell’uomo immortalato nelle immagini diffuse dalla procura di Palermo. Il ragazzo, infatti, dice di chiamarsi Medhanie Tesfamarian Berhe, ha 29 anni ed è un falegname che era in attesa di trovare i soldi necessari a pagarsi il viaggio per l’Italia. Persino gli agenti siciliani inviati in Sudan per estradare il presunto trafficante avevano avuto un attimo di esitazione di fronte al giovane che veniva consegnato loro dagli agenti sudanesi. A testimoniarlo durante il processo è proprio Carmine Mosca, all’epoca delle indagini vice dirigente della Mobile di Palermo. Mosca è uno degli agenti che era andato personalmente a prenderlo in Sudan assieme ai colleghi inglesi: "Io ricordo che ebbi delle perplessità - dice durante la penultima udienza in tribunale -, perché rispetto alla foto che avevamo acquisito attraverso il profilo Facebook evidentemente la persona che ci veniva consegnata non aveva quelle fattezze fisiche. Per cui chiesi al servizio centrale operativo di fare un accertamento, però non ricordo di che tipo". Non mancano anche aspetti bizzarri durante il processo. Durante l’ultima udienza, non si è presentato per l’ennesima volta il perito dell’accusa Marco Zonaro, nominato dal pm Geri Ferrara per effettuare la consulenza tecnica fonica per capire se effettivamente la voce del boss intercettata durante dei colloqui telefonici corrisponda a quella dell’imputato. A questo punto è scattata la sanzione e il perito fonico viene condannato a pagare 250 euro di ammenda per ripetuta ingiustificata assenza. Nel frattempo il processo continua e l’imputato continua a considerarsi un semplice rifugiato che era in attesa di lasciare il Sudan - dov’è stato arrestato dagli agenti inglesi e italiani - per approdare in Libia e da lì salire a bordo di un barcone alla volta dell’Europa. Alla fine il sogno di approdare in Europa si è realizzato, ma mai si sarebbe aspettato di essere accompagnato qui per finire in un penitenziario con l’accusa di essere uno spietato criminale. Vecchi dati telefonici da distruggere, a rischio anche le indagini penali di Andrea Maria Candidi Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2017 Scade l’obbligo, per gli operatori telefonici e gli internet provider, di conservare i dati del traffico telefonico e telematico più vecchi, precedenti cioè i termini ordinari di conservazione. Ed è allarme sulle inchieste per i reati più gravi, mafia o terrorismo, che di questi termini più ampi si sono fin qui potute giovare. L’obbligo sulla cosiddetta data-retention è stato introdotto dal decreto antiterrorismo del 2015 (Dl n. 7) che per esigenze investigative ha imposto, fino al 30 giugno 2017, il mantenimento di tutti i dati di traffico, in deroga ai vincoli del codice della privacy, a partire dal 21 aprile 2015 (data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge). Ora, superata la scadenza del 30 giugno senza che il legislatore sia intervenuto (e, a quanto risulta, senza che abbia mostrato la volontà di intervenire), tornano ad applicarsi le regole base, quelle cioè previste dal codice della privacy per cui i dati del traffico telefonico devono essere conservati per 24 mesi dalla comunicazione e quelli telematici per 12 mesi. Ciò vuol dire che, oggi, i gestori telefonici devono tenere solo le informazioni relative alle comunicazioni effettuate da due anni a questa parte (cioè, dal 3 luglio 2015 fino a oggi), mentre gli operatori internet devono conservare i dati relativi agli accessi dell’ultimo anno (vale a dire dal 3 luglio 2016 a oggi). Di conseguenza, tutti i dati precedenti, possono (devono?) essere distrutti da chi li detiene. Con buona pace delle inchieste sui reati più gravi, dal terrorismo alla mafia come detto, che il decreto legge del 2015 intendeva invece tutelare (si veda l’altro articolo in pagina). Sul punto, dal ministero della Giustizia tendono a smorzare qualsiasi allarmismo e fanno sapere che dalle procure non è arrivato alcun segnale. La questione, spiegano tuttavia a Via Arenula, sussiste e verrà sottoposta alla valutazione del ministro Andrea Orlando. Quella dei dati chiesti sistematicamente dagli inquirenti e dagli organi di polizia giudiziaria è "una messe imponente" spiega l’avvocato Fulvio Sarzana, legale rappresentante di Assoprovider: "Per poter conservare tutti questi dati - sottolinea - i fornitori dei servizi di comunicazione elettronica devono spendere cifre considerevoli". Va peraltro ricordato che molte comunicazioni solo apparentemente sono telefoniche, ma servizi voce come Voip generano di fatto traffico telematico. Vedremo, in ogni caso, come si comporteranno le aziende del settore e se e come il legislatore intende risolvere la questione. Vero è che, nonostante i vincoli europei (si ricorda che i giudici di Lussemburgo hanno bocciato la data-retention indiscriminata) l’ondata di terrorismo di matrice islamica che sta investendo il Vecchio continente ha imposto agli stati membri di adottare misure emergenziali che derogano, senza andare troppo per il sottile, alle regole. La Francia, ad esempio, ha ampiamente superato i vincoli delle regole comunitarie con la nuova normativa antiterrorismo che impone la conservazione di tutti i dati di traffico telefonico e telematico. Sequestro Pc: estrazione dati libera per modi e tempi, basta la conservazione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2017 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 3 luglio 2017 n. 31918. L’autorità giudiziaria che sequestra un sistema informatico deve soltanto a garantire la conservazione dei dati originali e la conformità delle copie estratte, ma è libera di scegliere, tempi, modi e luogo in cui procedere all’"estrazione". La Corte di cassazione, con la sentenza 31918, respinge il ricorso di tre indagati per associazione a delinquere finalizzata a commettere reati finanziari. Nel mirino della difesa dei tre era finita l’ordinanza con la quale si dava via libera ad un sequestro ad ampio "spettro": dal materiale cartaceo al personal computer. Secondo gli indagati con il provvedimento erano state messe in atto diverse violazioni. I beni erano stati individuati dal Pm solo in via generale, mentre la concreta "scelta" era rimessa alla discrezionalità degli operanti. Il decreto, non solo non indicava il vincolo di pertinenza tra cosa sequestrata e reato, ma disponeva indiscriminatamente il sequestro dell’intero sistema informatico per fini probatori, violando il principio di proporzionalità. Per finire, l’apprensione era avvenuta senza osservare le modalità previste in caso di "Digital evidence" dalla legge di ratifica della Convenzione di Budapest sulla criminalità informatica n.48/2008: era così venuta meno la garanzia della genuinità e dell’integrità dei dati contenuti nel sistema. Per i ricorrenti erano ste dunque violate le modalità, indicate dal codice di procedura penale, che devono essere messe in atto al momento dell’acquisizione del sistema informatico e non dopo. Per la Cassazione non ci sono state violazioni. È corretto il sequestro dell’intero sistema informatico, Pc e memorie, perché proporzionato rispetto all’esigenza di trovare riscontri del complesso fenomeno di evasione e truffa ideato dalle società oggetto di verifica. I giudici ricordano che in tali casi è possibile un sequestro ad ampio raggio, ferma restando la necessità di restituire le cose tempestivamente dopo un accertamento che deve avvenire in tempi ragionevoli. Se questo non avviene l’interessato può far valere le sue ragioni attraverso l’impugnazione. Inoltre - sottolineano i giudici - nel caso esaminato non si trattava di un sequestro "esplorativo" ma di un provvedimento adottato in base a notizie di reato sufficientemente delineate. Circostanza questa che rafforza la legittimità dell’operato dell’autorità giudiziaria. Per quanto riguarda sequestro e modalità di estrazione, gli articoli 247, comma 1 bis e 260 comma 2 del Codice di rito - sottolineano i giudici - si limitano a richiedere l’adozione di misure tecniche e di procedure utili a garantire la conservazione dei dati informatici originali e la conformità e la non modificabilità delle copie estratte per evitare il rischio di alterazioni. Il Codice di procedura penale non impone, infatti, misure e procedure tipizzate. Non indica modi né luoghi o tempi "e quindi - si legge nella sentenza - devono ritenersi misure idonee quelle individuate dall’Autorità giudiziaria procedente al momento dell’analisi dei dati e non anche al momento del sequestro, nel luoghi del sequestro". Vendita sul web, truffa se il prezzo è basso e la merce non disponibile di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2017 Corte d’Appello di Cagliari - Sezione 1 - Sentenza 14 aprile 2017 n. 230. "Truffa contrattuale" e non semplice "inadempimento" per chi metta in vendita sul web un bene per una somma particolarmente conveniente e dunque "con la consapevolezza dell’appetibilità del prezzo (che avrebbe attirato sicuramente nella trappola vari clienti)" ma anche "della indisponibilità del bene" o "della impossibilità di reperirlo nel mercato". Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Cagliari, sentenza 14 aprile 2017 n. 230, affermando che tali elementi, a partire proprio dal costo ridotto per il consumatore, sono "sintomatici della volontà di ingannare il prossimo al fine di concludere un contratto che non potrà mai essere adempiuto". Confermata dunque la sentenza di primo grado che aveva condannato l’appellante a sei mesi di reclusione e 51,00 euro di multa avendolo ritenuto colpevole del reato di cui all’articolo 640 del codice penale, "per avere, con artifici e raggiri consistiti nel porre in vendita sul sito un’autoradio, indotto in errore l’acquirente sulla effettiva disponibilità e l’intenzione a vendere l’impianto, procurando a sé un ingiusto profitto pari alla somma di 345,00 euro, inoltrata mediante bonifico bancario, senza spedire mai l’apparecchiatura elettronica". Per il Tribunale "gli artifici e i raggiri" sono consistiti "nel porre in vendita l’autoradio ad un prezzo vantaggioso, rassicurare la parte offesa della serietà del contratto e, infine, nel fornire un codice di invio merce per poi rendersi irreperibile". Proposto ricorso, il venditore si è difeso sostenendo il contratto era stato stipulato "senza realizzare alcun tipo di artificio, con la piena volontà delle parti" e con le "modalità tipiche" delle compravendite sul web. Inoltre il prezzo non poteva considerarsi "così vantaggioso da indurre in inganno i possibili acquirenti". Al contrario, secondo il Collegio, il costo, pari alla metà del prezzo corrente, "non era passato indifferente" agli occhi dell’acquirente che "non poteva permettersi di acquistare autoradio di altre marche che costavano circa 1000 euro". Secondo il truffato, infatti, "quel bene importato dalla Cina, con le stesse caratteristiche delle autoradio più costose, veniva a costare il 50% in meno, e pertanto questa circostanza era stata decisiva". Sul punto, ricorda la Corte territoriale, la Cassazione (n. 43660/2016) ha affermato che nel caso di mancata consegna "l’aver indicato un prezzo conveniente di vendita sul web, integra il reato di truffa contrattuale". In tale prospettiva, pertanto, "anche il prezzo conveniente richiesto da un contraente può integrare un artificio volto a trarre in inganno l’altro contraente". Non solo, "la mendace dichiarazione di essere in grado di adempiere l’obbligazione, pure in assenza di qualsiasi messa in scena, in quanto destinata a creare un falso convincimento, integra l’elemento del raggiro il quale, se posto in essere con dolo, realizza la figura criminosa della truffa contrattuale" (n. 4011/1993). I giudici infine hanno ritenuto di poter "desumere da una serie di circostanze" l’inesistenza dell’autoradio: in primis, la comunicazione di un codice poi risultato fasullo in quanto il pacco non è mai arrivato; poi, l’oscuramento del sito di tracking on line da parte della Polizia Postale a seguito delle "tantissime querele" proposte da altri consumatori che avevano subito la stessa sorte. Mentre, conclude la decisione, "la regolarità delle iscrizioni nel Registro delle imprese e delle condizioni generali di vendita, non esclude che il prevenuto abbia comunque posto in essere quelle condotte delittuose". Dichiarazione infedele, amministratore di fatto concorrente nel reato di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2017 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 3 luglio 2017 n. 31906. Concorre nel reato di dichiarazione infedele il padre che aiuta la figlia nella gestione dell’impresa individuale: il suo ruolo è paragonabile all’amministratore di fatto, configurabile anche se le funzioni riguardano solo alcune attività. A fornire questa rigorosa interpretazione è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 31906 depositata ieri. La vicenda - Una persona fisica veniva condannata dal Tribunale a un anno e quattro mesi di reclusione per dichiarazione infedele, relativamente a violazioni commesse dalla ditta individuale intestata alla figlia. Più precisamente, veniva considerato amministratore di fatto e correo nel delitto contestato. La decisione era confermata anche dalla Corte d’Appello: pertanto l’imputato ricorreva in Cassazione, lamentando che, pur avendo la firma sui conti, era estraneo alla tenuta della contabilità. Si limitava a una collaborazione con la giovane per aiutarla a intrattenere i rapporti commerciali. La Corte, ritenendo inammissibile il ricorso per manifesta infondatezza, ha fornito interessanti chiarimenti sulla qualificazione di un amministratore di fatto. Nel corso della verifica, i militari avevano dato atto, innanzitutto dell’intervento del padre per qualunque richiesta di delucidazione, nonostante la titolarità dell’impresa fosse solo della figlia. Quest’ultima si era mostrata poco informata sulla gestione non solo commerciale (incassi e pagamenti), ma anche contabile. Inoltre, alcune fatture non contabilizzate erano state incassate sul conto personale del padre, dimostrando la piena disponibilità delle attività aziendali. Per queste ragioni, i verificatori prima e il giudice territoriale poi, avevano ritenuto che fosse l’amministratore di fatto e gestore dell’impresa intestata alla figlia e, quindi, corresponsabile del reato di dichiarazione infedele per aver sottratto elementi attivi superando la soglia di punibilità. Le indicazioni dei giudici - I giudici di legittimità hanno precisato che in tema di reati tributari, per l’attribuzione a un soggetto della qualifica di amministratore di fatto, pur non occorrendo l’esercizio di tutti i poteri tipici dell’organo di gestione, è necessaria una significativa e continua attività gestoria, svolta non occasionalmente. Occorre continuità delle funzioni (di tutte, di alcune o una di esse) proprie degli amministratori. Tra questi compiti va considerato in primo luogo il controllo contabile e amministrativo, poi l’organizzazione interna ed esterna costituente l’oggetto della società. Con riferimento a quest’ultima, va verificata anche la funzione di rappresentanza eventualmente rivestita. La Cassazione ha così affermato che l’amministratore di fatto è chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti a qualifica o funzione: non è necessario l’esercizio di tutti i poteri, poiché è sufficiente "un’apprezzabile attività gestoria" non occasionale. Nella specie la conferma dell’intervento del padre emergeva anche dalla sua difesa. Il padre aveva riconosciuto l’omessa registrazione di operazioni attive realmente avvenute, peraltro incassate su propri conti correnti personali. Solo la prossimità dei fatti criminosi può legittimare l’attualità del pericolo di reiterazione Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2017 Misure cautelari personali - Custodia cautelare in carcere - Necessità - Esigenze cautelari - Legge n. 47 del 2015 - Modifica dell’articolo 274 lett. c) c.p.p.- Attualità del pericolo di reiterazione del reato - Nozione. Nell’applicazione della custodia cautelare in carcere deve valutarsi la sussistenza delle esigenze cautelari - tra le quali rientra anche il rischio di reiterazione del reato - rispetto alle quali nessun’altra misura diversa deve risultare idonea a scongiurarne il pericolo, neppure la restrizione domiciliare con braccialetto elettronico. Tuttavia, l’articolo 274 c.p.p. così come modificato dalla Legge n. 47/2015, prevede che il pericolo di reiterazione debba essere oltre che concreto anche attuale, dovendosi tenere conto del tempo trascorso dalla commissione del reato, che impone al Giudice un onere di motivazione particolarmente stringente in considerazione del fatto che ad una maggiore distanza temporale dal fatto criminoso corrisponde un innegabile affievolimento delle esigenza cautelari. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 16 marzo 2017, n. 12746. Misure cautelari - Personali - Disposizioni generali - Esigenze cautelari - Legge n. 47 del 2015 - Modifica dell’articolo 274 lett. c) c.p.p. - Attualità del pericolo di reiterazione del reato - Nozione. In tema di esigenze cautelari, il requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato, introdotto all’articolo 274, comma primo, lett. c), cod. proc. pen., dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, impone la previsione, in termini di alta probabilità, che all’imputato si presenti effettivamente un’occasione per compiere ulteriori delitti della stessa specie, e la relativa prognosi comporta la valutazione, attraverso la disamina della fattispecie concreta, della permanenza della situazione di fatto che ha reso possibile o, comunque, agevolato la commissione del delitto per il quale si procede, mentre, nelle ipotesi in cui tale preliminare valutazione sia preclusa, in ragione delle peculiarità del caso di specie, il giudizio sulla sussistenza dell’esigenza cautelare deve fondarsi su elementi concreti - e non congetturali - rivelatori di una continuità ed effettività del pericolo di reiterazione, attualizzata al momento della adozione della misura, e idonei a dar conto della continuità del "periculum libertatis" nella sua dimensione temporale, da apprezzarsi sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell’indagato, ovvero della presenza di elementi indicativi dell’effettività di un concreto ed attuale pericolo di reiterazione. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 15 marzo 2017, n. 12618. Misure cautelari - Personali - Disposizioni generali - Esigenze cautelari - Modifiche apportate dalla legge n.47 del 2015 - Requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato - Condizioni - Fattispecie. In tema di presupposti per l’applicazione delle misure cautelari personali, il requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato, introdotto nell’articolo 274, lett. c), cod. proc. pen. dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, non richiede la previsione di una specifica occasione per delinquere, ma una valutazione prognostica fondata su elementi concreti, idonei a dar conto della effettività del pericolo di concretizzazione dei rischi che la misura cautelare è chiamata a realizzare. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure l’impugnata ordinanza del tribunale del riesame, che, nel confermare la misura custodiale disposta dal G.I.P. nei confronti dell’indagato per fatti di furto in abitazione, aveva argomentato l’attualità del pericolo di recidiva - nonostante la confessione resa e l’emergenza di un solo lontano precedente - dalla particolare spregiudicatezza dimostrata dal medesimo, sfuggito alla cattura in occasione della perpetrazione del primo furto e nondimeno pronto, a distanza soltanto di qualche giorno, a commetterne un altro). • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 9 marzo 2017, n. 11511. Misure cautelari personali - Disposizioni generali - Esigenze cautelari - Attualità del pericolo di reiterazione del reato - Fattispecie. In tema di esigenze cautelari, il giudice deve valutare non solo la concretezza del pericolo di reiterazione del reato, ma anche la sua attualità, intesa non come imminenza del pericolo di commissione di ulteriori delitti, bensi come continuità del "periculum libertatis" nella sua dimensione temporale, che va apprezzata sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell’indagato, ovvero della presenza di elementi indicativi recenti, idonei a dar conto della effettività del pericolo di concretizzazione dei rischi che la misura cautelare è chiamata a neutralizzare. (In applicazione del principio, la S.C. ha annullato la decisione di merito in cui il pericolo di reiterazione era stato ritenuto sussistente sulla sola base della gravità delle condotte e del ristretto arco temporale della loro commissione). • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 5 maggio 2016, n. 18744. Vicenza: "piacere Jonathan, cerco pezzi per aggiustare gli uomini" di Emilio Randon Corriere Veneto, 4 luglio 2017 Una Comunità di recupero per criminali e sbandati vista da dentro. L’officina del signor "Jonathan" assembla uomini. Gli arrivano smontati - assassini, ladri, rapinatori, il carcere glieli manda alla rinfusa - e il suo lavoro consiste nel mettere insieme i pezzi. Talvolta ci riesce, talvolta no, quasi sempre ne manca uno. Trovare il pezzo mancante è la sua specialità. In questo si fa aiutare da Stefania e Lorenzo, due part-time. Dire che i pezzi li fabbrica a mano sarebbe corretto se non fosse che deve metterci anche l’anima. Inoltre non ci sono manuali da consultare, né istruzioni per l’uso - lui dice che non c’è nemmeno un regolamento, "ci sono solo regole" anche se poi, parlandogli, intuisci che da qualche parte deve aver imparato: in seminario forse, l’unica scuola probabilmente in grado di fornire una sufficiente preparazione in materia - in ogni caso, quando "Jonathan" ha fortuna e trova il pezzo mancante, l’uomo viene fuori intero o quasi, diversamente il lavoro resta incompleto. "L’officina" di cui parliamo è un’associazione di promozione sociale. Si chiama "Progetto Jonathan" e sorge in via della Paglia alla periferia di Vicenza in un vecchio casale che le suore della Divina Volontà hanno dato in comodato. Attualmente ospita otto persone più quattro o cinque esterni che vanno e vengono e ha anche una presidente, Emma Rossi. Uno degli esterni, recentemente, è uscito e non è più rientrato, fatto irrilevante in sé - capita, c’è chi evade, chi latita, chi torna e chiede scusa - e nessun giornale ci avrebbe fatto caso se lui non fosse il celebre Gianni Giada, ex "contabile" della mala del Brenta chiamato anche il "doge nero" a cui il giudice ha revocato la semilibertà per certe lettere che da due anni scriveva a una ragazza, una ex-volontaria del "Progetto Jonathan", lettere dal contenuto assai poco dogale, diciamo pure oscene. Stalking. Nei giorni successivi altre due ragazze hanno lamentato lo stesso trattamento. Gianni Giada è un esempio di pezzo mancante. E potremmo partire da qui per raccontare i fallimenti del nostro "meccanico" o anche dei suoi successi che sono in quantità superiore e dei quali - ed è questo il bello - "non se ne ha prova se non quando arrivano". Il "controllo di qualità" è difficile e i riscontri possono saltare gli anni, per non dire dell’opinione comune secondo cui i criminali restano sempre criminali, cosa su cui "Jonathan" non avrebbe nulla da obiettare sennonché l’argomento è banale. Dopo aver spillato l’acqua fresca dal pozzo artesiano del cortile e riempitomi il bicchiere - lui mi guarda dritto e dice: "Di ogni uomo che entra qui dentro ricevo tre versioni, quella raccontata dai giornali, quella fornita dai carabinieri e quella che dice lui. Nessuna delle tre è vera, tanto vale farne a meno. So tuttavia che chi viene qui dà sempre colpa agli altri: qualcuno li ha traditi o sono stati beccati o li hanno mal consigliati, dicono tutto meno quella che mi interessa sentire: che hanno fatto del male a qualcuno e che a quel qualcuno pensano. È il loro pezzo mancante, la parte che non hanno. Procurargliela, o almeno provarci, è il mio lavoro. Si chiama lavoro di "riparazione". In quel momento si apre il cancello e una volante dei Carabinieri scarica un nuovo ospite, Ghezzim, albanese, 20 anni, privo di tutto, anche delle mutande di scorta. Jonathan lo affida a Rubin, un correligionario sperimentato e freddo - "Rubin sparava e sparava dritto" - il fatto è che Ghezzim prima di essere arrestato in Italia ha passato due anni chiuso in casa in Albania per via del Kanun (legge del sangue: tu hai ammazzato mio figlio, io mi prendo il tuo, la vendetta tuttavia non si consuma in casa della vittima, deve avvenire all’aperto, quindi, finché uno resta in casa, è al sicuro), per questo Ghezzim si sente al sicuro e ti guarda con gli occhi di un cane che ha trovato il padrone. "Riparazione, adesso comincia a parlarne anche il Ministero di Giustizia, e che cosa sia è presto detto: non è un indennizzo, non è il perdono delle vittime, è il processo alla fine del quale il reo si rende conto del male che ha fatto, è il sentimento con cui può riscattare se stesso e riconciliarsi con la società". Non accade sempre e, se accade, lo si sa dopo, talvolta mai. Con Pietro è accaduto. A Milano aveva ucciso un uomo e qui al "Progetto Jonathan" ci era arrivato con la faccia del ‘ndranghetista ribattuto: "Che ci fate voi qua - ha chiesto ai volontari della struttura - fate del bene? Coglioni!". "Pietro si è diplomato ragioniere, è uscito e si è laureato con una tesi sul no-profit proprio lui che era un profit allo stato puro (ho a che fare con te solo se mi conviene), poi è tornato in Calabria e sul campo del padre morto, a Mesoraca, a 750 metri sul mare, ha piantato ulivi. Ora produce olio, le etichette delle prime bottiglie le abbiamo stampate insieme, qui al Jonathan, le cassette di legno per le confezioni natalizie le ha costruite Ancagiuna, un falegname peruviano, un omicida". Il pezzo mancante è stato trovato per Darlinton, nigeriano, la famiglia sterminata da Boko Haram. A Lampedusa qualcuno gli ha detto "butta la cima", lui l’ha buttata e la polizia lo ha arrestato come scafista. "Qui si pagava l’affitto portando in giro la droga, 45 euro a consegna. Diceva di essere un sarto. Allora gli ho messo davanti una vecchia Paf, una macchina da cucire che apparteneva a mio padre e gli ho intimato: adesso cuci. Lui ha tirato fuori la spolina, ha infilato il filo nell’ago e in quel momento ho visto mio padre, anche mio padre faceva il sarto". "Un altro è Pino, uno che ha conosciuto qui la sua donna e mi ha voluto come testimone al suo matrimonio. Forse ti serve qualcuno di meglio, ho chiesto. No, ha risposto, questa è la mia casa. Un altro ancora è Bilan che se ne andò. Dopo sei anni tornò, mise sul tavolo una busta con la raccomandazione di aprila dopo. Dentro c’erano 300 euro e un biglietto: "Sei anni mi ci sono voluti, solo al terzo ho capito il bene che mi avete fatto". I pezzi che mancano a volte tornano in maniera criptica. Come per Super, un georgiano che sapeva solo dire Super perché non conosceva altre parole in italiano. Un giorno "Jonathan" ha ricevuto una chiamata dalla Svizzera, dall’altro capo del filo solo una parola: "Super". E nient’altro. "Jonathan", l’aggiusta-uomini che non vuole il suo nome sul giornale, manda avanti la baracca assemblando componenti di plastica per una ditta di accessori per cani, la Mps, 5 mila di fatturato al mese, il resto gli viene dalla pubblica generosità. Ma gli uomini restano la sua specialità e, anche se i pezzi mancanti sono difficili da trovare, non dovrebbe essere difficile aumentare la produzione. Napoli: il Tribunale di sorveglianza chiude per ferie di Simone Di Meo Il Giornale, 4 luglio 2017 Camera Penale in agitazione per quattro giorni: "Non si può gestire la giustizia da casa". Napoli Non vale a Napoli il motto della giustizia che non va in vacanza. Ci va, eccome. Solo che, al posto del cartello "Torno subito", la dea bendata con la bilancia lascia un indirizzo di posta elettronica a cui inviare le richieste urgenti. Come se il processo telematico e l’informatica fossero di casa nelle aule di giustizia italiane. E come se a Napoli non ci fossero problemi ancestrali di malagiustizia. Il Tribunale di Sorveglianza della terza città d’Italia dal 14 al 26 agosto resterà chiuso per carenze di organico, una formula che va bene per tutte le stagioni. Soprattutto d’estate quando s’intensifica la richiesta da parte dei detenuti di misure alternative, ove possibile, alla detenzione in cella. Nulla di strano, si dirà. Solo che, da quest’anno, però bisognerà giocare con la sorte e pregare la Madonna di Pompei, protettrice dei galeotti, che l’ipotetico addetto di turno legga la mail, se ne interessi, istruisca la pratica, contatti l’avvocato e consegni il fascicolo al giudice competente che se ne occuperà prima o poi. Dal 14 al 26 agosto, infatti, i procedimenti non saranno più trattati vis á vis ma solo col filtro di un’anonima e fredda comunicazione elettronica. E sarà arduo capire, da una semplice mail, se un detenuto affetto da ictus sarà più o meno grave (e quindi, secondo la modulistica del tribunale partenopeo, meritevole di urgenza) di un infartuato e se questi, a sua volta, scavalcherà nella classifica un "collega di branda" che intenda partecipare alle esequie di un parente. Casi che la Sorveglianza tratta ogni giorno dell’anno, ogni ora dell’anno, ogni minuto dell’anno. Perché la Campania, dopo la Lombardia, è la seconda area più affollata dal punto di vista carcerario d’Italia. In tutta la regione sono 6.887 - stando ai del gennaio scorso - i detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 6.114 nelle 15 carceri della Campania. Ci sono quindi 763 detenuti in più di quanto previsto per legge. La situazione più difficile per quanto riguarda il sovraffollamento si registra nel carcere di Poggioreale, nel capoluogo, che ospita 2.023 persone, a fronte di una capienza prevista di 1.611. Oltre 500 persone in più, quindi, che pesano in maniera determinante sul dato locale. Sovraffollamento si registra anche nell’altro istituto di pena partenopeo, il carcere di Secondigliano, che ospita attualmente 1.309 persone a fronte della capienza di 1.029 prevista. Cosa succederà ora che il Tribunale di Sorveglianza resterà chiuso per tredici giorni di fila a ridosso di Ferragosto? Intanto, come riportato dal quotidiano Il Mattino, la Camera penale partenopea ha indetto 4 giorni di astensione dalle udienze dall’11 al 14 luglio prossimi, ma le iniziative di lotta sono appena nella fase iniziale. È possibile infatti che il provvedimento diramato agli operatori del settore giustizia proprio in queste ore possa essere impugnato davanti al Tar Campania. "Non si può risparmiare sui diritti, uno Stato civile, deve investire nei diritti anche nei diritti dei detenuti - commenta l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio nazionale sulle carceri delle Camere penali - Bisogna mettere risorse, non possiamo attendere oltre. Non si può fare la giustizia da casa. Il codice prevede che l’imputato sieda al fianco del difensore; invece, è passata la legge che vuole che il detenuto non venga tradotto ma assista in teleconferenza. È vero si risparmia sul trasferimento, ma si istituzionalizza una violazione dei diritti della difesa e dei detenuti". Bolzano: per il nuovo carcere tempi ancora lunghi Alto Adige, 4 luglio 2017 Si prospettano tempi ancora abbastanza lunghi per il via ai lavori di costruzione del nuovo carcere di Bolzano. Lo si desume da alcune risposte fornite dal governatore dell’Alto Adige Arno Kompatscher ad una interrogazione presentata dal consigliere verde Riccardo Dello Sbarba all’indomani della recente visita nell’attuale struttura carceraria di via Dante. "L’aggiudicazione definitiva della gara per la costruzione del nuovo carcere - ha rivelato Kompatscher - non è stata ancora effettuata in attesa di chiarimenti con il Ministero dell’Economia e delle Finanze riguardanti dettagli finanziari dell’applicazione dell’Accordo di Milano". Al momento, dunque, non è possibile fare una previsione seria sui tempi di inizio della costruzione della nuova casa di pena bolzanina. Ma i tempi sono, bene che vada, per lo meno medi. Sul fronte finanziario la Provincia sarà chiamata ad intervenire con un finanziamento di 25 milioni di euro (come propria quota per far fronte ai costi di costruzione) e ad un canone di servizio annuo di 2,4 milioni di euro. Prima di dare il via alla costruzione del nuovo carcere dovrà anche essere definito il passaggio dallo Stato alla Provincia della vecchia struttura di via Dante. Al momento non è stato raggiunto un accordo sulla valutazione dell’immobile che dovrà far parte di un protocollo d’intesa separato tra Stato e Provincia. Nell’attuale situazione la Provincia autonoma di Bolzano non ha alcun titolo per poter intervenire a breve per migliorare la vecchia struttura. Santa Maria Capua Vetere (Ce): carcere, il Comune in ritardo dopo l’emergenza idrica Il Mattino, 4 luglio 2017 "La deprecabile situazione di profondo disagio che vivono la popolazione carceraria e gli operatori penitenziari della penitenziario di Santa Maria Capua Vetere poteva e doveva essere evitata dal Comune perché è oltre un anno e mezzo fa che siamo riusciti a ottenere dalla Regione Campania un finanziamento di due milioni di euro, necessari a finanziare la realizzazione dei 4 chilometri di condotta che dovranno portare l’acqua al carcere sammaritano". A commentare la protesta inscenata dagli agenti della Penitenziaria e i disservizi che, anche quest’estate, colpiscono i detenuti è la parlamentare Camilla Sgambato che, nell’ultimo biennio, ha seguito con attenzione la vicenda della carenza idrica che attanaglia da anni il carcere di Santa Maria, fino alla firma, un anno fa, della convenzione tra Regione e Comune. "Pur in presenza dell’impegno profuso dalla direttrice Carlotta Giaquinto, è evidente che non è concepibile che la vita in carcere per tante persone si trasformi in un calvario tra assenza di acqua ed energia elettrica", è scritto in una nota diramata da Sgambato. "Già nelle prossime ore porterò la questione all’attenzione del Ministro della Giustizia Orlando, sicuramente già informato dalla direzione carceraria, affinché con il Dap si fronteggi l’emergenza con la diminuzione della popolazione carceraria in questi mesi estivi e con l’attivazione di misure tese a garantire l’erogazione della corrente in maniera puntuale e costante, semmai ricorrendo ad energie alternative come l’installazione di pannelli fotovoltaici per cui sono previsti anche fondi statali", continua la parlamentare demo. "Nel contempo - conclude - anche il Comune è chiamato a fare la propria parte, accelerando le procedure per l’affidamento e la realizzazione dei lavori di allaccio che sono ferme da un anno con disagi inevitabili per detenuti e agenti di polizia penitenziaria fino a lederne la dignità". Rimini: la Garante dei detenuti "frustrante il mancato riconoscimento economico" di Andrea Polazzi Newsrimini.it, 4 luglio 2017 Al 31 marzo i detenuti nel Casa Circondariale di Rimini erano 172, 92 italiani e 80 stranieri. 66 quelli con pena definitiva. Numeri destinati a crescere nei mesi estivi. Ma il giudizio sul carcere non è legato solo ai numeri, ma anche a struttura e servizi. In commissione consigliare la garante dei detenuti Ilaria Pruccoli ha messo in fila la situazione riminese. Nonostante alcuni miglioramenti, rimangono infatti parecchie criticità. In primis, spiega la garante, la condizione della sezione Vega che ospita i transessuali. Per questioni di sicurezza, le 5 persone che contiene devono essere tenute separate dal resto della popolazione carceraria trasformando così la protezione in un isolamento forzato. A mancare, spiega la garante, è anche un progetto educativo completo per i transessuali che si trovano tra l’altro in una sezione obsoleta (nonostante una recente ristrutturazione) con umidità, infissi inadeguati, impianto di riscaldamento insufficiente. Altra grave criticità, l’assenza di una direzione stabile. Da anni a Rimini si alternano direttori chiamati però a gestire anche altre strutture, una situazione che secondo la Pruccoli non permette di far fronte alle emergenze del quotidiano e non permette di sviluppare progetti a lungo termine. La Garante elenca poi i servizi presenti ai Casetti dove è attiva anche una sezione a custodia attenuata (Andromeda) per i detenuti (attualmente 12) che vogliono intraprendere un percorso di uscita dalla dipendenza e di reinserimento. Lo scorso anno si sono svolti anche corsi per l’avviamento professionale ma anche qui si registra una nota dolente: il magistrato di sorveglianza spesso ha ritardato o negato i permessi per i tirocini esterni. E proprio il lavoro, evidenzia la Pruccoli, è uno dei bisogni più impellenti per i detenuti chiamati spesso a contribuire al mantenimento delle loro famiglie e al proprio in carcere dove vengono forniti solo i 3 pasti e un kit iniziale per l’igiene personale. Vista anche l’impossibilità (nonostante i controlli) di far entrare in carcere cibo o altri oggetti portati dai parenti. Dalla Pruccoli arriva anche un appello all’amministrazione a mettere mano al regolamento che definisce funzioni e competenze del garante: la mancata retribuzione (è previsto solo un rimborso spese di 1.000 euro annui) se da un lato è garanzia di indipendenza, dall’altro è però un limite. Prevedere che sono alcune spese "rimborsabili", scrive la garante, "è inaccettabile". Andrebbero ampliate, dice, al carburante, alle spese per convegni o per pubblicazione di materiali. Così come sarebbe necessario poter usufruire di permessi retribuiti per gli impegni legati al ruolo. Opportuna, conclude, sarebbe la creazione di un fondo che possa garantire autonomia di bilancio. A frustrare l’attività del garante, oltre alla "sensazione che in molte occasioni questa figura venga lasciata sola", c’è infatti "il mancato riconoscimento - scrive nella sua relazione Ilaria Pruccoli - economico per un ruolo che spesso si trova ad affrontare una mole di lavoro il più delle volte inconciliabile con un’altra attività lavorativa". Viterbo: "Alveare per il Sociale" e Boscolo, progetto reinserimento lavorativo ex detenuti di Roberto Fittipaldi tusciaup.com, 4 luglio 2017 La formazione, antidoto al diffondersi della criminalità e occasione di rinascita personale e professionale per giovani ex detenuti. Dalla co-produzione di Alveare Cinema e Rai "Angelo, una storia vera", che racconta la storia vera di un giovane, ospite della comunità ministeriale di Lecce, sottoposto alla misura di "Messa alla prova" - primo minore in Europa a essere sottoposto a questa pena alternativa - è nato il progetto di Alveare per il Sociale che si è tradotto nell’attribuzione di una borsa di studio per un altro giovane ex detenuto da parte del Campus Etoile Academy diretto da Rossano Boscolo. Boscolo ha abbracciato in pieno il progetto di reinserimento degli ex detenuti promosso da Alveare per il sociale "con la convinzione - dichiara il rettore del Campus Etoile Academy - che la formazione sia l’indispensabile premessa per una rinascita personale e professionale. Il mondo culinario - continua Rossano Boscolo - è un antidoto naturale contro i pregiudizi: la vita in brigata insegna il gioco di squadra, a fidarsi dell’altro, a designare uno spazio d’inclusione. Offrire a un ragazzo con un passato non facile alle spalle una borsa di studio al Campus Etoile Academy significa incoraggiarlo a ripartire dalle proprie passioni, consentendogli di approcciarsi a testa alta nel mondo del lavoro. Mi auguro -conclude il rettore del Campus - che il mondo della ristorazione e più in generale delle istituzioni private accenda i riflettori sul tema del reinserimento sociale". Il prossimo 7 luglio, a Tuscania, nella prima scuola di cucina d’Italia, si concluderà il corso di formazione svolto da un giovane che, scontato il suo debito con la giustizia ha deciso di ricominciare a vivere. L’obiettivo del progetto Alveare per il Sociale è dare seguito alla narrazione di altre storie e, soprattutto far conoscere e valorizzare le buone prassi riabilitative, in un’opera partecipata che tenda a colmare la distanza tra istituzioni e cittadini dando luogo alla "giustizia di comunità". Perseguendo un altro obiettivo: evitare che i minori, al di fuori di percorsi collettivi di "presa in cura", tornino a delinquere. Per far questo Alveare per il Sociale sta creando una rete di partnership che, superando i limiti dell’intervento istituzionale e della carenza di risorse pubbliche destinate al reinserimento sociale e al recupero dei giovani detenuti, con azioni rivolte alla persona, flessibili ed economicamente sostenibili, possano essere di stimolo alla configurazione di politiche più generali di recupero. Proprio come nel caso del Campus della gastronomia italiana, che ridona speranza ad un giovane che intravede la luce dopo avere vissuto sin da piccolo nell’oscuro tunnel della delinquenza. Palermo: dalla sartoria al catering, così le ex vittime della tratta aiutano le giovanissime Redattore Sociale, 4 luglio 2017 L’associazione di volontariato "Donne di Benin City Palermo" si sperimenta puntando questa volta al settore del catering con l’aiuto dell’organizzazione umanitaria Help Refugees. Si tratta di ex vittime della tratta che, dopo avere completato il loro percorso di fuoriuscita dalla schiavitù, hanno deciso di aiutare le ragazze. Le donne dell’associazione di volontariato "Donne di Benin City Palermo" si sperimentano puntando questa volta al settore del catering con l’aiuto dell’organizzazione umanitaria Help Refugees con cui è nata una collaborazione all’inizio di quest’anno. Alcune di loro sono ex vittime della tratta che, nel 2015 dopo avere completato il loro percorso di fuoriuscita dalla schiavitù, hanno deciso di fondare un’associazione che potesse aiutare altre giovanissime ragazze attraverso un gruppo di auto-mutuo-aiuto. L’associazione di Palermo lavora in rete nazionale con "La ragazza di Benin City" di Isoke Aikpitanyi. Da gennaio di quest’anno ad oggi, 8 sono state le minorenni aiutate che oggi si trovano in alcune case di accoglienza. "Per aiutare queste ragazze - spiega Osas la presidente dell’associazione - abbiamo bisogno di essere aiutate a nostra volta. Occorre quindi avere le condizioni economiche soprattutto che ci permettano di supportare queste nostre sorelle. Da quando siamo nate come gruppo ci siamo sperimentate in molte piccole attività di autofinanziamento come le produzioni di sartoria, le fiere solidali. Adesso stiamo provando un’altra strada che ci piace molto che è quella della cucina tradizionale". L’associazione anti-tratta punta sulla promozione di iniziative, anche in collaborazione con il privato sociale, per fare conoscere la cucina tradizionale nigeriana organizzando momenti di interazione interculturale. Si tratta di una prima fase di un progetto di empowerment che vuole consolidare il gruppo di lavoro nel settore del catering. La prima serata con musica, cibo e danze etniche si è svolta, nei giorni scorsi, nel cuore del quartiere Ballarò all’interno del locale Moltivolti. Osas, 36 anni, sposata con due bimbi di 3 e 4 anni, nel 2004 è uscita dal giro della tratta grazie al progetto Maddalena. Da quel momento per alcuni anni ha lavorato come domestica. Poi nel 2011 si è avvicinata all’associazione il Pellegrino della terra lavorando nel centro di ascolto per le vittime della tratta. "Ho capito che fosse davvero importante potere da nigeriana - racconta - aiutare altre ragazze che rischiano di morire in strada sfruttate. Ho parlato anche con alcune famiglie di queste ragazze in Nigeria facendo capire loro di non avere paura per le loro figlie perché alcune erano state liberate. La situazione non è sempre uguale perché ci sono famiglie che vendono le loro figlie per povertà sperando di fare avere un futuro diverso. Come mediatrice di alcune comunità cerco di fare il possibile". "Non ho paura perché ho deciso di metterci la faccia in quello che faccio - dice. Le ragazze che decidono di collaborare sanno che entrano in un giro di realtà buone. È più facile aiutare le minorenni perché poi vengono subito inserite delle comunità mentre le donne più grandi hanno maggiore difficoltà perché avrebbero bisogno di un lavoro che le aiutasse a vivere in maniera diversa. Da poco ho completato pure il corso per diventare tutrice volontaria. Il problema da affrontare è quello di evitare a tutti i costi che le giovani scappino dai centri di accoglienza. Se percepiscono di essere aiutate non lo fanno ma purtroppo non è sempre così". Da poco l’associazione ha attivato uno sportello di ascolto per le donne nelle sede del Montervegini. "Il nostro desiderio è quello di andare avanti nei progetti di autonomia come questo della cucina - dice - perché solo così possiamo aiutare ed aiutarci. Poi grazie a Codifas abbiamo un terreno dove coltiviamo spezie e prodotti che ci occorrono ma il nostro desiderio sarebbe quello di riuscire un giorno ad aprire un piccolo spazio di ristorazione. Sappiamo che è difficilissimo ma ci speriamo tanto". "L’associazione - spiega Tindara Ignazzitto socia italiana che da anni è vicino e segue il percorso di inclusione sociale di alcune ragazze - ha permesso intanto a queste donne di uscire dalla loro invisibilità. Oltre a coltivare un orto urbano donato da Codifas l’intenzione adesso è anche quella di iniziare a promuovere iniziative dove proporre piatti tipici tradizionali: un tentativo per riuscire ad avere una piccola autonomia che permetta di essere anche di maggiore aiuto nei confronti di chi si vuole uscire dalla tratta. Help Refugees ha sostenuto attrezzi e acquisto delle sementi per la coltivazione dell’orto e continuerà ad affiancare con un piccolo contributo anche il gruppo di donne per il progetto di catering accompagnandole per l’avvio delle autorizzazioni che servono per iniziare"- "Occorre inoltre che la cittadinanza mostri sempre più sensibilità nei confronti di queste donne che hanno bisogno del sostegno di tutti per andare avanti. Un maggiore impegno ci aspettiamo pure dalle istituzioni che non hanno ancora dato le risposte che aspettiamo. Le istituzioni devono permettere all’associazione di essere riconosciuta come un’interlocutrice significativa. Nonostante le difficoltà anche materiali queste donne hanno lo stesso la forza di migliorarsi e di crescere sia in termini di competenze professionali che di integrazione sempre in vista dell’obiettivo alto di aiutare chi si trova nel tunnel della tratta". Milano: a Opera e Bollate tornano gli Open day in carcere dell’Università Statale unimi.it, 4 luglio 2017 Torna la presentazione dei corsi di studio e dei laboratori - offerti dall’Università Statale di Milano per l’anno accademico 2017-2018 - destinata agli ospiti delle strutture penitenziarie di Opera (4 luglio) e Bollate (5 luglio). Ore 10-12. Il 4 e il 5 luglio, torna la presentazione dei corsi di studio e dei laboratori - offerti dall’Università Statale di Milano per l’anno accademico 2017-2018 - destinata agli ospiti delle strutture penitenziarie di Opera e Bollate. Entrambe le giornate vedranno ricercatori, docenti e studenti illustrare i contenuti della convenzione tra Università Statale e Prap - Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia (esenzione fiscale, didattica in carcere, tutoraggio, iniziative culturali comuni), mentre il Cosp - Centro per l’orientamento allo studio e alle professioni - presenterà l’intera offerta formativa e i corsi accessibili ai detenuti. Durante gli incontri, particolare attenzione sarà riservata ai laboratori - giuridico, filosofico, teatrale e di scrittura e narrazione - rivolti, come nello scorso anno accademico, sia ai nostri studenti sia ai detenuti delle strutture penitenziarie, indipendentemente dall’iscrizione a un corso di studi offerto dall’Università. I laboratori, per un totale di sette, saranno distribuiti tra il primo e il secondo semestre e spazieranno dal tema della funzione del diritto e della pena alla libertà, giustizia e responsabilità, fino alla scrittura teatrale nel solco della tradizione shakespeariana. Porto Azzurro (Li): inaugurazione Panificio ed Area Verde alla Casa di Reclusione Ristretti Orizzonti, 4 luglio 2017 Sabato 8 luglio 2017 alle ore 11.00, presso la Casa di Reclusione di Porto Azzurro, saranno inaugurati il Panificio per la produzione di pane e dolci per persone affette da celiachia e l’Area Verde con parco giochi da destinare ai colloqui tra i ristretti e i propri figli. Presenzieranno all’inaugurazione, il Vescovo della Diocesi di Massa Marittima e Piombino, Mons. Carlo Ciattini ed il Sottosegretario di Stato alla Giustizia, Cons. Cosimo Maria Ferri. Tutte le testate giornalistiche e televisive potranno riprendere e fotografare la manifestazione, intervistare i detenuti che hanno partecipato a detta iniziativa ed accogliere le dichiarazioni delle autorità presenti. Eventuali informazioni potranno essere chieste presso l’Ufficio Segreteria dell’Istituto ai seguenti recapiti: tel. 0565.95045 - fax 0565.957972 - mail cr.portoazzurro@giustizia.it. Lecce: il teatro dei detenuti per la prima uscita ufficiale di Salvemini sindaco leccenews24.it, 4 luglio 2017 Prima "apparizione" da sindaco per Carlo Salvemini che annuncia un protocollo d’intesa con la Casa Circondariale di Lecce per garantire lo status di cittadini ai detenuti. Nell’occasione, presentato lo spettacolo teatrale al quale prenderanno parte 16 detenuti di Borgo San Nicola. "Io ci provo" mi sembra uno slogan importante anche per chi fa il Sindaco" - è così che Carlo Salvemini veste pubblicamente, per la prima volta, i panni di primo cittadino di Lecce. Lo fa presenziando ad un progetto che definisce di una valenza importante per un concetto di società inscindibile da quella cultura che rende migliore la vita di ogni cittadino e che può diventare anche un riscatto. Si tratta di uno spettacolo teatrale che andrà in scena proprio nella Casa Circondariale di Lecce e che vedrà impegnati, tra gli altri, ben 16 detenuti, "persone che non sono state formate per fare teatro, ma alle quali un percorso simile non può non restituire quel quid pluris. Un progetto che nasce dalla mente illuminata della direttrice di Borgo San Nicola, dott.ssa Rita Russo e che il sindaco Salvemini intende portare avanti intensificando l’impegno del Comune di Lecce per seguire la strada già tracciata; la promessa del Primo cittadino si traduce, infatti, in un protocollo d’intesa siglato con il carcere per riconoscere ai detenuti lo status di persone oltre la pena da scontare, una parte importante della città da lasciare fuori dai confini. Salvemini presenzierà allo spettacolo la cui programmazione si sviluppa in due serate: il 6 e 7 luglio alle 16.00 con ingresso tuttavia riservato ai detenuti, i congiunti e gli addetti ai lavori; il 14 e il 15 luglio, invece, alle 21.30, lo spettacolo andrà in scena presso l’Anfiteatro Romano di Lecce e sarà fruibile previo pagamento del costo del biglietto. La prenotazione o l’acquisto dei biglietti sarà disponibile presso il Castello Carlo V. Lo Stato ordinario della tortura e della violenza di Riccardo Mazzeo Il Manifesto, 4 luglio 2017 "Violenza e democrazia. Psicologia della coercizione: torture, abusi" di Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto per Mimesis. Un nuovo spettro si aggira per il pianeta: il "principio di eccezione" di Carl Schmitt. Il sovrano, incarnato da un Leviatano-mosaico con i volti dei potenti della Terra, si sottrae così a ogni regola e, soprattutto, crea zone sempre nuove off limits in cui si soverchia, si annienta, si tortura in totale impunità sotto le insegne del migliore dei mondi possibili. Questo scenario di "eccezione" e "sopraffazione" non trova realizzazione unicamente nei Paesi refrattari alla democrazia e alla libertà dei cittadini, come i Paesi del Golfo, la Russia di Putin, la Turchia di Erdogan, l’Ungheria, la Cina con l’incarcerazione sistematica degli oppositori, ma è discernibile anche nelle nostre democrazie. In tutti i casi emerge "il cosiddetto triangolo della violenza" i cui vertici sono occupati dal soggetto attivo (chi esercita o commissiona la violenza), dal soggetto passivo (la vittima) e dal soggetto spettatore (chi assiste alla violenza ma si guarda dall’intervenire). Ed è in questo terzo vertice che si rileva la mancanza del principio di responsabilità, che coincide con "l’estraniazione o la separazione dell’individuo da alcuni aspetti del mondo fenomenico" (l’indifferenza, l’apatia). Nel 2005, ad esempio, il 14 per cento dei cittadini Usa ritenevano la tortura giustificata nell’interrogatorio di persone sospettate di terrorismo, ma quattro anni dopo tale percentuale era schizzata al 52 per cento. Questo dato relativo alla tortura implica un corto circuito nella posizione del cittadino-spettatore, che situa il torturato in una categoria socialmente svalutata, e "la salvezza del torturato non dipende tanto dalla mano abbassata del torturatore, quanto dalla mano protesa dello spettatore". È lo spettatore che può dunque fare la differenza. È uno dei passaggi di "Violenza e democrazia. Psicologia della coercizione: torture, abusi, ingiustizie" (Mimesis, pp. 197, euro 18), scritto da Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto, rispettivamente professore di psicologia sociale e ricercatrice dell’Università di Padova. Libro denso, costellato di case study e fenomeni di ordinaria violenza istituzionale. Il volume affronta inoltre la "violenza strutturale", a suo tempo descritta da Johan Galtung, che riguarda il disconoscimento dei diritti di cittadinanza agli immigrati di seconda generazione o le disparità di genere, e la "violenza simbolica", teorizzata da Pierre Bourdieu, che è incarnata dall’imposizione impercettibile di modelli di comportamento per acquisire il consenso dei dominati. Libro quindi che invita alla resistenza nei confronti della tortura e della violenza istituzionale. Non a caso gli autori, insieme a un drappello di altri compagni di impegno, fra cui l’ex pm del processo Diaz Enrico Zucca e Ilaria Cucchi, hanno redatto un manifesto-appello per criticare ciò che definiscono la "legge truffa" sulla tortura da poco varata dal Senato. Migranti. Il gran rifiuto di Francia e Spagna alle richieste italiane di Carlo Lania Il Manifesto, 4 luglio 2017 Macron: "Indispensabile mantenere le nostre frontiere". Oggi la Commissione Ue discute dell’emergenza nel Mediterraneo. Non c’è nessun accordo tra Italia, Germania e Francia per quanto riguarda i migranti. O almeno non c’è sul punto più importante, quello su cui il premier Paolo Gentiloni e il ministro degli Interni Marco Minniti hanno maggiormente insistito negli ultimi giorni, fino al punto di minacciare la chiusura dei porti: vale a dire convincere i partner dell’Unione a far sbarcare i migranti salvati nel Mediterraneo in altri scali europei e non più solo in quelli italiani. La proposta non piacerebbe infatti a Francia e Spagna - i due paesi principalmente interessati visto che i porti in questione sarebbero quelli di Marsiglia e Barcellona - e difficilmente potrà passare al vertice dei ministri degli Interni e della Giustizia in programma giovedì e venerdì a Tallinn, in Estonia. A confermare la resistenza dei due Paesi sono state ieri fonti diplomatiche di Bruxelles, ma è stato lo stesso Emmanuel Macron a prendere ulteriormente le distanze dalla proposta parlando ieri a Versailles. "Bisogna accogliere i rifugiati politici che corrono un rischio reale, senza però confonderli con i migranti economici e senza abbandonare l’indispensabile mantenimento delle nostre frontiere", ha detto il presidente francese ribadendo un concetto già espresso giorni fa a Berlino, durante un incontro preparatorio al G20 che si terrà ad Amburgo, ma aggiungendo un particolare in più, non certo casuale, come il riferimento alle "nostre frontiere". A novembre scade infatti la deroga al trattato di Schengen e Parigi non potrà rinnovarla. Stessa posizione, anche se con toni più diplomatici, da parte della Spagna, che ha ricordato come ogni intervento in tema di migranti debba essere concordato unitariamente agli altri leader europei. Da mesi l’Italia chiede all’Europa tre cose per far fronte alla crisi provocata dall’alto numero di arrivi nel nostro paese: una riforma del regolamento di Dublino che sollevi i paesi di primo sbarco dell’onere di farsi carico dei migranti; di far funzionare il meccanismo dei ricollocamenti (scade a settembre e finora si è dimostrato un fallimento) e infine la disponibilità di altri Paesi ad accogliere le navi cariche di disperati. Il mini vertice di domenica sera a Parigi tra i ministri degli Interni di Italia, Francia e Germania doveva servire proprio a preparare il terreno in vista del summit di Tallinn, ma alla fine il ministro Minniti ha portato a casa solo l’impegno a poter riscrivere le regole con cui potranno operare le Ong quotidianamente impegnate nei salvataggi nel canale di Sicilia. Regole più rigide che tra l’altro dovrebbero prevedere il divieto di entrare in acque libiche e trasparenza sui finanziamenti (ma già oggi tute le navi impegnate nei soccorsi sono coordinate dalla sala operativa della Guardia costiera). Dal minivertice di Parigi è uscito anche l’impegno per maggiori finanziamenti alla guardia costiera libica, un aumento dei rimpatri e la promessa di un’accelerazione sui rimpatri (l’Italia chiede che vengano coinvolte anche nazionalità diverse da siriani ed eritrei, come avviene ora). La crisi italiana sarà discussa oggi dalla Commissione europea che dovrebbe presentare alcune proposte utili a diminuire i flussi e che potrebbero servire come base per la discussione di Tallinn. "Sarà un piano d’azione molto concreto". ha detto ieri un portavoce della commissione. È probabile che ci sia l’invito a finanziare il Fondo per l’Africa (ieri l’Estonia ha versato un milione) e a anche a contribuire maggiormente con i ricollocamenti. Ma è facile ipotizzare come gli sforzi maggiori saranno destinati a capire come intervenire in Africa e in particolare a sud della Libia. nei giorni scorsi si è parlato della possibilità di una missione europea ai confini con il Niger (ovviamente con l’assenso del governo di Niamey). Ma non sono escluse altre possibilità, come quella, elaborata nei giorni scorsi da Francia e Olanda in un documenti riservato, di utilizzare le formazioni militari messe a disposizione d Mali, Niger, Mauritania, Ciad e Senegal, i cinque Paesi che dal 2014 danno vita al G5 Sahel. Si tratta di 10 mila uomini impegnati principalmente in operazioni contro il terrorismo, ma anche potrebbero essere impiegate anche per contrastare le carovane di migranti che ogni giorno attraversano il confine tra Niger e Libia per poi provare a raggiungere l’Europa. Migranti. "No a trasbordi e luci": ecco il codice per le Ong di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 4 luglio 2017 Regole rigide che se non saranno rispettate faranno scattare il divieto di approdo nei porti italiani. La bozza sarà condivisa con gli altri Stati dell’Unione. Proibito spegnere i trasponder e segnalare la propria presenza in mare alle barche che salpano dalla Libia, indispensabile fornire l’elenco degli equipaggi e le liste dei finanziamenti ottenuti. Ci sono divieti e obblighi nel codice per le Ong che l’Italia porterà giovedì mattina al vertice dei ministri dell’Interno europei di Tallin. Compresa l’ipotesi di impedire il trasbordo delle persone sulle navi della Guardia Costiera e di Frontex. Regole rigide che se non saranno rispettate faranno scattare il divieto di approdo nei porti italiani. La bozza che si sta mettendo a punto in queste ore sarà condivisa con gli altri Stati dell’Unione, dopo l’accordo siglato due giorni fa a Parigi dal titolare del Viminale Marco Minniti con i colleghi di Francia e Germania. E tiene conto delle indicazioni giunte dal Parlamento al termine del lavoro della commissione Difesa del Senato guidata da Nicola Latorre che ha svolto un’inchiesta sull’attività delle Ong. Trasponder e flash - Per il governo italiano si tratta di un passo fondamentale per governare il soccorso dei migranti e gestire direttamente l’attività di quelle organizzazioni che si occupano dei salvataggi in mare. Ma soprattutto per coinvolgere tutti i membri dell’Ue nell’affrontare un’emergenza che, come ha ribadito Minniti, "non può prescindere dagli aiuti alla Libia per bloccare le partenze". Obiettivo del codice di comportamento è quello di impedire che le Ong vadano a prelevare i migranti spingendosi in acque libiche o comunque al limite del confine marittimo. Ecco perché sarà fissata una distanza minima dalla costa che non potrà essere mai superata. Le verifiche effettuate da magistratura e Parlamento, ma anche il rapporto stilato da Frontex due mesi fa, hanno dimostrato che spesso gli equipaggi decidono di spegnere i transponder per non essere identificati dalla guardia costiera libica. Una procedura che sarà vietata, così come non sarà più possibile segnalare la propria presenza con i razzi luminosi agli scafisti La Guardia Costiera - Il coordinamento di tutte le operazioni sarà affidato alla Guardia costiera, che per il 13 luglio ha già convocato i rappresentanti delle Ong proprio per fornire le prime indicazioni. In caso di emergenza le Ong dovranno avvisare l’autorità e ottenere il via libera a muoversi per andare a soccorrere i migranti, agendo quindi sotto il controllo diretto del comando marittimo di Roma. Non potranno, come invece accade ora, avvisare soltanto dopo aver effettuato i salvataggi e dunque muoversi in piena autonomia. Tra le ipotesi c’è anche quella di vietare il trasbordo dei naufraghi dalle navi delle Ong a quelle dei soccorsi ufficiali. Vuol dire che chi si occupa di recuperare gli stranieri dovrà effettuare l’intera traversata e arrivare sino ai porti italiani e non - come accade attualmente - limitarsi a percorrere soltanto poche miglia prima di trasferire le persone e tornare così in alto mare. "Si rende necessaria - aveva evidenziato la commissione Latorre - una razionalizzazione della presenza delle Ong che potrebbe portare a un aumento dell’efficienza dei soccorsi e dei margini per salvare vite con la contestuale riduzione delle relative imbarcazioni nell’area". Equipaggi e soldi - I controlli hanno finora smentito quanto aveva dichiarato il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro su "commistioni tra organizzazioni di trafficanti e Ong". È emerso invece che in molti casi sulle navi delle organizzazioni sono imbarcati membri dell’equipaggio che provengono dagli Stati dell’Est e dal Medio Oriente e di cui gli stessi vertici non conoscono le generalità. Per questo sarà obbligatorio fornire l’elenco completo degli equipaggi e anche rendere nota la lista dei finanziatori. Sulla gestione ha insistito la commissione Difesa del Senato quando ha sottolineato la necessità di sottoporsi a "forme di accreditamento e certificazioni che escludano alla radice ogni sospetto di scarsa trasparenza organizzativa e operativa". Anche perché alcune Ong prendono a noleggio le imbarcazioni che utilizzano per il pattugliamento del mare e dunque dovranno fornire alle autorità italiane tutte le indicazioni sullo svolgimento delle propria attività. Per impedire - come ha decretato il Parlamento italiano - "la creazione di corridoi umanitari da parte di soggetti primati". Migranti. Msf: "Attaccano le Ong per coprire il fallimento della Ue" di Luca Fazio Il Manifesto, 4 luglio 2017 Intervista a Marco Bertotto. Per il responsabile per il soccorso in mare di Medici Senza Frontiere, è sconcertante che dopo anni di fallimenti e tragedie nel Mediterraneo i paesi europei vogliano limitare l’attività delle associazioni che soccorrono le persone che stanno annegando. Marco Bertotto, responsabile dei rapporti istituzionali per il soccorso in mare di Medici Senza Frontiere (Msf), ha letto sui giornali che al vertice di Tallin di giovedì 6 luglio l’Europa cercherà di imporre nuove limitazioni alle Organizzazioni non governative (Ong) che salvano esseri umani nel mare Mediterraneo. Le due navi di Msf dallo scorso gennaio ad oggi hanno soccorso circa sedicimila persone provenienti dalla Libia. Il presunto giro di vite contro le Ong è solo un’indiscrezione poco dettagliata, ma è abbastanza per fargli perdere la pazienza: "Incredibile, dopo tre anni di discussioni l’Europa avvia un vertice per limitare l’azione delle Ong! È una cosa totalmente scollegata dalla realtà e qui c’è gente che muore". Cosa sta succedendo? Ho l’impressione che siano alla ricerca di un capro espiatorio per mascherare il fallimento evidente dei paesi europei che non sanno come gestire il fenomeno migratorio. L’ostinata attenzione sulle Ong che svolgono attività di soccorso è assurda, noi siamo in mare proprio per fare quello che non fa l’Europa, siamo lì a causa delle politiche europee che da anni provocano tragedie nel Mediterraneo. La nostra attività poi è già regolata, non capisco perché continua questo accanimento. Sembra una logica di pura provocazione. Quali sarebbero le presunte nuove regole? Non potrete più entrare con le vostre navi nelle acque libiche? Non si capisce di cosa stiano parlando. Tutte le nostre attività sono coordinate e controllate dalla Guardia costiera, sono loro che ci danno il permesso di entrare nelle acque libiche quando avvistiamo un’imbarcazione in difficoltà. E comunque è un falso problema: nel 99% dei casi noi operiamo in acque internazionali, solo in casi rarissimi sconfiniamo in acque libiche e sempre dopo aver ottenuto il permesso. E non dimentichiamo che è il capitano della nave l’ultimo a decidere, e che non soccorrere esseri umani in mare è un reato. Perché sottolineare un falso problema? Siamo di fronte all’artificiosa ricostruzione della realtà per mettere sotto accusa le Ong e dal punto di vista mediatico noi siamo il vaso di coccio. Teniamo presente che le Ong sono responsabili solo del 30% delle operazioni di soccorso in mare, allora perché il governo italiano non chiede alle navi tedesche di Frontex di sbarcare altrove i migranti? Considerarci il problema è un’operazione schizofrenica e offensiva, una ricostruzione della realtà falsa e ideologica, e dire che fino a poco tempo fa il governo italiano ci ringraziava. È realistica l’ipotesi di sbarcare i migranti in porti non italiani? Se davvero questa è la decisione delle autorità italiane, se davvero hanno cambiato idea, allora ce lo dicano: per noi il problema non è dove portarli, è come salvarli, ma è evidente quali problemi si creerebbero se ci mettessimo due settimane e non due giorni per sbarcare a terra persone già sofferenti, magari a Marsiglia anche se è evidente che il governo francese ha risposto negativamente. Allora dicano che non vogliono più fare attività di soccorso, sarebbe più onesto. L’impatto di questi discorsi, qualunque siano le decisioni prese, è di per sé molto grave perché lascia passare il messaggio che il soccorso di chi sta annegando sia un aspetto poco rilevante della faccenda. Il governo italiano giustamente rivendica la mancata collaborazione dei paesi europei, ma per essere credibile dovrebbe insistere con altri argomenti: mettendo al centro della discussione la mancata ricollocazione dei migranti ed elaborando nuove proposte forti per scardinare i meccanismi di Dublino. Questo sarebbe un atteggiamento serio, non mettere in crisi il salvataggio in mare. Cina. Il Nobel Liu Xiaobo si sta spegnendo, Pechino nega le ultime cure all’estero Corriere Della Sera, 4 luglio 2017 "Le sue condizioni si sono aggravate, il suo tempo è limitato", dice la famiglia di Liu Xiaobo, il letterato cinese Premio Nobel per la Pace nel 2010 incarcerato nel 2009 e malato terminale di cancro al fegato. La settimana scorsa l’intellettuale è stato ricoverato in un ospedale della città nordorientale di Shenyang, vicina alla prigione dove era detenuto nella provincia settentrionale di Liaoning. Liu Xiaobo, 61 anni, il prigioniero politico più famoso della Cina, combattente per i diritti umani e la democrazia, era stato condannato a 11 anni di prigione nel 2009 per "attività dirette al sovvertimento dell’ordine": la sua colpa, aver ideato e sottoscritto il manifesto "Charta 08" che invocava democrazia. Intorno ai suoi ultimi giorni si sta combattendo una battaglia politico-diplomatica con risvolti umani dolorosi. Amnesty International riferisce che la moglie del Nobel, la poetessa Liu Xiao, ha chiesto che il marito sia davvero liberato e che possa andare all’estero per essere curato. Le autorità cinesi, tra molte reticenze, replicano che il paziente è curato benissimo e comunque le sue condizioni non permetterebbero il trasferimento. Il video misterioso - È spuntato un video (di fonte anonima) nel quale si vede il dissidente assistito dai medici cinesi. Un filmato senza firma, ma con ogni probabilità girato dalle autorità nell’infermeria del carcere o nel vicino ospedale (non fa molta differenza, perché Liu non è un uomo libero, nemmeno di scegliersi il luogo dove morire). Le autorità sostengono che il detenuto era stato trattato benissimo in prigione e che il cancro è stato scoperto solo a maggio, durante uno dei frequenti esami medici di routine. Nel video Liu, steso sulla branda circondato da personale medico, ringrazia per le cure "il capitano Dai e il capitano Jin". La moglie poetessa - Circola anche una foto senza data della moglie di Liu, la poetessa Liu Xia, che dà da mangiare al marito. Anche lei è stata messa da anni agli arresti domiciliari ed è malata di cuore. "Liu Xiaobo non cerca solo un Paese dove morire da uomo libero; vorrebbe anche trovare un modo per liberare sua moglie", dicono le fonti vicine alla famiglia spiegando la richiesta di andare all’estero per le ultime cure. L’intervento della Mogherini - In questi giorni si sono levate alcune voci per sollecitare un effettiva liberazione (non solo quella condizionata "per motivi medici" annunciata da Pechino) e per consentire al Premio Nobel di comunicare con l’esterno. Una di queste voci è di Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea. Ma Pechino non intende discutere. Il portavoce del Ministero degli Esteri, Lu Kang, ha detto: "Si tratta di una questione interna, non vedo alcun bisogno di discuterne con qualsiasi altro Paese straniero". La sfida di Charta 08 - Nel 1989 Liu Xuiaobo era negli Stati Uniti dove insegnava alla Columbia University di New York, ma tornò a Pechino per la protesta della Tienanmen, dove parlò agli studenti, li implorò alla fine di ritirarsi per evitare il massacro. Per quella partecipazione alla protesta democratica incarcerato una prima volta a due anni. Poi tre anni di campo di rieducazione, dal 1996 al 1999. Nel 2008 pubblicò "Charta 08", che si ispirava alla "Charta 77" dei dissidenti cecoslovacchi durante l’era sovietica: chiedeva aperture democratiche, non la fine del governo comunista in Cina. Bastò per la dura condanna a 11 anni. Liu Xiaobo è malato terminale: presto, la sua pratica per Pechino sarà chiusa.