Gli studenti scrivono per cercare di capire come trascorre la vita in carcere Il Mattino di Padova, 3 luglio 2017 Il progetto di confronto tra le scuole e il carcere, che si è appena concluso a Padova, ha come filo conduttore la scrittura: gli studenti, dopo gli incontri a scuola e in carcere, scrivono le loro riflessioni, e sono spesso riflessioni profonde, non banali, che dimostrano quanto i ragazzi siano in grado di cogliere il senso di una esperienza così difficile. I due testi che seguono sono stati i vincitori di un concorso di scrittura, promosso dal Comune di Padova, dalla Casa di reclusione e dall’Associazione Granello di Senape e dedicato al progetto "Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere": sono testi profondi, che fanno capire l’importanza di un percorso di prevenzione che ha al centro il carcere. Umanità dietro le sbarre Se vi chiedo di chiudere gli occhi e di immaginare di fronte a voi un ladro, un assassino, un drogato, a cosa pensate? Se non vi dispiace, provo un po’ a indovinare: un uomo di grande stazza, non di bell’aspetto, con uno sguardo tagliente e dal freddo sorriso, le mani a pugno come se fosse già pronto per aggredire. Questa è la persona che mi aspettavo di trovare il 2 febbraio 2017, quando la mia idea di carcerato è stata distrutta e tramutata in una nuova immagine ancora più spaventosa. Bruno ha cinquantacinque anni, è un uomo dall’aspetto innocuo, un padre di famiglia dallo sguardo benevolo. Era solo un ragazzino che voleva provare esperienze nuove e con questa leggerezza aveva iniziato a rubare da supermercati o piccoli negozi perché non importa cosa prendi ma quel brivido affascinante, quel segreto da nascondere come se fosse un tesoro delicato, prezioso e, forse, lo era realmente. Quando quell’arcano di delinquenza è stato scoperto ormai era troppo tardi. Il carcere è un sistema composto da persone e il suo funzionamento dipende da queste, ma cosa ci si può aspettare da un ragazzino drogato di quel brivido capace di farlo sentire grande? Infatti è andata come tutti noi stiamo pensando. Quel segreto malefico è diventato un gioco terrificante. Guardie e ladri: rubi, menti, scappi, vieni catturato, sconti la pena nella tua nuova "scuola di criminalità" (come Bruno stesso l’ha definita) e così perdi, tra una partita e l’altra, quel tesoro delicato e prezioso, che non è il tuo amato segreto ma la giovinezza lacerata nell’intento di seguire un brivido. Le espressioni dei compagni attorno a me si ripetevano periodicamente, troppo scarse per non essere riconoscibili: quelli che, sentendosi immuni da quella storia, mormoravano "Questo non mi accadrà mai", qua e là si riconoscevano i visi di chi, spaventato, si riconosceva in quel ragazzo, con lo sguardo fisso a terra e immerso nei pensieri mentre alcuni rivolgevano il loro interesse al viso pentito che stava loro davanti, cercando di capire come sia spaventosamente semplice sbagliare e permettere a quell’errore di distruggerti la vita. Tra i mormorii che accompagnavano la conclusione della prima testimonianza un uomo dal viso simpatico ha preso la parola. La storia di Dritan è un racconto di vendetta. Quando ha perso improvvisamente il fratello in una futile rissa tra ragazzi, non è stato capace di perdonare, ha trasformato quel dolore buio nella rabbia più accecante che si è spenta quando si è reso conto di essere un’ombra dell’odio, quando egli stesso è diventato carnefice, assassino. Fumo, alcool, droga sono argomenti molto trattati e quando Andrea ha iniziato a parlare non mi aspettavo di sentire molto di più rispetto a ciò che sapevo già. Al principio tutto è cominciato perché voleva essere uno sbruffone, per sentirsi all’altezza degli amici, per bruciare tappe, per esagerare. Quindi si parte dal fumo soffocante delle sigarette, si passa all’alcool senza mai voler perdere il controllo, senza rendersi conto di essere già intrappolato. Con troppa velocità le droghe sono diventate la sua vita, la paura di non avere più autocontrollo è diventata il suo desiderio. Perdersi. Superare i limiti. Chiunque si metta contro è nemico. La famiglia come ostacolo. Giusto o sbagliato sbiaditi. Il buio come rifugio. Delinquere è una condizione accettabile. Vivere o non vivere è indifferente. Uccidere consentito. Un mondo parallelo che si distrugge quando rimediare è impossibile. Il rimorso d’ora in poi sarà compagno di vita. Non sapevo esattamente come dovermi sentire. Ero disgustata da quelle azioni ma non riuscivo ad odiarli. Loro sono solo uomini risucchiati da un brivido, dalla vendetta, dalla droga. Emozioni che tutti noi possiamo vivere. Allora sono rimasta e rimango lì, attonita, spaventata. Anche un assassino è un uomo. Potreste pensare "È ovvio, cos’altro dovrebbe essere?", ma se qualcuno vi chiedesse di attribuire un appellativo a un omicida, la parola "uomo" potrebbe non venirvi nemmeno in mente. Dentro agli occhi di Bruno, di Dritan, di Andrea vedevo quello che poteva essere mio padre, il vicino di casa, l’amico di famiglia. Aspetto ordinario, vita distrutta. Anna D., 3aF, Scuola media A. Doria di Roncaglia (PD) Quella libertà che diamo assolutamente per scontata Vi devo confessare che non è stato facile trovare qualcosa da scrivere su questa esperienza... Quando siamo usciti dal carcere tutto ciò che volevo era prendere l’autobus e tornare a casa, ma non ho potuto fare a meno di continuare a pensare alle vostre parole per tutti i giorni successivi, e non sono ancora convinta su quello che voglio dire, ma ci proverò lo stesso... Vorrei cominciare raccontandovi qualcosa che mi ha divertita, ovvero le domande che ho ricevuto a proposito del vostro aspetto, del vostro modo di fare e di parlare dopo la visita in carcere. Mi è stato chiesto se eravate vestiti con le divise arancioni che si vedono nei film americani e se indossavate le manette o addirittura le catene ai piedi! Non ho potuto fare a meno di scoppiare a ridere e rispondere che siete persone normalissime che indossano vestiti comuni e parlano come tutti. Ma a molte persone piace vivere in un mondo immaginario basato su ciò che si vede in televisione, perciò non ho aggiunto nient’altro se non pochi dettagli irrilevanti. Una delle cose che mi ha sorpresa di più è stata la reazione dei miei coetanei; sembravano tutti affascinati, incuriositi, sorpresi e forse un po’ spaventati da ogni movimento o parola che sentivano. Io invece non ho provato quasi nulla durante la conferenza. Sono arrivata, mi sono seduta e vi ho osservati uno per uno, ho ascoltato parola per parola senza aspettarmi nulla di preciso e soprattutto senza giudicare nessuno, dato che potrebbe capitare davvero a chiunque di trovarsi lì, al vostro posto, a raccontare a mille occhi che non avete mai visto e che mai più rivedrete, il modo in cui avete perso la vostra libertà... Solo che mi sono trovata troppo lontana dalla vostra realtà per comprenderla davvero, perciò mi limiterò a raccontarvi le sensazioni che ho provato nel contesto. Il momento peggiore è stato senza dubbio l’ingresso nel carcere, con le sbarre che si chiudevano dietro di noi facendo quel rumore nuovo ma fastidiosissimo, l’odore pungente che c’era nel corridoio, il senso di soffocamento... Per un attimo sono riuscita a pensare addirittura che non sarei più uscita da là dentro, e, anche se sapevo che la visita sarebbe durata solo un paio d’ore, il primo impulso che ho avuto è stato quello di girarmi e scappare urlando. Poi ho visto quei bellissimi dipinti sulle pareti, ed è stato mentre guardavo quello che rappresenta una donna nuda distesa con le braccia dietro la testa che ho capito il motivo per cui mi trovavo in quel posto. Non esiste modo migliore (o peggiore) per capire il valore di ciò che si ha finché non lo si perde, e in questo caso non si parla di un semplice oggetto smarrito, ma si parla della libertà, quella libertà che diamo assolutamente per scontata, a volte senza renderci conto che c’è un limite a tutto quanto. Dopotutto che cos’è un caffè al bar al mattino, cos’è il profumo delle arance sugli alberi in inverno, cos’è una serata passata a casa con la propria figlia e la propria moglie o fidanzata, e che valore hanno le stagioni, quando tutte queste piccole cose si vivono tutti i giorni? E che valore ha per voi la libertà, ora che ne siete stati privati? Quando siamo usciti la prima cosa che ho notato è stata il profumo di un albero di boccioli bianchi che contrastava con tutto quel grigio che avevo appena visto all’esterno dei Due Palazzi; poi ho notato che era una bellissima giornata di sole, e che la primavera è ormai alle porte... E qualcuno si stava già lamentando del caldo... Non facciamo altro che lamentarci sempre tutti quanti, soprattutto alla mia età (ma forse anche alla vostra, qualunque essa sia), perché non ci va mai bene nulla, perché vogliamo fare quello che vogliamo, perché quel che abbiamo non ci sembra mai abbastanza e vogliamo di più, quando c’è chi sta nettamente peggio di noi, quando c’è chi non ha assolutamente nulla o non sa nemmeno cosa si provi ad avere qualcosa... Noi che facciamo la bella vita forse diamo tutto troppo per scontato... E per questo volevo ringraziarvi, perché ho avuto modo di riflettere su cosa sia veramente la libertà, e su cosa comporti perderla... Ho provato a mettermi nei vostri panni e mi sono chiesta come ci si senta a vivere in un luogo dove la tua libertà viene determinata dagli altri, ma non ci sono riuscita... La realtà deve per forza perdere senso quando non si hanno più le cose che prima si davano per scontate. Tutto ciò mi porta a porvi una domanda che in carcere non sono stata in grado di farvi, ovvero quanti di voi hanno mai pensato seriamente di farla finita? Che cosa vi dà la forza di alzarvi ogni mattina da quando siete là dentro? Mi piacerebbe davvero sapere che cosa pensate. Detto questo, credo di aver scritto tutto quello che mi è passato per la testa, spero di non essere stata troppo pesante, vi ringrazio per l’attenzione. Chantal P., 4CL Liceo Fusinato, Padova Non c’è solo Dell’Utri, malati 7 detenuti su 10 di Luca Rocca Il Tempo, 3 luglio 2017 Le cifre della vergogna. Il 40% dei carcerati ha almeno una patologia psichica. Il numero di firme pervenute alla mail firmaperdellutri@iltempo.it per chiedere la sospensione della pena per Marcello Dell’Utri, detenuto nel carcere di Rebibbia a Roma, è sorprendente. La raccolta delle adesioni continua, perché le condizioni fisiche dell’ex senatore sono seriamente compromesse. Dell’Utri è in carcere da tre anni dopo la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. Il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, nei giorni scorsi è stato chiaro: "Il medico del carcere di Rebibbia ha descritto un quadro clinico grave per le pluripatologie diagnosticate, tanto da ritenere la sua situazione "non compatibile" con il regime carcerario". Nonostante ciò, la decisione finale del Magistrato di Sorveglianza verrà presa il 21 settembre, a oltre cinque mesi dal deposito dell’istanza ai sospensione pena. Al di là del caso Dell’Utri, secondo un’indagine dell’Agenzia regionale di Sanità della Toscana (diffusa dall’associazione Ristretti Orizzonti), condotta su circa 16mila reclusi delle carceri di Toscana Veneto, Lazio, Liguria, Umbria, 7 detenuti su 10 sono affetti da una patologia, soprattutto disturbi psichici, malattie infettive, disturbi dell’apparato digerente Per quanto riguarda i disturbi di salute mentale, oltre il 40 per cento è risultato essere affetto da almeno una patologia psichiatrica, ma frequenti sono anche le malattie dell’apparato gastrointestinale. Fra le malattie infettive e parassitarie, l’epatite C è quella più diffusa. Rita Bernardini, ex segretario dei Radicali italiani, di carceri e malati se ne intende. Dopo uno sciopero della fame di 30 giorni e uno successivo della stessa durata, il 19 giugno scorso, dopo 25 giorni di digiuno per l’approvazione della riforma dell’ordinamento penale e il diritto alle cure dei malati che assumono farmaci cannabinoidi, è stata colpita da un infarto e ora dovrà sottoporsi a un intervento chirurgico. Il Tempo l’ha raggiunta al telefono per chiederle cosa pensa del caso Dell’Utri: "Noi abbiamo segnalato il caso di tre ultranovantenni, gravemente malati, richiusi nel carcere di Parma - ha dichiarato Bernardini, va bene, dunque, battersi per Dell’Utri, ma bisogna pure pensare agli altri, detenuti in condizioni disumane. Non sono capaci nemmeno di intendere e volere". In carcere, ha proseguito l’esponente radicale, "è impossibile curare determinate patologie. Nel penitenziario di Parma, ad esempio, c’è un reparto ospedaliero con soli tre posti disponibili. Ma a Parma gli ultraottantenni condannati all’ergastolo e spesso malati sono tantissimi, dunque un posto non fa in tempo a liberarsi che subito viene occupato da un altro malato". Colloqui detenuti-Garanti, importante ordinanza del Magistrato di sorveglianza di Terni di Stefano Anastasia (Garante dei detenuti di Lazio e Umbria) Ristretti Orizzonti, 3 luglio 2017 Mi era accaduto una prima volta a Spoleto, che un detenuto in regime di 41bis, avendo fatto colloquio con me, non avesse poi potuto fare incontrare la moglie perché - secondo una vecchia circolare dell’Amministrazione penitenziaria - aveva esaurito il numero dei colloqui a lui consentiti nel corso del mese. Poi a Terni un detenuto rinunciò a fare un colloquio con me per non perdere quell’unico colloquio mensile con i familiari. Con un’ordinanza depositata ieri, il magistrato di sorveglianza di Terni, Fabio Gianfilippi, ha disposto invece che sia consentito al detenuto che lo reclamava di poter svolgere colloqui con il Garante regionale dei detenuti "in stanze senza vetro divisorio e senza controllo auditivo e senza che i detti colloqui siano computati nel numero massimo consentitogli con i familiari e terze persone". Si tratta di una decisione importante che disapplica le disposizioni di quella vecchia circolare dell’Amministrazione penitenziaria che, parificando discutibilmente i colloqui con i Garanti a quelli con i familiari e con altre persone, li limitava alle condizioni imposte per loro, sia nel numero che nelle modalità di svolgimento, con l’effetto che - nel caso di colloqui con detenuti in regime di 41bis - essi dovessero essere svolti con il vetro divisorio, con il controllo auditivo della polizia e nel numero massimo di uno al mese da svolgersi al posto di quello con i familiari. Avevo sollevato la questione da tempo, scrivendo al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Spero ora che l’Amministrazione penitenziaria provveda a dare esecuzione alla decisione del magistrato di sorveglianza anche rivedendo quella vecchia circolare alla luce dei poteri attribuiti ai Garanti regionali dalle norme di legge e alle argomentazioni del giudice di Terni. Il Dna dei boss finisce in banca-dati di Giusi Fasano, Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 3 luglio 2017 Le identità genetiche dei detenuti e le tracce di ignoti prelevate sulle scene dei delitti. Così l’archivio del Dna sta diventando l’arma in più contro i reati. Alcuni boss della criminalità organizzata sono diventati maniaci dell’invisibilità. Non vanno più a bar, non al ristorante, non fumano più in pubblico e se lo fanno portano a casa il mozzicone. Anche i piccoli malavitosi hanno imparato che è meglio non bere caffè né toccare bicchieri o altro davanti ai poliziotti. Motivo? Per non lasciare tracce organiche o impronte. Tutto inutile, ovviamente. Perché, salvo vivere sotto una campana di vetro inaccessibile al mondo, è praticamente impossibile attraversare una giornata senza lasciare tracce biologiche. Che il Dna trovi sempre più spazio nei casi giudiziari del nostro Paese è sotto gli occhi di tutti. Quello che ancora non è chiaro sono le sue potenzialità (davvero enormi) per trovare soluzione a migliaia e migliaia di casi finora dimenticati o non risolti. L’anno che farà la differenza è qui e la differenza si chiama Banca Dati. Da gennaio di quest’anno è operativo lo strumento che l’Italia aveva voluto a giugno del 2009 ratificando il trattato di Prùm: la Banca Dati nazionale del Dna, appunto. Il sistema di certificazione - Dopo infinite discussioni sul fronte delle garanzie per la privacy, dopo decreti vari per stabilire le modalità di esecuzione delle analisi, la sicurezza informatica e le regole per la cancellazione dei dati, finalmente l’archivio delle identità biologiche ha preso forma e diventa ogni giorno più ricco. Si fa per dire, ricco. Perché il lavoro è all’inizio e al momento nel server che raccoglie di dati ci sono i profili di 800 ignoti: ottocento codici alfanumerici a ciascuno dei quali corrisponde una identità biologia raccolta sulla scena di un crimine. Per poter inserire un profilo genetico nella Banca Dati e partecipare alla creazione dell’archivio nazionale è necessario passare attraverso il severissimo giudizio di Accredia, la società che certifica l’osservazione di ogni regola e che accredita i singoli laboratori. Quelli finora accreditati sono 14: tre fanno capo alle sezioni di genetica forense delle università di Roma Tor Vergata, Firenze e Ancona; altri tre sono istituti privati (a Milano, Reggio Calabria e Orbassano, vicino Torino); quattro sono laboratori scientifici della polizia (Torino, Napoli, Palermo e Roma) e altri quattro dei carabinieri (i Ris di Parma, Roma, Messina e Cagliari). Il quindicesimo e ultimo dei laboratori previsti al momento non è ancora accreditato (è in fase di validazione) e sarebbe il laboratorio centrale di Roma, a Rebibbia. È fra tutti il più importante perché è lì che finiranno i campioni di dna prelevati con il tampone salivale ai detenuti in uscita dalle carceri o a chi si trova agli arresti domiciliari per reati non colposi. I campioni prelevati - In questi mesi sono stati prelevati circa 50 mila campioni salivali che però sono fisicamente fermi nelle stazioni dei prelievi perché, non avendo l’accredito, il laboratorio centrale di Rebibbia non può analizzarli e tracciare per ognuno il profilo genetico da inserire nella Banca Dati. Ovviamente, proprio come avviene per i profili di ignoti raccolti dalla scena di un crimine, anche nel caso dei detenuti il codice alfanumerico generato attraverso la cosiddetta tipizzazione non sarà collegato a nessun nome e cognome. Nella Banca Dati finiranno soltanto stringhe di numeri e lettere, ognuna delle quali descriverà le caratteristiche genetiche di un soggetto. La differenza, una volta inseriti i dati, la farà il match, cioè il fatto che due profili combacino. Un esempio concreto: domani mi arrestano per rapina e vengo sottoposta al prelievo salivale. Il mio profilo genetico finisce in forma anonima nella Banca Dati e si scopre - ecco il match - che la mia identità genetica combacia perfettamente con quella finora ignota lasciata sulla scena di una vecchia rapina. Il che prova, dal punto di vista giuridico, la mia presenza sul luogo della vecchia rapina. Altro esempio: in diverse violenze sessuali si rilevano ogni volta tracce biologiche di uno sconosciuto. Inserirle nella Banca Dati, da ora in poi ci dirà in tempo reale se e in quanti dei casi esaminati l’autore è sempre lo stesso. Il confronto immediato - Le attese più alte sono proprio per i reati seriali: le rapine, i furti, le violenze sessuali, appunto. Le statistiche più aggiornate del Ministero dell’Interno dicono che i reati registrati in Italia sono più di 2 milioni e 400 mila (dal 1 agosto 2015 al 31 luglio 2016) di cui 32 mila rapine e 1 milione e 300 mila furti. Avere una Banca Dati renderà possibile quello che finora non lo era: un confronto immediato fra un profilo appena raccolto sulla scenda di un delitto e tutti gli altri archiviati in precedenza. Luigi Carnevale dirige da un anno il servizio di polizia scientifica. Ricorda con orgoglio che "stiamo lavorando sulla base della migliore disponibilità strutturale e tecnica possibile" e che "è stato da poco autorizzato il raddoppio dei nostri biologi, da 32 a 64". Il professor Andrea Lenzi ordinario di endocrinologia alla Sapienza di Roma, è il presidente del Comitato nazionale di biosicurezza, biotecnologie e scienze della vita, organo di garanzia e controllo che rilascia i nulla osta ai laboratori. "Siamo gli ultimi in Europa a dotarci della Banca Dati - spiega -, direi che ci vorrà almeno un anno prima di avere un numero di profili che possa dare risultati apprezzabili con i match. Noi non abbiamo ancora dato il nostro nulla osta a tutti i laboratori e soprattutto serve tempo per analizzare i profili stoccati. Quando avremo decine di migliaia di identità genetiche, la cosa comincerà a farsi interessante". La privacy e il software - Giuseppe Novelli genetista nonché uno vicepresidenti del Comitato, aggiunge che "lavoriamo a stretto contatto con il Garante della privacy" e che "possiamo segnalare la non conformità e chiedere la revoca di un laboratorio, se la qualità non fosse garantita". Il software che permette di organizzare i dati si chiama Codis (Combined Dna Index System), arriva dall’Fbi e lo gestisce la Criminalpol, struttura interforze di polizia, carabinieri, guardia di finanza e penitenziaria. Ci sono casi per i quali è prevista la cancellazione dei dati. Per esempio se l’individuo a cui si riferiscono viene assolto definitivamente oppure quando il profilo della traccia fa match con un nome: significa che il caso è stato risolto, che la traccia trovata su questa o quella scena del crimine non appartiene più a una persona ignota quindi si cancella. Attenzione, però: si annulla la traccia biologica recuperata sulla scena del crimine, non quella ottenuta dalla saliva del detenuto con il quale quella traccia ha fatto match che, invece, sarà conservata dai 30 ai 40 anni, a seconda del reato. Lo sappiano i boss smaniosi di invisibilità: il loro diritto all’oblio genetico varrà fra 40 anni, a patto che nel frattempo restino invisibili per la legge. Tortura e antimafia al traguardo. Ius soli, la destra alza le barricate di Liana Milella La Repubblica, 3 luglio 2017 Presentati oltre 50mila emendamenti al testo sui diritti degli immigrati nati in Italia. L’impegno di Zanda, Pd: "Discuteremo e approveremo il testo entro la fine di luglio". Lo ius soli, purtroppo, in coda. "Condannato" a un voto a fine luglio per via dell’aggressione della destra. Tra domani e mercoledì il definitivo, ma assai contestato, via libera alla Camera per i reato di tortura, e il voto al Senato sul Codice antimafia che, anch’esso tra le polemiche, dovrà approdare a Montecitorio. Viaggiano in acque tormentatele leggi che Repubblica ha indicato, quando la legislatura sembrava agli sgoccioli, come quelle "da salvare". Adesso che l’asticella del voto si è riposizionata nel 2018, resta l’urgenza di non sprecare il tempo, visto che in autunno si riaprirà la lunga partita della riforma elettorale. Partiamo dalla legge più in difficoltà, lo ius soli, che per le sue implicazioni umanitarie - cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia - avrebbe dovuto essere approvata già da molto tempo. Ma l’ostilità della destra ne ha sempre compromesso il cammino. Adesso tocca alla capigruppo del Senato fissare una data. Dovranno farlo domani, quando i presidenti dei gruppi si riuniscono con il presidente del Senato Piero Grasso per decidere il calendario di luglio, il mese più difficile dell’anno perché a ridosso delle ferie. A Repubblica il Dem Luigi Zanda ha già promesso che "lo Ius soli sarà discusso e approvato entro luglio". Una garanzia formale. Anche se non si può dimenticare la guerriglia scatenata in aula dalla Lega con l’aggressione al ministro Fedeli e la raffica di 50mila emendamenti. Non va meglio per Codice antimafia e tortura. Il primo attende solo le dichiarazioni di voto e il voto. In programma per domani pomeriggio. Ma il presidente dell’Anac Raffaele Cantone - il cui parere non è stato preventivamente raccolto dai senatori - definisce "né utile, né opportuna, e perfino controproducente" l’idea di allargare le misure di prevenzione ai reati di corruzione, a patto che pm e gip abbiano contestato anche l’associazione a delinquere. Né utile né opportuna perché, secondo Cantone, sequestri e confische sono possibili già oggi, controproducente perché, cadendo l’eccezionalità legata alla mafia, l’intero impianto potrebbe rischiare l’incostituzionalità. Una "grana" che, a questo punto, dovrà sbrogliare la Camera. Camera da domani di nuovo alle prese con la tortura. Su cui, dopo la bocciatura di giuristi come Viadimiro Zagrebelsky, e di toghe come quelle di Genova, protagoniste dei processi sulle torture della Diaz e di Bolzaneto ("Con questa legge non ci sarebbero state le condanne"), c’è da registrare il niet della corrente di Area, la sinistra delle toghe. "Un cambio di rotta è necessario" titola Area. Che motiva così il suo invito a cambiare il testo: "L’Italia non ha atteso 28 anni per vedere approvata una legge che si discosta in modo significativo dalle convenzioni internazionali e potrebbe perfino rendere legittimi alcuni trattamenti inumani e degradanti che quelle convenzioni chiedono di sanzionare. Non ha atteso tanto per rischiare di essere ancora ritenuta inadempiente ai propri obblighi dalla Cedu". Una polemica che avrà i suoi riflessi mercoledì in aula. Leggi speciali e codice antimafia. Il doppio binario? Iniziò con la repressione del brigantaggio di Gigi Di Fiore Il Mattino, 3 luglio 2017 Il dibattito parlamentare si è infiammato anche sulla discussione della riforma del codice antimafia. La possibilità di estendere alle ipotesi di reati contro la pubblica amministrazione (corruzione, peculato e affini), sebbene accompagnati dalla contestazione di associazione a delinquere semplice, i sequestri preventivi alle imprese degli indagati ha sollevato qualche obiezione. Gli argomenti sono ormai noti: i sequestri preventivi prescindono da accertamenti e verifiche, basta il sospetto di una condotta illecita per giustificare l’intervento sui beni patrimoniali. Al di là del merito, il dibattito è, ancora una volta, sempre quello sulle politiche di repressione giudiziaria che attuano un cosiddetto "doppio binario". Vale a dire: individuato un fenomeno eccezionale, convinto della necessità di reprimerlo, mi spingo al punto di prevedere norme e procedure diverse da quelle ordinarie. "Doppio binario", appunto, come furono le leggi speciali approvate contro la mafia dopo le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Una scelta politico-giudiziaria che parte da lontano e, nello Stato italiano nato nel marzo del 1861, compie quest’estate ben 154 anni. Tutto cominciò infatti con la famigerata legge Pica (dal nome del deputato abruzzese che ne fu proponente e relatore), per reprimere la rivolta sociale del brigantaggio, che aveva trasformato l’intero Mezzogiorno in un Far West dove i militari facevano fatica ad agire. Nove norme, approvate nell’agosto del 1863, poi prorogate due volte con integrazioni fino ad arrivare al 1865. Di fatto, nelle sei regioni meridionali si decise di non tener conto delle garanzie costituzionali previste dallo Statuto albertino. Il risultato furono migliaia e migliaia di morti, intere popolazioni nelle mani dell’arbitrio dei militari che, con i loro tribunali, in maniera spiccia e senza garanzie difensive, decidevano fucilazioni e esecuzioni immediate. Niente giudice naturale, niente dialettica difensiva, niente informazione sulle condanne. Molti morirono senza che ne fosse dato conto in rapporti ufficiali e, non a caso, quella pagina unitaria oscura, ancora sfugge a precise indicazioni sulle vittime. Tanto che il maestro Andrea Camilleri, nel suo bel libro "La bolla di componenda", sulle cifre ufficiali approssimate per difetto dei morti nella repressione del brigantaggio commentò 24 anni fa: "Un po’ troppi per trattarsi di puri e semplici banditi da strada". Non aveva torto. Per interessi politici, si spacciò 154 anni fa una grande rivolta sociale come questione criminale da reprimere, senza intervenire sulle cause che ne erano state all’origine. Legge speciale, che, come sempre accade, aveva norme che affrontavano fenomeni di diversa natura e origine: per la prima volta comparve il termine "camorrista" in una legge italiana. Per un semplice sospetto, una commissione provinciale poteva allontanare in terre lontane chi veniva indicato come camorrista. Norma che non c’entrava nulla con il brigantaggio, che era rivolta sociale, guerra civile, repressa con tribunali militari, fucilazioni e tecniche da guerriglia. Fenomeni diversi e lo spiegò anche il capobrigante lucano Carmine Crocco quando, nel carcere di Portoferraio, venne intervistato dallo psichiatra Salvatore Ottolenghi che ne fece oggetto dei suoi studi antropologici. Che pensate della mafia e della camorra? "La camorra è la cosa più cattiva del mondo, ne fanno parte mascalzoni e miserabili" rispose. Fenomeni diversi, accomunati però in una stessa legge speciale repressiva. Come si vede, il vizio italiano del "doppio binario" parte da lontano. Ma c’è da chiedersi se la repressione giudiziaria, in circostanze eccezionali, possa utilizzare solo norme ordinarie, senza ricorrere a leggi speciali come per la mafia. In tal caso, bisognerebbe ammettere che il sistema che guarda alle garanzie della Costituzione è imperfetto e, in corso d’opera, ha bisogno di continui correttivi. Sarebbe un’amara constatazione, come amara e violenta fu la sanguinosa e arbitraria repressione che violentò il Sud 154 anni fa. Fake News. Stretta in cantiere: carcere ai falsari del web di Francesco Lo Dico Il Mattino, 3 luglio 2017 Il catalogo, ampio e non esente da venature kitsch, è trasversale e degno del peggior barzellettiere: dal neoeletto premier Gentiloni che chiede "duri sacrifici agli italiani per uscire dalla crisi", all’incauto avventore di lucciole napoletano, che viene sorpreso in strada dalla moglie piuttosto ruspante: "Amò, che fai mmiez e putt***?!". Ma c’è spazio anche per il virologo Burioni ("Vaccinatevi o vi ammazzo di botte"), e l’uomo argentino di 128 anni che svela all’umanità il suo inconfessabile segreto: "Sono Adolf Hitler, mi sono salvato". Basta scorrere il florilegio di bufale.net, il sito che smaschera notizie improbabili, per farsi un’idea di quanto le fake news siano diventate virali, perniciose e in grado di incancrenire il dibattito pubblico e la qualità dell’informazione. Così che, lento pede, la politica è scesa in campo nel tentativo di porre argine al fenomeno con il ddl anti-bufale che vede come prima firmataria l’ex grillina, oggi verdiniana, Adele Gambaro. Quasi una nemesi contro i pentastellati, verrebbe da dire, dato l’ampio credito che taluni ex colleghi di Gambaro avevano dato in passato a scie chimiche, chip sottopelle e vaccini che provocavano l’autismo. Come che sia, il provvedimento presentato a palazzo Madama vede compatti numerosi senatori, da Fi alla Lega, passando per i centristi (Ap, Ala, Gal) e alle Autonomie fino a includere esponenti di Idv e Pd: tutti, tranne i grillini. Lo scopo del disegno di legge è piuttosto evidente sin dal titolo: Disposizioni per prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica. In teoria sembra facile: basta un colpo di spugna e la fake news si dissolve in un baleno. Ma per intervenire in modo efficace sul fenomeno, occorre bypassare taluni snodi che hanno fatto le fortune della rete, e dei grossi pescatori della Silicon Valley: si tratta di ridiscutere il tabù dell’anonimato, della trasparenza e della proprietà dei media online innanzitutto. Ma anche di sovrapporre alle edicole virtuali, liquide e spensierate, le regole novecentesche del diritto di replica e di rettifica, le garanzie contro i contenuti diffamatori a mezzo stampa, ma anche quelle di più recente conio come le norme a tutela della privacy e del diritto all’oblio. Missione ardua, dato che le improbabili testate che pullulano on line, sono spesso prive di sedi legali pubbliche e di precisi responsabili dei contenuti. E c’è poi l’enorme muro dei social: la cronaca recente dimostra quanto sia arduo convincere colossi come Facebook e YouTube a rimuovere contenuti falsi o inappropriati, spesso corredati da milioni di clic, anche se inneggianti all’odio. Dell’Utri. Uno Stato di diritto non dovrebbe permettere che un uomo muoia in carcere di Angelo Crespi Il Giornale, 3 luglio 2017 La situazione di Dell’Utri è grave, uno Stato di diritto non dovrebbe permettere che un uomo muoia inutilmente in carcere, né un uomo che è stato potente né l’ultimo dei miserabili meritano questa sorte. Credo che Marcello Dell’Utri conosca perfettamente l’Utopia di Tommaso Moro. L’edizione che sfoglio è stata stampata il giorno di Sant’Ambrogio 1991 per conto di Publitalia 80. Fa parte di una collana dedicata all’utopia che proprio Dell’Utri ha seguito personalmente per oltre vent’anni, pubblicando alcuni dei classici più importanti della storia del pensiero occidentale. Credo che ricordi anche il passaggio dedicato alle leggi e all’amministrazione della giustizia, quasi profetico pensando alla fine di Moro, imprigionato per avere rifiutato di piegarsi ai voleri di Enrico VIII, e infine decapitato sul patibolo. Hitlodeo nel raccontare i costumi degli utopiani spiega che sull’isola le leggi sono poche e chiarissime, sono chiare altrimenti non capendole sarebbero inutili a indirizzare i cittadini; inoltre dice che "la vita nella società è amabile perché nessun magistrato è prepotente o incute timore: li si chiama padri e da padri essi si comportano". Non so se Dell’Utri, ormai vecchio e malato in carcere, possa definire "padri" i giudici che l’hanno condannato in base a leggi non certo chiarissime, e non so neppure se i giudici si comportino da "padri" negandogli la possibilità di essere curato nel migliore dei modi e rimandando in là nel tempo il momento in cui si deciderà se le sue condizioni sono compatibili con il regime carcerario. Non so se un uomo vecchio invochi ancora l’aiuto del padre, oppure invochi semplicemente il padre dei cieli come faceva Moro, che era padre, scrivendo lettere alla figlia Margherita, e anche Dell’Utri ha una figlia con questo nome: "Mia cara Margherita, la grazia di Dio mi ha fatto così gran bene e dato tale forza spirituale, da farmi considerare la carcerazione come principale dei benefici elargitimi". Non so se Dell’Utri pensi che la carcerazione sia un beneficio, se come san Tommaso Moro in seguito sarà riabilitato in altri più alti tribunali, o se più semplicemente, come è successo nel caso Contrada, l’Italia verrà condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, essendo vietati trattamenti inumani o degradanti. So però una cosa: la situazione di Dell’Utri è grave, uno Stato di diritto non dovrebbe permettere che un uomo muoia inutilmente in carcere, né un uomo che è stato potente né l’ultimo dei miserabili meritano questa sorte, nessuno dovrebbe essere sottoposto a umiliazioni da una burocrazia e da una magistratura che, come scriveva Verri tre secoli fa, "gradatamente si è incallita agli spasimi delle torture per un principio rispettabile, cioè sacrificando l’orrore dei mali di un uomo, solo sospetto reo, in vista del ben generale della intera società". Due giorni fa, i colleghi del Tempo hanno lanciato un appello per chiedere che Marcello Dell’Utri abbia la sospensione della pena per motivi di salute (firmaperdellutri@iltempo.it). È un modo per attivare l’opinione pubblica; in fin dei conti, chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale ben comprende che l’accanimento contro Dell’Utri fu motivato da motivi politici, ma oggi le ragioni di umanità e di diritto devono prevalere su quelle della politica. In carcere con Diele: "Ogni notte rivivo l’incubo. Vi prego, mandatemi a casa" di Conchita Sannino La Repubblica, 3 luglio 2017 L’attore che ha travolto con l’auto una donna sotto gli effetti della droga è in cella da otto giorni: "Perché non si trova un braccialetto elettronico?". La sua colpa gli parla ogni notte. "Soprattutto quando sto al buio, in cella, risento la scena dell’impatto. Continuamente mi tormenta il fatto che su quell’autostrada, dov’era tutto scuro, io non ho visto quella donna". Domenico Diele, l’attore finito in carcere con l’accusa di omicidio stradale, è aggrappato a una nuova parola, come un ammalato grave alla terapia. Ripete spesso quel termine di cui, nella vita di prima, ignorava l’esistenza. "Il braccialetto: perché non arriva? Come mai non ce ne sono?". E poi dalla sua vita devastata dice, idealmente, ai ragazzi: "Non fate come me. Non pensate che la droga sia una cosa da niente. Anche se io so che l’incidente maledetto non è successo per quello". L’interprete in ascesa, il volto dell’agente Luca Pastore in 1993 la serie tv di Sky, in una notte di follia ha ucciso Ilaria Dilillo, 48 anni, e distrutto anche ciò che aveva costruito. Aveva fatto uso di droghe, secondo la polizia (test positivi a cannabis ed eroina), era certamente senza patente (già sospesa) e con l’assicurazione scaduta, e nonostante questo aveva fatto in auto, con la sua Audi A3, da Roma a Potenza e da Potenza a Roma, per il matrimonio di un cugino. In carcere ci è entrato con l’abito scuro e la cravatta elegante. L’ultimo frame della vecchia esistenza. "Lo so, pagherò tutto", mormora adesso Diele all’europarlamentare di Fi, Fulvio Martusciello, in visita all’istituto dove un mese fa c’era stata una rissa tra detenuti, e dove ora trova un clima "di grande professionalità e ordine. E c’è attenzione ai singoli, tutti, sia da parte della direzione, che della polizia penitenziaria". Diele non rinuncia a parlare. "Avrò un processo, pesano i miei errori. Ne ho commessi. Ma il giudice ha deciso di mandarmi agli arresti domiciliari, otto giorni fa. Non posso andarci, mi spiegano, finché non arriva questo anello con un microchip che ti mettono addosso. È vero che non se ne trovano, che ce ne sono così pochi?". Un nodo ben noto non solo alla penitenziaria, ma anche ai vertici dei Ministeri della Giustizia e dell’Interno. Il Guardasigilli Andrea Orlando ha assicurato, solo pochi giorni fa, che è in corso "un nuovo bando, per 12mila. Stanno arrivando i nuovi dispositivi. Per un errore del legislatore, la competenza dell’acquisto è del Ministero degli Interni. Comunque ne sono stati utilizzati già 10mila, non è che non esistano". Annunci e conferme. Inevitabili passaggi burocratici. Altro ritmo ha la vita segnata dall’orologio del carcere. Altro ancora, è il tempo infinito del dolore in cui è piombata la famiglia Dilillo, dove sono rimasti solo il padre e il fratello a piangere Ilaria, carabiniere in pensione il primo, carabiniere in servizio l’altro. Muti e in attesa di giustizia, ormai. Mentre, di contro, danno sfogo alla rabbia e al dolore su Fb le amiche di Ilaria, travolta e uccisa mentre, quella notte tra il 23 e il 24 giugno scorsi: stava solo tornando a casa, in sella al suo scooter, troppo vicina all’Audi A3 di Diele. "Non posso dormire la notte. Non ci riesco", dice l’attore a Martusciello. "Mi vengono incontro quelle immagini, anche se non ci capisco niente. Io resto convinto, l’ho detto e ridetto alla polizia e al giudice, che non c’entrava la cannabis, non c’entra la roba che avevo assunto giorni prima. C’entra la maledetta assurda circostanza che mi sono forse chinato a vedere un cd sul display". Visto così, nel reparto "Transito" del carcere di Fuorni, è un magro detenuto tra gli altri. Forse più pallido, forse più a disagio. Addosso un paio di pantaloncini e una canottiera per difendersi dal caldo. Ma quando, accanto a quelle celle passa il deputato europeo, Diele si riveste subito. Un jeans, una t-shirt scura. Abbassa gli occhi, racconta la sua nuova vita, accetta le domande, che si svolgono in un ufficio, con lui e con gli altri. Come i suoi compagni di cella. Uno sta scontando un cumulo di pene per droga. Un altro, ha addosso un reato di maltrattamenti. Un altro ancora, il più "forte" psicologicamente, sta dando una mano a Diele per distrarlo dai suoi incubi. "Lei lo sa, perché non arriva, il braccialetto? Io non so niente di giustizia, purtroppo", alza le mani, l’attore. "Il carcere è il posto in cui dovevo essere portato, lo so. Però un giudice ha deciso che posso essere controllato nella detenzione a casa". Il suo conforto? "Sono venuti a trovarmi mio padre, mia madre, mio fratello che fa l’avvocato". Una volta sola ha visto la sua fidanzata, una storia semplice, tenuta riservatissima, con Lavinia. "I miei mi hanno portato libri di storia, i Romani, cose antiche - accenna un mezzo sorriso - Però, quando sarà possibile, andrò ai domiciliari con mia nonna". A Roma, l’anziana e volitiva signora ottantenne rappresenta per Diele "il ricordo di un’infanzia felice a Siena". Poi, i mille provini, la fatica, l’approdo nel cinema d’autore, finalmente i primi successi. Tutto devastato dall’omicidio stradale. "Quando ho cominciato con le droghe? A Roma". Si incupisce, basta. Tutto all’aria (anche) per la sua dipendenza da cannabis, eroina, forse coca, altra sostanza che gli hanno trovato in macchina. "Non devono fare come me. Ecco cosa vorrei dire ai ragazzi. Ma io, ora, non possono dare consigli". Reati, torna il concordato in appello di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2017 Ridurre il numero dei giudizi di appello e di Cassazione. È questo l’obiettivo delle novità in materia di impugnazioni contenute nella riforma penale (approvata dalla Camera il 14 giugno, atto 4368): alcune partiranno con l’entrata in vigore della legge, mentre altre dovranno essere attuate con decreti delegati. Innanzitutto, torna il "concordato in appello", abolito nel 2008. Il meccanismo è semplice: pubblico ministero e difesa concordano "sull’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello, con rinuncia agli altri eventuali motivi" e indicano la pena. Se l’accoglie, la corte pronuncia sentenza inoppugnabile. Altrimenti celebra il dibattimento, ma la richiesta di concordato può essere riproposta. Per garantire omogeneità il procuratore generale dovrà indicare "i criteri idonei a orientare la valutazione dei magistrati del pubblico ministero in udienza, tenuto conto della tipologia dei reati e della complessità dei procedimenti". Il concordato è escluso per reati di criminalità organizzata, terrorismo, pedopornografia, prostituzione minorile e violenza sessuale, e per delinquenti abituali, professionali o per tendenza. Il giro di vite - Novità anche per la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, che sarà automatica "nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla prova dichiarativa". Ciò per evitare che una sentenza di condanna in appello si fondi su un giudizio dei testimoni solo sulle carte. Diventa poi di competenza della corte d’appello, e non più della Cassazione, la rescissione del giudicato nei confronti del condannato processato in sua incolpevole assenza. Stop anche ai ricorsi in Cassazione contro le sentenze di non luogo a procedere all’esito dell’udienza preliminare: dovranno essere impugnate in appello. In Cassazione saranno inammissibili i ricorsi presentati personalmente dall’imputato: ciò rappresenterà un problema per i molti avvocati non cassazionisti che abitualmente scrivono i ricorsi facendoli firmare ai propri assistiti. Aumentano poi le sanzioni pecuniarie per i ricorsi in Cassazione inammissibili e viene resa più snella la procedura con cui la Corte potrà dichiarare l’inammissibilità dei ricorsi per difetto di legittimazione e inoppugnabilità della sentenza, o procedere alla correzione di errori materiali e di fatto. Davanti alla Suprema corte - Altre novità per i giudizi in Cassazione: torna la discussione orale dei ricorsi relativi alle misure cautelari reali, che la Corte ha recentemente confinato tra i riti cartolari; i giudici di una sezione che non condividono un principio di diritto delle Sezioni unite dovranno rimettere a queste la decisione del ricorso e il principio di diritto potrà essere pronunciato dalle Sezioni unite d’ufficio anche in presenza di ricorso dichiarato inammissibile; la Cassazione potrà decidere nel merito tutte le volte in cui non ritenga necessari ulteriori accertamenti di fatto; e i ricorsi contro le sentenze di proscioglimento di primo grado confermate in appello non potranno essere proposti per motivi riguardanti la valutazione della prova, ma solo per violazione di legge. In generale, i giudici vengono gravati di un obbligo "rinforzato" di motivazione delle sentenze (anche di primo grado): occorrerà spiegare i "risultati acquisiti" e i "criteri di valutazione della prova adottati". La valutazione delle "prove contrarie" si fa più rigorosa. Il giudice dovrà dare specificamente conto della loro non attendibilità circa: l’accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all’imputazione e alla loro qualificazione giuridica; la punibilità e determinazione della pena; la responsabilità civile derivante dal reato; l’accertamento dei fatti da cui dipende l’applicazione di norme processuali. Si impone così al giudice uno sforzo nel valutare la prova per soffocare impugnazioni inadeguate. Cambia anche la struttura dell’impugnazione: dovrà enunciare, a pena di inammissibilità, "le prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione". Sì a dichiarazioni spontanee rese senza difensore se non c’è stata coercizione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2017 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 25 maggio 2017 n. 26246. Le dichiarazioni spontanee ex articolo 350, comma 7, del Cpp, anche se rese in assenza del difensore e senza l’avviso di poter esercitare il diritto al silenzio, sono pienamente utilizzabili nella fase procedimentale (ovvero nella fase della cognizione cautelare e in quella sulla responsabilità che si svolge nei riti a prova contratta, nella piena disponibilità dell’accusato), nella misura in cui emerga con chiarezza che l’indagato abbia scelto di renderle liberamente, senza alcuna coercizione o sollecitazione. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza 25 maggio 2017 n. 26246. Per i giudici penali spetta in proposito al giudice accertare, anche d’ufficio, sulla base di tutti gli elementi a sua disposizione, l’effettiva natura spontanea delle dichiarazioni, dando atto di tale valutazione con motivazione congrua e adeguata. Tale disciplina del resto è pienamente compatibile con le indicazioni della normativa europea e segnatamente con quelle contenute nella direttiva 2012/13/Ue in materia di diritti di informazione dell’indagato: tale direttiva, infatti, è stata attuata con il decreto legislativo n. 101 del 2014, che non ha modificato l’articolo 350 del Cpp. Ed è anche compatibile con le indicazioni fornite dalla Corte Edu, emergendo dalle decisioni di tale organo sovranazionale solo l’esigenza che l’indagato sia protetto da ogni forma di coercizione quando viene "escusso", che è situazione diversa rispetto al caso in cui questi decida liberamente di rendere dichiarazioni. Si tratta di affermazioni assolutamente condivisibili e in linea con la disciplina normativa, opportunamente letta anche alla luce dei principi comunitari. Infatti, alle dichiarazioni spontanee del soggetto indagato non si applica la disposizione dell’articolo 64 del Cpp, che attiene all’interrogatorio, che non può essere confuso con le spontanee dichiarazioni, nelle quali, proprio per la loro caratteristica, nessun avvertimento preliminare potrebbe essere rivolto al dichiarante (sezione VI, 6 novembre 2009, Colace e altro). Va del resto ricordato che ciò che caratterizza, rispetto alle "dichiarazioni spontanee", l’assunzione di informazioni e indicazioni utili per le investigazioni, cui fanno riferimento i commi 1 e 5 dell’articolo 350 del Cpp, sono la direzione dell’escussione del soggetto da parte dell’operatore di polizia giudiziaria e la riconduzione dell’escussione in un preciso ambito scelto e limitato da quest’ultimo. In questa prospettiva, peraltro, una generica sollecitazione da parte della polizia giudiziaria (nella specie, sostanziatasi nella generica frase: "che è successo?") non è idonea a tramutare la "ricezione" delle dichiarazioni spontanee del soggetto in una "assunzione" vera e propria delle stesse, sicché non sono necessari in tal caso il previo invito alla nomina del difensore, la presenza di quest’ultimo o l’avvertimento della facoltà di non rispondere (cfr. sezione II, 12 novembre 2009, Saleem e altri). Litisconsorzio necessario del Pm nell’interesse della legge Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2017 Giudizio civile - Pubblico ministero - Intervento in causa - Procedimento relativo ad accertamento di paternità - Obbligatorietà - Intervento in appello - Omissione - Conseguenze - Cassazione con rinvio. Nei giudizi inerenti lo stato e la capacità delle persone l’intervento del pubblico ministero è obbligatorio, secondo la norma contenuta nell’art. 70, n. 3, c.p.c. e tale prescrizione si applica a ogni grado del giudizio. Ove non sia possibile dimostrare che il Pm sia comunque stato al corrente della procedura e abbia perciò potuto svolgere le attività di sua competenza, deve ritenersi sussistente il vizio di nullità del procedimento e della sentenza. (Fattispecie in tema di accertamento di paternità e di omessa partecipazione del pubblico ministero nel giudizio di appello). • Corte cassazione, sezione I civile, sentenza 15 giugno 2017 n. 14896. Giudizio civile - Pubblico ministero - Intervento obbligatorio - Separazione personale dei coniugi - Giudizio di appello inerente ai soli rapporti patrimoniali - Intervento obbligatorio del p.m. - Esclusione. L’art. 70, comma 1, n. 2 c.p.c., sull’obbligatorietà dell’intervento del pubblico ministero nelle cause di separazione personale dei coniugi, trova applicazione fino a quando sia in discussione il vincolo matrimoniale e non anche, pertanto, nel giudizio d’appello che concerna i soli rapporti patrimoniali. • Corte cassazione, sezione II civile, sentenza 10 marzo 2017 n. 6262. Giudizio civile - Pubblico ministero - Intervento obbligatorio - Procedimento per la nomina di amministratore di sostegno - Mancata partecipazione del p.m. a entrambi i gradi di merito - Conseguenze - Cassazione del decreto della corte di appello e rinvio al giudice di primo grado - Ragioni. In tema di procedimento per la nomina di amministratore di sostegno, la mancata partecipazione del P.M. a entrambi i gradi di merito comporta la cassazione del decreto della corte di appello e la remissione del giudizio dinanzi al giudice di primo grado, atteso che in tale procedimento l’intervento del P.M., il quale è titolare anche del relativo potere di azione ai sensi del combinato disposto degli artt. 406, comma 1, e 417 c.c., rientra nell’ipotesi di cui all’art. 70, comma 1, n. 1 c.p.c., che è norma attinente alla disciplina del contraddittorio e, pertanto, dà luogo a un litisconsorzio necessario. • Corte cassazione, sezioni unite civili, sentenza 18 gennaio 2017 n. 1093. Giudizio civile - Pubblico ministero - Cause in materia di stato delle persone - Intervento obbligatorio del P.M. - Omessa trasmissione degli atti al P.G. nel giudizio di appello - Nullità della sentenza - Cassazione con rinvio della sentenza di appello. Il P.M. ha il dovere di intervenire a pena di nullità rilevabile d’ufficio nelle cause relative allo stato delle persone. Ove non vi sia prova che l’Ufficio di Procura sia stato messo in condizione di partecipare al grado di giudizio, la sentenza di secondo grado non può che essere cassata e restituita alla Corte d’Appello perché provveda, previa trasmissione degli atti al Procuratore Generale, alla nuova trattazione e decisione della causa. • Corte cassazione, sezione VI civile, ordinanza 4 settembre 2015 n. 17664. Giudizio civile - Pubblico ministero - Intervento - Obbligatorio - Conclusioni tardive del p.m. - Violazione del contraddittorio - Esclusione. Al fine dell’osservanza delle norme che prevedono l’intervento obbligatorio del Pm nel procedimento, non è necessaria la presenza di un rappresentante di tale ufficio nelle udienze, né la formulazione di conclusioni, essendo sufficiente che il Pm, mediante l’invio degli atti, sia informato del giudizio e quindi posto in condizione di sviluppare l’attività ritenuta opportuna. • Corte cassazione, sezione I civile, sentenza 21 maggio 2014 n. 11223. Calabria: accordo tutela minori tra Ministeri Giustizia e Interno, Regione, Uffici giudiziari giustizia.it, 3 luglio 2017 I minori e i giovani adulti della Calabria provenienti o inseriti in contesti familiari di criminalità organizzata potranno da oggi beneficiare di specifiche misure di tutela previste da appositi percorsi personalizzati di rieducazione, sostegno e reinserimento sociale. Lo prevede l’Accordo quadro per la realizzazione del Progetto "Liberi di scegliere" sottoscritto oggi a Reggio Calabria dai ministri della Giustizia Andrea Orlando e degli Interni Marco Minniti, da rappresentanti della Regione Calabria, delle Corti di appello di Catanzaro e Reggio Calabria, nonché dei tribunali e delle procure per i minorenni dei due capoluoghi calabresi. "I provvedimenti assunti dal Tribunale dei minori - ha dichiarato il guardasigilli - affrontano nel giusto spirito il fenomeno dei giovani che crescono in contesti mafiosi. In questi anni ci siamo soffermati se due questioni: che senso deve avere la pena e quali sono gli strumenti di prevenzioni da affiancare alla repressione nella lotta alla criminalità. Il progetto di oggi è la risposta più alta alla nostra domanda. Nel nostro Paese si investe molto nella repressione attraverso il carcere, ma abbiamo il tasso di recidiva più alta a livello europeo. Questa situazione non vale per il carcere minorile. Su esecuzione penale per i minori siamo fortemente innovativi. Così come si è lavorato molto nell’ambito della prevenzione". "Nella stesura del Protocollo che firmiamo oggi - ha continuato il ministro Orlando - ci si è mossi con grandissimo equilibrio e con grande equilibrio si è costruita una strada per garantire la crescita e l’educazione dei giovani socializzati in ambienti criminali. Il progetto si intitola ‘Liberi di sceglierè. Si tratta di un titolo suggestivo. Qual è la libertà di scelta di un minore che cresce in determinati contesti? Qual è il suo margine di scelta rispetto a un altro minore che cresce in altre realtà? Spesso è la famiglia stessa che chiede al minore di delinquere per sostenerla economicamente. Allora, in questi ambiti, far rompere i ragazzi con il contesto di appartenenza per consentire loro di scegliere un’alternativa di vita rispetto a quella che la ‘ndrangheta avrebbe segnato per loro, è possibile se si realizzano due condizioni essenziali: se non si pensa ai due momenti di interventi dello Stato, prevenzione e repressione, come interventi separati, dunque, è necessario far dialogare i diversi soggetti che seguono i minori. La seconda condizione riguarda le risorse e ringrazio il presidente della Regione Calabria che si è impegnato per dare corpo a questa serie di passaggi. Il tema libertà di scelta è dirimente e su questo si deve cimentare la politica e la classe dirigente in un contesto in cui l’ascensore è rappresentato dalla criminalità. Certo, l’ambiente non può assolutamente giustificare nessuna scelta criminale, ma dobbiamo lavorare per ampliare la libertà di scelta. Ringrazio i magistrati che, su un tema così delicato, hanno lavorato con grande professionalità, senza nessun approccio schematico e ideologico. Consideriamo l’accordo di oggi come un passo di un percorso più lungo che mi auguro si possa intraprendere ed estendere al territorio nazionale". Il progetto, che ha durata biennale, è rivolto ai minori e ai giovani adulti inseriti nel circuito penale (condannati, ammessi alla messa alla prova o collocati presso i servizi minorili residenziali) o sottoposti a una misura alternativa alla detenzione, che siano comunque provenienti da nuclei familiari contigui o vicini alla criminalità organizzata del territorio; ai figli di soggetti indagati o imputati o condannati per reati legati alle mafie del territorio; ai minori in carico al Tribunale per i minorenni che siano vittime di maltrattamenti intra-familiari legati a dinamiche di criminalità; e, infine, ai minori sottoposti a protezione o ricompresi nelle speciali misure di protezione. Specifiche equipe multidisciplinari appositamente create, di cui faranno parte assistenti sociali, rappresentanti del Servizio sanitario regionale ed enti locali, saranno chiamate ad elaborare ed attivare progetti socio-educativi individualizzati rivolti a tutelare la regolare crescita psico-fisica dei ragazzi e a sviluppare opportunità formative, lavorative e ricreative, valorizzando le loro specifiche potenzialità e inclinazioni e promuovendo i valori della legalità, anche attraverso interventi di giustizia riparativa e di mediazione penale che coinvolgano il nucleo familiare di appartenenza. Napoli: Tribunale di Sorveglianza; a Ferragosto uffici chiusi, penalisti in rivolta di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 3 luglio 2017 Nota del dirigente: organico ridotto, dal 16 al 26 agosto solo la mail. Penalisti: sciopero e ricorso al Tar. Per una dozzina di giorni, quelli più caldi dell’anno, dovranno accontentarsi di un indirizzo di posta elettronica. Inutile mandare i propri avvocati in Tribunale, incartamento alla mano, inutile chiedere di affacciarsi allo sportello per un consiglio sul modo migliore per depositare la propria istanza. Impossibile poi per i legali mettersi in fila per ragionare sull’incartamento e quant’altro richiesto dal codice per ottenere una revoca di un arresto, una scarcerazione anticipata, un beneficio, un regime alternativo alla cella, un ricovero in ospedale. Tutto avverrà - almeno per una dozzina di giorni attraverso un indirizzo mail, unico interfaccia dell’ufficio Tribunale di Sorveglianza, nei giorni immediatamente successivi Ferragosto. Estate 2017, eccola la novità dai piani alti del Palazzo di giustizia. Una circolare spedita ai direttori delle carceri, all’ufficio esecuzione esterna e al presidente della camera penale di Napoli, chiarisce che sono in arrivo alcune novità per i giorni più caldi dell’anno, che sono poi i giorni in cui la richiesta di un beneficio carcerario si fa decisamente più pressante. Quanto basta a rafforzare la decisione della Camera penale di Napoli di varare un nuovo pacchetto di astensioni per i giorni che vanno dall’undici al 14 luglio prossimo. Ma andiamo con ordine, a partire dalla nota spedita dal dirigente dell’ufficio amministrativo del Tribunale di Sorveglianza, vale a dire uno dei gangli essenziali del funzionamento della giustizia: l’oggetto della nota riguarda "le istanze di licenze, permessi ed autorizzazioni relative al mese di agosto del 2017". E sono due le notizie indicate nel corso della circolare spedita a dirigenti e addetti ai lavori: si chiarisce che ad agosto "l’organico sarà ridotto e al fine di gestire istanze di permessi premiali, autorizzazioni per soggetti in regime di semilibertà ed urgenza, bisognerà attrezzarsi a presentare istanza entro il 20 luglio". Poi c’è la seconda informazione presente nella nota, quella che ha sollevato perplessità tra i penalisti: "Ricordo - scrive il dirigente - che dal 14 al 26 agosto del 2017 sarà attivo il solo indirizzo di posta elettronica certificata uffsorv.napoli@giustiziacert.it". Apriti cielo. Insorge il "carcere possibile", vale a dire la Onlus della Camera penale che si batte per il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti, specie nel distretto di Corte di appello di Napoli, dove gli istituti penitenziari sono da sempre alle prese con problemi di sovraffollamento. Spiega al Mattino la penalista Sabina Coppola, consigliere del Carcere possibile: "Chi paga di più le conseguenze sono i condannati sottoposti ad una misura alterativa alla detenzione ed i detenuti che, dal chiuso delle loro celle, possono veicolare le proprie richieste solo attraverso un lungo iter burocratico che trova i suoi ostacoli maggiori proprio nel Tribunale di Sorveglianza, afflitto da una cronica carenza di personale, da tempo lamentata dalla stessa magistratura e dall’avvocatura, ma rispetto alla quale il Ministero rimane sostanzialmente silente". Dichiarazioni e prese di posizione che partono dal riconoscimento del lavoro svolto nel Tribunale di Sorveglianza, sia dai magistrati che dal personale amministrativo. Eppure, le nuove disposizioni assunte per coprire la carenza di risorse ad agosto alimenta malessere proprio da parte degli addetti ai lavori. Interviene così Attilio Belloni, presidente della Camera penale partenopea, proprio a proposito della decisione di lasciare per dodici giorni l’utenza alle prese con un impersonale indirizzo mail: "È inaccettabile che si pongano limiti di accesso a un ufficio pubblico come quello del Tribunale di Sorveglianza, gli avvocati devono poter depositare le istanze in qualsiasi giorno con esclusione di quelli festivi, come avviene per qualsiasi altro ufficio pubblico e per qualsiasi ufficio giudiziario del Tribunale. A questo punto valutiamo l’opportunità di impugnare il provvedimento che ci è stato comunicato innanzi al Tar, per violazione delle norme di regolamentazione degli uffici pubblici". Uno scenario che alimenta malessere, anche alla luce delle reiterate richieste di intervento nei confronti del Ministero di giustizia. Una posizione condivisa, che vede uniti nella stessa battaglia di civiltà sia i penalisti che i vertici degli uffici giudiziari, anch’essi in prima linea nel sottolineare scompensi e carenze di organico. Ma torniamo al caso legato alla chiusura dell’ufficio nei giorni successivi Ferragosto. Guidato da un giudice di provata esperienza, parliamo del presidente Adriana Pangia, il Tribunale di Sorveglianza di Napoli è un presidio essenziale per il rispetto della legalità e delle garanzie dei detenuti, anche grazie alla sensibilità e allo spirito di abnegazione dei suoi rappresentanti. Uffici sempre affollati e alle prese con file di decine di utenti. Si va dalle richieste di detenzione alternativa, magari con l’applicazione del braccialetto elettronico, a casi di urgenza provocati da condizioni di salute precaria. Insomma, la galleria umana che si affaccia quotidianamente dinanzi ai giudici di sorveglianza, nei giorni del solleone, dovrà accontentarsi di una risposta telematica, a mezzo posta elettronica. Cremona: dagli "scarti sociali" nasce la filiera del cibo solidale che rigenera il territorio di Giulia Polito Corriere della Sera, 3 luglio 2017 Monica ha grandi occhi azzurri e un’aria timida. Le hanno detto che il nostro incontro sarebbe stata una grande opportunità e per questo ha accettato di buon grado. Potersi raccontare fuori dal proprio ambiente per lei è davvero un’occasione importante, perché la sua è una storia che inizia da lontano e che l’ha segnata nel profondo. Inizia a parlare e nei suoi occhi c’è tutta la forza e la passione dei 18 anni appena compiuti. Mentre ogni tanto si tira le maniche della camicia ti guarda dritto negli occhi per raccontarti che nel piccolo ristorante in cui ci siamo incontrate ha capito quale sarebbe stato il suo futuro. Monica lavora come cameriera al Bon Bistrot di Cremona, una realtà in cui tante persone con disagio psichico hanno trovato un loro posto, una famiglia, un lavoro, nuovi amici. È un crocevia di storie che prendono il via dalle ferite degli anni e dalle ingiustizie del mondo. Storie che come i frutti migliori della terra sono state coltivate con cura e attenzione e che hanno trovato un felice sviluppo nelle campagne verdi del territorio cremonese. Il Bon Bistrot è solo l’ultima tappa di una lunga filiera di cibo solidale che abbraccia tutta Cremona e che nasce all’interno della piccola azienda agricola biologica al centro del progetto di agricoltura sociale Rigenera della Cooperativa Nazareth. Qui, oltre agli ortaggi, si coltivano persone. Come il giovane Ahmed, 21 anni, arrivato da solo dall’Egitto a soli 14 anni. Uno dei tanti minori non accompagnati che con la cooperativa, nata in origine per offrire servizi per minori e famiglie, ha trovato un’occasione. E da allora, ogni giorno, si sveglia di buon mattino per prendersi cura di quei quattro ettari di terreno che neanche il violento maltempo fuori stagione di qualche settimana fa è riuscito a fermare. Perché intorno ai quei frutti ruota la vita di decine di persone e farli crescere bene è un impegno per tutti. C’è anche Adnon, 18 anni, arrivato da circa un anno dal Kosovo che qui ha iniziato un tirocinio. E c’è poi l’impegno dei volontari, come i giovanissimi Emanuele e Mirko di 17 e 18 anni che hanno scelto di spendere così le vacanze scolastiche. O ancora Agostino, pensionato della zona che ogni tanto passa per dare una mano. "Come cooperativa ci siamo resi conto che con la crisi che ha coinvolto anche i mestieri era necessario riuscire a generare nuova economia per riuscire ad essere autonomi e ad aiutare le persone in difficoltà" racconta il presidente di Nazareth Don Pierluigi Codazzi. "Così abbiamo pensato ad un progetto di agricoltura sociale che riuscisse a coinvolgere il territorio a tutti i livelli possibili e diverse fragilità". L’idea si fondo è appunto quella di "rigenerare" la terra così come le persone, attraverso tecniche di coltivazione sostenibili e biologiche. Ma soprattutto anche attraverso la scelta dei prodotti da coltivare, gli ortaggi poco tipici del cremonese ma che necessitano dell’impiego di maggiore manodopera: "Così anche i prodotti diventano funzionali al lavoro delle persone". La filiera del cibo solidale messa a punto nel corso degli anni passa anche dalla locale casa circondariale, dove all’interno è stato costruito un laboratorio, una vera e propria cucina industriale. Qui i detenuti lavorano la materia prima per realizzare le conserve che vengono poi vendute in un piccolo negozio, un presidio che tutela e amplifica i legami dei protagonisti del progetto con il territorio e con le persone. "Un direttore di un carcere può guardare efficacemente ai detenuti se guarda anche al territorio. Non è possibile lavorare ai fini del reinserimento senza conoscere e far rete con le diverse espressioni del territorio". È qui che secondo il direttore Maria Lusi del carcere di Cremona è nata la collaborazione con Nazareth, "la cui idea progettuale ricollega fortemente il carcere ai propri obiettivi istituzionali che, in questo caso, assecondano la naturale vocazione del territorio: quella agricola". Quando arriviamo i detenuti come Giovanni (nome di fantasia) sono impegnati nell’infornata delle pizze che poi saranno servite al BonBistrot. Le mani impastano, condiscono e confezionano i tranci che ancora caldi arriveranno da lì a pochi minuti sulle tavole dei clienti. E mentre lavora Giovanni trova il tempo per raccontare parte della sua storia e delle sue esperienze all’interno della struttura. Un luogo in cui "il tempo sembra non passare mai e in cui avere l’opportunità di un lavoro è importante". Vale per chi deve acquisire il senso delle regole, della disciplina e le competenze giuste da mettere a frutto una volta fuori e per chi invece, come Giovanni, ha la necessità di trascorrere un tempo di maggiore qualità per non cedere agli istinti peggiori che in un ambiente come quello carcerario possono emergere con maggiore facilità. Ma "per fare impresa in carcere - spiega ancora il direttore - è fondamentale trovare le persone adeguate che capiscano che l’idea imprenditoriale non basta, occorre anche acquisire il metodo di lavoro giusto di cui necessita un ambiente come questo". Le pizze confezionate partono a fine mattinata verso il Bon Bistrot, il ristorante che sorge all’interno del Civico 81. Un luogo, l’ex Seminario Lombardo dei Padri Saveriani oggi sede del consorzio Solco Cremona e di alcune cooperative, che negli anni è diventato un vero e proprio punto di riferimento per la città in cui sono concentrati servizi diversi, dagli studi di medicina generale ai servizi formativi. Tra questi, anche gli ambulatori e le comunità di neuropsichiatria infantile e psichiatria. Proprio loro, le persone che gravitano intorno a queste realtà, sono i veri protagonisti del Bon Bistrot. C’è Silvia, la lavapiatti, che nel ristorante ha scoperto un senso di famiglia che non si sarebbe aspettata. "Mi sono persino affezionata alla lavastoviglie" ironizza, sottolineando come ciò che rende il Bon Bistrot un posto speciale è la capacità dei professionisti che vi lavorano di includere tutti. Ognuno è così chiamato a svolgere al meglio il proprio ruolo sotto la supervisione degli operatori. E poi c’è la piccola Monica che come gli ortaggi dell’azienda agricola che si sono rigenerati anche dopo la grandine, è ripartita con alle spalle una storia difficile ma con una marcia in più, scoprendo una strada nuova per la propria vita. "Oggi il mio sogno è aprire un bar tutto mio" racconta, perché è il contatto con il pubblico, il rapporto con la gente che l’appassiona e la fa star bene. Nei piatti del Bon Bistrot c’è buona cucina, tradizione e passione per il territorio. Ma c’è soprattutto la passione di chi crede nelle seconde opportunità e chi di una seconda opportunità ha avuto bisogno. Persiste l’idea dello "scarto" che rigenera i territori e le comunità. Un pezzo di terra di periferia utilizzata in passato per la produzione di mais e biogas, l’ala di una caseggiato lasciato vuoto da una congregazione religiosa e acquistato per radicare nel centro della città servizi di welfare, migranti, detenuti o persone spesso incapaci di autonomia su cui vorrebbe investire. Persino gli animali della piccola fattoria, salvati da un destino di morte certa, oggi sono a loro volta strumenti con cui mettere in pratica azioni di orto terapia per i bambini. Sono gli scarti materiali e sociali che a Cremona hanno creato una filiera ecologica e solidale che diventa valore aggiunto per il territorio, occasione per la comunità e per le decine di persone fragili coinvolte. È lo scarto con cui si concima il terreno da cui nascono frutti più belli. Lucca: Effenberg suona per i detenuti del San Giorgio Il Tirreno, 3 luglio 2017 Il cantautore lucchese martedì mattina si esibirà nella prigione: "Non si perde la libertà di emozionarsi". A volte capita che musicisti e spettatori diventino una cosa sola. Non sempre questi due mondi riescono ad unirsi, ma quando questo avviene nascono energie ed emozioni intense. Chissà se una simile alchimia di umanità si verificherà anche martedì prossimo, quando il cantautore lucchese Stefano Pomponi, in arte Effenberg, varcherà le porte del carcere San Giorgio per esibirsi in concerto davanti ai detenuti. Un’idea singolare che Pomponi coltiva da tempo e che ora finalmente sta per realizzare. "Ogni tanto mi capita di trovarmi ad un concerto, anche in veste di semplice spettatore e di perdere la cognizione del tempo e dello spazio - racconta - Questo mi ha fatto riflettere su una categoria ben precisa di persone. Tutti lottiamo ogni giorno con il tempo e lo spazio che ci circondano, ma i detenuti lo fanno di più, la loro lotta è più dura. ù Magari se lo sono meritato, magari è giusto così, non lo so, per quello ci sono i giudici e i pm. È proprio da qui che è nata l’idea di andare a suonare in carcere e non si tratta solo di offrire un ora e mezzo di svago a dei prigionieri; anche noi vorremmo prendere da loro qualcosa, proprio come si fa ad ogni concerto con il pubblico, che siano le loro storie, le loro facce o le loro impressioni. Si tratta di condividere un esperienza con delle persone, di presentarci e conoscersi a vicenda attraverso un linguaggio che va dritto in pancia e che non può mentire. Si può perdere la libertà personale ma non quella di emozionarsi". Effenberg andrà al San Giorgio la mattina del 4 luglio. Assieme alla band presenterà il suo ultimo disco "Elefanti per cena" davanti alla popolazione carceraria. Il concerto si terrà nel teatro del carcere in un orario piuttosto insolito: le 10,30 del mattino. "Non mi era mai capitato di esibirmi a quest’ora ma capisco le esigenze della struttura e non sarà affatto un problema". Il disco del cantautore lucchese è uscito il maggio scorso e in questi giorni il gruppo si trova a Roma per un tour promozionale nelle radio della Capitale. Quella di Effenberg è una carriera in ascesa: Stefano Pomponi, nasce nel 1982 e ha saputo affacciarsi sul panorama della nuova scena indipendente italiana, costruendosi un’identità ben precisa. Stile e voce unici, evoca paragoni del calibro di Riccardo Sinigallia, Luca Carboni, Calcutta. Migranti. "Piena intesa" nel vertice tra Italia Francia e Germania, limiti e controlli su Ong La Repubblica, 3 luglio 2017 Incontro a Parigi tra Minniti, Collomb e De Maiziere, alla presenza del commissario Ue Avramopoulos. Accordo per potenziare il coordinamento della guardia costiera italiana. E si studia una formula per estendere controlli sulle coste libiche. "Piena intesa". C’è l’accordo dopo un vertice durato due ore e mezza fra Italia, Francia e Germania per affrontare con nuova forza l’emergenza migranti, in vista della riunione informale dei ministri degli interni dell’Ue giovedì 6 luglio a Tallinn, in Estonia. Tra i punti qualificanti la regolamentazione delle azioni e dei finanziamenti delle Ong e più fondi per consentire alla Libia il controllo delle coste, implementando una sorta di esternalizzazione delle frontiere europee nel Paese africano. E poi un rilancio del piano di ricollocamento, riscrivendone i termini per permettere di sbarcare i migranti in altri Paesi. L’intesa è stata raggiunta durante una cena di lavoro iniziata intorno alle a Parigi tra i ministri dell’Interno dei tre Stati (Marco Minniti, Gérard Collomb e Thomas de Maiziere) e il commissario europeo Dimitris Avramapoulos. L’incontro era stato convocato per discutere di "un approccio coordinato e concertato" alla crisi migratora nel Mediterraneo e "per vedere come poter meglio aiutare l’Italia", dopo la minaccia formulata nei giorni scorsi di chiudere i porti italiani agli sbarchi. Uno dei punti dell’intesa sarebbe la necessità di limitare la libertà di movimento delle navi delle Ong, vietandogli l’ingresso in acque libiche. Inoltre le navi delle Organizzazioni non governative potranno spegnere il trasponder di bordo per la localizzazione e fare segnali luminosi; e la ‘regià delle operazioni dovrebbe essere riportata in maniera più definita sotto l’ombrello della Guardia Costiera. Il protocollo sulle Ong potrebbe spingersi fino a bloccare l’accesso in porto a chi non è in regola. Temi delicati - a cui si aggiunge quello della trasparenza sui finanziamenti - dei quali si parlò già settimane fa quando uscirono i contenuti di un dossier Frontex e quando scoppiò un acceso dibattito attorno alle indagini del procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro: organizzazioni come Medici senza frontiere reagirono affermando che nella maggior parte dei casi è il sistema di coordinamento di Roma a dire dove andare. Quanto ai porti di destinazione, più complessa appare invece la possibilità di coinvolgere altri soggetti, come Malta, ipotesi a cui pure si era pensato. L’altro capitolo chiave è quello della distribuzione dei migranti. L’Italia chiede all’Europa impegni certi e alcune modifiche. Con le regole oggi in vigore accedono alla relocation solo i richiedenti asilo di nazionalità con un tasso medio di riconoscimento pari o superiore al 75%. Una soglia troppo alta, che l’Italia chiede di rivedere. E ancora: ruolo di coordinamento più forte in capo alla Guardia costiera italiana. Rilancio del piano dei ricollocamenti dei migranti giunti in Italia e Grecia. Esternalizzazione delle frontiere italiane (ed europee) in Libia, sulla scia dell’accordo con la Turchia e cioè più controlli al confine meridionale libico, vera porta d’accesso dei flussi. Migranti. "Francia e Spagna accolgano i profughi": la strategia del governo contro gli sbarchi di Francesco Grignetti La Stampa, 3 luglio 2017 È il vertice delle grandi speranze italiane, l’incontro di Parigi dei tre ministri dell’Interno, presente anche il commissario europeo Dimitri Avramopoulos, dove il nostro Marco Minniti è arrivato sapendo che il tempo dei minuetti diplomatici è agli sgoccioli. L’Italia non è mai stata così sotto pressione, eppure così sola. Sul tavolo del ministro dell’Interno si affastellano rapporti sempre più preoccupati dalla periferia. Le tensioni crescono. E non cessano gli sbarchi, anzi. Perciò, in vista di un vertice europeo cruciale, giovedì in Estonia, la strategia italiana è di muoversi in anticipo. L’ambizione è di dettare l’agenda. Sulle principali proposte Minniti ha avuto il placet dei colleghi tedesco e francese per arrivare uniti e più forti all’incontro di giovedì: credere alla scommessa di una Guardia costiera libica, essere più attivi nella fascia del sub-Sahel, dividere il peso dell’accoglienza con i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, regolamentare meglio l’azione dell’Ong. Molto concretamente, si tratta innanzitutto di rifinanziare quel Fondo fiduciario della Ue che serve a pagare le spese per l’addestramento dei cadetti della Guardia costiera di Tripoli e per l’acquisto di nuove motovedette. I primi 80 milioni - quasi terminati - erano italiani e tedeschi; i francesi hanno contribuito con appena 3 milioni di euro. Ecco, Minniti chiede più generosità alla Francia perché sia di esempio per tutti. Quella stessa Francia che ieri, per bocca del presidente Macron, in visita in Mali, ha annunciato un finanziamento di 8 milioni di euro a sostegno della nascente forza militare antiterrorismo di cinque Paesi dell’area (Mali, Ciad, Mauritania, Burkina Faso e Niger). Occorre parlare di queste missioni armate, perché la seconda delle proposte di Minniti è di orientare meglio i compiti dei militari: sia l’operazione francese "Barkhane" (3500 uomini sparpagliati nei 5 Paesi), sia quella inter-africana, potrebbero secondo l’Italia allargare i loro compiti. Dedicarsi non solo all’anti-terrorismo, ma anche all’anti-immigrazione. I tedeschi, presenti in Mali con 1000 soldati nell’ambito di una missione delle Nazioni Unite, sarebbero pure d’accordo. Non per nulla, qualche settimana fa Minniti e il collega tedesco Thomas de Maziére avevano firmato congiuntamente una lettera che chiedeva più sforzi europei per aiutare la polizia del Niger. Minniti lo ripete ormai ad ogni intervista: "Il Niger è diventato la frontiera meridionale dell’Europa". Ma c’è un ma. Lo stato maggiore francese teme che disperdere le energie su più obiettivi sia controproducente. Preferisce concentrarsi sugli jihadisti che sono sempre molto attivi tra la Libia meridionale, il Mali e il Ciad. Infine la questione dei porti. La più vicina a noi. Forse la più urgente, su cui i tre grandi concordano. Minniti non ha alcuna intenzione di chiedere soldi all’Europa, quanto gesti concreti. Si batte perché il salvataggio in mare e l’accoglienza che ne consegue siano "regionalizzate". Perciò si dovrebbe dichiarare "porto sicuro" lo scalo di Tunisi, in modo da riportare lì una quota di migranti recuperati in mare (ovviamente con il consenso del governo locale). Occorre che anche Malta faccia la sua parte. E infine che Francia e Spagna diano un segnale di collaborazione, permettendo lo sbarco nei propri porti ai migranti salvati da navi che battono la loro bandiera, siano mercantili o navi di Ong umanitarie. Minniti sa di chiedere uno strappo al regolamento di Amburgo sul salvataggio marittimo che prescrive di portare i naufraghi nel porto sicuro "più vicino" e anche al regolamento di Dublino su quale Paese deve esaminare le richieste di asilo politico. Ma appunto l’intreccio tra queste due convenzioni internazionali sta strangolando l’Italia e il nostro governo teme di non farcela più. Di qui, la mossa dei giorni scorsi quando fu ventilata la "chiusura" dei porti alle navi straniere. Se passasse la "regionalizzazione", l’Italia avrebbe una tregua in questa serie incessante di arrivi. Ovviamente sarebbe più facile anche la "ricollocazione" su base europea di chi ha diritto all’asilo, considerando che Francia e Spagna farebbero così la loro parte e la Germania ha già garantito il suo contributo. Facebook non è un tribunale. Ecco perché la legge tedesca è sbagliata di Guido Scorza La Repubblica, 3 luglio 2017 Ieri la Germania ha approvato una norma che dà 24 ore di tempo ai social network per rimuovere qualsiasi contenuto "manifestamente illecito", e sette giorni per quelli che lo sono ma non in maniera manifesta. Altrimenti sanzioni da 50 mila a 50 milioni di euro. Ma questo è un concetto che si evolve, e pure molto velocemente. Ventiquattro ore per rimuovere qualsiasi contenuto "manifestamente illecito", sette giorni per per rimuovere i contenuti la cui illiceità non è manifesta. E in caso di inadempimento sanzioni da 50 mila a 50 milioni di euro. È questa la ricetta tedesca, diventata legge ieri, per costringere i social network e, più in generale, i gestori delle piattaforme che consentono la pubblicazione di contenuti prodotti dagli utenti a contribuire più attivamente rispetto a quanto accaduto sin qui nella lotta ai contenuti illeciti online. Ma che significa "manifestamente illecito" quando si tratta di idee, opinioni, immagini o video pubblicate dall’utente di un social network? Certo, in talune ipotesi limite, rispondere può essere facile o, almeno, meno difficile ma nella più parte dei casi è un esercizio straordinariamente difficile per il più dotto e raffinato dei giuristi, figurarsi per un moderatore in batteria di quelli schierati dai gestori delle grandi piattaforme online nel tentativo di limitare la circolazione di taluni contenuti online. Il confine tra l’esercizio della libertà di parola nella più grande piazza pubblica della storia dell’umanità e l’abuso di tale libertà è labile, sottile, sfuggente, magmatico e in continuo divenire a un ritmo direttamente proporzionale a quello con il quale si trasformano la cultura, lo stile di vita, il modo di parlare o la il limite di tolleranza nei rapporti all’interno di qualsivoglia comunità da quella famigliare a quella globale. Immagini e parole che oggi affollano la nostra prima serata televisiva, solo una manciata di anni fa sarebbero state ritenute illecite, offensive, ingiuriose o diffamanti persino se mostrate o pronunciate in un circolo ristretto e protetto da solide mura. I tempi si evolvono e i costumi cambiano e, peraltro, tutto questo non avviene contemporaneamente in ogni angolo del mondo e neppure di un singolo Paese. Il rischio di considerare lecito ciò che meriterebbe di essere ritenuto illecito e quello ancora più elevato di ritenere illecito ciò che meriterebbe di essere considerato lecito è sempre in agguato e quando si stabilisce - come ha appena fatto il Parlamento tedesco - che a valutare se un contenuto meriti di restare online o, al contrario di essere rimosso debba essere una società privata anziché un tribunale il rischio inesorabilmente aumenta sino a diventare democraticamente insostenibile. Facebook e con Facebook ogni altro gestore di piattaforme online non sono tribunali, nei loro dipartimenti che si occupano di moderazione non siedono giudici che rispondono solo alla legge ma dipendenti e dirigenti che, in ultima analisi, rispondono agli azionisti e al mercato. E le regole del mercato non sempre - anzi quasi mai - sono democratiche o, comunque, lo sono decisamente meno delle leggi di uno Stato che, ormai, salvo - per fortuna - poche eccezioni si ispirano a Carte costituzionali e convenzioni internazionali nelle quali è scolpito a chiare lettere un principio secondo il quale la libertà di parola di ogni uomo e di ogni cittadino è un diritto fondamentale. Ma non basta. La legge tedesca, infatti, non solo confonde una corporation con un tribunale e le regole del mercato con quelle della Costituzione ma introduce una perversa e pericolosa variabile nel giudizio affidato ai gestori delle grandi piattaforme online: multe multimilionarie se considerano lecito un contenuto che avrebbe dovuto essere ritenuto illecito e omettono di rimuoverlo in una manciata di ore ma nessuna conseguenza, di nessun tipo se, al contrario, considerano illecito e rimuovono un contenuto che viene poi accertato essere lecito e, dunque, mettono un cerotto sulla bocca ad un uomo che aveva semplicemente scelto Internet per manifestare liberamente la propria opinione. Ve lo immaginate un arbitro di una partita di pallone che rischiasse di perdere metà dello stipendio se non fischiasse un rigore che poi la moviola accertasse dover essere fischiato mentre non rischiasse alcunché laddove fischi un rigore che poi la moviola accertasse inesistente? Secondo voi quell’arbitro sarebbe sereno nel suo giudizio e indifferente nella scelta tra fischiare un calcio di rigore in ogni caso dubbio? Quella tedesca è una legge sbagliata, è una legge muscolare con la quale, con straordinaria miopia politica e giuridica, si immolano principi e diritti fondamentali di uomini e cittadini - oggi utenti del web - sull’altare di una guerra santa che non ha ragione di essere e che, peraltro, con questi strumenti non si può vincere. Esistono oggi - e naturalmente non sarà sfuggito al Parlamento tedesco - software che consentono con straordinaria semplicità e in maniera completamente automatizzata di ripubblicare online un contenuto ogni ora, minuto o secondo con l’ovvia conseguenza che se anche Facebook e soci adempissero, a tempo di record, ai nuovi obblighi loro imposti dal Parlamento tedesco, la quantità di contenuti illeciti presente online potrebbe non diminuire neppure di un bit. Svuotare Internet dai contenuti illeciti senza compromettere, in maniera importante, la libertà di manifestazione del pensiero è velleitario tanto quanto pensare di svuotare il mare con un secchiello. Non c’è esercito di moderatori e non c’è sanzione multimilionaria rivolta ai gestori di questa o quella piattaforma capace di ribaltare tale conclusione. Online come offline i contenuti illeciti si accompagnano a quelli leciti, la buona informazione a quella cattiva, i reati di opinione alla libertà di parola. Non esistono scorciatoie o filtri magici per fermare il male lasciando correre il bene. Si può - e, anzi, si deve - rendere sempre più efficiente e veloce - nel rispetto del diritto alla difesa - la giustizia dei Giudici e, in taluni limitati casi, quella delle autorità indipendenti ma guai a derogarvi specie quando in gioco c’è la libertà di parola. Germania. "Meglio la galera che la multa". Ma allo Stato costa di più la multa persa di Roberto Giardina Italia Oggi, 3 luglio 2017 Che fa? Concilia? Grazie no, preferisco la galera. Sempre più tedeschi scelgono di trascorrere qualche giorno in cella, piuttosto che saldare una pena pecuniaria, anche per pochi euro. E questo non piace alle autorità. Un giorno in prigione costa allo stato molto di più della multa da riscuotere. In Germania, il giudice emette per reati minori una condanna "a tanti giorni, oppure a una somma equivalente al guadagno giornaliero dell’imputato". Si arriva a risultati che possono sembrare paradossali: si va in galera per un semplice divieto di sosta, e per una guida senza patente alcuni se la cavano con un paio di centinaia di euro, e altri (più ricchi) devono pagare l’equivalente di un’auto di media cilindrata perché la multa è correlata al reddito di chi l’ha presa. Quando l’ho raccontato, un mio amico, laureato in legge come me, non ha resistito alla tentazione di reagire all’azzeccagarbugli, all’italiana. È anticostituzionale, ha sentenziato, la pena deve essere uguale per tutti. Io direi l’intensità della pena, che varia da individuo a individuo. Per qualcuno cento euro sono una sciocchezza, per un altro un sacrificio. Balotelli va in giro, o andava, con 5 mila euro in contanti, per saldare all’istante le contravvenzioni. Per lui, cosa da niente. Per questo continuava, o continua, a parcheggiare dove gli pare. Il record è detenuto da Marco Reus, 28 anni, campione del Dortmund e della nazionale tedesca. Gli avevano ritirato la patente, si è messo ugualmente al volante della sua Porsche, beccato, è stato condannato a un mese di galera, o a un mese di stipendio. Ha preferito pagare, per l’esattezza 520 mila euro, piuttosto che lasciare il posto in squadra e andare fuori forma dietro le sbarre. Ma di solito avviene il contrario, leggo sulla Welt. Il camionista Gerhard H. aveva parcheggiato contromano, per giunta in uno spazio privato, il cortile di un palazzo, multa 15 euro. Ha reclamato, è finito davanti al giudice, multa confermata. "Non pagherò mai", è rimasto testardo. Quando si è presentato in carcere, aveva 12 euro in tasca, una guardia era pronta a regalargli i tre euro mancanti. Gerhard ha preferito trascorrere la notte su un pagliericcio. Costo per lo stato in media 129 euro, inoltre le prigioni sono già strapiene. Anche Gina-Lisa Lohfink, diva della tv, è stata condannata a ventimila euro per aver accusato ingiustamente due giovanotti di averla violentata. È un’ingiustizia, ha commentato, non pagherò mai. Ma non è finita, perché è difficile accertare a quanti giorni di suo (incerto) lavoro corrisponda la pena. Una studentessa ha lanciato una torta in faccia a Beatrix von Storch, leader dell’AfD, il movimento populista. È stata condannata a 150 euro o a 15 giorni di carcere. Dieci euro ogni 24 ore, e un costo per lo stato complessivo di almeno 1.800 euro. La ragazza ha preferito passare due settimane al fresco. In media ogni giorno a Berlino si trovano in galera almeno 150 cittadini che non hanno pagato il biglietto sul metrò o sul bus. Alla terza volta diventa un reato, e molti preferiscono andare in cella. Vanno in galera anche quanti si rifiutano di pagare il canone tv, che è dovuto anche da chi non ha un apparecchio. Basta abitare in un appartamento, da proprietario o inquilino, per essere tenuti a pagare l’abbonamento. Nel 2016, sono stati 4.487 i tedeschi che hanno preferito il carcere alla pena pecuniaria, su 63 mila detenuti, rappresentano il 7,1%. Ma il criminologo Heinz Cornel ritiene che la cifra sia troppo bassa: in realtà dal 30 al 40% dei carcerati potrebbero scontare la condanna mettendo mano al portafoglio. Egitto. Condannate a morte 20 persone tpi.it, 3 luglio 2017 Domenica 2 luglio, un tribunale egiziano ha confermato la pena di morte per 20 uomini accusati di aver ucciso alcuni poliziotti nelle violenze di piazza seguite al colpo di stato militare del 2013. Altri detenuti si sono invece visti commutare la pena in parecchi anni di reclusione. A riferirlo è stata l’agenzia di stampa Reuters. Il caso coinvolge 156 persone e riguarda quello che nel paese nord africano è conosciuto come l’incidente di Kerdasa in riferimento alla cittadina nella provincia di Giza, a 15 chilometri a ovest del Cairo, dove ebbero luogo le violenze. Il 14 agosto del 2013, alcuni uomini armati attaccarono con granate e razzi la stazione di polizia del piccolo villaggio e tagliarono la gola ad almeno un poliziotto prima di radere al suolo l’edificio. Ore dopo l’intervento delle forze di sicurezza egiziane disperse la folla, uccidendo centinaia di persone. La corte ha anche condannato 80 imputati all’ergastolo e altre 34 a 15 anni di carcere. Un minore è stato condannato a 10 anni di carcere e 21 persone sono state invece assolte. Un altro tribunale aveva inizialmente condannato a morte ben 183 persone, tra cui 28 in contumacia e aveva comminato una pena di 10 anni di reclusione a un minore per aver ucciso 11 poliziotti. Gli imputati potranno fare ricorso contro questo verdetto di condanna a morte. Messico. È battaglia tra polizia e narcotraffico: almeno 21 morti di Guido Olimpio Corriere della Sera, 3 luglio 2017 Ma secondo la voce del popolo le vittime sarebbero una trentina. Lo scontro dopo un tentativo di sequestro dei criminali scoperta dalle forze dell’ordine. Narco-guerra a Villa Union, cittadina a mezz’ora d’auto dal porto messicano di Mazatlan, costa del Pacifico. Una battaglia con tante versioni, sospetti e dubbi. Anche sul numero dei morti: 21, per le fonti ufficiose, almeno 30 a sentire la voce del popolo. Le vittime sarebbero - secondo le autorità - dei criminali, caduti sotto il fuoco di agenti e soldati. Al solito, tutto da rivedere al rallentatore e con prudenza. Tentato sequestro - È la sera del 30, in una via della località di Sinaloa arriva un veicolo, a bordo un alcuni uomini armati. La loro missione è rapire un avversario, ma l’operazione va storta. Si spara: uno dei target e un amico restano uccisi. L’episodio non passa inosservato, scatta l’allarme e nella zona interviene una pattuglia della polizia locale che si trova nel quartiere. I poliziotti inseguono il veicolo ad alta velocità e dopo poco finiscono - sempre secondo la ricostruzione - in un’imboscata tesa da un commando, schierato su alcuni pick up. In soccorso degli agenti arrivano rinforzi, compreso un reparto di marines, sempre in prima linea nella lotta ai cartelli. Quello che segue è uno scontro furioso con armi automatiche. Fucili d’assalto, Kalashnikov, Ar 15, pistole: non manca nulla. I banditi hanno una buona dotazione, alcuni indossano corpetti anti-proiettile, equipaggiamento tattico. Ma, a giudicare dal bilancio, non hanno scampo. Li fanno fuori. Le foto diffuse mostrano mucchi di corpi nel cassone di un camioncino, altri cadaveri ai posti di guida o riversi sui sedili. Hanno ferite orrende. Qualche reporter si chiede se davvero sia andata così o se, invece, non si sia trattato di una trappola tesa dai soldati ai gangster. Ipotesi che fanno parlare la gente del posto. Storie che inseguono episodi analoghi avvenuti nelle ultime ore in diversi punti del Messico: una dozzina di ammazzati ad Acapulco, altrettanti a Ciudad Juarez. Solo per citare alcuni casi. La faida - Il settore di Villa Union, riferiscono i coraggiosi reporter locali - spesso bersagli viventi loro stessi - è teatro della faida che oppone un clan vicino ai figli de El Chapo agli avversari legati ai Beltran Leyva. A complicare le cose i passaggi di campo di alcuni protagonisti. Una volta alleati poi separatisi a causa di omicidi e rivalità. È il caso di Concepción Velarde Martínez "El Chonecas": prima era con quelli di Sinaloa, poi ha tradito alleandosi con i Leyva, quindi in febbraio è tornato con i Chapitos insieme ad un altro piccolo boss, detto El Mandril. Nulla di strano nella tumultuosa realtà dei cartelli, in perenne frazionamento. India. Prosegue la campagna di persecuzioni contro i Dongria Kondh di Anna Maria De Luca La Repubblica, 3 luglio 2017 Morto in carcere Bari Pidikaka, uno dei leader del gruppo che vive nello Stato di Odisha, divenuto famoso per aver vinto, qualche anno fa, una impossibile battaglia contro un colosso minerario britannico. È morto in carcere dopo molestie e intimidazioni da parte della polizia, Bari Pidikaka, uno dei leader della tribù indiana dei Dongria Kondh, divenuta famosa per aver vinto, qualche anno fa, una impossibile battaglia contro un colosso minerario britannico. Si tratta di un popolo indigeno dello stato indiano di Odisha, che conta circa 8000 persone, da sempre in condizioni di isolamento rispetto al resto del continente indiano. Sono devoti alla montagna di Niyam Dongar, dove abita il loro dio e si sono auto assegnati il ruolo di protettori dei torrenti e dei fiumi nelle foreste. "È chiaro - ha commentato Stephen Corry, direttore generale di Survival - che è in corso una campagna persecutoria per intimidire se non eliminare i Dongria Kondh, comunque per indebolire la loro resistenza contro lo sfruttamento della loro terra". L’ultima vittima. Bari Pidikaka era stato arrestato nel 2015 mentre tornava a casa dopo una manifestazione di protesta. La sua morte è l’ultimo atto di una battaglia di sopravvivenza, portata avanti dal popolo Dongria per tutelare i propri luoghi e, con essi, la propria identità. Non è l’unica vittima della persecuzione. Denuncia Survival: "Kuni Sikaka, un’attivista Dongria di 20 anni, parente dei due più importanti leader Dongria, è stata trascinata fuori dalla sua casa a mezzanotte, dalla polizia, senza alcun mandato. Poi è stata presentata ai funzionari e ai media locali come una "maoista arresa" nonostante non vi fossero prove a sostegno di ciò". E che dire dell’attivista Dasuru Kadraka, detenuto senza processo per più di 12 mesi: "Sono stato arrestato e portato nell’ufficio del sovrintendente della polizia. Lì sono stato torturato, mi hanno legato le mani e con dei cavi elettrici attaccati alle orecchie mi hanno dato delle scosse per costringermi alla resa - e per farmi lasciare il movimento. Mi sono rifiutato… Il movimento è la mia vita, non smetterò mai di proteggere le colline di Niyamgiri e le foreste". I precedenti. Per capire cosa sta succedendo bisogna fare un passo indietro nel tempo. Nel 2008, la Corte Suprema indiana autorizza l’apertura della miniera nelle terre dei Dongria. Scatta la resistenza della piccola tribù per impedire gli scavi nel loro sito più sacro. Nel 2013, scende in campo al loro fianco anche Rahul Gandhi, figlio di Sonia Gandhi e vice-presidente del partito del Congresso Nazionale indiano. A quel punto la Corte Suprema dell’India ordina un referendum tra i dodici villaggi Dongria che circondano il sito della miniera: all’unanimità e nonostante le intimidazioni e le molestie, la tribù respinge il progetto della miniera. Le consultazioni, passate alla storia come "il primo referendum sull’ambiente" mai avvenuto nel Paese, non restano senza conseguenze: la cifra in gioco è enorme. Si tratta, secondo Survival di "un progetto di 800 milioni di dollari. Numerosi azionisti tra cui la Chiesa d’Inghilterra, vendono per questioni etiche, le proprie quote; anche il governo britannico decide di bocciare il progetto dopo un reclamo all’Ocse presentato da Survival". Ed il popolo Dongria diventa nell’immaginario collettivo, il vero popolo Avatar. Il post vittoria. Dopo la vittoria contro il colosso minerario, scattano pestaggi e torture con cavi elettrici per costringere i Dongria a fermare la campagna per i propri diritti. Survival denuncia intimidazioni, arresti arbitrari e rapimenti sistematici nei confronti dei leader Dongria da parte della polizia di Stato che "agirebbe per promuovere gli interessi della compagnia mineraria britannica". E fa quadrato: "I Dongria - commenta Corry - sono assolutamente determinati a proteggere le colline che sono il fondamento della propria identità. Noi continueremo a lottare perché sia loro consentito di determinarsi autonomamente senza aggressioni". L’appello al Presidente dell’India. Più di cento organizzazioni indiane indipendenti hanno scritto una lettera aperta al Presidente dell’India: "Negli ultimi due - tre anni, diversi giovani e anziani Dongria sono stati arrestati, hanno subìto abusi e sono stati uccisi, e uno di loro si è suicidato dopo aver subìto molestie e torture da parte delle forze di sicurezza. In nessuno di questi casi i funzionari sono stati in grado di fornire prove che li collegassero ai cosiddetti Maoisti".