Lavoro ai detenuti: ci rende tutti più sicuri Il Mattino di Padova, 31 luglio 2017 A Padova in carcere, nella Casa di Reclusione, circa 160 detenuti lavorano nelle cooperative sociali: 130 per Giotto e WorkCrossing (la pasticceria dei famosi panettoni, il call center e altre lavorazioni), 28 per AltraCittà (legatoria, digitalizzazione, assemblaggio per Fischer Italia …). Circa 100 lavorano per l’Amministrazione Penitenziaria. L’istituto oggi è abitato da oltre 600 persone detenute. Questi numeri la dicono lunga su come anche in una realtà come Padova, ritenuta avanzata in Italia, il lavoro non sia affatto garantito, il lavoro che è uno degli elementi principali, secondo l’Ordinamento Penitenziario, della rieducazione prevista dall’art. 27 della Costituzione Italiana. Il lavoro è rieducazione, è dignità, è possibilità di sostenere le famiglie, spesso anch’esse vittime dei reati compiuti dalle persone detenute. Nel 2000 fu varata la legge "Smuraglia", che ha permesso, grazie a sgravi fiscali e contributivi, lo sviluppo delle attività lavorative in carcere da parte di cooperative sociali (soprattutto) e di aziende profit. Portare lavoro in carcere non è facile, vista la complessità della struttura e dei problemi di sicurezza. Oggi, e da oltre un anno, il lavoro di quasi vent’anni di tutte le cooperative attive in carcere in Italia e la loro stessa sopravvivenza vengono messi in discussione, soprattutto a causa del mancato adeguamento del finanziamento della legge Smuraglia. Una rappresentanza significativa di cooperative e aziende attive nelle carceri italiane si incontrerà a Roma al Ministero della Giustizio il 1° di agosto per capire quali soluzioni urgenti il governo voglia mettere in atto. Siamo di fronte a un momento storico: tornare indietro di 40 anni o salvaguardare ed implementare ciò che di positivo si è costruito in questi ultimi 20 anni. Rossella Favero, cooperativa AltraCittà Dalle cooperative arriva un allarme, e un invito a riflettere su cosa ha significato e significa il lavoro in carcere. Il lavoro ai detenuti. Un argomento da affrontare ma rischioso, un argomento da usare per muovere le pance, un argomento per prendere voti o far perdere voti. Un argomento quasi sempre trattato da chi non conosce direttamente il carcere, o forse ha fatto solo qualche ora in visita. Sempre nel corso della storia ci si è ben guardati dall’affrontarlo se non in maniera punitiva. Questi assassini, questi delinquenti mettiamoli in carcere ai lavori forzati, buttiamo via la chiave, che paghino. C’è un piccolo problema: che a pagare, in termini economici e di sicurezza sociale, non sono i delinquenti, siamo noi cittadini "per bene", è la nostra società. Questo non è solo il risultato delle carceri italiane, ma lo è anche di quelle europee e di tutto il mondo. È provato ormai storicamente che i lavori forzati o quelli sottopagati (senza alcuna formazione e professionalizzazione secondo le regole del mercato del lavoro vero) sono solo un costo e un rafforzamento della recidiva (ormai in tutto il mondo tra il 70 ed il 90% sono le percentuali dei detenuti che tornano a commettere reati). La vera alternativa è tra far scontare la pena facendo in modo che a pagare siano veramente i detenuti (che un domani rientreranno nella società come una risorsa e non come un peso), o continuare a far pagare ai cittadini 4 MILIARDI di euro all’anno per produrre un’ insicurezza sociale sempre maggiore. Una spirale irrimediabilmente negativa. Allora perché in un momento così difficile per la nostra società ed in particolare per il lavoro dei nostri figli, creare opportunità di lavoro per dei delinquenti, per degli assassini? Perché ci conviene! Ci conviene non solo (a me basterebbe) perché un vero senso di umanità è ciò che caratterizza un vero popolo civile, ma perché ogni punto percentuale di recidiva guadagnato ci farebbe risparmiare 40 MILIONI di euro all’anno (50 punti percentuali corrisponderebbero a 2 MILIARDI di euro risparmiati all’anno). Soldi che potrebbero essere destinati ai terremotati, agli esodati, ai disoccupati, al sociale, alle scuole, agli anziani, alla sanità. Sembra che a questo bene comune ci sia ancora qualcuno che ci crede (vedi interrogazione parlamentare allegata) e con coraggio intende affrontarlo. Ma ricordiamoci che il contributo più importante per un cambiamento culturale, perché di questo si tratta, arriva da ogni singolo cittadino, ne va del futuro della nostra società, dei nostri figli. Nicola Boscoletto, presidente Officina Giotto Interrogazione sul finanziamento della legge "Smuraglia" Interrogazione a risposta scritta presentata alla Camera dei deputati da Alessandro Zan (al Senato da Antonio De Poli). Al Ministro della Giustizia. Per sapere - premesso che: • nel 2017 il decurtamento lineare dell’attribuzione di fondi della "legge Smuraglia" è stato del 48,92 per cento e il rischio sempre più concreto è portare al fallimento tantissime cooperative e aziende che in questi vent’anni hanno creato opportunità di inserimento lavorativo per detenuti, ma anche opportunità lavorative per molte persone (tra cui molti giovani laureati) con professionalità specifiche, altrimenti destinati alla disoccupazione; • a una precedente interrogazione dell’11 aprile 2017 veniva risposto dal Ministro interrogato: "Ho già dato indicazioni per proporre, nelle prossime manovre di bilancio, l’incremento delle risorse destinate a rifinanziare la legge Smuraglia, al fine di poter soddisfare integralmente le richieste di sgravi fiscali e contributivi per le imprese che assumono detenuti lavoranti."; • giova ricordare che già nel 2013 la Corte dei conti(afferma): "La possibilità di usufruire di sgravi fiscali e agevolazioni contributive per l’assunzione di soggetti svantaggiati, ha permesso nel corso degli anni il fiorire di numerose attività..." e ancora "Si può quindi affermare con certezza che la legge Smuraglia sia stata l’unica forma di attivazione del lavoro carcerario che non fosse semplice assistenzialismo e pietismo. Ha introdotto un modo di lavorare nel carcere utile, non solo per i detenuti ma anche per il reinserimento sociale e anche utile per le imprese. Il lavoro in carcere non è più mettere insieme due bulloni, ma è fabbricare biciclette, confezionare panettoni straordinari, cioè fare dei progetti realizzabili, concreti, possibili, non si tratta più di intrattenere i detenuti per il tempo necessario a tenerli lontani dalla cella, ma abituarli a un lavoro utile, ad un lavoro per il futuro, ad un lavoro che sia già nella società": quali iniziative il Ministro intenda adottare e in che tempi per scongiurare il rischio di fallimento di queste cooperative. (altri firmatari alla Camera Santerini, Bonomo, Crimì, Iori, Narduolo, Rossi, Dallai, Malisani, Amato, Romanini, Blazina, Lenzi, Piazzoni, Nardi, Bossio, Moretto, Rampi, Arlotti, Menorello, Gasparini, Folino, Patriarca, Fabbri, Carloni, Capozzolo, Coppola, Crivellari, Carra, Mognato, Maestri, Bossa, La Marca, Casellato, Vignali, Realacci, Gigli, Rubinato, Centemero, Taricco. La testimonianza di Stefano Il mio nome è Stefano Carnoli, ex detenuto della Casa di Reclusione di Padova e uno dei tanti esempi di come il lavoro possa condurre una persona dal "dentro" al "fuori" ottemperando alla nostra Costituzione. Il mio percorso nasce all’interno dell’Istituto con la collaborazione con la cooperativa AltraCittà che mi ha dato gli strumenti base per iniziare il mio reinserimento con un corso per bibliotecari all’inizio del 2010. Al termine del corso l’Amministrazione Penitenziaria, su stimolo della cooperativa, mi ha assegnato il posto di bibliotecario. Poiché la biblioteca è gestita dalla cooperativa, io in quegli anni ho completato la mia formazione nel settore. La collaborazione è continuata nel tempo e mi ha spinto a migliorare continuamente le mie competenze, e con l’interessamento della cooperativa si è tramutata in opportunità lavorativa all’esterno. Da quel momento, come persona detenuta ammessa al lavoro all’esterno nella parte finale della pena, sono diventato dipendente della cooperativa Altracittà. Insieme a loro ho avuto, e ho, la possibilità di lavorare presso l’Archivio Generale del Comune di Padova e presso le biblioteche di diversi licei della città come il Cornaro, lo Scalcerle e il Modigliani. Oggi ho espiato completamente la mia pena e ho una vita normale intrecciata appieno con la realtà cittadina, ma senza il continuo appoggio delle persone che mi sono state vicine non sarebbe stato possibile tutto questo. La mia storia è esemplare sull’impegno fondamentale delle cooperative operanti all’interno del carcere con il lavoro e la formazione, con le possibilità che le leggi vigenti offrono, su come un percorso ben costruito e strutturato, con il tempo e la buona volontà delle parti in causa, possa restituire alla collettività persone che possono ancora essere risorse importanti per il bene comune. Carceri, stessi livelli di emergenza del 2010 di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2017 Abbiamo presentato il 27 luglio alla Camera del Deputati le nostre ultime rilevazioni sulle carceri italiane, una sorta di Rapporto di metà anno che fa il punto della situazione attuale. La condizione delle nostre carceri continua a confermarsi preoccupante. Nell’ultimo anno il numero dei detenuti è cresciuto di quasi 3.000 unità. Siamo a 56.817 persone recluse. Il tasso di affollamento è superiore al 113%. Se continuiamo di questo passo, alla fine di questo decennio saremo di nuovo in quella stessa situazione che all’inizio del 2010 fece dichiarare al governo lo stato di emergenza penitenziario e tre anni dopo condusse alla condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il 34,6% dei detenuti è costituito da presunti innocenti. Dopo la condanna europea, l’utilizzo della custodia cautelare era calato per via degli interventi normativi con i quali l’Italia aveva reagito alla sentenza. Adesso sta ricominciando a crescere. Inutile dire come la detenzione di una persona che risulta poi innocente sia qualcosa di drammatico. Ma, oltre a questo, la custodia cautelare ingiusta è anche ben costosa. Dal 1992 a oggi, sono stati 25.000 i casi di ingiusta detenzione, per un costo complessivo di 630 milioni di euro di soldi pubblici. Sono quasi 20.000 le persone che stanno in carcere per violazione della legge sulle droghe. Se finalmente ragionassimo su una seria depenalizzazione in questo campo - che non sarebbe il solo da doversi affrontare, visto che abbiamo ancora un codice penale risalente all’epoca fascista - potremmo liberare tante energie nella nostra macchina della giustizia da dedicare a cose che le meritano maggiormente. Alla fine dello scorso marzo, i processi penali pendenti erano 1.547.630. Di questi, 358.432 hanno superato la ragionevole durata, per come essa viene quantificata dalla cosiddetta "legge Pinto" che impone risarcimenti monetari nel caso, appunto, di procedimenti penali dalla durata irragionevole. Allungare indefinitamente i tempi di prescrizione non deve essere la soluzione. La prescrizione è una giusta tutela per il cittadino, che deve sapere di non poter essere sottoposto all’infinito a quella bomba a mano che un processo penale costituisce nella vita di una persona. La giustizia penale deve essere rapida. E, per poter esserlo, deve occuparsi solamente di quelle fratture al patto sociale che vanno realmente a offendere beni costituzionalmente tutelati. La nostra normativa sulle tossicodipendenze va ben oltre questo, contribuendo a togliere risorse al contrasto alla criminalità organizzata e ai crimini dei potenti. Le nostre galere ospitano a oggi circa 15.000 persone che hanno una pena residua da scontare inferiore ai tre anni. Tutte loro potrebbero accedere a una misura alternativa alla detenzione. Sappiamo bene quanto le misure alternative siano vincenti, tanto in termini di riduzione dei costi quanto in termini di riduzione della recidiva. Convengono a tutti noi. Ma gli ostacoli normativi e i timori della magistratura di fronte ai sensazionalismi del dibattito pubblico impediscono troppo spesso di accedervi. Questo è solo uno dei motivi per cui bisogna oggi ripensare drasticamente la nostra normativa penitenziaria. Per la prima volta dall’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario nel 1975, infatti, il governo ha oggi la possibilità di riformare in maniera radicale la legge che governa la vita nelle carceri italiane e l’intero modello di esecuzione delle pene. Nello scorso giugno il Parlamento ha votato in via definitiva una legge che, tra le altre cose, delega il governo a riscrivere la legge penitenziaria secondo una serie di criteri direttivi. La delega è sufficientemente ampia da poter essere interpretata in maniera non minimale: non piccoli aggiustamenti alla legge esistente, bensì una riscrittura generale capace di ripensare un’idea di esecuzione penale che era stata immaginata per un altro carcere, per un’altra società, per un altro mondo. Basti pensare che a metà degli anni Settanta nelle nostre carceri gli stranieri erano quasi inesistenti. Il ministro Orlando ha annunciato l’istituzione di tre commissioni ministeriali che lavoreranno a scrivere i decreti delegati con i contenuti della nuova legge. Di materiale cui attingere ce ne è già molto. Ci sono i lavori degli Stati Generali dell’esecuzione penale, ci sono le norme internazionali e sovranazionali, prime tra tutte le Regole penitenziarie europee e le Mandela Rules delle Nazioni unite. Antigone ha presentato le proprie proposte, ampiamente articolate in venti punti. Speriamo che le commissioni possano utilizzare anche quelle. È importante che non si perda tempo. Ma è altrettanto importante che la riforma sia radicale e ridisegni un nuovo volto della pena. Non è affatto impossibile tenere insieme entrambi gli obiettivi. Dal 3 agosto con la riforma penale la condotta riparatoria estingue i reati di Guido Camera e Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2017 Non solo stalking. A scatenare il dibattito sull’estinzione del reato per condotte riparatorie è stata la possibilità di applicare questo meccanismo anche al delitto di atti persecutori (peraltro solo a certe condizioni). Ma la chance di chiudere i conti con la giustizia riparando il danno, che scatta da giovedì prossimo, 3 agosto, anche per i processi già iniziati, riguarda numerosi altri delitti: tutti quelli procedibili a querela revocabile. E altri (più gravi) si potrebbero aggiungere se il Governo amplierà l’ambito dei reati procebili a querela, esercitando la delega affidata dal Parlamento e che scade tra un anno. Il beneficio dell’estinzione del reato per condotte riparatorie è previsto dalla riforma penale, vale a dire la legge 103/2017, in vigore dal 3 agosto. Si tratta di un nuovo strumento di deflazione penale, introdotto per alleggerire la pressione sulle aule giudiziarie, che si aggiunge agli altri già varati negli ultimi anni. La nuova causa di estinzione riguarda tutti i reati procedibili a querela soggetta a remissione, senza distinzione in relazione al tetto di pena o al bene giuridico protetto. Così, rientrano tra l’altro nel novero dei reati "riparabili" alcuni delitti contro la persona (tra cui le percosse, la violazione di domicilio e l’accesso abusivo a un sistema informatico o telematico), contro l’assistenza familiare e contro il patrimonio (il furto ma anche la truffa, nella versione senza aggravanti). Anche il reato di stalking si può estinguere ma solo se la persona offesa non è minorenne o disabile, se il reato non è contestato in connessione a un altro delitto procedibile d’ufficio e se il fatto non è commesso con condotte reiterate e uso di armi, o da più persone, o da persona travisata o con scritto anonimo; in tutti questi casi, infatti, contro lo stalking si procede d’ufficio o a querela, che però, una volta presentata, diventa irrevocabile. Questo per ora: il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si è impegnato a rendere non riparabile il reato di stalking prevedendo sempre l’irrevocabilità della querela. Per ottenere l’estinzione del reato l’imputato, entro l’apertura del dibattimento di primo grado, deve riparare interamente il danno, con le restituzioni e il risarcimento; se possibile, devono essere eliminate anche le conseguenze dannose o pericolose del reato. Il giudice può riconoscere che il danno è stato risarcito anche in seguito a offerta reale, purché congrua. Se lo è, il reato viene dichiarato estinto, a prescindere dalla volontà della persona offesa. Quando l’imputato dimostra di non aver potuto pagare per fatto a lui non addebitabile può chiedere al giudice un termine non superiore a sei mesi per provvedere anche in forma rateale. La prescrizione viene sospesa. Il beneficio si applica anche ai processi in corso: l’imputato deve chiederlo alla prima udienza successiva al 3 agosto e il giudice gli concede un termine non superiore a 60 giorni per adempiere. Il termine può essere prorogato per sei mesi se l’imputato non è in grado di pagare in un’unica soluzione per fatto a lui non addebitabile. La delega al Governo - Il numero dei reati estinguibili a seguito di condotte riparatorie potrebbe aumentare ancora se e quando il Governo attuerà la delega (ha tempo fino al 3 agosto 2018) che prevede l’estensione del regime di procedibilità a querela di parte per (quasi) tutti i reati contro il patrimonio previsti dal Codice penale e per i reati contro la persona per cui è fissata una pena detentiva fino a quattro anni (esclusa la violenza privata); dovrà comunque essere conservata la procedibilità d’ufficio se la persona offesa è incapace per età o per infermità, se ricorrono circostanze aggravanti che determinano un aumento della pena di oltre un terzo o se il delitto è commesso con armi, scritto anonimo, da più persone o da una persona travisata o, nei reati contro il patrimonio, se il danno arrecato è rilevante. Pur con questi "paletti", sarebbero numerosi i nuovi delitti estinguibili per condotte riparatorie: dalle lesioni stradali anche gravissime (ma non se il conducente guida sotto effetto di alcol o droghe) all’omissione di soccorso, dalla perquisizione e ispezione personali arbitrarie commesse dal pubblico ufficiale alla diffusione abusiva di password e altri codici per accedere a sistemi informatici, dai furti in abitazione o con strappo alle rapine, fino al riciclaggio e all’auto-riciclaggio. Anche se per questi ultimi la modifica non sembra però semplice da attuare. Infatti, reati come riciclaggio, auto-riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita sono formalmente contro il patrimonio, ma in realtà tutelano interessi diffusi legati al corretto funzionamento del sistema economico danneggiato dalla circolazione di capitali sporchi. Appare riduttivo subordinare la punibilità alla querela; senza contare che ci possono essere difficoltà non da poco a individuare il soggetto legittimato a proporla. Le altre misure deflattive - I nuovi strumenti introdotti dalla riforma penale si inseriscono nel filone della deflazione penale, su cui il Governo è tornato più volte negli ultimi anni. Intanto, con la messa alla prova (prevista dalla legge 67/2014): gli imputati per reati puniti al massimo con quattro anni di reclusione possono chiedere la sospensione del processo e la messa alla prova che, in modo analogo alle condotte riparatorie introdotto dalla riforma penale, comporta l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato e, se possibile, il risarcimento del danno, oltre all’affidamento al servizio sociale. Inoltre, con un doppio intervento di depenalizzazione (decreti legislativi 7 e 8 del 2016) sono state eliminati 41 reati: tra i più frequenti, l’omesso versamento di ritenute previdenziali fino a 10mila euro, l’ingiuria e la guida senza patente (escluse in quest’ultimo caso le recidive nel biennio). Infine, il decreto legislativo 28/2005 ha dato ai giudici la possibilità di escludere la punibilità per i reati per cui è prevista la pena al massimo di cinque anni di reclusione se valutano che il danno provocato è di "particolare tenuità". L’impatto di questo mix di interventi sulle aule di giustizia, finora, si può leggere nella riduzione dei procedimenti in corso nei vari gradi di giudizio, passati da 1,65 milioni a fine 2015 a 1,55 milioni al 31 marzo scorso. Continua a crescere, invece, il numero dei detenuti, arrivati a 56.919 al 30 giugno scorso: duemila in più di sei mesi fa e 6.500 in più rispetto alla capienza regolamentare degli istituti di pena. Del resto, le misure si sono finora concentrate sui reati meno gravi, che non riempiono le carceri. Nei prossimi mesi si potrà misurare l’effetto della nuova estinzione per condotte riparatorie. Reati procedibili a querela nulli, se si ripara ai danni di Claudia Morelli Italia Oggi, 31 luglio 2017 Causa di estinzione applicata ai processi già avviati. Dal 3 agosto prossimo gli imputati per reati procedibili a querela potranno vedersi estinto il reato se saranno capaci di dimostrare il ravvedimento tramite condotte riparatorie, tra cui anche il pagamento di somme a titolo del risarcimento del danno. E potranno farlo anche se la condotta sia adottata dopo l’apertura del dibattimento di primo grado. Chi compirà furti in appartamento, invece, sconterà una pena più alta; e potrà assistere al dibattimento ma "a distanza" se è imputato per reati di associazione mafiosa, terrorismo e droga. Coloro che hanno presentato ricorso in Cassazione contro sentenze penali rischieranno caro: in caso di pronuncia di inammissibilità e anche rigetto (se il giudice lo ritenga) saranno multati con sanzioni salate (fino a 6 mila euro). Ulteriore deterrente a non presentare ricorso, insieme al divieto, dal 3 agosto, di agire personalmente, senza l’assistenza di un avvocato cassazionista. Entra in vigore il 3 agosto la riforma penale, cosiddetta "Orlando", contenuta nella legge 103/2017 (Gazzetta Ufficiale n. 154 del 4 luglio). Una gestazione parlamentare lunghissima e molto discussa, due voti di fiducia, lo scontento degli avvocati penalisti e dei magistrati (meno accentuato), esclusi forse quelli impegnati in Cassazione che potrà avvalersi di una serie di misure di de compressione sulla mole di ricorsi. Ora il dado è tratto; i codici penale e di procedura penale sono già aggiornati anche se l’impatto della riforma potrà misurarsi solo dopo le ferie giudiziarie. Ecco le norme principali che hanno un’applicazione immediata, ricordando che il provvedimento contiene anche una serie di deleghe molto importanti (p.e. intercettazioni e ordinamento penitenziario). Condotte riparatorie. Diventa una causa di estinzione del reato nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione. Il giudice deve dichiarare estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato abbia riparato interamente il danno cagionato dal reato mediante le restituzioni o il risarcimento e abbia eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato. La riparazione deve realizzarsi nel termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado (a regime). La norma transitoria infatti prevede che la nuova causa di estinzione del reato trovi applicazione anche con riguardo ai processi in corso alla data di entrata in vigore della legge in esame; in tal caso il reato è dichiarato estinto anche se le condotte riparatorie sono avvenute dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Spetta all’imputato, alla prima udienza utile, chiedere la fissazione di un termine non superiore a 60 giorni per provvedere. La norma ha creato molto allarme e polemiche per la sua applicabilità astratta al reato di stalking, laddove si preveda che anche l’offerta reale di una somma ritenuta congrua dal giudice a titolo di risarcimento del danno possa estinguere il reato. Circostanza esclusa, almeno se considerata automatica, dalla presidente della commissione giustizia della camera Donatella Ferranti e comunque dall’intenzione dichiarata del guardasigilli Andrea Orlando di approvare una norma interpretativa che escluda questo eventuale esito. Prescrizione. La riforma del delicato istituto riguarda i fatti di reato commessi dopo l’entrata in vigore della legge, dunque dopo il 3 agosto. Così sarà lunghissima per i reati commessi a danno di minori (maltrattamenti, violenza e turismo sessuale), perché inizierà a decorrere dal compimento del 18° anno di età della vittima e in ogni caso al momento della acquisizione della notizia di reato se non era stata già esercitata l’azione penale. Il tempo atto a prescrivere si allunga poi in generale per la "contestata" nuova causa di sospensione: un anno e mezzo dopo ciascuna sentenza di condanna di I e II grado. Indagini preliminari. Per i procedimenti relativi a notizie di reato iscritte dal 3 agosto in poi, le indagini preliminari saranno caratterizzate da due novità. La prima riguarda le vittime dei reati, che potranno chiedere informazioni sullo stato delle indagini; la seconda riguarda il pm che ha solo tre mesi di tempo dalla fine delle indagini (salvo alcuni casi) per decidere se archiviare o esercitare l’azione penale. Pena l’avocazione della indagine in capo al procura generale. Impugnazioni "a carato". Innanzitutto strada sbarrata per i ricorsi personali in Corte di cassazione: il cittadino dovrà necessariamente farsi assistere da un avvocato cassazionista. In secondo luogo l’atto di impugnazione in appello dovrà essere corredato dall’indicazione delle prove e delle richieste istruttorie, pena la loro inammissibilità. È reintrodotto il concordato sui motivi in appello, un procedimento che mira a chiudere il processo consentendo alle parti di concludere un accordo sull’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi d’appello, da sottoporre al giudice d’appello, che deciderà in merito in camera di consiglio. In Cassazione, una decisione di inammissibilità costerà carissima alla parte ricorrente che potrà vedersi condannare a una sanzione tra 258 e 2.065 euro, che potrà essere aumentata fino al triplo dal giudice in ragione della causa di inammissibilità. Il giudice poi potrà comminare queste sanzioni anche in caso di rigetto. Dibattimento a distanza. In linea generale entrerà in vigore tra un anno. Invece riguarderà sin dal 3 agosto gli imputati nei procedimenti per associazione mafiosa, droga, terrorismo. Sul banco di prova il restyling dei tempi della prescrizione di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2017 Gli interventi sul Codice penale e sul Codice di procedura penale contenuti nella legge 103/2017 che entra in vigore giovedì prossimo 3 agosto sono suddivisi tra misure immediatamente operative e temi sui quali il governo è chiamato a intervenire con futuri decreti legislativi. Tra le novità della riforma penale con le quali gli operatori dovranno da subito misurarsi, quella di cui si è più discusso è la riforma della prescrizione, che viene modificata con tre diversi interventi. Il primo, che riguarda tutti i reati, è la sospensione della prescrizione in caso di condanna. Si tratta di una norma di diritto sostanziale, che non ha effetto retroattivo. La novella comporta il "congelamento" della prescrizione per un periodo massimo di 1 anno e 6 mesi tra il termine che il giudice si riserva per il deposito della sentenza di condanna in primo grado e il dispositivo della sentenza di appello. Identico periodo di sospensione decorre tra il termine per il deposito della sentenza di condanna in appello e il dispositivo della sentenza di Cassazione, arrivando così a un tetto massimo complessivo di 3 anni. Il periodo di sospensione della prescrizione non si conta in caso di esito favorevole del grado di giudizio successivo. La prescrizione si allunga in modo specifico per corruzione (in tutte le sue forme), induzione indebita e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Il prolungamento opera in presenza di più atti interruttivi - tra i quali esordisce l’interrogatorio reso alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero - consentendo un aumento fino alla metà (prima era di un quarto) del tempo necessario a prescrivere. Si espande anche la prescrizione dei maltrattamenti in famiglia e dei reati sessuali su minori. Se l’azione penale è stata già esercitata quando la vittima è minore, il termine scatta dalla data di acquisizione della notitia criminis: altrimenti decorre dal giorno in cui la vittima diventa maggiorenne. Tra le novità da subito efficaci c’è poi l’estinzione dei reati procedibili a querela di parte per condotta riparatoria, anche in presenza di offerta reale non accettata dalla persona offesa. Subito in vigore anche gli aumenti di pena per rapine, estorsioni, furti in abitazione o con strappo e scambio elettorale politico-mafioso. Una novità molto criticata - per i limiti al diritto di difesa - è l’aumento dei casi di partecipazione a distanza al procedimento degli imputati e dei testimoni detenuti, rimessi alla discrezionalità del giudice. Muta il ruolo del procuratore generale nelle indagini preliminari: deve controllarne il rispetto dei termini di durata da parte del pubblico ministero, disponendo l’avocazione in caso di sua inerzia alla loro conclusione. Nella stessa fase si ampliano i diritti della persona offesa. Il nuovo rito abbreviato comporta la rinuncia a eccepire incompetenza per territorio, inutilizzabilità non patologiche e nullità non assolute. Cambiano le impugnazioni: torna il concordato in appello; ci vuole più specificità nei motivi di impugnazione; diventano inammissibili i ricorsi per Cassazione firmati personalmente dall’imputato; diminuiscono le formalità per dichiarare inammissibili i ricorsi per Cassazione; aumentano le sanzioni pecuniarie per i ricorsi per Cassazione inammissibili. Accanto alle novità immediatamente operative, ce ne sono altre che lo saranno una volta attuate le deleghe. La principale - che dovrà essere attuata a breve (3 mesi) - riguarda le modifiche alla disciplina delle intercettazioni: è una delega molto ampia, il cui obiettivo è aumentare il rispetto dell’esigenza di riservatezza degli indagati senza sacrificare la tutela del diritto all’informazione. Più specifica è invece la delega sull’utilizzo del "captatore-spia", volta a evitare abusi di un mezzo di ricerca della prova molto invasivo. Maggiore respiro (un anno) invece per l’attuazione delle deleghe riguardanti la riforma dell’ordinamento penitenziario e delle misure di sicurezza, ulteriori misure di semplificazione delle impugnazioni e la revisione della disciplina del casellario giudiziale, che dovrà tutelare i dati personali nel contempo agevolando l’accesso delle pubbliche amministrazioni ai dati giudiziari quando è necessario per l’esercizio della funzione pubblica. Quell’accanimento contro Contrada di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 31 luglio 2017 Bruno Contrada ha 86 anni, ha scontato dieci anni di carcere per una condanna che poi la Cassazione ha cancellato, per un reato che non esisteva nemmeno al tempo in cui, sostenevano i magistrati malgrado il parere di una corte europea, sarebbe stato commesso. Ne hanno risentito il corpo, e lo spirito. Per dettato costituzionale un cittadino è innocente fino a sentenza definitiva. Una sentenza definitiva ha stabilito che Contrada è innocente, e che dunque ha patito spaventose sofferenze ingiustamente. Una Nazione si dovrebbe un po’ vergognare per il trattamento a un uomo dello Stato accusato ingiustamente di aver tramato con l’anti-Stato mafioso. Invece no, sembra che per Contrada lo Stato italiano abbia decretato un suo crudele, persecutorio, feroce, umiliante trattamento da infliggere all’infinito. Dopo essere stato scagionato dalla Cassazione, Contrada, malato, 86 anni di cui 10 passati in un carcere in cui non doveva nemmeno entrare, ha subito l’irruzione in casa delle forze dell’ordine per una vicenda oramai lontana di anni e anni. Alle quattro di notte, come esige la sceneggiatura del terrore messa a punto dagli scherani della polizia segreta al tempo delle purghe staliniane e oggi replicata in forme farsesche. Che bisogno c’era delle quattro di notte per una storia vecchia? Nessuno, solo il bisogno di intimidire un uomo già provato, di mettere sotto torchio la sua famiglia, di dare l’impressione che c’è sempre qualcuno che vuole metterti nel mirino. Poi ha subito un’altra visita in casa, stavolta alle otto del mattino. La storia non deve finire mai, sempre in tensione, sempre in allarme. Come se lo Stato sentisse un bisogno vendicativo, la voglia di rivalersi su una sentenza che ha stabilito l’innocenza di Contrada, reduce da anni di carcere senza aver commesso un reato. In pochi parlano di questa vicenda che ha preso Contrada come bersaglio. Contrada non gode di buona stampa, e i media stanno in maggioranza dalla parte dei suoi persecutori. Pochi si stupiscono di questa sceneggiata delle quattro di notte. Bruno Contrada è solo, come lo era quando stava ingiustamente in prigione. Però un po’ di vergogna per un trattamento indegno di un Paese civile non guasterebbe. Ma nessuno si vergognerà. Nessun appello, nessuna mobilitazione. Solo il silenzio pauroso delle quattro di notte. Lo Stato e la trattativa con i terroristi. Perché per Cirillo sì e per Moro no? di Marco Demarco Corriere della Sera, 31 luglio 2017 Una domanda che resta ancora senza risposta. L’intervento decisivo del capo della camorra Raffaele Cutolo, il giallo di una verità scritta nelle pagine affidate a un notaio. Perché per Aldo Moro no e per Ciro Cirillo sì? Perché per il leader nazionale lo Stato e la Dc esclusero una trattativa con le Br in nome della fermezza istituzionale, e per l’allora assessore regionale campano, morto oggi all’età di 96 anni, invece la accettarono per ragioni umanitarie? Una volta oggetto solo di ricostruzioni giornalistiche e inserita anche nelle sceneggiature di un paio di film, quella trattativa è ora riportata come un dato di fatto in molti libri di storia. Come tutti sanno, si fece ricorso alla mediazione di "don Raffaele", lo stesso della canzone di De André, il Cutolo capo potentissimo della camorra, che al tempo era però già rinchiuso in un carcere di massima sicurezza. Perché due pesi e due misure? Il nocciolo del caso Cirillo, rapito sotto casa a Torre del Greco il 27 aprile del 1981 e rilasciato alla periferia di Napoli 89 giorni dopo, è tutto qui. Un caso che è parte integrante dell’identità nazionale. Un’identità fatta anche di conflitti laceranti, misteri, rapporti promiscui, debolezze. "È stato un dirigente autorevole della Democrazia Cristiana. Ha subito la violenza delle Brigate Rosse e l’ha sopportata con compostezza ed riservatezza. È una persona che merita rispetto e riconoscenza". Oggi è così che, vicino al sentimento dei figli e dei nipoti, l’ex ministro Paolo Cirino a Pomicino parla di Cirillo. Il tono della dichiarazione basta però a dare l’idea di quanta tensione si accumulò intorno a quel rapimento. L’anno prima c’era stato l’attentato alla stazione di Bologna, che aveva fatto ottantacinque vittime, e l’anno dopo ripresero gli agguati delle Br. Terrorismo nero e terrorismo rosso facevano a gara a impedire la stabilizzazione del sistema politico. In più, si era appena scatenata anche la natura: il terremoto dell’Irpinia, che aveva in ginocchio lo Stato, tanto che il presidente Pertini dovette tuonare contro i ritardi nei soccorsi. Le Br saltarono sulle macerie e usarono Cirillo per impancarsi a difensori del disagio sociale. "No alle deportazioni!". Era questo il grido di battaglia contro una ricostruzione che minacciava di espellere dal centro storico di Napoli i ceti marginali. Ma se tutto si concretizzò poi nel riscatto pagato per la liberazione di Cirillo, nel miliardo e 450 milioni che Giovanni Senzani, il capo della colonna napoletana delle Br, intascò su un autobus della capitale, è anche vero che la ricostruzione non fu più quella che era stata immaginata. La Dc alla Regione e il Pci a Napoli si divisero la gestione dell’operazione. Si andò per le spicce, si adottarono procedure commissariali. E in nome del compromesso tutto si tenne tranne il progetto urbanistico, la qualità degli interventi. Forse è ancora lì, in quegli anni, la ragione del deragliamento successivo di Napoli. Ne era certa, ad esempio, Fabrizia Ramondino che nei suoi romanzi cominciò a parlare di decadenza e corruzione morale. Alla domanda cruciale, quella sulla differenza con il Caso Moro, fu lo stesso Cirillo, molti anni dopo il rapimento, in un’intervista rilasciata a Giuseppe D’Avanzo, a cercare di dare una risposta. Disse: "La Dc non poteva tollerare altro sangue, non avrebbe sopportato un altro esponente di prima fila morto ammazzato dai terroristi...".Tutto qui. Cirillo disse anche che la sua verità l’aveva scritta in una quarantina di pagine consegnate a un notaio. Poi però smentì tutto. E i suoi figli oggi confermano la smentita. "Quel documento non c’è", assicurano. E aggiungono: "C’è piuttosto la storia di un uomo che, dopo il rapimento, ha rinunciato a ciò che più amava, più della stessa politica: l’amministrazione pubblica". Sinistri stradali, il soccorso va prestato a prescindere dalla colpa nel verificarsi dell’incidente di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2017 Tribunale di Bari - Sezione I penale - Sentenza 28 marzo 2017 n. 1379. In tema di circolazione stradale, colui che ha cagionato un sinistro ha l’obbligo di fermarsi e di prestare assistenza alle persone eventualmente ferite, a prescindere dal fatto che la sua condotta configuri o meno un’ipotesi delittuosa, in quanto l’obbligo di prestare soccorso grava su tutti gli utenti della strada la cui condotta è comunque ricollegabile all’incidente. Questo è quanto affermato dal Tribunale di Bari con la sentenza 1379/2017. In caso di inottemperanza, dunque, scatta la responsabilità in concorso materiale per i reati di fuga e mancata assistenza previsti dall’articolo 189 commi 6 e 7 del Codice della strada. I fatti - La vicenda trae origine da un incidente stradale avvenuto di sera in un comune pugliese. In particolare, era accaduto che un uomo alla guida della sua vettura aveva tamponato un’altra automobile a un incrocio, non rispettando le regole sulla precedenza. Dopo l’impatto, il guidatore, anziché fermarsi e verificare le condizioni del conducente dell’altro veicolo e dei suoi passeggeri, i quali avevano riportato lievi lesioni, inseriva la retromarcia e si dava alla fuga. Sul luogo dell’incidente, però, rimaneva la targa dell’automobile in fuga che rendeva agevole l’identificazione del guidatore, il quale veniva tratto a giudizio per rispondere dei reati previsti dall’articolo 189 commi 6 e 7 del Codice della Strada, ovvero inottemperanza all’obbligo di fermarsi e inottemperanza all’obbligo di prestare assistenza alle persone ferite. La decisione - Una volta provata la dinamica del sinistro e il coinvolgimento dell’imputato, il Tribunale non può far altro che condannare il guidatore per i reati a lui contestati e spiega il meccanismo di operatività dei due diversi reati previsti dal Codice della Strada. Ebbene, sostiene il giudice, ai fini del riconoscimento della responsabilità penale dell’imputato, non rileva la riconducibilità del sinistro alla condotta colposa del guidatore. L’obbligo di prestare soccorso, infatti, grava su tutti gli utenti della strada la cui condotta è a qualsiasi modo ricollegabile all’incidente. Quanto al reato di fuga, invece, esso ha una diversa oggettività giuridica, essendo finalizzato a garantire l’identificazione dei soggetti coinvolti nell’investimento e la ricostruzione delle modalità del sinistro. Di conseguenza, è ravvisabile, come nella fattispecie, un concorso materiale tra le due ipotesi criminose. Classificazione rifiuti alla Corte Ue di Paola Ficco Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2017 Corte di Cassazione, Terza sezione penale, ordinanza n° 37460 del 27 luglio 2017. Con ordinanza depositata ieri, numero 37460, la Corte di cassazione, sezione III penale, ha rinviato ai giudici europei di Lussemburgo la soluzione della problematica relativa alle modalità di classificazione dei rifiuti. In particolare di quelli individuati dal relativo elenco europeo come "voci specchio o speculari" perché a volte pericolosi e a volte no, in ragione della presenza in essi di sostanze pericolose. Ma come trovare la presenza di tali sostanze e soprattutto di quali, di tutte o solo di alcune? Alla soluzione sono anche legate le sorti di numerose aziende che hanno subito misure cautelari, e la cui revoca è stata impugnata dalla procura della Repubblica di Roma dinanzi alla Cassazione. La diatriba è risalente e, nel tempo, ha visto fronteggiarsi due scuole di pensiero: la prima (più velleitaria e ancorata alla legge 116/2015, ritenuta ancora vigente nonostante le nuove norme Ue) sostiene che un rifiuto è non pericoloso solo se si ha la conoscenza certa della sua composizione. Altrimenti opera la presunzione assoluta di pericolosità. Per la seconda (più realista e ancorata alle nuove norme Ue), invece, occorre considerare la ricerca di tutte le sostanze pericolose considerate ubiquitarie e di tutte le eventuali sostanze specifiche, pertinenti con il processo di produzione del rifiuto. La Cassazione accogliendo buona parte delle conclusioni del procuratore generale, il quale però aveva posto le questioni con un maggior grado di dettaglio, ha rimesso gli atti a Lussemburgo. Infatti, la Corte ha avuto un ragionevole dubbio sull’ambito di operatività del Regolamento Ue 1357/2014 e della decisione 2014/955/Ue, applicabili in tutti gli Stati membri dal I giugno 2015 (e richiamati dall’articolo 9, Dl Sud in corso di conversione). Per il momento, dunque, è tutto sospeso, in attesa che i giudici si pronuncino su quattro quesiti: se la decisione 2014/955/Ue e il regolamento Ue 1357/2014 vadano o meno interpretati, per la classificazione dei rifiuti con voci speculari, nel senso che il loro produttore, quando non ne è nota la composizione, debba procedere alla previa caratterizzazione e in quali eventuali limiti; se la ricerca delle sostanze pericolose debba essere fatta in base a metodiche uniformi predeterminate; se la ricerca delle sostanze pericolose debba basarsi su una verifica accurata e rappresentativa che tenga conto della composizione del rifiuto, se già nota o individuata in fase di caratterizzazione, o se invece la ricerca delle sostanze pericolose si possa effettuare secondo criteri probabilistici considerando quelle che potrebbero essere ragionevolmente presenti nel rifiuto; se, nel dubbio o nell’impossibilità di provvedere con certezza all’individuazione della presenza o meno delle sostanze pericolose nel rifiuto, questo debba o meno essere comunque classificato e trattato come rifiuto pericoloso in applicazione del principio di precauzione. Regge per l’avvocato Ue la riforma penale in materia di soglie e pagamenti tardivi dell’Iva di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2017 Corte Ue, conclusioni dell’Avvocato generale nella causa C-574/15. La riforma dei reati tributari passa un primo test in sede europea. Per l’avvocato generale della Corte Ue, infatti, la disciplina in materia di Iva non evidenzia profili di contrasto con la disciplina comunitaria. In particolare, regge l’istituzione di una soglia pecuniaria più elevata per l’imposta sul valore aggiunto rispetto a quella stabilita per la ritenuta. E poi, l’obbligo comunitario di stabilire sanzioni effettive, dissuasive e proporzionate per assicurare una corretta riscossione Iva, non è di ostacolo a una normativa nazionale, come quella italiana, che, pur prevedendo un sistema di sanzioni amministrative, esenta le persone fisiche responsabili per l’assolvimento di obblighi tributari: • da responsabilità penale e amministrativa per l’omesso versamento dell’Iva correttamente dichiarata entro il termine stabilito dalla legge in relazione agli importi pari a tre o cinque volte la soglia minima di 50.000 euro stabilita dalla Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari; • da responsabilità penale se l’ente per il quale esse operano ha pagato tardivamente l’Iva dovuta, oltre agli interessi e gli importi delle sanzioni amministrative irrogate, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento in primo grado. Danno reputazionale via web, l’azienda deve fare ricorso nel Paese in cui ha il centro d’interessi di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2017 Corte europea per i diritti dell’uomo, conclusioni dell’Avvocato generale nella causa C-194/16. Sul danno da reputazione via web è competente il giudice dello Stato membro in cui la società ha il centro dei suoi interessi. Lo sostiene l’Avvocato generale Bobek nelle conclusioni di ieri nella causa C-194/16. Il web - osserva Bobek - ha cambiato le presunzioni giuridiche in materia di individuazione del giudice competente a risolvere una controversia nello spazio Ue. Di conseguenza, tenendo conto dei danni alla reputazione che un’azienda può avere via internet, talvolta anche di portata maggiore rispetto a quelli che colpiscono le persone fisiche, non ci sono più validi motivi per applicare le regole di competenza giurisdizionale fissate dal regolamento n. 1215/2012 sulla competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, in modo diverso a seconda che sia colpita dalla diffamazione una persona fisica o giuridica. A rivolgersi ai giudici di Lussemburgo è stata la Corte suprema estone chiamata a stabilire se, in una controversia tra una società estone e un’associazione professionale svedese che aveva inserito l’azienda, nel proprio sito, in una lista nera accompagnata da un forum con commenti offensivi, i giudici estoni potessero essere competenti. L’azione principale aveva al centro il risarcimento dei danni richiesto dall’azienda estone per la diffamazione subita. Prima di tutto, l’Avvocato generale respinge il principio di una diversità di trattamento a seconda dei casi in cui la diffamazione sia subita da un individuo o da un’azienda. "Internet - osserva Bobek - ha cambiato completamente le regole del gioco, in meglio o in peggio, democratizzando la pubblicazione", con le stesse persone fisiche che possono diffondere facilmente informazioni. Questa situazione porta a un cambiamento delle regole sulla diffamazione perché va accantonato il principio secondo cui "l’attore è presumibilmente un soggetto debole, mentre il convenuto è un editore professionale". Pertanto, l’azienda, titolare del diritto fondamentale alla reputazione, deve poter agire in giudizio secondo gli stessi parametri fissati per le persone fisiche nella sentenza eDate e, di conseguenza, scegliere il giudice dello Stato membro in cui l’evento dannoso e avvenuto o può avvenire (articolo 7 sulle competenze speciali), che coincide o con il luogo in cui si è concretizzato il danno o il luogo dell’evento generatore del danno. Ciò vuol dire che, nei casi di diffamazione via web, il luogo in cui è avvenuto il danno è, almeno come presunzione generale, quello in cui la reputazione della persona è stata maggiormente lesa e, quindi, dove l’azienda ha il proprio centro degli interessi. Per evitare, poi, l’approccio "a mosaico" e la moltiplicazione dei giudici competenti, l’azienda potrebbe agire per l’intero danno subito dinanzi ai giudici dello Stato membro in cui si trova il centro dei suoi interessi ossia il luogo in cui esercita le principali attività professionali se le informazioni lesive possono pregiudicare la situazione professionale dell’azienda. Ancona: tunisino di 33 anni si toglie la vita in carcere di Filippo Alfieri vivereancona.it, 31 luglio 2017 Stava scontando la sua condanna presso il carcere di Montacuto il Tunisino G.A., quando ha deciso di farla finita. L’uomo ha usato il la bombola di gas per il fornello da campo che i detenuti hanno nelle loro celle per poter cucinare. G.A. ha aspettato che il suo compagno di celle si allontanasse, e steso sul letto ha iniziato ad inalare il gas dalla bombola aperta. Quando il compagno di cella è ritornato si è accorto che il compagno non era cosciente, capendo l’accaduto allertava le autorità del carcere e quindi venivano contattati i soccorsi. Giungeva sul posto l’automedica della Croce Gialla, i dottori cercavano di rianimare con la RCP il paziente, ma per il tunisino era ormai troppo tardi. Ancona: detenuto suicida col gas, un altro muore in ospedale di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 31 luglio 2017 Due morti in un giorno. Un suicidio e un malato grave. È il bollettino della giornata del carcere di Montacuto ad Ancona. Il primo stamattina quando ha smesso di battere il cuore di un italiano di 45 anni ricoverato all’ospedale regionale di Torrette dopo che giorni fa si erano aggravate le sue condizioni di salute. L’uomo doveva scontare una pena per reati connessi allo spaccio di sostanze stupefacenti e sarebbe uscito nel 2018. Nel pomeriggio un altro decesso dopo il suicidio da parte di un tunisino di 33anni, morto dopo aver inalato il gas per l’accensione del fuoco dei fornelli presenti nelle celle. Sul posto sono arrivati i volontari della Croce Gialla di Ancona e il medico che hanno tentato il tutto per tutto ma dopo 40 minuti di massaggio cardiaco il medico non ha potuto far altro che decretarne il decesso. Due casi che i sindacati collegano ad una popolazione detenuta tornata ormai a livello di sovraffollamento. Infatti negli ultimi mesi Montacuto ha visto aumentare la popolazione detenuta da circa 130 unità a circa 250. Quasi tutti problematici: psichiatrici, tossicodipendenti e malati. La posizione del Sappe. A lanciare l’allarme rosso è il Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) che, attraverso una nota, parla di un grido di allarme lanciato da tempo sulle allarmanti condizioni della casa circondariale di Ancona Montacuto e mai ascoltato". Proprio il Sappe infatti aveva già denunciato la grave carenza di organico dove, a fronte di una pianta organica che prevede la presenza di 156 unità di polizia penitenziaria, ve ne sono 114. "Situazione aggravata dalla riapertura di tutti i padiglioni detentivi che ha portato all’arrivo di molti detenuti di difficile gestione, molti dei quali con problemi sanitari e con ulteriore aggravio di lavoro per il personale di Polizia, costretto a turni e servizi massacranti di piantonamento e visite ospedaliere. A sostegno delle proteste del segretari regionale del Sappe delle Marche Nicandro Silvestri è intervenuto il segretario generale Donato Capece denunciando la drammatica situazione delle carceri marchigiane e italiane e chiedendo l’intervento del Ministro di Giustizia". Cosa servirebbe? "Più assunzioni di agenti di polizia penitenziaria per potenziare i livelli di sicurezza delle carceri". Vicenza: sos dal penitenziario, la nuova ala resta semi-vuota di Valentino Gonzato Giornale di Vicenza, 31 luglio 2017 L’inaugurazione della struttura risale al luglio dell’anno scorso. A un anno dal taglio del nastro vengono utilizzati solo due piani su cinque perché mancano le guardie. Angiulli (Uil-Pa): "Guasti anche alle fogne e alle celle". È passato un anno dall’inaugurazione in pompa magna e, in tutto questo tempo, non è ancora entrato in funzione a pieno regime. Anzi, per essere precisi, nemmeno la metà delle celle è stata riempita perché mancano le guardie per garantire la sicurezza. Agenti che, trecentosessantacinque giorni dopo il taglio del nastro, sono addirittura diminuiti. E così, soltanto due piani su cinque del nuovo padiglione del carcere Del Papa a San Pio X, costato 9 milioni e mezzo di euro, vengono utilizzati. Come se non bastasse, la Uil-Pa, uno dei sindacati della polizia penitenziaria, lamenta problemi alle fognature, ai cancelli automatici e all’impianto televisivo. I numeri. L’apertura della nuova ala del carcere, alla presenza del ministro della giustizia Andrea Orlando, risale al 26 luglio del 2016. Quel giorno l’amministrazione penitenziaria aveva annunciato che sarebbero stati trasferiti nella nuova struttura, in grado di ospitare 200 persone, soltanto alcuni detenuti della parte vecchia del penitenziario e che non erano previsti nuovi ospiti, perché il numero di poliziotti presenti non lo permetteva. A quel tempo, c’erano in servizio 160 guardie; ora sono cinque in meno "perché qualcuno è andato in pensione oppure è stato trasferito", afferma il segretario regionale della Uil-Pa Leo Angiulli. Nel frattempo, sempre secondo il sindacalista, l’amministrazione penitenziaria ha trasferito al Del Papa detenuti provenienti da altre carceri. I proclami di un anno fa paiono dunque fare a pugni con la realtà. La carenza di organico. Il problema, quindi, è che la carenza di organico sta bloccando l’utilizzo della struttura. Già in passato Angiulli aveva fatto presente che "servirebbero 70 nuovi agenti per aprire anche gli ultimi 3 piani", ma che il ministero "non ha previsto alcun aumento di organico e nemmeno stabilito quando entrerà in funzione il nuovo padiglione". E aveva fatto notare ancor prima dell’inaugurazione dell’edificio "che le cose sarebbero peggiorate". In tutti questi mesi da Roma sono giunti soltanto timidi segnali. "Dovrebbe arrivare la commissione di verifica degli istituti penitenziari nominata dal capo del dipartimento di Giustizia, ma ancora non si sa quando sarà fatta la visita per valutare la tipologia di detenuti che può essere ospitata", sottolinea il segretario regionale della Uil-Pa. I problemi. Per Angiulli, però, i problemi della nuova ala del carcere vicentino non si fermano qui. "Ci sono altre mille problematiche: le fogne si intasano sempre perché, a quanto pare, c’è un problema di pendenze; i cancelli automatici non sempre si aprono dalla sala di controllo e una volta una chiave è rimasta incastrata in una cella per un mese e mezzo; e poi ci sono problemi anche gli impianti televisivi, che non vanno", spiega Angiulli. Infine, la protesta della scorsa settimana, quando due detenuti tunisini hanno dato fuoco alla loro cella e i reclusi di altre due sezioni del carcere vecchio hanno cominciato a battere oggetti di metallo contro le sbarre perché non gradiscono il cibo, secondo il sindacalista si spiega con la composizione troppo eterogenea della popolazione che vive nella casa circondariale. "L’80 per cento dei detenuti è di origine extracomunitaria e ci sono difficoltà di convivenza causati da etnie, religioni e nazionalità differenti", conclude il segretario regionale della Uil-Pa. Civitavecchia (Rm): due detenuti albanesi evadono dal carcere di Federica Angeli e Clemente Pistilli La Repubblica, 31 luglio 2017 Si tratta di detenuti albanesi che hanno prima scavalcato le recinzioni e poi si sono arrampicati sul muro; sono in corso le ricerche. Due detenuti sono evasi nel primo pomeriggio di oggi, alle 14 circa, dalla casa circondariale di Civitavecchia, "nuovo complesso". Si tratterebbe di due albanesi. I due detenuti, fa sapere Angelo Urso, segretario della Uil-Pa penitenziaria, sarebbero scappati dai cortili di passeggio, dopo essersi calati con delle lenzuola annodate, da dove avrebbero scavalcato le recinzioni e poi si sarebbero arrampicati sul muro di cinta scappando nelle campagne che costeggiano la via Aurelia. Il sistema anti scavalcamento ha fatto scattare immediatamente l’allarme e quindi subito è intervenuto in personale, facendo partire le ricerche degli evasi. Al momento si sta battendo il territorio circostante anche con l’ausilio di un elicottero. "Il caso di duplice evasione che si è registrato a Civitavecchia è l’ennesimo segnale che il sistema carcerario fa acqua da tutte le parti e che è urgente un’inversione di marcia", ha dichiara il segretario generale Urso. "La Uil-Pa - sottolinea il sindacalista - chiede da tempo di proclamare lo stato di emergenza delle carceri, per avviare una seria riflessione e cercare soluzioni reali ai problemi del settore, a cominciare dalla carenza di personale e risorse. Non si può pensare solo alla rieducazione e al trattamento dei detenuti trascurando la sicurezza. Al contrario, bisogna aver chiaro che non può esserci reinserimento sociale senza sicurezza nelle carceri". I due evasi, di 22 e 32 anni, che si trovavano in regime di prevenzione carceraria (dunque non ancora condannati) erano in cella uno per furto e l’altro per rapina. Al momento nel carcere risulta un sovraffollamento di 86 detenuti. I reclusi sono 430 invece dei 344 previsti dalla capienza ufficiale. Roma: dottorato di ricerca per il primo detenuto mai uscito dal carcere di Gaia Pascucci Corriere della Sera, 31 luglio 2017 Un dottorato di ricerca in Sociologia. Può sembrare un "normale" successo per chi ha deciso di dedicare forze e ingegno alla carriera accademica, certo i posti sono pochi, bisogna impegnarsi e non perdere mai un attimo la passione per lo studio. Ma se questo risultato lo raggiunge Alessandro L., in carcere da 22 anni, "il primo detenuto in un carcere italiano ad aver conseguito un dottorato di ricerca senza essere mai uscito dal carcere" come ha scritto in una lettera a Stefano Anastasia, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, allora le motivazioni e gli sforzi accumulati negli anni lasciano intravedere la straordinarietà dell’evento. Il massimo riconoscimento nel percorso di studi universitari è solo la vetta della montagna scalata dal detenuto nel reparto G8 di Rebibbia-Nuovo complesso, dopo un periodo passato in quello di alta sicurezza. Ininterrottamente detenuto dal giugno del 1995, Alessandro si è laureato con lode in Sociologia all’Università degli studi di Roma "La Sapienza" nel gennaio del 2013, discutendo la tesi "Il lavoro rende liberi. Etnografia del "mondo carcere", pubblicata l’anno seguente da Gruppo Albatros "Il filo". Dopo la laurea ha deciso di proseguire gli studi universitari accedendo al corso di dottorato di ricerca in Sociologia e scienze applicate attivato dall’Università di Roma La Sapienza. Fino ad arrivare, lo scorso 23 febbraio, alla discussione della dissertazione finale "Rieducazione, formazione e reinserimento sociale dei detenuti. Uno studio comparativo ed etnografico dei detenuti rientranti nella categoria "Alta sicurezza" in Italia: percorsi di vita, aspettative e reti sociali di riferimento". "È davvero un bel traguardo", spiega Stefano Anastasia. "Se studiare all’interno del carcere è complicato - spiega Anastasia, che è docente universitario - seguire un corso di dottorato lo è ancora di più. Complimenti ad Alessandro, quindi, che è riuscito a portare a termine un percorso così arduo con grande determinazione. Ora mi auguro che il suo risultato raggiunto possa rappresentare un’occasione di riflessione sul tema dell’accesso agli studi per le persone detenute. Sarebbe certamente se l’amministrazione penitenziaria si attrezzasse per garantire agli studenti che intendono intraprendere un percorso formativo post laurea, idonei strumenti di studio e ricerca, anche informatici". Perché quella di Alessandro non resti una storia straordinaria, ma diventi un orizzonte possibile per tanti altri come lui. Bollate (Mi): salvati dal tennis, ecco i carcerati che nello sport hanno trovato il riscatto di Federico Ferrero Corriere della Sera, 31 luglio 2017 Nel carcere di Bollate, il tennis è uno sport traversale, che è un collante, aiuta ad applicare la cultura del rispetto, tiene in moto mente e corpo. Una realtà inedita che viene raccontata in un reportage di Federico Ferrero che sarà pubblicato da lunedì sul mensile "Il tennis italiano". Hanno vite difficili e storie dolorose alle spalle, eppure il tennis permette loro di non lasciarsi andare: sono i carcerati-tennisti di Bollate, raccontati in un reportage esclusivo da "Tennis italiano", con le fotografie di Marco De Ponti. Una raccolta di storie, che dimostrano come lo sport possa appianare i contrasti tra agenti e detenuti, che giocano insieme, possa permettere a chi ha sbagliato di guardare diversamente alle proprie scelte scellerate e, forse, rendere quasi sopportabile il peso della colpa. "Su questi campi si riescono a stemperare tensioni nelle maniere più inaspettate. Il tennis ha annullato le distanze, le rivalità, i sospetti reciproci e in tanti, con questo sport, si sono tirati fuori dalla depressione. A volte sono capitati dei miracoli: un ex detenuto di Bollate è tornato in Sicilia, ha preso un appezzamento incolto di famiglia, ha fatto costruire un campo e una casetta di legno: ora insegna tennis ai ragazzini e li allontana dalla strada, per evitare che facciano la sua fine", racconta Maria Romano, della Uisp, che segue da quasi 15 anni il progetto tennis in alcuni istituti del Milanese. La Uisp ha reso possibile questo progetto grazie a Renata Ferraroni, senatrice dell’Unione Italiana Sport per Tutti e responsabile delle attività in carcere per la Lombardia, con l’appoggio della dirigenza del carcere. Una aspetto fondamentale, perché in altri istituti il tennis non viene praticato: altre amministrazioni lo ritengono pericoloso, sia per l’attrezzo necessario al gioco, sia perché le palle, tagliate in due e poi risaldate, potrebbero essere utilizzate per passare ai detenuti sostanze stupefacenti o altre merci vietate. Qui tutti i tennisti sono tesserati Davide - Era il fidanzato di Francesca Brandoli, che 10 anni fa gli fece uccidere l’ex marito e che, qualche anno fa, si sposò in carcere con un uxoricida. Davide ha l’ergastolo, gli hanno riconosciuto la premeditazione. Faceva il grafico pubblicitario, era incensurato, di buona famiglia. È il "motore" del progetto tennis a Bollate, nel senso che è lui a promuovere iniziative, incontri, corsi, tornei. Il tennis è diventato centrale nelle sue giornate, giacché ha un fine pena mai e giocare tutti i giorni dà un senso al suo vivere. È anche quello che gioca meglio, da ragazzo prendeva lezioni. "Ho deciso di perdonarmi per quello che o fatto, sperando che gli altri perdonino me", ha detto. Emanuele - Mancino, gli piace fare spettacolo in campo, essere il protagonista. Faceva l’agente di polizia provinciale, è reo confesso dell’omicidio dell’ex fidanzata. Suo padre è un giornalista e scrittore piuttosto noto nel Lazio. Con la fascetta bianca e la polo Lacoste verde scuro, Emanuele pare rimasto agli anni Settanta e somiglia a un membro della famiglia Tenenbaum: "Con il tennis stiamo insieme, socializziamo, rispettiamo le regole dello sport, ci teniamo in movimento: sembra poco ma per noi è importante", dice. Elson - Lavorante esterno, fa il giardiniere. Molto spavaldo, è uno "scafato". In campo è molto muscolare, tira forte senza pensarci su. Il tennis gli piace moltissimo, fa anche palestra, gli piace tenersi in forma. Vorrebbe continuare a fare il giardiniere, una volta uscito. Parlantina sciolta e fare spavaldo, ha una condanna in discesa: ha scontato oltre la metà degli anni. Frank - Xhevdet detto Frank, kosovaro, 53 anni, condannato per tentato omicidio della ex moglie, faceva il muratore. Non ha una gran tecnica tennistica ma corre, sbaglia poco, aspetta l’errore dell’altro, è furbo. Qui posa con Davide, Fabio (padre di tre figli) e Elson sul campo all’interno del loro blocco (nel carcere di Bollate ve ne sono sette). Sullo sfondo, quelle che loro definiscono le stanze, cioè le celle di detenzione. Stefano - Lombardo, ha subito varie condanne per truffa. Sta cercando di farsi assumere da qualcuno per dare un po’ di soldi a casa. Separato dalla seconda moglie, dice di aver violato la legge per necessità e, in fondo, di non aver mai fatto del male (fisico) a nessuno. Ha 49 anni, va molto fiero della sua Babolat e del completino da tennis in tinta. Sermii - Ucraino, appassionato di tennis, sa a memoria i risultati di Dolgopolov e soprattutto della Svitolina. Timido, parla sottovoce. Viso candido, chiede scusa quando interrompe una frase a metà perché tocca a lui palleggiare e ti chiedi cosa diamine possa aver fatto di male, uno così. Il campo - La superficie non supererebbe i test della Federazione internazionale, la rete è appesa al muro col fil di ferro e le righe tracciate in qualche modo. In fondo, i cartelloni evitano che la palla passi tra le sbarre. Ma solo pioggia e neve impediscono di scendere in campo. Volterra (Pi): balli e poesie senza sbarre di Rodolfo di Giammarco La Repubblica, 31 luglio 2017 All’interno del carcere di Volterra la Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo porta in scena "Le parole lievi": uno spettacolo ispirato ai capolavori di Borges. Accolti nel Carcere di Volterra da attori-detenuti in tuniche orientali che producono vibrazioni con le punte di altissime canne impugnate per dare il benvenuto al pubblico, poi intrattenuti da archiviste in nero impegnate a spostare e a spolverare (mentre un uomo reca tatuato il labirinto caro all’autore) le montagne dei libri d’una biblioteca universale in un giardino che fa da anticamera al cortile della prigione, siamo infine ammessi nello spiazzo delle ore d’aria del penitenziario, dove hanno luogo gli spettacoli della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo, e subito, lì, capiamo d’essere in una dimensione altra. Lasciamo cioè alle spalle le storie di Shakespeare, l’avventurismo reale dell’era elisabettiana dove lo stesso Punzo e un bambino avevano l’estate scorsa fatto presagire uno sconfinamento, ed entriamo in un capolavoro teatrale, Le parole lievi ("Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato"), dove la scrittura di Jorge Luis Borges, presa in affido da quest’anno, fa sì che la vita sia una citazione, che la letteratura scenica s’attenga solo al fantastico, che il mondo sia "un certo numero di tenere ispirazioni". Qui si resta affascinati da un alfabeto di simboli, da una poesia di corpi surreali, da cosmogonie di un’umanità spossata e beata, e comprendiamo come mai Borges ritenesse perfetto il romanzo del 1940 L’invenzione di Morel del suo amico Adolfo Bioy Casares, dove uno scrittore ergastolano evade e finisce in un’isola i cui abitanti sono replicati, riprodotti, senza cognizione del tempo e della memoria. Anche in questo esemplare lavoro odierno che la drammaturgia e la regia di Punzo hanno concepito per i circa sessanta interpreti scontanti una condanna nella Fortezza aleggia una sorta di calma interna all’uomo, un catalogo dell’esistenza sotto forma di camminate frugali e asettiche su tre superfici rettangolari che si riveleranno piscine d’acqua (quasi un’immagine analoga alle gimnopedie del finale di The Tree of Life di Terrence Malick), e dappertutto sono disseminate citazioni dalle raccolte dell’Aleph e delle Finzioni, dal Libro di Sabbia, dall’Artefice, al servizio di una visionarietà che s’oppone a trame concrete. Un uomo immacolato di pelle e di abiti, personaggi di colore parlanti lingue straniere, ragazze ottocentesche, un grigio passeggiatore con valigia, una sagoma in frac e testa rosso fuoco, silhouette con corpi e volti legati, uno sciamano venditore del proprio passato o del futuro altrui, un vecchio munito di un nido d’uccelli che pare una corona di spine: il paesaggio figurativo è indecifrabile come Il giardino dei sentieri che si biforcano, l’impianto è colmo di sfere bianche che suggeriscono specularità con l’Aleph, con punti dello spazio che contengono tutti i punti. E alla vitalità drammatica si sostituisce una patina di "stregoneccio" che Emilio Cecchi seppe leggere in Borges. La malia è assecondata dalle percussioni live. Il resto è sospiri, sorrisi, balli, mentre quel bambino già compagno di strada gioca con una testa di Minotauro. Ragazzi senza famiglia, i 18 anni sono un incubo: "Perdiamo casa e vitto" di Giacomo Galeazzi La Stampa, 31 luglio 2017 Allontanati da genitori violenti, disadattati o criminali alla maggiore età vengono abbandonati al loro destino. La maggiore età è una mannaia sul sussidio. Da 70 a zero euro. "Per i 28mila ragazzi allontanati dalle famiglie d’origine, compiere 18 anni significa perdere ogni tutela: niente più assistenza, né vitto né alloggio - afferma Antonio Marziale, garante per l’infanzia e l’adolescenza della Regione Calabria. Sono privi di mezzi di sostentamento eppure formalmente adulti. Appena diventano maggiorenni non hanno più la sicurezza di un tetto e di un piatto a tavola. Perdono tutto". Per ciascun minore lo Stato paga in media 70 euro al giorno alle case famiglia e 130 euro alle comunità educative. "A 18 anni si ritrovano soli, abbandonati al loro destino", racconta Cesare Romano, garante della Campania che ha riunito al Centro direzionale di Napoli una delegazione di neo-maggiorenni rimasti senza tutele e, con l’assistente sociale Carmela Grimaldi, gira in lungo e in largo la regione per promuovere i "gruppi appartamento" dove seguire e rendere autonomo con un contributo chi sta per diventare maggiorenne. Dietro il ghigno e i tatuaggi Valerio Anaclerio nasconde una sofferenza che gli fanno pesare come macigni i suoi pochi anni. "Al 18° compleanno sulla torta c’erano preoccupazioni invece di candeline", sorride. Finito in una casa famiglia ad Atripalda per un motorino rubato, dopo la morte della mamma non vuole tornare a Pozzuoli ("non c’entro più niente lì"). La maggiore età come una disgrazia: "Senso di vuoto, precarietà, nessuna certezza". Accanto a lui Ahmed Sahane annuisce. "Io 18 anni li compio ad agosto", dice con un filo di voce prima di ripercorrere la sua Via Crucis che inizia con la fuga dalla Somalia, lo scampato reclutamento da parte dell’Isis, le violenze degli scafisti e il fallito reinserimento nella famiglia dello zio in Svizzera. "Sogno di diventare cuoco", conclude. Solo un giovane su tre rientra in famiglia dopo essere stato allontanato. E una famiglia di origine su tre è povera. I minori fuori dal nucleo di origine sono 28.449, divisi a metà tra famiglie affidatarie (14.194) e comunità residenziali (14.255). Patrizia Saraceno è la vicepresidente del Ceis, il Centro di solidarietà fondato a Roma da don Mario Picchi: all’Eur, nelle palazzine di via Ambrosini, si occupa dei gruppi di minorenni dagli 8 ai 18 anni. In Italia il 60% degli affidamenti si protrae per oltre 2 anni e il 31,7% supera i 4 anni. "Arrivano da noi ragazzi italiani e di altre nazionalità- spiega Saraceno-. Alcuni escono dai centri di accoglienza, altri ce li portano i carabinieri che li trovano per strada o sono mandati qui dai tribunali dei minori per gravi problemi familiari. Vivono la comunità come una seconda casa, condividono difficoltà e mansioni interne". Perciò, aggiunge, "non scopriamo il giorno prima che stanno per compiere 18 anni e prevediamo un percorso per ciascuno neo-maggiorenne: raggiunta la maggiore età, li teniamo anche se non riceviamo più fondi". Laddove non intervengano strutture non profit, i neo-18enni fuori dalla famiglia si ritrovano senza alcun sostegno. "Chi si occupa di loro, lo fa a proprie spese, non ha alcun sussidio pubblico, come don Giacomo Panizza alla comunità Progetto Sud di Lamezia Terme - sottolinea Marziale. In questa condizione di abbandono, molti ragazzi per sopravvivere diventano manovalanza per i clan criminali, per il caporalato o finiscono nei circuiti della prostituzione. Far uscire dal Welfare statale i neo 18enni significa consegnarli al business dell’illegalità". Alla base c’è "un vuoto legislativo", denuncia Marziale: "Quando un ragazzo diventa maggiorenne, le strutture di accoglienza devono mantenerlo con i loro mezzi quindi non sono in condizione né hanno interesse a tenerlo ancora". Oggi, precisa, "ci sono molte richieste per aprire case famiglie destinate ai minori, mentre nessuno si interessa ai neo-maggiorenni che vengono espulsi dal circuito dell’accoglienza come merce scaduta: si guadagna coi minori, non con i 18enni". A Reggio Emilia, nei comuni della Val d’Enza, si sono organizzati per fronteggiare il disagio. "Continuiamo a seguirli per dare compimento ai progetti individuali dei neo-maggiorenni - racconta Federica Anghinolfi, responsabile del servizio sociale integrato. Il tribunale per i minori può richiedere che i servizi sociali proseguano nel loro impegno. Inoltre i genitori sono obbligati, anche se decaduti dalla responsabilità familiare, ad ottemperare al mantenimento dei figli, ma ciò non succede mai malgrado sia un reato perseguibile penalmente". Soprattutto nel Mezzogiorno è un’emergenza. "Dove vado senza lavoro?", chiede Youssouf Kone. 18 anni li ha compiuti a novembre ma per ora resta a Casa Vanni, a Marano, nella periferia di Napoli, come "mediatore culturale volontario". Lavora in nero come fruttivendolo e manda 90 euro a trimestre alla sua famiglia in Costa d’Avorio ("mio fratello è morto in un incidente"). Con 13 anni di vita in comunità Christian Mustafa, di etnia Sinti, ascolta Youssouf come la traccia di una biografia condivisa. "Possibilità ce ne sono poche, è davvero dura", sospira. Sanno bene quanto sia difficile trovare una strada per mantenersi fuori dalla comunità Rosario Giovanni Pepe e Antonella Tomasetta che da più di vent’anni in provincia di Avellino accolgono in casa minori tolti dai servizi sociali a famiglie disastrate o mandati da loro in prova dai tribunali minorili per evitare il processo. "Vengono eliminati dal sistema degli aiuti pubblici senza che siano pronti a camminare con le proprie gambe", osserva Pepe che poi descrive il "Far West delle rette negoziate con i sindaci per l’accoglienza di ciascun minore". Nessuna progettazione, concordano i garanti. Contro la "corsa al ribasso delle rette per accaparrarsi fette di mercato" in Campania Romano ha riunito enti locali e comunità per fissare regole e tariffe, mentre in Calabria Marziale, monitorando come vengono accolti i minori, ha scoperto che molti, soprattutto stranieri fuggono dalle strutture. "È un esercito invisibile di cui non si sa più nulla: è appena venuta da me la responsabile di tre ragazzi che non si trovano più - accusa. L’assistenza è resa confusa e burocratizzata tra livello statale, regionale e comunale, intanto esce dai radar una gioventù lasciata a sé stessa. Sono ragazzi che hanno alle spalle situazioni terribili e non possono tornare indietro. A 18 anni lo Stato non versa più un euro per loro. Abbandonarli significa perderli, far finta di niente è orrendo". Il petrolio dell’Isis finisce in Italia: la Guardia di Finanza indaga sulle "navi fantasma" di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 31 luglio 2017 Dalla Libia e dalla Siria il greggio di contrabbando viene portato nelle raffinerie della Penisola e rivenduto triplicando il prezzo. E nell’affare spunta l’ombra della mafia. Il greggio dei pozzi petroliferi dello Stato Islamico può essere finito in Italia. E, dunque, nelle nostre automobili, nei nostri motori, nelle nostre case. Quel che finora è stato poco più che un sospetto, un’ipotesi investigativa plausibile ma assai difficile da dimostrare, si sta pian piano consolidando, tanto da finire in un report riservato del Nucleo Speciale di Polizia Valutaria della Guardia di Finanza, datato febbraio 2017, sul terrorismo islamico. "È possibile ritenere che le importazioni di petrolio da zone sottoposte al controllo delle organizzazioni terroristiche abbiano come terminali anche le principali raffinerie italiane". E, di conseguenza, "disarticolare ogni possibile frode nel settore degli olii minerali può avere una valenza strategica nel contrasto al finanziamento al terrorismo". Ma quali sono gli indizi? Quali rotte seguono i contrabbandieri? Il carosello a largo di Malta - Una prima risposta si trova a sessanta miglia a sud di Malta. In quel tratto di acque internazionali può capitare che le petroliere provenienti dalla Turchia e dalla Russia, e le bettoline cisterna salpate di nascosto dalla Libia, spariscano per qualche ora. Come risucchiate in un triangolo delle Bermuda al centro del Mediterraneo. In realtà si mettono d’accordo per spegnere i transponder di bordo che le rendono tracciabili, poi le bettoline si accostano e travasano il greggio clandestino sulle grosse cisterne. Finita l’operazione al buio, si allontanano e a distanza di sicurezza riaccendono il satellitare. Riappaiono sul monitor quando stanno già tornando in Libia, e la nave madre prosegue sulla rotta verso i porti della Sicilia, del centro-nord Italia, di Marsiglia. Questo sistema è oggetto di una grossa indagine della Finanza coordinata da una procura siciliana: sono state individuate società di brokeraggio italiane e maltesi che, pur essendo nate da poco, già fatturano milioni di euro organizzando la logistica del trasporto e vendendo il greggio libico e arabo alle grandi compagnie mondiali. Sono gli intermediari e, secondo gli investigatori, si occupano di ripulire tutta la filiera del contrabbando, attraverso documenti di viaggio falsificati. Sull’origine di quel prodotto clandestino nessuno si sbilancia. "Non sappiamo da chi arriva, perché le tracce si perdono dietro agli intermediari fasulli" dice una fonte vicina all’inchiesta. Di certo non doveva essere lì". Il Nord Africa e la via turca - Secondo alcuni analisti internazionali, in Libia la causa principale dell’instabilità politica ruota attorno alla guerra del petrolio. La questione sta a cuore sia al governo di Serraj riconosciuto dalle Nazioni Unite, sia a quello del generale Haftar, essendo l’esportazione di greggio l’unica vera risorsa nazionale, e solo grazie a essa ancora riescono a pagare regolarmente gli stipendi dei dipendenti pubblici. Il furto di carburante, però, è diventato una prassi che ha causato un danno enorme, stimato dal procuratore nazionale libico in "tre miliardi e mezzo di euro sottratti alle casse dello Stato". Non è un caso, dunque, che le motovedette che l’Italia ha fornito alla Guardia Costiera libica, addestrata dai nostri marinai per il contrasto ai trafficanti di migranti, siano state utilizzate anche per dare la caccia alle bettoline a colpi di mitragliate, come dimostrerebbe il video pubblicato dal sito di Repubblica.it all’inizio di luglio. E non è casuale neanche la decisione dell’Unione Europea, la scorsa settimana, di estendere il mandato della missione Sophia alla lotta al contrabbando di petrolio. Nel report della Finanza si parla anche della rotta turca. "I gruppi jihadisti trasportano il greggio su camion al confine con la Turchia, dove broker e trader lo comprano pagando in contanti". Da qui il carico parte via mare o terra, seguendo in quest’ultimo caso una rotta che negli ultimi mesi sembra essere stata abbandonata. Certo è che la Turchia - sostiene l’intelligence italiana - ha sempre avuto un atteggiamento morbido nei confronti dei trafficanti siriani. Un anno fa i servizi russi accusarono il figlio del presidente turco Erdogan, Bilal, di essere "il ministro del petrolio di Daesh", indicando alcune società di sua proprietà attraverso le quali lo avrebbe commercializzato in Europa. Accuse che in Italia, dove Bilal ha vissuto e dove è stato indagato dalla procura di Bologna per riciclaggio, non hanno trovato alcun fondamento tant’è che il fascicolo, nel gennaio scorso, è stato archiviato. Il ruolo della mafia - Qualsiasi sia la rotta, è un fatto che il greggio libico sia finito illegalmente via mare in Italia, in Turchia e a Malta, e via terra in Tunisia. Lo hanno dichiarato gli ispettori dell’Onu a giugno, in occasione dell’ultima risoluzione. Anche loro fermandosi al primo passaggio, cioè le raffinerie, senza però investigare se gli intermediari siano, o siano stati, collegati ai gruppi fondamentalisti. Come ha più volte spiegato il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, esistono "due potenziali punti di contatto " tra "terrorismo islamico e criminalità organizzata": la droga e il petrolio. Alcune indagini a Venezia e in Puglia hanno dimostrato l’interesse delle mafie per l’oro nero, secondo uno schema tipo: creano società fasulle all’estero, con oggetto sociale la commercializzazione di benzina; si accreditano, falsamente, come esportatori abituali; vendono direttamente ai gestori di pompe di benzina a prezzi ribassati; chiudono subito dopo la società. "Così raggiungono due obiettivi perché evadono l’Iva e riciclano denaro: due miliardi lo scorso anno in Italia", spiega Andrea Rossetti, presidente di Assopetroli. La fonte di finanziamento - Rossetti sostiene che tuttora, nonostante le sconfitte militari in Siria e in Iraq, le risorse naturali siano l’unica fonte finanziaria reale dell’Isis. "Le capacità economiche dello Stato Islamico - si legge ancora nel documento della Finanza - sono subordinate alla sua capacità di raffinare e trasportare il petrolio". Nei territori siriani e iracheni di loro controllo. Non per niente i raid aerei delle forze della Coalizione hanno avuto negli ultimi due anni come target principale raffinerie e oleodotti sotterranei (ne hanno distrutti più di 200) mentre sul terreno infiltrati si muovevano per intercettare la rete commerciale interna. "Il ricavo dell’Isis della vendita del petrolio, venduto vicino al luogo di produzione - scrivono le Fiamme gialle - si aggira sui 20-35 dollari al barile, da ciò gli intermediari possono poi giungere a prezzi di vendita pare a 60-100 dollari. E la stima per eccesso della produzione attuale si attesta sui 50mila barili quotidiani". Sono un milione di euro al giorno. L’ultimo tesoro dello Stato Islamico. Germania. Ancora in carcere sei italiani arrestati durante il G20 di Amburgo di Valentina Avon La Repubblica, 31 luglio 2017 Interrogazioni al ministro Alfano per i ragazzi detenuti dal 7 luglio. I fermati tedeschi e gli altri stranieri sono stati tutti rilasciati. Ma ai nostri connazionali non è stato concesso di potere uscire neppure su cauzione. Tre interrogazioni parlamentari chiedono lumi al ministro degli Esteri Alfano in merito a sei connazionali in stato di arresto ad Amburgo. Dopo le manifestazioni e gli scontri per il G20 dei primi di luglio la polizia tedesca ha fermato alcune decine di persone, la maggior parte di queste sono state rilasciate immediatamente o dietro pagamento di una cauzione, ma sei italiani - fermati l 7 luglio - sono ancora detenuti. Fabio Vettorel ha 18 anni, Maria Rocco ne ha 23, sono entrambi di Feltre. Di Catania sono Alessandro Rapisarda e Orazio Sciuto del centro sociale "Liotru", siciliani sono anche Riccardo Lupano, anarchico e Emiliano Puleo, comunista di Partinico. Per lui Giovanni Impastato ha appeso uno striscione alla ringhiera della casa che fu di Peppino e ora è Casa Memoria, a Cinisi. Erano tutti nella città tedesca a manifestare contro il dodicesimo meeting del Gruppo dei Venti e nessuno di loro, dichiarano gli avvocati all’unisono, è stato arrestato in flagranza di un qualche reato, contro persone o proprietà. La mobilitazione è particolarmente attiva per il giovanissimo Fabio e la sua amica Maria. "I due ragazzi erano in manifestazione con volto scoperto, senza alcun oggetto che potesse far intendere intenzioni non pacifiche, in un corteo autorizzato dalle autorità locali e l’arresto è avvenuto mentre i due ragazzi proteggevano una terza manifestante caduta e feritasi durante una carica della polizia, da quel momento Maria Rocco è detenuta con l’accusa di turbamento dell’ordine pubblico e resistenza a pubblico ufficiale, mentre per Fabio Vettorel ancora non è stata formalizzata un’accusa dopo venti giorni di carcere preventivo" scrive la senatrice Laura Puppato del Pd nella sua interrogazione al ministro della Giustizia Alfano, perché chieda lumi alla Germania: "Chiediamo al ministro di agire in maniera ufficiale sulle autorità tedesche". Altre due interrogazioni sono state presentate da Sel e 5 Stelle. Le ipotesi di reato prevedrebbero una detenzione di sei mesi. I fermati tedeschi sono stati tutti rilasciati, come alcuni stranieri, ma a nessun italiano è stato concesso di potere uscire, neppure su cauzione. Su questo lavora l’avvocato Antonio Prade per la sua assistita Maria Rocco: "Ogni Stato ha le proprie procedure e non si discutono - afferma il legale - ma non è plausibile che sia considerato a rischio di fuga un cittadino italiano, quello che chiediamo è che vengano riconosciuti pari diritti di fronte alla Corte ai cittadini tedeschi e italiani, e europei. Sarebbero poi reati politici, ma noi dobbiamo restare su un piano squisitamente tecnico". Un pronunciamento della Corte di Amburgo è previsto entro una decina di giorni. Russia. La rabbia di Putin contro gli Usa: cacciati 755 diplomatici americani di Paolo Mastrolilli La Stampa, 31 luglio 2017 Rappresaglia di Mosca contro le nuove sanzioni approvate dal Congresso americano. Il capo del Cremlino: "È ora di dimostrare che non lasceremo niente senza risposta". Vladimir Putin caccia 755 diplomatici americani dalla Russia, e così decreta la fine della luna di miele con Donald Trump, forse mai cominciata. La sua mossa è una risposta alle nuove sanzioni appena approvate dal Congresso, per punirlo dell’interferenza nelle presidenziali dell’anno scorso. Il capo della Casa Bianca non voleva queste misure, perché prevedeva che avrebbero determinato la fine dei suoi tentativi di riprendere il dialogo con Mosca, ma la pressione dell’inchiesta sul Russiagate, e la netta maggioranza dei parlamentari che le hanno votate, lo hanno costretto ad annunciare che non avrebbe usato il potere di veto per cercare di fermarle. Nello stesso tempo, però, l’offensiva del Cremlino lascia aperto lo spiraglio di continuare la collaborazione, ad esempio in Siria, forse nella speranza di mettere Trump contro il Congresso e l’apparato statale americano della politica estera, contrari al disgelo. Ieri Putin ha dato un’intervista al canale televisivo Rossiya 1, in cui ha annunciato la sua decisione: "La parte americana ha fatto una mossa non provocata, per peggiorare le relazioni. Ciò include restrizioni illegali, tentativi di influenzare altri Stati nel mondo, inclusi i nostri alleati, che sono interessati a sviluppare e conservare le relazioni con noi". Con queste parole il capo del Cremlino si riferiva alle nuove sanzioni, approvate venerdì scorso a larghissima maggioranza dal Senato e dalla Camera Usa. Quindi ha proseguito: "Abbiamo aspettato per parecchio tempo che qualcosa cambiasse per il meglio, ma sembra che ciò non avverrà nel prossimo futuro. Quindi ho deciso che è arrivato il momento di dimostrare che non lasceremo niente senza risposta". Putin ha annunciato che chiederà a Washington di ridurre il suo personale diplomatico in Russia dai 1.200 funzionari attuali, a 455 persone, cioè lo stesso numero degli inviati di Mosca presenti negli Usa. Questa espulsione dovrà essere completata entro il primo settembre. Nello stesso tempo il Cremlino sequestrerà una dacia che gli americani hanno fuori Mosca, e un deposito, per rispondere ai sigilli che l’amministrazione Obama aveva messo in dicembre a due strutture russe in Maryland e Long Island. Il capo del Cremlino ha proseguito notando che ci sono diverse "sfere di cooperazione importanti" tra i due Paesi, che lui spera non siano compromesse dalla sua iniziativa. Si riferiva alla lotta contro il terrorismo, il controllo delle armi nucleari, i progetti spaziali e la tregua appena annunciata in alcune zone della Siria, dopo il vertice di Amburgo con Trump: "Noi lavoriamo insieme anche per combattere l’immigrazione illegale e il crimine organizzato, e poi c’è la questione della sicurezza cibernetica. La cosa principale è che abbiamo una collaborazione su diversi aspetti in molti campi. Mosca ha molto da dire e ci sono un numero di sfere di cooperazione che potremmo potenzialmente tagliare, sensibili per la parte americana. Ma non credo che dovremmo. Ciò danneggerebbe lo sviluppo delle relazioni internazionali. Spero di non arrivare a questo punto. Ad oggi, sono contrario". Trump aveva fatto della ripresa del dialogo con Mosca uno dei punti centrali della sua campagna presidenziale, ma questa strada era diventata impercorribile quando le agenzie di intelligence americane avevano confermato che la Russia aveva cercato di influenzare le elezioni, rubando documenti a Hillary Clinton per farlo vincere. Obama in risposta aveva espulso 35 agenti segreti del Cremlino e sequestrato due proprietà. Il consigliere per la sicurezza nazionale entrante Flynn aveva cercato di dare rassicurazioni all’ambasciatore russo Kislyak, ma proprio per questo era stato costretto alle dimissioni. Quindi era seguita la cacciata del capo dell’Fbi Comey e la nomina del procuratore Mueller, che ora sta indagando proprio sulla collusione tra la campagna di Trump e Mosca, compreso il vertice con inviati russi ospitato dal figlio del presidente Don a New York. A margine del G20 di Amburgo i due leader avevano avuto un vertice lungo due ore e mezza, che aveva riaperto il dialogo, in particolare con la tregua in Siria. Deputati e senatori però hanno approvato comunque le nuove sanzioni, insieme a quelle contro la Corea del Nord e l’Iran, perché gli elettori nei loro distretti guardano con sospetto al Cremlino. Trump ha annunciato che le firmerà perché non ha alternative: se opponesse il veto, verrebbe sconfitto. Ora però Putin gli ha chiuso la porta in faccia, mettendolo in un angolo da cui sarà molto difficile uscire. Iraq. La guerrigliera e il terrorista: Raqqa, voci dalla guerra La Stampa, 31 luglio 2017 Avin ha deciso di non sposarsi e rinunciare ai figli. Vuole vivere insieme alle sue compagne d’armi e combattere per la libertà. Delle donne, prima di tutto. Abu Musa è stato un foreign fighter. Quando Raqqa è stata circondata dai curdi ha deciso di fuggire e si è consegnato. Ora è rinchiuso in un carcere segreto Avin, la combattente yazida: "Al fronte per liberare la mia amica rapita" - C’è qualcosa nel sorriso che si piega sempre in una smorfia, di lato, negli occhi che non riescono a uscire dalla sofferenza. Domanda dopo domanda, comincia a venir fuori. Avin Dar è una guerriera yazida. Un’amazzone. Ha deciso di non sposarsi, rinunciare ai figli, di vivere tutta la vita assieme alle sue compagne d’armi e combattere per la libertà. Delle donne, prima di tutto. Ma non è soltanto questo che l’ha spinta sul fronte di Raqqa. C’è anche Zozan, la sua migliore amica, 22 anni come lei. Avin viveva nello Shingal, la terra degli yazidi, al confine fra Siria e Iraq. Nell’agosto del 2014, quando i combattenti dell’Isis hanno conquistato in pochi giorni la montagna e poi la città, si trovava già a Qamishlo. Fuggita appena in tempo. Ma la sua amica Zozan no. Sono arrivati gli uomini con le bandiere nere. "L’hanno venduta come schiava, violentata. Ma sento che è ancora viva. È qui a Raqqa". Avin non ammette di essersi arruolata solo per liberare Zozan e "tagliare la gola", o qualcos’altro ai suoi aguzzini. L’ideologia non lo consente. "Siamo parte di un movimento nato per la liberazione dello Shingal. Tutti sono importanti allo stesso modo. Non siamo qui per una vendetta personale". Sul modello dello Ypg, le yazide hanno creato un corpo speciale, di sole donne, lo Yps, Unità per la protezione delle donne yazide. Avin si è unita allo Ygs nel 2015, dopo aver militato nel movimento, cioè un partito curdo-yazida alleato del Pkk. Non è stato facile. "Ho combattuto per la prima volta sulla montagna dello Shingal. Ci eravamo addestrate per mesi, ma l’unico vero addestramento è la battaglia. All’inizio è difficile anche sparare un colpo. Ma poi migliori, combattimento dopo combattimento". Fino alla battaglia di Raqqa. Il battaglione dello Yps si trova in una casa a un piano alla periferia Est della capitale siriana del Califfato, con un grande cortile e dependance, l’ideale per farci una piccola caserma. Alla base le guerrigliere sono solo una decina. Le altre sono al fronte. "Ruotiamo ogni dieci giorni, dieci giorni al fronte, dieci giorni nelle retrovie per recuperare". "È molto dura - continua - ma dobbiamo farlo. Per le nostre compagne prigioniere e per il futuro. Se un giorno nascerà un altro Isis dovrà ricordare che fine hanno fatto quelli che ci hanno massacrato nel 2014. Li abbiamo distrutti. Lo ricorderanno e non verranno più nello Shingal. Non solo l’Isis. In un secolo abbiamo subito 73 attacchi, 73. Ma questo è stato il più terribile. Hanno mirato alle donne, volevano umiliarci". Migliaia, 3.500 secondo le ultime stime dell’Onu, sono stati rapiti. Altre migliaia sono stati uccisi. Diecimila in tutto sono gli yazidi morti per mano dell’Isis, anche bambini. Un massacro che l’ambasciatrice alle Nazioni Unite Nadia Murad, anche lei venduta come "schiava del sesso" e poi liberata, vuole che sia riconosciuto come "genocidio". Non lo permetteranno più. Avin vive con le altre, 24 ore al giorno. "Vogliamo dimostrare a tutto il mondo che le donne sanno combattere bene quanto gli uomini. Mangiamo insieme, dormiamo insieme, combattiamo insieme. Siamo sorelle, anche di più". È una vocazione totale. "Non c’è spazio per la famiglia. Se mi do a un uomo, poi chi proteggerà le mie compagne? Non ci penso, non mi pesa neanche non avere figli. A che serve, se poi non puoi difenderli? Prima di tutto c’è la libertà". Lo Shingal è a un passo da un momento storico. Per secoli gli yazidi sono stati perseguitati perché curdi, perché "politeisti", né musulmani, né cristiani. Ora i fratelli curdi iracheni marciano verso l’indipendenza, il referendum del 25 settembre. "Noi sogniamo il Grande Kurdistan - precisa Avin - che comprenda tutti i curdi, iracheni, siriani, iraniani, curdi, e gli yazidi dello Shingal. Se il Kurdistan iracheno diventa indipendente, preferiamo stare da soli, non vogliamo farne parte". Sarà un’altra battaglia, ma prima bisogna liberare Raqqa. "Due mie compagne sono state ferite. Una alla gamba, una purtroppo alla testa. Lo giuro, ho sofferto così tanto che avrei preferito essere ferita io, piuttosto che vederla così. Ma lo stesso non indietreggiamo. Il nostro ideale è troppo importante. Mentre liberiamo Raqqa liberiamo noi stesse, e le donne di tutto il mondo". Abu Masa, il miliziano tunisino: "Sognavo il Califfato ma ora è tutto finito" - Lo accompagnano due asaysh, poliziotti curdi, nel giardino di una piccola prigione segreta alla periferia di Kobane. Ha indosso una jallabiya marrone, sbiadita, i sandali, la barba e i capelli lunghi come quando combatteva nelle file dell’Isis. Tiene lo sguardo basso, con un accenno di timidezza, forse studiata, e si siede al tavolino sotto il fico del cortile. Alto, magro, il volto affilato, allunga la mano per presentarsi. Si chiama Mohammed Ali Sabri, nome di battaglia Abu Musa. È nato trentaquattro anni fa a Tunisi. Per quattro anni è stato un foreign fighter, uno della famigerata legione di tunisini al servizio di Abu Bakr al-Baghdadi, "almeno settemila". Poi, quando Raqqa è stata circondata dai guerriglieri curdi dello Ypg, due mesi fa, è scappato e si è consegnato. "Erano tre anni che volevo farlo: entrare nel Califfato è facile, è un biglietto di sola andata, però". Parla arabo, francese, inglese, un po’ di italiano. "Studiavo all’istituto linguistico di Tunisi", comincia a raccontare. È una storia lunga, studiata per impietosire, sfuggire alle accuse di terrorismo internazionale. Ma dentro c’è un pezzo di storia vera, quella dell’Isis. "Sono arrivato in Siria nell’agosto del 2013, ho attraversato il confine con la Libia, poi ho preso un aereo da Tripoli per Istanbul, dalla Turchia sono passato in Siria". In quel periodo migliaia di tunisini facevano lo stesso percorso. "È stato il leader dei Fratelli musulmani in Tunisia, Rached Ghannouchi, ad ordinarcelo: guardate che cosa succede ai musulmani in Siria, diceva, è un vostro dovere combattere per difenderli". Abu Musa si unisce all’Isis a Idlib. È il periodo che precede la costruzione del Califfato e gli islamisti si combattono fra loro. Lui, però, così dice, fa "l’infermiere, nell’ospedale di Danaa". Infermiere, o probabilmente con il kalashnikov in mano, Abu Musa, è costretto a scappare a Homs. Continuano i combattimenti, contro i rivali di Al-Nusra, e i governativi. Lui guida un’ambulanza per raccogliere i feriti ma viene centrato da un missile e ferito alle gambe. "Mi hanno dovuto operare due volte. La seconda in Turchia. Mi hanno accompagnato con un’autoambulanza e sorvegliato, in modo che non potessi andar via". Abu Musa si è stancato dell’Isis ma viene portato a Raqqa, "in una grande casa, dove venivano custoditi i feriti". La capitale del Califfato, a metà 2014, è "una prigione: i capi erano o della tribù locale degli Shawer o sauditi o iracheni, i peggiori". I maghrebini vengono usati invece "come carne da cannone" e mandati al macello nella grande battaglia di Kobane, alla fine del 2014: "Sono morti in migliaia, alcuni, berberi come me, si sono rifiutati di combattere e sono stati giustiziati". I curdi confermano questa strana affinità con i berberi hamazig. "Anche noi hamazig in Tunisia siamo perseguitati" spiega Abu Musa. Raqqa è però un inferno per i prigionieri curdi, e soprattutto per le donne yazide, vendute come schiave al mercato. "Ho visto tante esecuzioni alla piazza dell’orologio, mani tagliate, piedi tagliati, teste tagliate, gente frustata per aver fumato, ma che islam è?". Sauditi, kuwaitiani e ceceni sono i più fanatici ma i "più furbi" sono gli iracheni. Quando l’esercito iracheno comincia la controffensiva, a Bajii, i capi spediscono i tunisini al massacro, "altre migliaia di giovani morti, ma quale Stato farebbe una cosa del genere?". I capi "avevano tutto, macchine, belle case, si compravano una donna come in Tunisia si compra una capra. Era una grande mafia, avevano tantissimi soldi, dollari. Appena però i curdi si sono avvicinati a Raqqa sono scappati tutti, per primi. Ora sono a Mayadin, vicino al confine con l’Iraq". A Raqqa ora "è finita, dentro ci sono ancora al massimo 400 combattenti, molti hanno 15-18 anni, gli hanno fatto il lavaggio del cervello e continueranno fino alla fine. Le battaglie in città sono la specialità dell’Isis, possono resistere ancora mesi ma comunque il Califfato è fallito. Devi credermi, sognavamo davvero un mondo giusto, uguale per tutti, basato sul vero islam, ora il mondo ci butterà in una discarica. Non siamo mostri, siamo esseri umani anche noi". Abu Musa rifiuta l’ennesima sigaretta offerta dai suoi carcerieri, gentili, e viene accompagnato verso la cella. Si gira e ripete: "Non siamo mostri". Somalia. L’incarico ai carabinieri: addestrare la polizia somala di Grazia Longo La Stampa, 31 luglio 2017 Si sospetta che ci sia il gruppo integralista musulmano somalo al Shabaab dietro l’autobomba esplosa ieri a Mogadiscio, in Somalia, vicino a una stazione di polizia. Drammatico il bilancio dell’attentato del kamikaze: 6 vittime e 20 feriti. E otto soldati sono morti nell’assalto a un convoglio militare nel Sud del Paese. L’allarme del terrorismo islamico, ma anche la devastazione per i conflitti interni e l’emergenza migratoria sono le insidie che gravano sulla Somalia e sui Paesi dell’Africa sub-sahariana. Fondamentale quindi la preparazione delle polizie locali. Il loro addestramento è lo strumento imprescindibile per fronteggiare e gestire il binomio sicurezza e integrazione nel Sahel e, a ridosso, anche in Italia ed Europa. Un addestramento che parla italiano, nel senso che gli istruttori sono i nostri carabinieri. Una missione sostenuta a livello internazionale, a partire dagli Stati Uniti, in virtù delle competenze e della professionalità dell’Arma. Attualmente, sotto l’egida del ministero della Difesa e di quello degli Esteri, sono in pieno svolgimento corsi di formazione in Gibuti (dove si offre consulenza anche alla polizia somala), Sudan, Kenya, Burundi, Ruanda, Sud Sudan. Soltanto per quanto concerne la polizia somala (con cui c’è una cooperazione storica a partire dagli Anni 50),sono stati finora seguiti 1324 agenti, di cui 200 donne. Le lezioni si svolgono in realtà in Gibuti, perché Mogadiscio non offre adeguate misure di sicurezza. Ci sono due corsi all’anno, ciascuno con 200 allievi guidati da 30 istruttori carabinieri che appartengono ai gruppi speciali della seconda Brigata mobile (Gis e paracadutisti). La lingua dominate è per tutti l’inglese, ma le lezioni vengono impartite in somalo alla presenza di un interprete. Quanto al poliziotti istruiti in altri Paesi ricordiamo i 150 in Gibuti, 272 in Kenya, 78 in Ruanda e 135 in Uganda. "La nostra missione è fornire strumenti utili alla lotta a terrorismo islamico, traffico di esseri umani e narcotraffico" - ribadisce il comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette - "ma anche per la preparazione dei rangers per i Grandi Parchi, grazie alla recente fusione con la guardia forestale. Non solo attenzione a criminalità e terrorismo, dunque, ma anche a patrimonio culturale e tutela ambientale. Sempre all’insegna del rispetto dei diritti umani". Il know how dell’Arma è messo a disposizione dei colleghi africani anche nei settori a maggiore specializzazione tecnologica, per favorire la formazione di una leadership e per creare pool investigativi e scientifici secondo standard di più alto profilo. Dalle tecniche investigative per il contrasto al terrorismo alle attività per combattere il cybercrime. E se a Mogadiscio si aspira alla ristrutturazione dell’Accademia di polizia costruita dagli italiani negli Anni 50, Kampala, capitale dell’Uganda, è destinata ad ospitare il Centro forense per l’Africa orientale, grazie a una quota del finanziamento di 10 milioni di euro dell’Unione europea, veicolata dall’Italia. Brasile. Nel girone infernale delle carceri brasiliane di Michele Bottazza interris.it, 31 luglio 2017 Ci troviamo a João Pessoa, città del nordest brasiliano con circa 800.000 abitanti. Fondata nel 1585 con il nome di Filipéia de Nossa Senhora das Neves, è nota come la terza città più antica di tutto il Brasile. La Comunità Papa Giovanni XXIII è presente in questa regione da circa 20 anni e da circa 14 è impegnata con i carcerati a servizio della Diocesi locale, con la modalità prevista dalla Legge delle Esecuzioni Penali: l’articolo 24 prevede che "ogni detenuto ha il diritto all’assistenza religiosa" e "gli è permesso partecipare a momenti organizzati per le celebrazioni". Questa modalità ci dà il modo di entrare in tutte le carceri essendo iscritti come "Agenti pastorali della diocesi" nella Segreteria di Amministrazione Penitenziaria. La Pastorale Carceraria è una presenza della Chiesa in mezzo a fratelli e sorelle in carcere, i più poveri fra i poveri perché privati della loro libertà, portando a essi la parola di Dio e una presenza di appoggio fraterno. L’apparato penitenziario brasiliano è stato fortemente criticato in una relazione dell’Onu, mentre Papa Francesco ha rinnovato il suo appello affinché gli "istituti penitenziari siano luoghi di rieducazione e di reinserimento sociale e le condizioni di vita dei detenuti siano degne di persone umane". Quarti al mondo - Il Brasile, secondo una ricerca del ministero di Giustizia brasiliano, ha il quarto maggior numero di detenuti al mondo, raggiungendo 622.202 detenuti, dietro appena a Russia con 681.000, Cina 1.640.000 e Stati Uniti 2.239.751. Considerando la percentuale sugli abitanti, il Brasile si porterebbe al sesto posto con 306,2 detenuti per 100.000 abitanti, dietro a Ruanda, Russia, Tailandia, Cuba e Usa. Il sistema mostra alti tassi di sovraffollamento: i 622.202 detenuti nel paese sono costretti a vivere in strutture fatiscenti, dominate da bande da nord a sud, abbandonati a se stessi. In tale scenario, dove la presenza dello Stato continua a perdere terreno per via di gruppi come Comando Vermelho (Comando Rosso), Pcc (Primo Comando della Capitale) e della Fdn (Famiglia Del Nord), gli omicidi e le ribellioni sono frequenti all’interno delle carceri, dove regnano sofferenza e barbarie. Il massacro con 56 morti nel Complesso Penitenziario Anísio Jobim (Compaj) a Manaus, dei 33 della Penitenziaria Monte Cristo di Roraima e dei 26 del Carcere di Alcaçus a Natal nel Rio Grande do Norte nel gennaio 2017, sono capitoli della storia di una bomba che le autorità brasiliane si ostinano a non voler disinnescare. La società classifica il detenuto come una scoria umana - "era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima" (Is 53,3), senza alcun diritto, perché se si trova in carcere vuol dire che non vale niente e che dev’essere privato di ogni diritto. I mezzi di comunicazione contribuiscono a distorcere la realtà con una visione sensazionalistica nei programmi televisivi di cronaca. Invece la realtà è purtroppo un’altra: in un Paese dove si deteriorano le opportunità socio-economiche e morali, molti dei nostri fratelli sono costretti a vivere nella criminalità senza aver avuto il modo di scegliere una vita differente, aumentando giorno dopo giorno il tasso di violenza, con circa 170 omicidi quotidiani. Peggio della Siria - Per fare un esempio, dal 2011 al 2015 ci sono stati 278.839 assassinati contro i 256.124 morti dovuti alla guerra in Siria nello stesso periodo: purtroppo è in atto una guerra silenziosa e se ne parla poco. Il 67% dei detenuti in Brasile sono di classe sociale bassa, di colore e con alto indice di analfabetismo, provenienti nella maggioranza dei casi dalle zone periferiche cittadine, le cosiddette "favelas". Nella città di João Pessoa, secondo la Segreteria di Amministrazione Penitenziaria, ci sono 5.576 detenuti/e, il 56% giovani con età dai 18 ai 29 anni, il 40% in situazione provvisoria senza alcuna assistenza. Una politica sulla droga sicuramente da rivedere contribuisce a riempire con maggior frequenza le carceri per semplici detenzioni di piccole quantità di stupefacenti, invece di dare un’alternativa per potersi recuperare visto che nella maggior parte dei casi sono giovani tossicodipendenti. Quando si parla di detenuti, la società è portata a dimenticarsi delle parole di Gesù: "Chi non ha peccato scagli la prima pietra". La Pastorale Carceraria tenta con non poche difficoltà di essere la presenza di Cristo nelle prigioni cercando di fare ciò che avrebbe fatto lui in mezzo a loro oggi. Marocco. Per la Festa del Trono graziate 1.178 persone, tra cui arresati ad Al Hoceima Nova, 31 luglio 2017 Il re del Marocco, Mohammed VI, ha emanato ieri un decreto di grazia per 1.178 persone in occasione della Festa del Trono, che celebra il 18mo anniversario della sua ascesa al trono di Rabat. Secondo una nota del ministero della Giustizia marocchino, nella lista delle persone graziate ci sono anche quelle arrestate ai margini degli eventi delle proteste avvenute nei mesi scorsi ad al Hoceima, nel nord del Paese, che non hanno commesso gravi crimini o delitti. Per motivi familiari e personali queste persone sono state prese in considerazione per questo provvedimento, che è una prerogativa di Mohammed VI. Tra questi c’è anche Salima, alias Silya Ziani, considerata tra le leader del movimento di al Hoceima. Il suo capo invece, Nasser Zefzafi, non è stato interessato in questo momento dal provvedimento di grazia. In tutto, circa il 30 per cento degli arrestati per gli eventi di al Hoceima hanno usufruito della grazia, ma altri potrebbero essere inseriti in futuro per provvedimenti analoghi. Mohammed VI ha concesso il perdono reale anche ai giovani attivisti del partito islamico di Giustizia e Sviluppo (Pjd) condannati per aver sostenuto il terrorismo. I giovani avevano postato su Facebook dichiarazioni di approvazione per l’uccisione dell’ambasciatore russo in Turchia, Andrej Karlov, avvenuto lo scorso dicembre ad Ankara per mano di un uomo armato che ha rivendicato la sua appartenenza ad un gruppo jihadista.