Circolare del Dap: allarme per il caldo africano, rischio idrico nei penitenziari di Gennaro Scala Cronache di Napoli, 30 luglio 2017 Il carcere è un microcosmo. Uno spaccato di vita reale, ma distaccato in qualche modo dall’universo circostante. Isolato. Sta di fatto che se l’estate più torrida e arida degli ultimi anni sta falcidiando Penisola, in qualche modo, questo si riverbera anche negli istituti di pena. Una Circolare del direttore generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha sollecitato i direttori dei singoli istituti di pena ad applicare alcune fondamentali linee guida per affrontare l’emergenza che potrebbe concretamente verificarsi, ovvero la mancanza o il razionamento dell’acqua. "L’avvento della stagione estiva è comunemente riconosciuto come uno dei periodi dell’anno in cui maggiore è l’insorgenza di situazioni di rischio e di disagio per la popolazione detenuta - si legge nella circolare. Nell’ottica della tutela della vita e della salute delle persone detenute ali ‘interno delle strutture penitenziarie appare quanto mai necessario richiedere di porre in essere ogni iniziativa tesa ad incrementare le attenzioni ed affinare i controlli, per prevenire l’insorgere di situazioni di disagio". Particolare attenzione sarà riservata "al problema derivante dall’eventuale razionamento dell’acqua potabile, vista la possibile emergenza idrica, predisponendo dei piani adeguati a fronteggiare le necessità che dovessero presentarsi ". Considerata la possibile emergenza idrica e l’eventuale "razionamento con chiusure da parte dei gestori del servizio pubblico in questione, si invita - scrive il direttore generale - a voler predisporre un piano adeguato per far fronte alle necessità che dovessero presentarsi". Quelle piccole città circondate da muri, quei microcosmi isolati dal resto del mondo, potrebbero pagare una tassa quanto mai salata. "Si chiede, inoltre, di adottare tutte le cautele necessarie al fine di rendere più favorevole la convivenza all’interno delle strutture penitenziarie in tale periodo" specifica il Dap, ben consapevole che vivere in quelle piccole città circondate da alte mura, è frustrante e alienante. Anche per chi soltanto ci lavora. "L’eccezionale ondata di gran caldo che sta interessando il Paese tutto, impone di prestare massima attenzione affinché siano il più possibile alleviate le condizioni di disagio dei detenuti e del personale accasermato - prestando la massima attenzione alle possibili richieste che dovessero pervenire" al fine di assicurare condizioni di maggior benessere possibile. Quindi, specifica il Dap, si pregano i direttori degli istituti di pena "di voler vigilare affinché negli istituti, compatibilmente con le esigenze di sicurezza, siano previste particolari accortezze". Il Dap suggerisce una diversa modulazione degli orari dei passeggi per evitare che le persone siano all’aria nelle ore più calde della giornata. Quindi assicurare e incrementare la funzionalità, nei cortili di passeggio, dei punti idrici a getto o dei cosiddetti nebulizzatori, oppure realizzare, laddove sia possibile, aree ombreggiate. O ancora favorire la permanenza dei detenuti in spazi comuni che, per le caratteristiche strutturali possano assicurare un maggiore confort quanto a refrigerio. Quindi, con riferimento agli istituti "penalizzati da una aggettiva carenza di acqua per l’eventuale razionamento idrico da parte dei gestori del servizio pubblico, prevedere la fornitura ai detenuti di acqua potabile in bottiglia nonché di toniche per ogni stanza da utilizzare quale riserva in caso di improvvisa mancanza di acqua". Considerando che alcuni istituti "negli anni più sovraesposti al problema, si sono già attrezzati in tal senso". Quindi si suggerisce ancora l’aumento di disponibilità di frigoriferi nei reparti per il deposito di bottiglie d’acqua o altri generi alimentari, anche al fine di evitare il dispendio di acqua dai rubinetti utilizzata per refrigerare. O ancora "riformulare, pur sempre nel rispetto delle tabelle vittuarie, i menù giornalieri prevedendo la disponibilità degli alimenti consigliati nella stagione estiva, agevolandone la disponibilità e l’acquisto anche tramite il sopravvitto". Attenzione anche ad "assicurare l’apertura dei blindi delle stanze detentive, durante le ore notturne, per favorire il circolo dell’aria" o "sensibilizzare l’area sanitaria a prestare la massima attenzione alle persone detenute che, sotto il profilo della salute, possano maggiormente risentire delle temperature cosi elevate". Attenzione e umanità - Come accade a Poggioreale da quando la gestione della casa circondariale è affidata ad Antonio Fullone. Il direttore del "Giuseppe Salvia" fa quello che può, anche per alleviare le sofferenze dovute al caldo. Poggioreale è una delle poche case circondariali a poter dire di avere un frigorifero in ogni camera. Non solo. Si cerca di far passare ai reclusi quanto più tempo possibile all’esterno delle celle e, durante la notte vengono lasciate le porte blindate aperte al fine di far passare aria fresca. "Facciamo il possibile, ma con una carenza di personale e un sovraffollamento quasi costante, i momenti di tensione tra detenuti possono generarsi comunque". Cucina e teatro: la seconda vita in carcere di Alessandro Cannavò Corriere della Sera, 30 luglio 2017 Maschi oltre il 90% dei detenuti. Il lavoro e l’impegno creativo riducono la recidiva a un terzo. I benefici dell’attività sulla scena. Ma resta il nodo dell’affettività. C’è il riscatto dell’ex skinhead Luigi Celeste, omicida del padre-padrone, che è rinato con lo studio e, dopo aver scontato una condanna a nove anni, ora è un professionista esperto di sicurezza informatica: storia che ha raccontato in un libro emozionante, "Non sarà sempre così" (Mondadori). E c’è la conquista di Ahmed, una ragazzo egiziano finito dentro per spaccio di droga, partito da semianalfabeta e riuscito a diplomarsi grazie agli insegnanti volontari del Cpia: ora frequenta la Bocconi e dà ripetizioni al doposcuola. Ma c’è anche l’orgoglio di una compagnia teatrale di detenuti ed ex detenuti, Opera liquida, che nello spettacolo "Undicesimo comandamento" riflette sulla violenza contro le donne. Solo qualche esempio di uomini che cambiano dentro le mura del carcere, il luogo che più di tutti divide la società tra coloro che lo vedono esclusivamente come centro di punizione (e di perdizione, da cancellare dalla vista e dalla mente) e le centinaia di dirigenti, operatori, volontari che si impegnano ogni giorno per costruire un percorso di dignità e di recupero. Come indica, peraltro, l’art. 270 comma 3 della Costituzione, rinforzato dalla riforma carceraria del 1975 che mise fine all’impermeabilità degli istituti penitenziari rispetto al mondo esterno. Oltre il 90% della popolazione carceraria è maschile. "Le percentuali di sempre, ma in 40 anni la natura degli ospiti è profondamente cambiata - spiega Luigi Pagano, provveditore dell’amministrazione penitenziaria lombarda. Un tempo avevamo una delinquenza italiana in orizzontale, cioè con una radicalizzazione nel territorio molto elevata. Tanto per intenderci, le famiglie dei Vallanzasca, dei Turatello, dell’ndrangheta rurale. Oggi oltre il 50% dei carcerati è straniero. Ragazzi per lo più soli, senza une rete di parenti o amici e senza un’idea di futuro al di fuori delle strutture penitenziarie. Questa popolazione mette in crisi la stessa funzione del carcere, diventato un centro di assistenza di prima necessità". Lo conferma Gloria Manzelli, direttrice della casa circondariale milanese di San Vittore, struttura in prima linea con i detenuti in attesa di giudizio che come molti altri penitenziari ha una squadra di comando femminile. "Da noi gli stranieri sfiorano il 70%. E per molti questo è il primo approdo sicuro: qui vengono vestiti, nutriti regolarmente, visitati dai medici, gli si offre di frequentare delle scuole. Soggetti che devono certo scontare una pena, ma comunque persone. E nonostante alcuni episodi di aggressività, spicca in loro la solitudine e la fragilità". "Molti sono drogati e rivelano un forte disagio mentale - spiega la funzionaria pedagogica Silvana Di Mauro. Il supporto psicologico e psichiatrico è basilare, è previsto per tutti i detenuti; a chi arriva senza un documento cerchiamo di ricostruire un’identità. Un lavoro paziente da fare con i consolati". "Per parecchi bisogna considerare anche lo shock dopo un viaggio allucinante, le carceri libiche, la traversata e il salvataggio dai gommoni", aggiunge un’altra educatrice, Michelangela Barba, che mette in luce l’importanza degli agenti di rete "perché siamo chiamati a un lavoro anche fuori dal carcere come nella ricerca di case popolari che possano permettere di attuare, quando l’entità della pena lo consente, la custodia cautelare come misura alternativa". Pur nell’emergenza costante della prima accoglienza e nella cronica mancanza di risorse, San Vittore è riuscita a mettere in piedi una serie di progetti che sono diventati un’eccellenza nel panorama penitenziario, come la sartoria che realizza gli abiti da sposa e le toghe dei magistrati o il laboratorio di pasticceria riservato ai giovani-adulti (18-25 anni). E poi i concerti di canto, gli incontri con gli scrittori e la proiezione in diretta su megaschermo della prima della Scala, diventata una tradizione nell’incontro con la cittadinanza. "Ogni iniziativa di cultura è un’occasione di curiosità, un’esperienza che molti non avrebbero potuto nemmeno considerare - riprende Di Mauro. Due anni fa, assistendo al filmato dello show dell’Albero della Luce all’Expo, un detenuto venne a dirmi emozionato: io pensavo che questa musica la potessero ascoltare sono i ricchi. Aveva fatto la sua rivendicazione di class". Con i suoi tre istituti penitenziari, Milano è lo specchio della difficile ma convinta scommessa per un carcere del recupero e del reinserimento. L’avanguardia è a Bollate, 1210 detenuti, di cui 1100 uomini con 35 ergastolani, 300 condannati per delitti a sfondo sessuale, 400 tossicodipendenti o alcoldipendenti. Qui con una popolazione che ha per l’80% un fine-pena medio, il rapporto italiani-stranieri si ribalta: i connazionali sono il 70%. Sin dalla sua costituzione, 17 anni fa, Bollate ha puntato al cambiamento e ironicamente viene soprannominato "il carcere a cinque stelle": detenzione "dinamica", piena libertà di movimento già molto tempo prima della sentenza Torreggiani (la condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti umani per trattamento degradante dovuto a sovraffollamento) che nel 2013 ha avuto come effetto l’apertura delle celle durante il giorno. A pranzo e a cena il ristorante stellato InGalera, all’interno della struttura, è un via vai continuo di gente. "Un mezzo mediatico efficacissimo: i detenuti coinvolti hanno imparato un mestiere, hanno capito cos’è la disciplina e il gioco di squadra; il pubblico ha la possibilità davanti a un piatto di pasta di riflettere sul carcere e di cambiare l’opinione sull’esecuzione pena", afferma il direttore Massimo Parisi. Il nodo culturale è costituito dalle misure alternative alla carcerazione e Parisi è il primo ad ammettere che ogni caso di fuga è una fitta al cuore "perché danneggia un progetto utile alla società. Progetto che invece riduce sensibilmente la reiterazione del reato. I detenuti che lavorano all’esterno si spendono anche a favore degli altri, imbiancano le scuole, puliscono i parchi". Da un lato l’obbligo di garantire la giustizia, dall’altro la necessità di creare opportunità: a Bollate tutto si basa su un patto di fiducia che richiede nell’organizzazione un dialogo costante con le guardie carcerarie e con i detenuti. "Esaminiamo ogni problematica con i rappresentanti dei vari reparti e richiamiamo tutti al senso della collettività. Se qualcosa va storto, si decide per restrizioni momentanee: non a scopo punitivo ma per salvare il progetto. Ma allo stesso tempo se si lavora bene bisogna dirlo, la gratificazione è importante". A fronte di una media nazionale vicina al 70%, la recidiva a Bollate crolla al 20%. "Qualità delle relazioni certo, ma per essere credibile il carcere deve anche essere un posto di legalità, altrimenti rischia di fare da specchio alla propria utenza", afferma Roberto Bezzi, professore di scienza dell’educazione e diritto all’Università di Bicocca e responsabile dell’Area Educativa - Chiarito questo, il carcere deve riempirsi di contenuti". Bezzi ha un collaboratore particolare, Gianluca Sanzano, che sconta una pena fino al 2024, "Sono giunto a Bollate - dice - dopo anni in istituti invivibili per sovraffollamento e abusi delle guardie. La riflessione sul danno che ho commesso l’ho fatta qui". Sanzano lavora allo sportello giuridico che esamina tutte le richieste dei detenuti, dai permessi alle telefonate, ai colloqui; inoltre organizza le attività sportive e porta in giro i numerosi visitatori che varcano i cancelli. "Soprattutto le scuole. Gli studenti arrivano ignari di tutto, seguono con sorpresa e interesse tutte le nostre attività, alcuni di loro vanno via piangendo per la commozione". A Bollate c’è una nutritissima libreria e c’è un maneggio che accoglie i cavalli maltrattati. "Usiamo attrezzi contundenti come i forconi per il fieno ma non abbiamo mai gli agenti alle calcagna". All’interno il lavoro coinvolge 250 detenuti, molti sono impiegati nella telefonia per Wind e 3 e in una cooperativa di call center, Bee 4, messa in piedi da un ex detenuto. La selezione tiene conto in primo luogo dei carcerati con pene lunghe. "Si arriva anche a prendere 1200 euro al mese, ai quali bisogna detrarre il mantenimento nella struttura. Resta del denaro che può aiutare la famiglia. Ma anche il compagno di cella che non ha avuto la possibilità di lavorare". Per chi lavora e ha in sentenza anche un risarcimento, viene aperto un libretto postale sul quale, a rate mensili, viene avviato il pagamento. Mattia Archinito, 24 anni, una condanna all’ergastolo per un doppio omicidio, è tra coloro che testano i dispositivi di allarme prima di metterli sul mercato. "Curioso no?", dice con amara autoironia. Come si vive con un destino di fine pena mai? "Non mi sono reso conto subito di quello che ho fatto. Finché un giorno a un’udienza del processo non ho visto la mamma di uno dei due che ho ucciso piangere come la mia. E mi è venuta addosso tutta la realtà. È stata dura non esserne schiacciati per il rimorso. Mi sono detto: d’ora in avanti dovrò fare qualcosa di costruttivo, dovrò sempre impegnare la mente". Mattia si è diplomato in ragioneria, oltre al lavoro ci sono il maneggio e il pugilato che ha praticato sin da ragazzino. E poi i laboratori di falegnameria. I suoi orizzonti: dopo otto anni di percorsi lavorativi potrà arrivare qualche permesso, dopo 16 si potrà sperare in una semilibertà condizionale. E l’amore, il sesso? "Ho detto alla mia ragazza di rifarsi una vita, ma lei continua a venire a trovarmi. Più che il sesso è l’affettività che ci viene negata. E questo lo trovo profondamente ingiusto". Un dibattito, quello dell’affettività dei detenuti, sempre più in primo piano. A svelare senza remore i propri sentimenti sono coloro che si avvicinano al teatro. "Il lavoro sul corpo ci dà fiducia e forza - dice Christian Fiore, fine pena 2035, ora socio della cooperativa Estia, tuttofare dal tecnico luci al manovratore di scena, oltre che attore. Il pubblico viene a vederci recitare nel nostro teatro dentro il carcere, paga un biglietto, ci applaude per quello che mostriamo in scena, senza pregiudizi. Alla fine c’è l’incontro, il dialogo. Per noi è molto gratificante". Il teatro è il formidabile motore di trasformazione in molti istituti penitenziari della penisola. Capostipite, nel 1988, il Teatro Fortezza di Volterra, guidato dal drammaturgo Armando Punzo. Oggi si va dall’esperienza ventennale a Palermo dell’attore Lollo Franco che opera all’Ucciardone ("Qui una volta i mafiosi gestivano il mondo, mentre oggi mettiamo in scena la Via crucis") agli exploit degli attori di Rebibbia consacrati nel film dei fratelli Taviani Cesare deve morire. Ma è il terzo carcere milanese, quello di Opera, ad analizzare i benefici che scaturiscono dall’attività scenica. "Questo è stato il primo carcere ad avviare un laboratorio del musical per i detenuti di massima sicurezza", spiega il direttore Giacinto Siciliano che ha dato una decisa sterzata culturale alle attività del carcere. "In generale, grazie ai benefici delle attività pedagogiche, abbiamo potuto ridurre in pochi anni gli agenti di sorveglianza da 80 a 42". Per i carcerati di media sicurezza, c’è tra le varie progettualità teatrali, la realtà di Opera Liquida che organizza un festival dentro e fuori la struttura penitenziaria. "Abbiamo cominciato nel 2009 con uno spettacolo sul senso della vita ispirato dal coma vegetativo di Luana Englaro, - racconta la regista e fondatrice della compagnia Ivana Trettel - ora con Disequilibri circensi riflettiamo sulla diversità e le distanze culturali: un laboratorio di 12 attori multietnici. La cosa che mi sorprende è la presenza costante nelle mie compagnie di ex detenuti diventati attori professionisti che tornano all’interno del carcere per creare con noi gli spettacoli. Una prova di attaccamento che è anche un esempio di riscatto". Analizzando le attività culturali di Opera (anche con un dettagliato questionario posto a un campione di 270 detenuti) Filippo Giordano, docente di Social Entrepreneurship and Impact Investing presso l’Università Bocconi e Ricercatore di Economia Aziendale presso l’Università Lumsa di Roma, ha coordinato la ricerca L’impatto del teatro in carcere - Misurazione e cambiamento del sistema. "La trasformazione è evidente in rapporto a chi non fa nessuna attività. Dati alla mano, il teatro porta anche un benessere fisico: diminuiscono le richieste di visite mediche, si riducono gli episodi di autolesionismo, si stempera la conflittualità. Sorprendente, inoltre, come cambi l’atteggiamento della polizia penitenziaria verso il detenuto-attore, come si crei una relazione, anche se sulla carta il dover accompagnare la compagnia all’esterno del carcere per gli spettacoli genera stress e maggior lavoro". Insomma, i segni del cambiamento ci sono, ben evidenti, nel mare delle emergenze e dei drammi che costellano il sistema carcerario italiano. Ed è l’apporto della società civile, dal sostegno economico per i progetti all’impegno delle migliaia di volontari, a garantire molte attività. Sì perché se si dovesse contare solo sui soldi pubblici questa realtà educativa e di recupero sarebbe ridotta al lumicino. "Ogni detenuto - riprende Giordano - costa allo Stato in media oltre 140 euro al giorno ma solo l’8% di questa cifra è destinata al soggetto, il resto serve a mantenere e a far funzionare tutto il sistema. Ebbene, di quell’8%, appena un 2,5% viene impiegato per attività trattamentali". Tradotto in spiccioli, poco più di 20 centesimi. La giustizia è una cosa da barboni di Filippo Facci Libero, 30 luglio 2017 La legge vale e non vale. Un comportamento è proibito e può anche non esserlo. I giudici rispondono solo alla legge, ma la legge risponde solo ai giudici. Non stiamo vaneggiando, stiamo solo cercando di definire la straordinaria elasticità della nostra giurisprudenza ogni volta che la magistratura ci mette mano. Abbiamo due esempi fantastici da fare. Uno resta quello dell’altro giorno, e di cui ha parlato anche Libero di ieri: un barbone (clochard) a Palermo è stato dapprima condannato a pagare una multa di 1000 euro perché dormiva in strada assieme ai suoi cani in una "casa" di cartone, col pavimento fatto di pedane: cosa che sarebbe banalmente vietata in tutto il mondo occidentale, ma che a Palermo aveva il sovrappiù di un’ordinanza del sindaco. Nota: ovvio che la repressione non sia l’unica e ottimale soluzione, visto che parliamo di emarginati sociali e mentali che non sanno come sbarcare il lunario e sui quali i vigili e le forze dell’ordine certo non si divertono ad accanirsi. A ogni modo non conosciamo la ragione per cui il 45enne Antonio Spina è stato denunciato e altri no, non è questo a interessarci. Ci interessa che la Cassazione (dopo ricorso di un avvocato, ovvio) non ha cercato di abbassare la multa e insomma di limitare i danni, macché, ha proprio deciso che "il fatto non sussiste" (sentenza senza rinvio) e che le precedenti condanne erano carta straccia. Leggiamo: "Violare l’ordinanza del sindaco che vieta bivacchi o accampamenti di fortuna, tali da intralciare la pubblica viabilità, non costituisce reato di inosservanza dell’ordine dell’autorità". Ah no? E allora che ordinanza è, a che serve? Leggiamo: "L’ordinanza sindacale è dettata in via preventiva ed è indirizzata a una generalità di soggetti". Ah, capito: è preventiva. Ed è generica: un po’ come quelli che mettono il cartello "attenti al cane" anche se il cane non ce l’hanno. Tutto ciò è molto curioso, ma anche interessante: perché nei fatti la Suprema Corte retrocede le ordinanze e cioè i regolamenti (che pure risultano tra le fonti di legge, te lo insegnano a scuola) a semplice spauracchio. Aggiungiamo solo che la sentenza della Cassazione (che si occupa anche di queste cazzate) arriva a sette anni dai fatti contestati. Ma dicevamo che gli esempi sono due, e un altro, infatti, risale al maggio dell’anno scorso. La Cassazione in quel caso annullò una condanna per furto inflitta a un barbone che aveva rubato al supermercato. Parliamo di wurstel e formaggio, neanche qui non c’era certo da accanirsi: che può fare un magistrato in casi come questo? Può fare come sempre: chiedere il minimo della pena o derubricare il furto in tentativo di furto (l’ucraino non era ancora uscito dal supermercato) e poi chiedere la condizionale più una multa il più bassa possibile. La Corte d’Appello di Genova, infatti, aveva fatto così: sei mesi con la condizionale e 160 euro, di meno non poteva, perché il tizio aveva dei precedenti per reati identici. Dopodiché la Cassazione (che, ripetiamo, si occupa di cazzate del genere) è entrata nel merito (e non potrebbe) e ha deciso che "egli si impossessò di quel poco cibo per far fronte ad una immediata e imprescindibile esigenza di alimentarsi, agendo quindi in stato di necessità". Quindi non è reato: a casa, assolto, anche qui la sentenza è stata annullata senza rinvio. Ora: la Cassazione dovrebbe orientare la giurisprudenza, non inventarsela: non, cioè, complicare le cose ponendo anche problemi su come giudicare l’effettiva fame di un tizio, o indagare - suggeriamo noi - sulla presenza di una Caritas nei dintorni, o rischiare di sistematizzare - visto che il tizio aveva già rubato che in generale i barboni, in Italia, pardon i clochard, possono rubare cibo al supermercato. Ma la magistratura, spesso, fa un mestiere che non è il suo. Da molto tempo. Napoli: a Poggioreale torna l’incubo sovraffollamento La Repubblica, 30 luglio 2017 Il direttore: "Problemi per il caldo, puntiamo su nuovi reparti". Torna l’incubo sovraffollamento al carcere di Poggioreale: la grande struttura nel centro di Napoli ospita attualmente 2.100 detenuti su una capienza che dovrebbe essere di 1.500, visto che due reparti sono in ristrutturazione. Una situazione che preoccupa il vertice della casa circondariale, visto che arriva in piena estate, quando la temperatura nelle celle sale e il rischio di tensioni tra detenuti cresce. "Il sovraffollamento - spiega all’Ansa Antonio Fullone, direttore del carcere - è in linea con la situazione nazionale che vede in salita il numero dei detenuti. Qui a Poggioreale c’è un problema storico di affollamento, ma negli ultimi anni la situazione era molto migliorata, ora i numeri sono di nuovo in salita. Attualmente siamo a 2.100". Un numero difficile da gestire nella quotidianità, anche se da un punto di vista formale nel carcere viene rispettata la legge che prevede tre metri quadrati per ogni detenuto in cella: "Abbiamo camere grandi - spiega Fullone - la maggior parte dei detenuti ha 4-5 metri a testa, ma condivide lo spazio con altre quattro o cinque persone, il che significa condividere un solo bagno e vuol dire che d’estate la temperatura nelle celle è molto calda. Questo crea tensioni tra i detenuti. Io faccio spesso colloqui di gruppo per stemperarle e ci impegniamo a rendere la vita meno difficile: siamo una delle poche case d’Italia con un frigorifero in ogni camera, cerchiamo di far passare loro il maggior tempo possibile fuori dalla stanza e di notte lasciamo le porte blindate aperte per favorire la circolazione dell’aria". Fullone spiega che "i detenuti capiscono il nostro impegno e non ci sono state proteste finora. Ma ci sono tensioni a che tra detenuti di diverse sezioni: alcune, ristrutturate di recente, hanno ad esempio la doccia in ogni cella, altre zone sono più vecchie e questo viene colto come una discriminazione". Due le zone attualmente chiuse per lavori: uno è quasi pronto ed è nella fase dei collaudi, per l’altro ci vorrà tempo, perché la ditta che eseguiva i lavori è fallita. E il sistema va in sofferenza. Poggioreale è una casa circondariale, qui arrivano ogni giorno in media 20-30 nuovi detenuti, con picchi quando ci sono blitz delle forze dell’ordine nei confronti di organizzazioni criminali, ma c’è un ricambio verso altre carceri visto che il carcere non ospita persone che hanno una fine pena più lunga di 5 anni: "Purtroppo - spiega Fullone - visto che l’affollamento sale in tutta Italia il sistema nazionale va verso la saturazione. Il rischio c’è se nei prossimi anni il trend di detenuti resterà in salita. Ma già ora si fa più fatica a spostare i detenuti. Il reinserimento? Lavoriamo cn lo stesso impegno anche se quando i detenuti aumentano diventa tutto più difficile " Al sovraffollamento si aggiunge infatti anche la carenza di organico: "Non è un problema grave - precisa Fullone - perché riusciamo a lavorare e gestire Poggioreale anche se ci mancano trecento addetti di polizia penitenziaria. Dovremmo averne 1060 ma ce ne sono attualmente 760, di cui 250 hanno diritto ai permessi previsti dalla legge 104. In più il personale sta invecchiando e i nuovi assunti vengono mandati nelle carceri del nord, manca il riequilibrio". La vita difficile è quella dei detenuti, anche se a Poggioreale, spiega Fullone "quest’anno c’è stato un solo suicidio, a gennaio. Dai detenuti arriva la richiesta di continuare la politica dell’alleggerimento delle difficoltà e noi cerchiamo di accontentarli". Uno sforzo che toccherà anche al nuovo direttore di Poggioreale che prenderà il posto di Fullone: nelle prossime settimane il funzionario pugliese, dopo tre anni a Napoli, andrà infatti a occupare il suo nuovo posto di provveditore agli istituti di pena di Toscana e Umbria. Milano: carcere di Bollate, perché è esemplare? di Giulia Biffi Il Giorno, 30 luglio 2017 La II Casa di Reclusione di Milano - Bollate, attiva dal Dicembre del 2000, è un’eccellenza nel tristemente noto panorama carcerario italiano. L’istituto, semplicemente applicando le leggi già esistenti e senza costi maggiori rispetto ad altre strutture, gestisce la reclusione dei detenuti in modo tale da umanizzare la pena da un lato e da renderla efficace dall’altro. Nel carcere di Bollate si tenta di realizzare un progetto di custodia attenuata, il cui obiettivo è la restituzione del detenuto alla Società. Ai condannati si offrono ampi spazi di libertà, tanto che possono girare liberamente per la struttura, infatti non ci sono né settori né celle chiuse, o, ad esempio, alle madri in carcere è permesso tenere i propri figli almeno fino al terzo anno di età in strutture idonee ed asili accoglienti. La Direzione impone ai suoi detenuti di cimentarsi in uno dei tanti percorsi offerti, non solo attività di tipo ludico-ricreativo come sport nei campi da calcio o tennis, musica nelle sale prove, corsi di teatro o lettura in biblioteca ma, soprattutto, attività lavorative sia interne: dal call center di un colosso come la Wind, alla realizzazione del periodico di informazione "Carte Bollate", nato nel 2002, in cui si raccontano le amarezze e i sogni dei reclusi ma che ospita anche commenti di esperti di diritto, sociologia, psicologia, ad una sartoria, una falegnameria, fino anche a un rinomatissimo ristorante "InGalera", aperto al pubblico e in cui si consiglia la prenotazione fin dal mattino, e a lavori esterni al carcere. A Bollate inoltre si studia per il conseguimento di un titolo d’istruzione: l’offerta formativa è organizzata grazie al sostegno del Fondo Sociale Europeo e sei detenuti sono anche iscritti all’Università degli Studi di Milano. Tutto questo avvia un processo di responsabilizzazione dell’individuo e permette l’acquisizione di competenze che gli permetteranno di reinserirsi nel contesto sociale esterno. Lo scopo infatti è offrire delle risorse per poter uscire dal sistema delinquenziale. Questa condizione non è possibile per chiunque, ma il detenuto ammesso al progetto riabilitativo viene seguito da un’equipe di educatori che ne osserva la personalità fin dal suo ingresso e, in accordo con lui, redige il percorso più adatto. Su richiesta gli educatori incontrano anche i suoi famigliari e i legali per un confronto riguardo i progressi e le attività. Non è ancora finita: uno dei punti di forza è l’interazione con la comunità, l’istituto vuole essere una risorsa per la collettività e sono molti i detenuti impegnati in lavori di pubblica utilità. I risultati? Una recidiva del 20% (che scende all’8% per chi segue progetti di lavoro specifici) contro il 68% nazionale. Nel lasciare un così ampio margine di autonomia ai detenuti il "rischio zero" certamente non esiste, come spiega il provveditore Luigi Pagano in un’intervista per "Il Giorno", ma - scontare la pena in una cella chiusa a chiave, senza dare un senso alla detenzione, non produce maggiore sicurezza sociale, né dentro né fuori dal carcere. A Bollate abbiamo 1.200 detenuti e il numero di eventi critici è molto più basso rispetto ad altre case di reclusione. La Presidente della Camera Boldrini, dopo una visita all’istituto di due ore nel febbraio di quest’anno, ha definito il carcere di Bollate un modello da diffondere in tutta Italia: un esempio della forma migliore dello Stato. Verona: l’ira del Csm sul giudice Mirenda "fa solo populismo giudiziario" di Silvia Maria Dubois Corriere del Veneto, 30 luglio 2017 Il membro laico Zanettin: "Parla come Davigo, è una polemica fuori luogo. Noi guardiamo le competenze". "Non condivido per nulla quanto detto dal giudice Mirenda, siamo di fronte ad una polemica fuori luogo. Non solo: credo che un certo populismo, che già imperversa in politica, stia dilagando anche in ambito giudiziario". Non ci sta il vicentino Pierantonio Zanettin, consigliere laico del Consiglio Superiore della Magistratura, componente della quinta commissione, quella che si occupa proprio delle nomine per gli incarichi direttivi o semi direttivi. A far discutere sono infatti le dichiarazioni del giudice Andrea Mirenda, presidente della sezione fallimentare del Tribunale di Verona che ha puntato il dito "contro un sistema giudiziario lottizzatorio, arbitrario e improntato a un carrierismo sfrenato che minaccia la nostra indipendenza", chiedendo di essere trasferito all’ufficio di Magistrato di Sorveglianza (che si occupa di detenuti). Zanettin, come interpreta le dichiarazioni del giudice Mirenda? "Da liberale rispetto tutte le opinioni, ma non condivido per nulla i concetti espressi dal dottor Mirenda, che mi paiono venati da un certo "populismo giudiziario", ormai assai in voga e sdoganato soprattutto da Davigo. Personalmente, come componente della commissione incarichi direttivi del Csm, poco mi interessa che il giudice che aspira a un incarico abbia scritto ottime sentenze, che hanno fatto giurisprudenza, o che sia il più anziano fra quelli che hanno fatto domanda. Il mio voto va, invece, sempre a chi possa dimostrare capacità ed esperienze organizzative, che oggi sono essenziali per il buon funzionamento degli uffici". Faccia qualche esempio? "Mi vengono in mente le polemiche che hanno accompagnato la nomina come presidente del Tribunale di Vicenza di Alberto Rizzo, perché proveniente dall’ispettorato del ministero della Giustizia. A distanza di neppure tre anni dalla nomina, il dottor Rizzo viene unanimemente considerato uno dei migliori capi ufficio d’Italia". Mirenda cita le nomine di Napoli, Rovereto e Pordenone come esempio di "quanto sia difficile la carriera direttiva per i magistrati dediti al loro lavoro di scrivania" e per sottolineare come siano favoriti, invece, quelli vicini a correnti o chiamati a Roma per diretta nomina politica... "Il dottor Melillo come capo di Gabinetto del ministero della Giustizia ha dimostrato in questi anni straordinarie capacità di leadership e organizzative, che considero ideali per guidare una Procura così delicata, come quella di Napoli. Il dottor Adilardi, nominato Presidente del Tribunale di Rovereto, attualmente fuori ruolo al Csm come magistrato segretario, ha certamente capacità organizzative e conoscenze ordinamentali neppure paragonabili ai suoi concorrenti". E la polemica su Pordenone e la questione "più politica"? "Per quanto concerne invece il Tribunale di Pordenone, va precisato che la questione non è ancora definita. In questo caso io però non sostengo la candidatura del dottor Tenaglia, perché, pur stimandolo magistrato molto preparato, ritengo inopportuno che venga nominato chi fino solo a quattro anni fa era deputato. Come credo sia noto, mi sono occupato come parlamentare proprio del caso dei rientro dei magistrati politici, auspicando norme assai più rigorose di quelle attualmente vigenti". Acireale (Ct): carcere per minorenni, è allarme sicurezza per carenze di personale blogsicilia.it, 30 luglio 2017 L’Istituto Penale per i Minorenni di Acireale ancora una volta al centro di episodi che raccontano la violenza da parte dei detenuti nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria e la carenza di personale che mette a rischio la sicurezza. "Nell’arco di due giorni, precisamente tra il 23 e il 24 luglio scorsi, all’interno della struttura si sono verificati due fatti molto gravi - spiega il segretario nazionale della Uil Pubblica Amministrazione Polizia Penitenziaria Armando Algozzino - che danno la misura dello stato emergenziale che caratterizza gli istituti minorili a causa dell’esiguità degli organici, una condizione che pone a repentaglio sia la vita dei detenuti che quella del personale, come già sottolineato più volte dal sindacato". Gli episodi dei quali dà notizia il segretario riguardano l’aggressione fisica, da parte di un detenuto italiano, di due agenti della Polizia penitenziaria: un fatto che Algozzino reputa particolarmente grave poiché il minore resosi protagonista dell’accaduto è lo stesso che, nel mese scorso, aveva già incendiato una cella dell’Istituto. "Malgrado ciò - aggiunge l’esponente della Uil - il Dipartimento della Giustizia Minorile non ha adottato alcun provvedimento nei confronti del detenuto, e neppure a tutela dei poliziotti penitenziari". L’altro episodio, invece, ha avuto quale protagonista un altro recluso infortunatosi al ginocchio in occasione di una partita di calcio: è stato necessario attendere più del dovuto prima di accompagnarlo in ospedale, poiché non era possibile eseguire la traduzione a causa dell’assenza di personale. "Per rimediare e assicurare al detenuto le cure del caso - chiarisce il segretario nazionale - il direttore dell’Istituto ha dovuto piantonare per circa tre ore il minore ricoverato in ospedale: ciò dà la misura della drammaticità della situazione ad Acireale e, più in generale, negli istituti minorili e nelle carceri siciliane". L’Istituto di via Guido Gozzano è da tempo al centro dell’attenzione della Uil Pubblica Amministrazione Polizia Penitenziaria: nel giugno dell’anno scorso, otto minori italiani colpirono con violenza un detenuto di colore, salvatosi solo grazie all’intervento di un assistente capo e di un agente, a loro volta raggiunti da calci, pugni e colpi di bastone durante l’aggressione. Nell’ottobre dello stesso anno, il tentativo di suicidio di un recluso venne sventato da un agente: un intervento salvifico, al pari di quello dei tre colleghi che, all’inizio dell’estate, hanno spento le fiamme evitando la tragedia che un eventuale incendio avrebbe potuto provocare. Trieste: Casa circondariale, conferito il premio "Oltre Il Muro" al miglior corto italiano Ristretti Orizzonti, 30 luglio 2017 Il 7 luglio 2017 nell’ambito della 18° edizione di ShorTS International Film Festival si è svolta - presso la Casa Circondariale di Trieste - la cerimonia di premiazione che ha visto assegnare a "A Girl Like You" il premio "Oltre Il Muro" al miglior corto italiano. La motivazione della premiazione "per una sceneggiatura accattivante, che affronta il tema della solitudine, della crescita e delle paure di un’adolescente alla ricerca della libertà, attraverso dialoghi equilibrati, luoghi sospesi nella contrapposizione fra il reale e il mistico, e la recitazione delle due protagoniste" è stata preceduta da un indirizzo di saluti e di ringraziamenti da parte del portavoce della delegazione delle persone private della libertà che, con una metafora brillante e commovente, ha immaginato un vecchio treno a vapore con a bordo la "società buona" - i liberi - e a seguire un carrello ferroviario manovrato a spinta manuale con a bordo la "società cattiva" - i ristretti - che con estrema fatica e grandissimi sforzi cerca di stare al passo del treno nella speranza di raggiungerlo e poterci salire. Alcune persone sul treno aiutano, alcuni no. La maggioranza è indifferente. L’indifferenza si è colta chiaramente nella sala conferenza della Casa Circondariale di Trieste dove le presenze erano esigue; l’indifferenza si è colta laddove nessun accenno, alla pur importante premiazione, è stata data sulla stampa. Dialogo, confronto e conoscenza dovrebbero invece essere gli strumenti da utilizzare per superare pregiudizi e incomprensioni e permettere un percorso di reinserimento "porgendo la mano e aiutando chi s’impegna con tanta energia a salire su quel treno". Doveroso il ringraziamento agli organizzatori e al direttore artistico Chiara Valenti Omero che con entusiasmo e coinvolgimento ha presieduto la celebrazione. Il Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti di Trieste, Elisabetta Burla Migranti. Missione senza tetto (costa 7 milioni) né legge internazionale di Liana Vita Il Manifesto, 30 luglio 2017 Il costo dell’invio di navi militari italiane in Libia non sarà inferiore a Mare Nostrum ma molto più pasticciata. Innanzitutto serve un ripasso di diritto internazionale. Il principio di non-refoulement così come enunciato nella Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951 non lascia margini interpretativi: l’obbligo di non inviare un rifugiato, o un richiedente asilo, in un paese dove potrebbe essere a rischio di persecuzione, non è soggetto a restrizioni territoriali. Se non bastasse, una esplicita norma sul non respingimento è contenuta nell’art. 3 della Convenzione contro la tortura del 1984, che proibisce il trasferimento di una persona in un paese dove vi siano fondati motivi di ritenere che sarebbe in pericolo di subire tortura, arbitraria privazione della vita o altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti. Anche l’art. 19 della Carta dei diritti fondamentale dell’Unione Europea è molto chiara: il divieto di respingimento non può in alcun modo essere aggirato, neanche quando si chiamano i respingimenti in maniera diversa, e cioè azioni di soccorso in mare oppure operazioni tese a stroncare il traffico di persone. Così dice la Corte europea dei diritti umani nella parte finale della sentenza di condanna all’Italia nel 2012 sul caso Hirsi-Jamaa e altri, definendo illegali i respingimenti verso la Libia del 2009. E già in una sentenza del 2001 la Cedu aveva sostenuto che la competenza giurisdizionale di uno Stato può essere estesa extra-territorialmente se quello Stato "attraverso l’effettivo controllo del territorio in questione e dei suoi abitanti all’estero come conseguenza di occupazione militare o attraverso il consenso, l’invito o l’acquiescenza del governo di quel territorio, esercita tutti o parte dei pubblici poteri che di norma sono esercitati da quel governo". E, più recentemente, il regolamento istitutivo dell’agenzia Frontex del 2014 specifica ulteriormente che gli Stati membri impegnati a prestare assistenza a qualunque natante o persona in pericolo in mare e durante un’operazione marittima, devono assicurare che le rispettive unità partecipanti si attengano all’obbligo internazionale di non respingimento, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica dell’interessato o dalle circostanze in cui si trova. Rispolverati i fondamentali, la domanda è: può tutto questo impianto di diritto internazionale essere accantonato - e di fatto scavalcato - se a fare il lavoro sporco davanti alle coste di Tripoli non saranno i mezzi della Marina militare italiana ma il più esile - e tutto da mettere in piedi - dispositivo della Guardia costiera libica? Immaginare lo scenario che potrebbe verificarsi nei prossimi mesi in quel tratto di Mediterraneo evoca immagini terribili o drammaticamente comiche, se non stessimo parlando di esseri umani disperati e già duramente provati da quanto subito in Libia prima di imbarcarsi: gommoni carichi di donne, uomini e bambini in mare, senza motore, alla deriva, in attesa che vengano prima intercettati dalle nostre navi militari e poi avvicinati dalle motovedette libiche per essere riportati indietro in modo che tecnicamente non si possa parlare di respingimento. E una volta in Libia? A chi verranno riconsegnati? Ci saranno i campi delle organizzazioni internazionali? Ci saranno i funzionari europei pronti a raccogliere le richieste di asilo e a smistare i richiedenti nei diversi Stati europei? Domande a cui oggi evidentemente non si può dare una risposta. Tutto ciò sempre che la situazione in mare non sia grave e i gommoni non stiano per affondare, circostanza che comporterebbe invece l’obbligo immediato da parte dei nostri militari di intervenire, come tra l’altro orgogliosamente fatto finora. E a quel punto? Non potremmo riportare i profughi in Libia e, secondo quanto previsto dal diritto del mare, ci si dirigerebbe in Italia, luogo sicuro più vicino. Il piano del governo Gentiloni dovrebbe costare circa 7 milioni di euro al mese, cifra di poco inferiore al costo mensile dell’operazione Mare Nostrum. Un dettaglio su cui interrogarsi profondamente di fronte alla svolta rischiosa e irresponsabile che si sta attuando. Migranti. Le insidie della missione italiana di Franco Venturini Corriere della Sera, 30 luglio 2017 La nostra presenza davanti alla Tripolitania per fermare i trafficanti di uomini deve fare i conti con gli interessi di questi criminali e i rigurgiti nazionalisti. È una missione di deterrenza, quella che la Marina e altre forze italiane svolgeranno davanti alla Tripolitania subito dopo l’approvazione parlamentare. Da tempo, ben prima di inviare una richiesta di appoggio a Paolo Gentiloni, il premier del governo di Tripoli Fayez al Sarraj faceva presente che i tentativi della Guardia costiera libica di fermare i gommoni carichi di migranti fallivano perché i trafficanti di esseri umani non esitavano a sparare contro i battelli che volevano intercettarli, ben consapevoli di potersi riparare dietro lo scudo dei loro poveri ostaggi. Soltanto una presenza militare più credibile, è stato il ragionamento italo-libico, può intimorire quei trafficanti e dare copertura alla Guardia costiera. Che potrà, allora, svolgere il suo compito e riportare in Libia gli aspiranti migranti. Al di là dei dettagli operativi peraltro soggetti a mutamenti nel tempo, è questo il senso del non facile compito che l’Italia ha deciso di assumersi in consultazione con gli alleati europei e occidentali. L’intento è di mettere una pistola sul tavolo davanti a un interlocutore senza scrupoli che sin qui in mare era l’unico ad averne una. Se l’operazione riuscirà e sarà adeguatamente sostenuta attraverso rafforzamenti successivi, il risultato potrà essere quello di ridurre sensibilmente gli arrivi di migranti sulle coste italiane. Ma nessuno deve farsi troppe illusioni. Perché i trafficanti, le barche e i gommoni sono troppi, e le acque libiche sono troppo vaste, per pensare a un effetto blocco capace di fermare i flussi. E soprattutto perché sulla missione che l’Italia si accinge a far scattare, in formato inizialmente ridotto, pesano troppi rischi per far rullare i tamburi ancor prima del suo inizio. Il premier Gentiloni ha sottolineato ripetutamente che l’Italia vuole rafforzare la sovranità libica, non certo portarle offesa. Se la Libia fosse un Paese normale basterebbe ricordare che un intervento di supporto ci è stato chiesto dal governo di Tripoli. Ma la Libia non è un Paese normale, ha una infinità di centri di potere. E l’Italia, con le migliori intenzioni, manda pur sempre navi militari nelle acque territoriali libiche. A Tripoli il tira e molla tra il "venite" e il "non venite" sembra risolto, ma sarebbe imprudente pensare che sia finito. Non solo, perché il nazionalismo libico potrebbe spingere qualche unità armata senza etichette ad attaccare quella o quelle navi che l’ex potenza coloniale ha inviato nelle acque che bagnano la patria. Infatti si è sempre detto che un intervento terrestre italiano farebbe il miracolo di unificare i libici contro di noi: in mare potrebbe scattare la stessa trappola. Tanto più che quello davanti alla Tripolitania è un mare solcato da trafficanti di ogni genere, da navi senza bandiera dirette in porti troppo accoglienti, da gente, insomma, che non intende diminuire i propri profitti perché l’Italia vuole intimorire i trafficanti di essere umani. E i trafficanti stessi, d’altronde, non saranno i primi a spendere una parte dei loro ripugnanti guadagni per provare a mettere in fuga i perturbatori dei buoni affari? E ancora, cosa c’è dietro il silenzio di Haftar, che ha comunque autorizzato il suo portavoce a pronunciare parole minacciose? In acque tanto insidiose le unità italiane risponderanno al fuoco contro qualsiasi attacco, e useranno le armi anche se sarà la Guardia costiera libica ad essere attaccata. Come è ovvio se il loro utilizzo deve avere un senso. Ma c’è un’altra grande insidia in questa missione. Cosa si fa con i migranti eventualmente intercettati e salvati? In ogni caso, se necessario con un trasbordo, dovranno essere le motovedette libiche a riportarli a terra in Libia. E poi, dove andranno? Sin qui è capitato che i migranti fermati siano andati in campi di prigionia dove risultano essere frequenti abusi e maltrattamenti di ogni genere. L’Italia non può e non vuole diventare complice di un simile scempio. Serve allora che l’organizzazione Onu per i rifugiati e l’Organizzazione mondiale per le migrazioni piantino radici almeno in Tripolitania e creino centri adeguati all’accoglimento dei migranti intercettati. In vista del passo successivo, quello di creare degli hot spot in Libia per separare i migranti economici dai rifugiati e provvedere da lì al rimpatrio dei primi. Anche Macron si è lasciato sfuggire nei giorni scorsi questo che sta a metà tra un progetto e un sogno. Perché i campi "umanitari" non sono pronti a fare la loro parte in caso di successo dell’operazione italiana, e soprattutto perché la situazione interna libica è troppo instabile e troppo percorsa da scontri armati per credere davvero alla efficace protezione dei migranti, prima o dopo il loro viaggio eventualmente abortito. L’elenco dei problemi e dei pericoli non finisce qui, ma non si può pensare ad una iniziativa che riguardi la Libia senza affrontarli. Criticata da noi stessi per la sua passività, la "politica libica" dell’Italia va questa volta elogiata per il suo coraggio. Un coraggio sulla carta superiore a quello dell’incontro Sarraj-Haftar di Parigi. Ma l’esito della nostra discesa in campo, come quello delle buone promesse patrocinate da Macron, resta appeso a un filo. Che è in mano ai libici. Venezuela. Costituente o rischio guerra civile di Auxilio Belano Il Manifesto, 30 luglio 2017 Altri sette morti nelle ultime 48 ore. L’opposizione minaccia di non riconoscere l’esito del voto. Air France e Iberia, voli sospesi. "Il paese con una delle più grande riserve di petrolio al mondo è sull’orlo del collasso". Si tratta dell’incipit di un articolo di analisi apparso nei giorni scorsi sul quotidiano britannico The Guardian, capace di fotografare al meglio l’attuale - delicata - situazione venezuelana, sull’orlo di una guerra civile. Un Paese dove ogni giorno si contano morti, barricate, violenze, fuoco e scontri politici con tanto di ingerenze esterne, leggi più di altri gli Stati uniti. Ma seppure il dato segnalato dal Guardian, la ricchezza di petrolio del paese, sia scontato, evidentemente non è bastato a garantire una solida guida politica ed economica, non esente da problematiche sfociate in un confronto sociale che miete vittime e che pone in seria difficoltà tutto quanto conquistato dalla rivoluzione chavista. A una situazione peggiorata nel giro di un anno, si è aggiunta un’accelerazione nelle ultime settimane. La convocazione delle elezioni per l’assemblea costituente da parte di Maduro - che spera così di sostituire con un organo a lui più congeniale in termini di appartenenza politica, un parlamento nelle mani dell’opposizione - ha complicato ancora di più la situazione. L’opposizione, su cui ormai anche gran parte della stampa internazionale ha uno sguardo critico per il suo comportamento spesso criminale in piazza e per quanto concerne le entrature politiche (destre e sostegno degli Stati uniti) costituisce uno dei pericoli per Maduro. Oltre a questo, cui si fronteggia la resistenza chavista, che cerca di evitare uno scontro per non fornire un alibi perfetto ai golpisti, rimane la necessità di capire come si è arrivati a questo punto, per comprendere cosa eventualmente non ha funzionato (non solo in Venezuela, basti pensare a Brasile e Argentina) e come porre rimedio. Le oligarchie e le forze eversive, hanno avuto buon gioco a sfruttare le problematiche legate all’attuale gestione del processo bolivariano, portando il paese sull’orlo di una guerra civile. Per quanto riguarda le giornate che si presentano di fronte al Venezuela, non si può certo essere ottimisti: oggi si vota per la Costituente. La Mud vorrebbe boicottarla, ma in questo modo la porrebbe totalmente nelle mani di Maduro. E allora prova a forzare sul campo, per le strade. Il governo ha vietato le manifestazioni, l’opposizione ha lanciato "la presa di Caracas" un mezzo fallimento, specie se contrapposto ai numeri sfoggiati da Maduro nell’ultima giornata di campagna elettorale. Ma il problema non è solo il contrasto politico a Maduro, bensì il futuro del paese e della rivoluzione bolivariana. Rimangono ancora molti punti oscuri su quali saranno gli eventuali interventi sulla costituzione da parte dell’Assemblea, di cui la Mud fino a ieri ha detto di non avere intenzione di riconoscerne l’esito. Nel frattempo: nelle ultime 48 ore sono morte almeno sette persone, tra manifestanti e poliziotti. Numeri che vanno a comporre un quadro drammatico, perché ormai sono oltre cento le vittime totali dall’inizio di questo scontro sotto traccia ma con acme terribili in termini di vite umane. Contro le minacce di violenze e disturbo del voto, il governo si organizza: la presidente del Consiglio nazionale elettorale (Cne), Tibisay Lucena, avverte che in 53 delle 335 circoscrizioni sono stati registrati fatti di violenza politica, che si inseriscono nel contesto dell’ondata di proteste cominciata nell’aprile scorso. Le forze armate, chiamate a garantire lo svolgimento del voto di domani con il dispiegamento di 200mila uomini, hanno fatto sapere che tratteranno qualunque "minaccia" con un "uso proporzionato della forza". Air France e Iberia hanno annunciato la sospensione dei loro voli da e verso Caracas da domani e fino a martedì prossimo, a causa della situazione di instabilità politica e il rischio di violenza in Venezuela. La compagnia spagnola ha spiegato oggi in un comunicato che la sospensione dei suoi voli da Madrid a Caracas è dovuta alla "delicata situazione in Venezuela e alle difficoltà operative e di sicurezza". Egitto. Caso Regeni, il veleno nelle parole di Giuliano Foschini La Repubblica, 30 luglio 2017 Non abbiamo ancora una verità sulla morte di Giulio Regeni, ma c’è chi si prodiga per diffondere interpretazioni malevole sulla sua vita. È accaduto pochi giorni fa a Montecitorio, durante un convegno sull’intelligence organizzato dal deputato M5S Angelo Tofalo, membro del Copasir che lo scorso anno ha girato il Mediterraneo in compagnia di due presunti trafficanti d’armi. Uno degli oratori ha sostenuto che "Regeni incarna il prototipo dell’operatore di intelligence culturale del futuro", come a dire, insomma, che Giulio era una spia: uno dei "tanti giovani che lavorano nel mercato privato dell’informazione che prospera nelle università inglesi". Sono parole pronunciate da Alberto Massari, presidente di un’associazione che si occupa di intelligence, consigliere del movimento grillino in tema di sicurezza forte della pubblicazione di alcuni volumi con la Casaleggio Editori. Le frasi di Massari dimostrano una pericolosa superficialità: Giulio Regeni non ha mai lavorato nel mercato dell’informazione né dell’intelligence, come hanno ribadito più volte gli inquirenti italiani. Era, invece, un ricercatore che si occupava di economia e scienze sociali. Quelle dichiarazioni invece hanno una portata grave perché rilanciano, dal palazzo che è il cuore della nostra democrazia, un argomento posticcio che il regime egiziano, lo stesso che ha permesso il massacro di Giulio, ha usato sin dal principio per dirottare la verità altrove. Un argomento che ogni giorno viene utilizzato da chi cerca di depistare e inquinare le indagini. Ne saranno felici al Cairo. Ne sarà felice chi sostiene che il tempo sia maturo per rimandare in Egitto il nostro ambasciatore, dibattito sul quale tra l’altro non è dato conoscere la posizione dei 5 Stelle, che certo non si sono distinti in questi mesi in attivismo per le battaglie a favore della causa Regeni. Non bisogna mai dimenticare la paura, l’umiliazione fisica e psicologica che per nove giorni Giulio ha dovuto subire senza alcuna colpa. Non bisogna mai dimenticare il dolore di una madre e di un padre che hanno visto abbattersi sul figlio una violenza mostruosa. Non bisogna mai dimenticare che in gioco non c’è solo il lutto di una famiglia ma la dignità di un Paese e di un continente tutto, perché Giulio era un cittadino europeo. Quando si parla di Giulio Regeni, soprattutto dal palco di Montecitorio, si devono usare parole precise. E le uniche possibili continuano a essere: giustizia e verità per Giulio. Polonia. Bruxelles avvia procedura di infrazione per la riforma della giustizia La Repubblica, 30 luglio 2017 Lettera formale della Commissione europea dopo la pubblicazione della legge sui tribunali ordinari. In precedenza il presidente Duda aveva posto il veto alle leggi sulla Corte suprema e sul Consiglio nazionale della magistratura. La Commissione europea ha lanciato formalmente la procedura di infrazione contro la Polonia annunciata il 26 luglio, dopo che ieri la Gazzetta ufficiale polacca ha pubblicato la legge sui tribunali ordinari. Le autorità polacche hanno ora un mese di tempo per rispondere ai rilievi sollevati nella lettera di notifica. La legge firmata nei giorni scorsi dal presidente polacco Andrzej Duda (che pur avendo vinto le elezioni presidenziali come candidato del PiS - il partito di governo - aveva posto il veto alle leggi sulla Corte suprema e sul Consiglio nazionale della magistratura), dà il potere discrezionale al ministro della Giustizia di prolungare il mandato dei giudici in età di pensione e di nominare o revocare i presidenti di Corte, elementi che per Bruxelles "minano l’indipendenza dei tribunali polacchi" consentendo al governo di "esercitare un’influenza sui giudici". Sul sito della Commissione si elencano i motivi dell’azione contro la Polonia. La riforma introduce "una discriminazione per genere con il pensionamento delle donne magistrato a 60 anni e degli uomini a 65. Questo è contrario all’articolo 157 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfeu) e alla direttiva 2006/54 sull’eguaglianza fra i generi sul luogo di lavoro". Nella lettera, Bruxelles esprime anche le proprie preoccupazioni sull’indipendenza dei magistrati per la parte in cui si affida al ministero della Giustizia "la discrezionalità sul prolungamento del mandato per chi ha raggiunto i limiti dell’età della pensione e della nomina e della revoca dei presidenti di tribunale". E questo contrasta con l’articolo 191 del Tfeu e con il 47 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali". "Le nuove regole consentono al ministro della Giustizia di influenzare i magistrati, ad esempio attraverso i vaghi criteri del prolungamento del loro mandato, aspetto che mina il principio dell’inamovibilità del giudice. Mentre scende l’età pensionabile, si prevede l’estensione del mandato fino a 70 anni (10 in più per le donne e 5 per gli uomini). Tra un mese, se non arriveranno osservazioni da Varsavia o se la Commissione dovesse considerarli insufficienti, l’esecutivo europeo potrebbe passare alla fase successiva della procedura di infrazione, con una nuova comunicazione. Il vicepresidente della Commissione Frans Timmermans, che segue il dossier, ha anche scritto al ministro degli Esteri polacco per reiterare l’invito a un incontro a Bruxelles per fare ripartire "quanto prima" il dialogo.