Brutte storie di carcere: se la vita vale meno del poliuretano di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 luglio 2017 Materassi infiammabili e fumi letali che non dovrebbero esserci da decenni. Invece no. Tra appalti, Dap e inchieste. Poco più di 28 anni fa, il 3 giugno 1989, undici donne (nove detenute e due agenti di custodia) morirono in un incendio divampato nella sezione femminile del carcere Le Vallette di Torino. Morirono in pochi minuti, stordite e soffocate dalle esalazioni letali rilasciate dal rogo di trecento materassi di poliuretano accatastati sotto un portico, appena arrivati per sostituire quelli vecchi utilizzati nelle celle. La perizia tecnica redatta nel corso del processo che seguì la strage evidenziò il pericolo mortale dell’utilizzo di questo materiale (resina poliuretanica espansa) all’interno delle carceri, ricostruendo l’intera dinamica che aveva trasformato la sezione femminile dell’istituto penitenziario torinese in una grande camera a gas: i materassi coinvolti nell’incendio avevano alimentato il rogo, facendo sviluppare fiamme ancora più intense, e avevano rilasciato fumi altamente tossici contenenti acido cianidrico e acido cloridrico. "In presenza di queste condizioni - scrissero i periti - la morte sopraggiunge nel giro di pochi minuti". Undici vittime sembrano non essere bastate. A distanza di quasi trent’anni dalla strage, infatti, si scopre che il poliuretano viene ancora utilizzato, in silenzio, nelle carceri italiane. Non solo: a richiederne l’utilizzo alle aziende che si occupano di ristrutturare le varie sezioni, i padiglioni e i sistemi di sicurezza delle carceri è proprio il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) istituito nell’ambito del ministero della Giustizia. Cioè lo stato. A denunciarlo, carte alla mano, è Egeo Marsilii, abruzzese di 80 anni, definito "il signore delle sbarre" per aver guidato per decenni l’azienda leader nella fornitura di sistemi di sicurezza (sbarre, porte, serrature, chiavi) alle case circondariali italiane. Da nord a sud, dal carcere di Trieste all’aula bunker di Palermo, la Marsilii srl ha fornito chiavi in mano servizi anti-evasione ritenuti insuperabili, grazie alle innovazioni introdotte nel campo, come nel caso delle serrature Custos - fiore all’occhiello della ditta - richieste in tutta Europa. Un impero giunto al capolinea quando Marsilii ha cominciato a denunciare le presunte irregolarità di alcuni appalti affidati dal Dap nell’ambito del piano carceri del 2010 da 675 milioni di euro. Non una voce isolata, visto che nel 2013 il magistrato Alfonso Sabella, ex direttore generale delle risorse del Dap ha deciso di presentare un esposto da 60 pagine per denunciare sprechi e anomalie, e che anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha voluto segnalare ai magistrati illeciti nei lavori effettuati in alcune carceri, aprendo anche un’inchiesta interna. I rilievi hanno spinto la procura di Roma a indagare e ad annunciare nel giugno 2014 l’iscrizione nel registro degli indagati del prefetto Angelo Sinesio, allora commissario straordinario per il Piano carceri, e di sei funzionari del Dap, con l’accusa di aver falsificato le carte per affidare gli appalti per i lavori nelle carceri sempre alle stesse ditte, guidate da familiari di funzionari del Dap stesso. È in questo ambito che si colloca la denuncia di Marsilii sull’uso di poliuretano negli istituti penitenziari. Le carte dimostrano che è lo stesso Dap a richiedere nei capitolati degli appalti la fornitura di porte di sicurezza fabbricate con l’iniezione di "schiuma poliuretanica" al loro interno. Un modo per abbattere i costi rispetto alle porte di sicurezza tradizionalmente fabbricate con l’uso di lana minerale (materiale che, a differenza del poliuretano, è ignifugo e non fa propagare il fuoco), a danno però della salute, e potenzialmente della vita, dei detenuti e degli agenti penitenziari: "Basterebbe che un detenuto desse fuoco a un po’ di carta e la accostasse alle sbarre della propria cella per scatenare un incendio altamente tossico, in grado di uccidere decine di persone in pochi minuti, insomma per vivere un’altra strage come le Vallette", spiega Marsilii, che non ha mai accettato di sottostare a questo "gioco" al ribasso. Per comprendere appieno il pericolo basta considerare la frequenza con cui le cronache ci segnalano incendi nelle carceri italiane. Il 20 maggio un detenuto del carcere di Ivrea ha dato fuoco al materasso della propria cella usando il fornellino in dotazione. L’intera sezione è stata invasa dal fumo e un poliziotto penitenziario, benché fosse da solo, ha salvato il giovane che si era rinchiuso nel bagno e che era semi-svenuto. Poi è stata la volta del carcere minorile Beccaria di Milano, del carcere di Pesaro (dove un gruppo di detenuti ha appiccato per protesta un incendio nella propria cella), poi del carcere di Pisa e alcuni giorni fa, il 18 giugno, del carcere di Poggioreale, dove un detenuto in stato confusionale ha incendiato il materasso e tutte le suppellettili presenti nella cella, intossicando tutta la popolazione detenuta e il personale di polizia penitenziaria. Un quadro aggravato dall’arrivo della calura estiva, quest’anno peraltro particolarmente forte. I progetti di ristrutturazione richiesti dall’amministrazione penitenziaria che prevedono esplicitamente l’uso di schiuma poliuretanica, giunti all’attenzione di Marsilii, riguardano lavori compiuti nel corso degli ultimi dieci anni nella Seconda sezione detentiva e nel nuovo padiglione del carcere romano di Rebibbia, nelle case circondariali di Frosinone, Sulmona e Carinola (Caserta) e nel nuovo padiglione del carcere di Modena. Ma il dubbio, inquietante, è che i casi siano molti di più. Il Dap, interpellato del caso, non ha fornito risposte. La Giustizia e le scorciatoie indecenti di Giovanni Verde Il Mattino, 2 luglio 2017 Da non pochi anni mi chiedo se i vari Calamandrei, Leone, Ruini, Mortati (ossia se i Costituenti), avendo coscienza del ruolo attuale della nostra Magistratura, avrebbero scritto il Titolo quarto della Costituzione così come ce lo hanno consegnato. Lascio da parte la posizione del pubblico ministero, sulla quale è da aprire un diverso discorso. Mi limito al giudice. E non mi sembra dubbio che settanta anni fa si pensasse che il giudice sia, nel nostro sistema, un funzionario, assistito da garanzie di indipendenza assoluta, al quale sono sottoposti episodi di vita ben circoscritti e definiti (quelli che nel nostro gergo chiamiamo fattispecie) da accertare sulla base degli strumenti razionali utilizzabili allo stato delle nostre conoscenze (le cosiddette prove) in un processo nel quale sia assicurata agli interessati una difesa piena e da valutare sulla base di criteri preesistenti e compiutamente definiti (la legge). Come oggi si direbbe (per essere "à la page") la "mission" dei giudici era, secondo i Costituenti, quella di dichiarare la volontà (non loro, ma) della legge in relazione al caso esaminato e di dichiararla all’esito di un "giusto processo" idoneo a concludersi con una pronuncia definitivamente stabile (il giudicato). L’articolo 2909 del Codice civile sintetizza in maniera esemplare quanto si è rappresentato. Oggi le cose si pongono diversamente, essenzialmente per la concorrenza di due fattori. Da un lato, i giudici tendono non più a "dichiarare" la volontà della legge in relazione al caso concreto, ma a valutare la situazione o il rapporto o addirittura il sistema sulla base di valori (creando, con i continui richiami alla Costituzione, diritto che sovrappongono alla legge); dall’altro lato, il "due process of law" da noi è troppo lungo e complesso e si rendono necessarie scorciatoie. In tal modo, il giudicato, non a parole, ma nei fatti, assume un valore residuale, perché c’è l’urgenza di provvedere per non lasciare le situazioni all’infinito sospese. In tutti i campi del diritto (civile, penale, amministrativo ecc.) abbondano i riti alternativi, le misure anticipatorie, quelle cautelari, che sono fondate su accertamenti provvisori, su indizi bisognosi di approfondimento, spesso su presunzioni o sospetti (esemplare è, al riguardo, il nostro processo tributario, in cui il cittadino è nella posizione precostituita di evasore). È in atto un’inarrestabile evoluzione per la quale il processo, da strumento per attuare la giustizia (come si evince dall’articolo 111 della Costituzione) è diventato fine: per rendere giustizia è sufficiente che si celebri un (qualsiasi) processo. Esemplifico, anche a costo dell’impopolarità. Ho sempre considerato la legge Rognoni-Latorre (quella che consente alla magistratura di disporre misure patrimoniali interdittive) come un male necessario. Mi sono sempre immaginato che il nostro Paese è, purtroppo, ammalato di cancro (nelle varie forme della delinquenza diffusa e associata), per cui è stato necessario sottoporlo al trattamento con i citostatici, che tuttavia hanno conseguenze invasive sul nostro organismo. Ho, perciò, da sempre avvertito che quella legge cambiava il ruolo del giudice, ponendolo al centro di meccanismi che, pur muovendosi nell’area della legalità, tuttavia impingono in settori che riguardano la gestione dei patrimoni, delle aziende, dei rapporti economici, ossia in settori che nulla hanno a che vedere con la cosiddetta attuazione della legge. Leggo che secondo i dati elaborati da Infocamere ci sono quasi 18mila imprese sequestrate, che nel loro complesso fatturano 21 miliardi di euro e danno lavoro a 250mila persone. Sono dati sui quali occorre riflettere. Ed i primi a doverlo fare sono i giudici, i quali non possono non avvertire la trasformazione del loro ruolo. Altro che svolgere un’azione neutra ed asettica di dichiarazione della volontà della legge. Su di essi è stata scaricata la responsabilità di scelte che incidono sulla gestione dell’economia della Nazione nell’ambito di procedimenti sommari, ben lontani dallo standard minimo di garanzie preteso anche dal giudice europeo. C’è un ritornello ricorrente secondo il quale il nostro Paese non è appetibile all’imprenditore straniero perché da noi i processi sono troppo lunghi. Ho sempre considerato questa una favola a cui vogliamo credere. La lunghezza dei processi è aggirabile tramite gli arbitrati e la loro collocazione in Paesi (diversi dal nostro) che li favoriscono (e, poiché nel processo a chi vuole una sentenza immediata si oppone sempre chi non gradisce la celerità, sul piano della lunghezza la partita è pari). L’imprenditore straniero non viene in Italia in primo luogo perché è spaventato dall’eccesso di regole che creano burocrazia che a sua volta produce sempre nuove regole secondo la legge della diffusione cancerogena. L’eccesso di regole con il diseconomie e (guarda caso!) crea l’humus nel quale alligna più facilmente la corruzione. Ma l’imprenditore è anche spaventato dalle nostre prassi processuali, che per lui costituiscono un rischio troppo elevato e, non da ultimo, dai costi per il regime fiscale e previdenziale. Ne dovrebbero tenere conto i giudici, che dovrebbero per primi chiedere di non essere caricati di responsabilità eccessive che snaturano (e già hanno snaturato) la loro naturale funzione. E ne dovrebbero tenere conto i nostri rappresentanti nelle istituzioni. Quando si legge di ciò che si accingono a fare votando il nuovo codice antimafia, c’è da chiedersi dove sia andata a finire la nostra intelligenza collettiva. Nella protesta contro ciò che si sta votando sarebbe necessario che non fossero coinvolte soltanto le Camere penali, ma che insorgessimo tutti quanti noi. Non siamo, è vero, sufficientemente sensibili alle nostre libertà democratiche, che, purtroppo, siamo pronti a barattare per qualche briciolo di utilità personale. Dovremmo, tuttavia, quanto meno pensare a quanto una riforma del genere ci potrà costare in termini di economia. E rassicuriamoci. Le leggi attuali sono già oltre il limite di ciò che sarebbe consentito in una sana e robusta democrazia e, se correttamente attuate, sono già quanto è possibile fare, in democrazia, per contrastare il malaffare. Diceva Pertini che la peggiore delle democrazie è preferibile alla migliore delle dittature. Per me era un vangelo. Continuo a pensarlo, a dispetto di quanto accade in Parlamento e nella coscienza dell’opinione pubblica. P.s.: Sono certo che oggi Calamandrei, Leone ecc. scriverebbero diversamente il Titolo quarto della Costituzione. Il "doppio binario" della giustizia di Alberto Mittone (Avvocato penalista) La Repubblica, 2 luglio 2017 I giorni della giustizia sono sempre caldi. Non passa ora che i suoi problemi, le sue applicazioni concrete, i rapporti con le altre istituzioni e soprattutto con la politica, l’utilizzo da parte dei media, i suoi successi e le sue sconfitte siano sul tavolo della discussione. Smarcandosi un istante da chi vuole tutto, sempre il meglio e sempre subito, si colgono alcune venature che ormai sono penetrate nel corpo smunto del giudiziario, irrorandolo senza rigetti. Una di queste è il "doppio binario". In sostanza si tratta dell’adozione di regole processuali diverse e più severe per certi reati, perché maggiormente allarmanti per la collettività. In Piemonte è un tema molto sentito, ma vale per l’intero Paese. La riforma in cantiere in questi giorni in cantiere ratifica quest’impianto, con quella sorta di ipocrisia tipicamente italiana del non dire quanto è palese e d’indignarsi soltanto quando quel dato erutta come da un vulcano. Ma il modello processuale, per i reati più gravi, è acquisito con qualche aggiustatura: procura nazionale e sua competenza, durata indagini e segretazione, durata del carcere preventivo, regime particolare della prova, dibattimento a distanza, attività difensiva irrigidita, intercettazioni telefoniche ed ambientali. Ma quali sono questi reati più gravi, che abbassano il livello di guardia e consentono quanto normalmente non è consentito? Criminalità mafiosa su tutti ma anche, come conferma l’ultima decisione delle Cassazione a sezioni unite del 2016 sul virus Troian, le associazioni a delinquere che come tali impostano crimini organizzati. Per ridurre le garanzie ed abbassare l’asticella dei diritti è sufficiente? Il rischio, tanto a pensar male non si sbaglia mai come diceva il sempre attuale Andreotti, è che quel criterio diventi un contenitore strumentale, un’ipotesi iniziale di reato che consente molto di più, salvo poi smarrirlo e accantonarlo durante le indagini perché infondato. Comunque sia, la strada è tracciata: questo doppio binario è nelle pieghe del codice, nessuno lo nega salvo qualche anima candida che si vanta nel dire che l’Italia non ha mai introdotto leggi speciali, differenziandosi così dai celebrati paesi di stampo anglosassone. Il problema però esiste proprio perché tutto è nel codice, quel codice che tanto aveva fatto sognare mentre ora è arenato nelle secche dei sogni troppo ambiziosi e poco realistici. Tutto è annegato tra numeri di articoli e commi che svariano dal bis in avanti, per cui basta un frustolo per abbassare ulteriormente l’asticella dell’equilibrio tra tutela collettiva e diritti soggettivi. L’abitudine alla farraginosità normativa non ci abbandona, siamo il paese legislativo dei trapianti dalla pubblicità ingannevole perché sbandierano illusori ringiovanimenti. Su questo tema si è iniziato a proclamarci senza macchia di inclinazioni alla "specialità" con la stagione del terrorismo politico degli anni 70-80, per passare a quello mafioso, per scollinare sempre con sussulti a quello emergenziale delle stragi. Sarebbe stato più autentico e diretto promuovere un testo organico con questa normativa derogante? Forse, ma così non è stato. Ora l’importante è non far finta di niente per poi lamentarsi dopo, indignandosi. Teniamo gli occhi aperti, con sereno disincanto e confortevole pessimismo. Gratteri: "avvocati, ingegneri e dirigenti… ecco come sono cambiati i figli dei boss" di Massimiliano Peggio La Stampa, 2 luglio 2017 Procuratore Gratteri, qual è lo stato di salute della ‘ndrangheta al Nord? "Buona direi. In Piemonte è abbastanza diffusa, anche per motivi storici. Mi riferisco agli Anni Settanta, con una preminenza nel 1975. Sono gli anni in cui le inchieste della procura di Torino assestarono un colpo mortale al clan dei catanesi, provocando un vuoto criminale sul territorio. Vuoto subito colmato dalla ‘ndrangheta che ha potuto espandersi e costruire i suoi "locali", cioè le strutture criminali di base. Questo trend si è mantenuto inalterato". Una presenza sfuggente? "La ‘ndrangheta si manifesta in modi diversi. Certo prima sparava di più". È più imprenditoriale. "Oggi le famiglie si dedicano di più agli affari, fanno investimenti. Comprano e vendono alberghi, ristoranti, negozi. Si dedicano al riciclaggio dei profitti del narcotraffico". La droga resta il core business. "Sono i detentori della vendita all’ingrosso. Il dettaglio lo lasciano ai nigeriani e ad altri. La ‘ndrangheta ha quasi il monopolio. Da decenni vende cocaina a Cosa Nostra e alla Camorra. Da sempre i grandi importatori di cocaina sono gli ‘ndranghetisti della zona ionica e della fascia tirrenica". Perché questa specializzazione? "In quelle zone la ‘ndrangheta, a partire dagli Anni Settanta e Ottanta, si era specializzata nei sequestri di persona. Molti avvenuti in Piemonte e in Lombardia. Con i soldi dei riscatti costruivano case e compravano belle auto. Il resto è finito investito in cocaina". E poi si è sviluppato il business del mattone, con il boom dell’edilizia. L’altra faccia dei clan? "Nel mondo dell’edilizia le ‘ndrine sono sempre state molto presenti: offrendo manodopera a basso costo, garantendo lo smaltimento dei rifiuti, rifornendo cemento depotenziato. Gli imprenditori del Nord che si sono adeguati, oggi non possono dire di non sapere o di non aver capito. Spiego: se per anni i tuoi fornitori ti offrono un materiale a 100 e i nuovi arrivati te lo danno a 60, c’è qualcosa che non va. È evidente". Alla fine il gioco si fa pericoloso. "I nuovi "partner" in genere entrano in società con quote di minoranza, poi finiscono per comandare, per prendere in mano l’azienda". Molte inchieste hanno svelato l’esistenza di rituali di affiliazione più o meno stravaganti. Tutto ciò non è un po’ ridicolo? "Tutt’altro. I rituali sono fondamentali. Sarebbe sciocco ritenerli arcaici e superati. Il rito è l’ortodossia, un punto di forza. Le regole sono l’elemento cardine che affascina tutti i sodali. Un collante che permette a tutti di rimanere avviluppati all’organizzazione. È il suo perpetuarsi. Sono le regole a renderla più forte rispetto ad altre strutture criminali". In che senso? "La Camorra è sempre più simile al gangsterismo: agisce senza controllo. Non ha disciplina. La Camorra è la prima mafia sorta in Italia ma sarà la prima a finire perché al suo interno non c’è più rigore. Nella ‘ndrangheta no: qui le regole sono forma e sostanza. I rituali consentono di entrare a farne parte, di scalarne le gerarchie, ottenendo quelle che in gergo si chiamano "doti superiori". L’inosservanza delle regole fa scattare le sanzioni". Di che genere? "Sono varie. Non è detto che sia sempre la morte. Basta arrivare in ritardo ad un appuntamento perché sia comminata una sanzione, per mancanza di rispetto. Si può essere degradati, esclusi dalle riunioni che contano, sospesi". Sembra una giustizia efficiente. "C’è un solo grado di giudizio e le sentenze sono immediatamente esecutive". Come si inseriscono le faide? "Sono fasi autodistruttive tra blocchi di famiglie. Sono violazioni. Le faide sono momenti di instabilità. Ecco perché le famiglie cercano di superarle con i matrimoni. Nel matrimonio si suggella la pace con il sangue dei giovani rampolli". Suona come una cosa medievale, in realtà la ‘ndrangheta guarda al futuro. "È un’organizzazione vivace, capace di costanti mutamenti. Si muove con il mutare della società, cammina con noi, non è un’entità estranea. Si nutre di consensi e sfrutta le nostre relazioni per esistere". Qual è l’identikit delle giovani leve? "I figli di ‘ndrangheta sono colti, laureati, fanno gli avvocati, i medici, gli ingegneri. Sono nella pubblica amministrazione. Ma rispondono sempre alle stesse regole. A quel metodo mafioso che non possono rinnegare". Malgrado questa espansione radicale, si può ancora scardinare? "Ci proviamo con tutte le forze". Responsabilità medica: sanitario responsabile della morte del detenuto malato in isolamento di Francesco Pandolfi studiocataldi.it, 2 luglio 2017 Commento alla sentenza della Corte di Cassazione penale n. 25576/2017. L’eventuale decesso di una persona sottoposta alla privazione della libertà genera, oltre al fatto in se, una varietà di problemi giuridici, che toccano la figura e il ruolo del medico preposto alla specifica attività. Nel caso sottoposto all’esame della Cassazione, un detenuto viene destinato ad uno specifico reparto, in quanto destinatario di una sanzione disciplinare che comporta l’esclusione dall’attività svolta in comune. In un primo momento ai sanitari si rimprovera di aver svolto attività medica a tutela dell’infermo (il detenuto era affetto da polmonite massiva, epatite acuta ed altro) in modo non conforme al modello legale imposto dalla legge n. 354/75 art. 39 comma 2, limitandosi il medico al solo colloquio anamnestico e senza eseguire alcun approfondimento o esame obiettivo generale come, ad esempio, l’ispezione, la palpazione, la misurazione pressoria eccetera. Il Giudice dell’udienza preliminare dichiara il non luogo a procedere per insussistenza del fatto, mettendo in evidenza che la legge impone la visita al medico penitenziario solo nei confronti di chi ne fa richiesta e nei confronti degli ammalati. In particolare, dice il G.I.P., per quanto riguarda il detenuto sottoposto ad isolamento è previsto il controllo sanitario giornaliero, che non impone la visita medica vera e propria siccome tende a verificare il solo stato psicologico del detenuto. Di idea completamente diversa è il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale, che invece propone appello. Egli infatti ritiene che la condotta del sanitario sia caratterizzata da negligenza. Il motivo di questo suo convincimento è che il regime dei controlli medici per i detenuti (sottoposti al particolare regime) tende a qualcosa in più e non a qualcosa in meno sulla verifica delle condizioni di salute, questo proprio per la particolare condizione di chi sconta la pena. Anzi, egli sostiene che tali visite si debbano effettuare "d’ufficio" se occorre, come estrema misura di tutela proprio perché il detenuto, anche per motivi di ordine psicologico, potrebbe non desiderarle. Le cartelle cliniche della persona in questione dicono chiaramene che nessun controllo medico è stato fatto: una visita medica avrebbe sicuramente permesso di mettere in atto i comuni protocolli per avviare il miglioramento delle precarie condizioni di salute del malato. Insomma, l’argomento persuade la Corte di Cassazione: queste visite mediche vanno effettuate a prescindere dalle richieste dell’interessato. Abruzzo: nomina Garante dei detenuti. Petrilli: "io, assolto, ora voglio concorrere" abruzzoweb.it, 2 luglio 2017 "Chiedo che la Regione Abruzzo riapra il bando per il Garante dei detenuti così sia io che altri che vorranno potranno concorrere e forse qualcuno raggiungerà il quorum dei due terzi". Lo chiede Giulio Petrilli, aquilano riconosciuto innocente dalla Cassazione dopo aver trascorso sei anni in carcere con l’accusa di partecipazione a banda armata, che ricorda come "da più di due anni la Regione Abruzzo ha emanato il bando per la figura del garante dei detenuti. Da allora nessuno è stato nominato. Tutte fumate bianche, la più accreditata era la ex segretaria radicale Rita Bernardini. Ma non ha mai raggiunto il quorum dei due terzi". "Anch’io volevo concorrere - dice - ma pendeva su di me la condanna per abuso d’ufficio ad otto mesi di carcere e l’interdizione per altrettanti mesi dai pubblici uffici. Questo era ostativo per poter concorrere e non presentai la domanda". "Due mesi fa la condanna è stata annullata dalla Cassazione", ricorda Petrilli. "In questi anni ho seguitato sempre a verificare, per quanto possibile, le condizioni detentive nella nostra regione, in particolare nella mia città dove vige il regime speciale del 41 bis. Alcune detenute e detenuti hanno fatto domanda per avere un colloquio con me, ma le istanze sono state rigettate". Sassari: la relazione del Garante su Bancali, la "casa" dei detenuti sassaresi di Giovanni Bua La Nuova Sardegna, 2 luglio 2017 Sono più della metà dei 367 "comuni", dividono la struttura con 90 super boss e 20 sospettati di terrorismo internazionale. Pochi agenti, spesso male impiegati, nonostante la presenza di 90 super boss in 41-bis e 20 sospetti terroristi in regime di alta sicurezza. Pochissimi mediatori culturali, che nulla possono fare per risolvere i problemi di interazione con le 27 etnie presenti. Una città che ogni tanto bussa al portone blindato tra incontri con le scuole, film festival, visioni solidali e candeliere dei reclusi. Ma che per di più si dimentica di una parte di sè (la maggior parte dei presenti sono sassaresi), chiusa tra quattro mura lontane, che non riesce a parlare con famiglie e avvocati, ad avere accesso alle cure sanitarie, a imparare un lavoro, a ripartire. Chiaroscuro. È una foto in chiaroscuro quella della Casa circondariale di Bancali. Operativa dal luglio 2013 per sostituire l’ottocentesco carcere cittadino di San Sebastiano, a ragione considerato uno dei peggiori d’Italia, dopo una laboriosa progettazione e costruzione, calibrata su misura per farla diventare uno dei super carceri dedicati alla detenzione dei boss della criminalità organizzata. A "scattarla" Mario Dossoni, garante dei detenuti del Comune di Sassari, al lavoro dal gennaio 2016, che ha presentato in Consiglio la relazione sul suo primo anno e mezzo di attività. "Il carcere è un servizio per la comunità, che deve tendere a includere o ricollocare le persone - ha spiegato. Io ho cercato di consolidare il rapporto tra la città e il carcere, di promuovere iniziative all’interno della struttura, ma soprattutto ho ascoltato le persone detenute e le loro famiglie. Per rappresentare insieme disfunzioni e possibilità che ci sono all’interno di una realtà così difficile e complessa". I numeri. A Bancali sono detenute 457 persone. Di queste 90 in regime del 41bis. Dei 367 rimanenti, 226 (62%) sono italiani e 141(38%) di origine straniera. I nati in Sardegna sono 197 (80%) e i sassaresi 82 (pari al 42% dei sardi). Se a questi si aggiungono le 42 persone nate in provincia, risulta che oltre la metà (55%) delle persone detenute a Bancali, escludendo il 41bis, sono della provincia di Sassari. La gestione della vita carceraria e delle attività interne è affidata a circa 200 agenti effettivi di polizia penitenziaria, gli educatori sono 5 e ci sono diverse unità di personale amministrativo. Un direttore, l’espertissima Patrizia Incollu, senza però vice. "Organico - spiega il garante - evidentemente inadeguato e spesso mal utilizzato". Le sezioni. I detenuti sono suddivise in sezioni, dove si trovano le "camere di pernottamento", (secondo la nuova dizione dell’amministrazione penitenziaria) e una sala di socialità. Nelle ex celle sono presenti due o tre detenuti e ognuna è dotata di un bagno e un angolo per preparare i pasti. I locali sono riscaldati ma non climatizzati, dotati di televisore e di un dispositivo per comunicare con il personale. La struttura. Nella struttura c’è una piccola sezione, in un’ area separata dal corpo centrale, dove sono rinchiuse le donne, sono 18 (10 sassaresi). Hanno una palestra e una biblioteca. Isolati in una sezione del corpo centrale gli AS2, accusati di terrorismo. Sono 20, non possono aver contatti con gli altri detenuti. Hanno accesso alla palestra e possono richiedere libri. Attualmente fruiscono di un corso di lingua italiana. In una sezione a sé stante sono collocati i "protetti": 35 persone. Comprende i sex offender, ex appartenenti alle forze dell’ordine, pentiti. Non possono aver contatti con gli altri. Usufruiscono di diverse attività. Le 90 persone in regime di 41bis sono in un’ala separata in blocchi organizzati per quattro persone. Vivono in isolamento costante con un’ora d’aria e un’ora di socialità. Hanno una biblioteca e attrezzi per ginnastica nelle stanze di socialità. I "comuni", condannati per reati di natura diversa e con pene detentive molto differenti, da pochi mesi a trent’anni, sono divisi in sette sezioni. In un’area esterna sono collocate le persone detenute che svolgono lavori in cui hanno contatto con l’esterno o sono in semilibertà. Conclusioni. "Permangono - sottolinea Dossoni - nonostante controllo elettronico e sorveglianza dinamica, modalità di gestione ancora troppo "custodialistica" e meno rivolta alla realizzazione e gestione di attività. C’è una infantilizzazione delle persone detenute, non si ottengono risposte alle richieste, ci sono ordini ma non si possono fare osservazioni. Ci sono già criticità strutturali e un grande problema di utilizzo dell’acqua, spesso razionata, e di pessima qualità. Altro grave problema è la sanità. C’è un h24 ma scarsissimo accesso alla specialistica. In una situazione in cui non c’è nessuna possibilità di scelta è un vero dramma. Ci sono problemi legati alle relazioni con le famiglie, che per un’ora di colloquio hanno necessità di attendere mattinate intere, con grossi ostacoli nelle relazioni affettive e sociali. Io ho sempre avuto grande libertà di movimento, e ho potuto vedere che tanto si è fatto e tantissimo c’è da fare". Pisa: Don Bosco in condizioni critiche. "Sindaci, venite a visitare il carcere" pisatoday.it, 2 luglio 2017 I sindacati di Polizia Penitenziaria, a seguito degli ultimi episodi di violenza, rivolgono un appello a Prefetto ed istituzioni per la messa in sicurezza della struttura. Allarmi che cadono nel vuoto. È quello che temono le sezioni pisane del Sappe, Osapp e Uil-Pa, i sindacati della Polizia Penitenziaria che uniti, dopo gli ultimi episodi di violenza accaduti nel carcere e fuori da esso, invitato le istituzioni locali e nazionali a visitare il carcere Don Bosco, al quale servono urgentemente interventi di messa in sicurezza. L’ultima lettera inviata proprio ad una lunga serie di soggetti, fra cui i sindaci di Pisa, San Giuliano Terme, Cascina e Pontedera, ricorda fra gli altri casi la rissa fra detenuti di ieri, 30 giugno, e le molotov incendiarie contro le auto degli agenti dello scorso 19 giugno. Una serie ormai lunga di episodi che spesso viene definita "bollettino di guerra" dai sindacati. "Come già preannunciato in altre occasioni - scrivono le organizzazioni - a Pisa sono proprio venute meno le condizioni minime di sicurezza, lo stesso è stato oggetto di crolli, allagamenti e chiusure di locali inagibili, siamo in attesa dei fondi per la ristrutturazione, annunciati più volte dal Provveditore Regionale, ma pare che tali promesse siano vane. Tante sono state le visite istituzionali eseguite presso questa Casa Circondariale, tra cui gli Onorevoli Fontanelli, Carrozza, Alberti ed anche il Sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, la grave situazione presente è stata visionata da tutti, ma nulla è cambiato". "Sembra che abbiamo perso il controllo del carcere - commentano amaramente i sindacati - e gli ultimi eventi critici lo confermano, ma la cosa che più ci preoccupa è che l’amministrazione penitenziaria, in particolar modo questa Direzione ed il Provveditore Regionale, continua ad essere sorda. Troppe sono le problematiche che affliggono il Don Bosco, per questi motivi le segreterie provinciali di queste organizzazioni sindacali, invitano il Prefetto ed il Presidente della Provincia di Pisa, nonché Primo Cittadino pisano, a visitare il penitenziario cittadino. Le problematiche e le criticità del carcere di Pisa non possono non essere poste all’attenzione delle Autorità Locali, qui è in gioco la sicurezza dell’intera città, anzi dell’intero circondario, tant’è che l’invito è esteso anche ai sindaci dei comuni limitrofi". "Chiediamo formalmente - chiudono Sappe, Osapp e Uilpa - un incontro con il Prefetto e ci rendiamo disponibili ad un eventuale incontro con tutte le Autorità che leggono la presente". La missiva è rivolta anche a: Provveditore Regionale, Ufficio Relazioni Sindacali Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma, Direttore del carcere, segreterie regionali e nazionali di Sappe, Osapp e Uilpa. Lauro (Av): l’Icam senza infermieri, la protesta del Sappe Il Mattino, 2 luglio 2017 L’istituto per le detenute è privo di servizi sanitari Una lettera al ministro. Sono bastati pochi giorni di attività per mettere in luce le criticità e le problematiche dell’Icam di Lauro, l’istituto a custodia per detenute madri con minori al seguito aperto il 12 giugno scorso". La denuncia è del Sindacato autonomo Polizia penitenziaria Sappe, che in una nota al Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha evidenziato le molte cose che non vanno. "Si è avuta fretta di aprire forse per ragioni politiche, nonostante questo sindacato avesse denunciato per tempo che non era ancora pronto, e in pochi giorni, a fronte di un cospicuo costo sostenuto, sono emersi evidenti i problemi - denuncia il Segretario Sappe Donato Capece". "Il 25 giugno scorso è giunta l’unica detenuta con seri problemi sanitari accompagnata da 2 bambine, una di 5 mesi e l’altra di 5 anni. È dovuta intervenire la guardia medica locale poiché mancano, all’Icam, gli infermieri e tutto il materiale sanitario occorrente. La linea telefonica con l’esterno dai Reparti detentivi è assente e d anche l’ufficio dei sanitari è privo di apparati telefonici e accessi internet necessari agli adempimenti". Capece denuncia anche che l’Icam "è sprovvisto di automezzi del Corpo di Polizia Penitenziaria e le donne appartenenti al Corpo devono offrire, per la mancanza di personale formato in tal senso, anche le loro prestazioni di baby sitter". "Disastrosa - afferma, infine - infine, è l’offerta sanitaria, in quanto mancano contatti con medici specialisti e materiale di primo intervento sia per le utenti detenute che per i bambini: l’Ospedale civile più vicino è a 30 minuti dall’Istituto e qualora la madre detenuta, per qualsiasi motivo, dovesse lasciare la sede di Lauro, i piccoli dovrebbero essere affidati a personale del Corpo di Polizia Penitenziaria". Per tutte queste ragioni, il Sappe sollecita il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ed i vertici dell’Amministrazione penitenziaria a dotare l’Icam dei servizi e del personale necessari di Lauro ogni dotazione necessaria per il buon funzionamento della struttura. Occorrerà ora vedere se il ministero darà riscontro alle sollecitazioni provenute dalla sigla sindacale, garantendo il personale infermieristico necessario ad assicurare la necessaria assistenza alle detenute. Brindisi: nel carcere un’area verde attrezzata per intrattenere figli dei detenuti brundisium.net, 2 luglio 2017 Il Soroptimist Club di Brindisi, nella consapevolezza di volere attuare azioni specifiche e concrete che consentano di ridurre il disagio di minori, per lo più bambini, che devono passare nelle carceri tempi, sia pure brevi, per i colloqui con i genitori, ha inteso promuovere il progetto "uno spazio a misura di bambino", che si inserisce nell’ambito del progetto nazionale del Soroptimist "diritti dei minori". Nella fattispecie, il 29 giugno è stato inaugurato presso la casa circondariale di Brindisi, alla presenza di Annamaria Dello Preite, Direttrice del carcere, di Marcella Cavallo, Presidente del Soroptimist Club di Brindisi, di Angela Marinazzo, promotrice del progetto e di altre socie del Club, uno spazio all’aria aperta entro le mura del carcere, recuperando un ambiente già esistente, rinnovandolo con la piantumazione di siepi sempreverdi, con la messa in opera di un tappeto erboso, con la dotazione di tavoli e fornendolo al tempo stesso di materiale ludico-didattico: puzzle, colori, costruzioni ecc. per intrattenere piacevolmente i minori durante i colloqui con il genitore recluso. La Direttrice del carcere ha ringraziato il Soroptimist Club per la rinnovata collaborazione già intrapresa in passato con la donazione di libri che hanno arricchito la biblioteca dell’Istituto penale brindisino. La Presidente del Soroptimist Club di Brindisi, a nome di tutte le socie, ha espresso soddisfazione per aver realizzato un "service" finalizzato a migliorare le condizioni ambientali degli incontri fra il detenuto e i propri figli, volendo, in questo modo, esprimere la propria vicinanza alla realtà carceraria, espressione, spesso, di solitudine. Milano: chef, vini e alta cucina, il ristorante di Bollate dove si mangia InGalera di Azzurra Noemi Barbuto Libero, 2 luglio 2017 Non è soltanto il ristorante del carcere più stellato d’Italia, con un menù prelibato, una selezione pregiata di vini, un ambiente elegante, un servizio impeccabile e chef raffinati. InGalera, locale che si trova all’interno del carcere di Bollate, è un ponte tra le istituzioni totalizzanti penitenziarie e la società civile, realizzato per aprire le porte della prigione ai cittadini, dando loro libero accesso ad un luogo ignorato, e quelle della comunità civile ai detenuti, mettendoli in contatto con l’esterno. Due mondi opposti divisi dalle sbarre nonché dalle maglie di quel pregiudizio che stritola coloro che hanno sbagliato e dal quale non ci si affranca mai del tutto. Due universi che si connettono per la prima volta, non più uno di fronte all’altro, bensì uno dentro l’altro, senza filtri, senza barriere, attraverso un efficace strumento di comunicazione: il cibo. In Galera i detenuti danno nutrimento ai cittadini e questi restituiscono ai primi la speranza, quell’elemento vitale che spesso manca all’interno delle nostre carceri e che non è altro che l’opportunità per il reo di costruirsi una vita nuova. Speranza che si frantuma del tutto non appena le sbarre si aprono ed il detenuto riacquista la sua libertà, perché è proprio nel momento del passaggio dalla detenzione al reinserimento post-penitenziario che costui necessita di maggiore sostegno, affinché possa abbandonare per sempre la strada della devianza. Quando questo non avviene, è lo Stato ad avere fallito: esso, invece di favorire l’educazione alla legalità, ha consolidato una scelta criminale come unica possibilità di riscatto; è stato capace di punire, di imprigionare, ma non di redimere e di restituire alla società un uomo nuovo, una risorsa. È solo attraverso il lavoro che il detenuto può emanciparsi dal sistema deviante. Processo che nelle nostre carceri è ostacolato da diverse problematiche, tra cui il sovraffollamento, che rende impossibile la realizzazione di un trattamento individualizzato. Fa eccezione il carcere di Bollate, dove "nessun detenuto può fare la branda", chi non lavora si dedica ad altre attività, spiega Silvia Polleri, rappresentante della cooperativa sociale "Abc la sapienza intavola", colei che ha il merito di "avere portato il bon-ton in carcere" realizzando circa un anno e mezzo fa il ristorante InGalera (capienza massima di 70 coperti), il cui team, composto da circa 14 detenuti, si occupa anche di servizio di catering all’esterno e gestisce il bar dei poliziotti all’interno del carcere stesso. "Ho fatto una birbonata aprendo questo ristorante, ossia ho ribaltato la situazione: di solito è il carcere a chiedere servizi al territorio, ma stavolta siamo stati noi a fare accomodare all’interno la società nella consapevolezza che il vero "fine pena mai" non lo danno i magistrati, ma la società stessa, recalcitrante nell’accogliere l’ex detenuto", spiega Polleri. Oltre al senso di gratificazione che i carcerati provano nel ricevere la busta paga e alla possibilità di entrare in contatto con il mondo esterno, elemento che rende la detenzione più sopportabile, l’avere prestato servizio all’interno di un ristorante di alto profilo quale è InGalera, amato persino dall’ambasciatore americano in Italia, costituisce un titolo di merito spendibile nel momento in cui l’ex detenuto cercherà lavoro fuori dal carcere. La fiducia che Polleri dona ai carcerati che assume è ciò che li salva, un modo per responsabilizzarli, per non farli sentire falliti o inutili, per aiutarli a percepirsi come cittadini, per dare loro la speranza che fuori li attenda una vita migliore. Le istituzioni hanno il dovere di offrire all’essere umano la possibilità di scegliere tra il bene ed il male senza lasciarlo alla deriva. InGalera abbiamo imparato che persino l’esperienza della detenzione può costituire un’opportunità quando porta il detenuto a prendere coscienza del reato e a scegliere un cammino diverso. Ma, affinché ciò si realizzi, risultano indispensabili il ruolo dello Stato e quello della società civile, la quale deve diventare la famiglia di questi "uomini soli il cui denominatore comune è spesso il non essere mai stati figli". Forse è proprio la mancanza di amore a spingerci spesso sulla strada sbagliata. E se questa è la causa, l’amore è la soluzione. Non ci resta che andare tutti InGalera. Messina: teatro in carcere, i detenuti diventano attori grazie alla "Piccolo Teatro Blu" letteraemme.it, 2 luglio 2017 Si è conclusa, dopo cinque mesi di intensa attività, la prima parte del laboratorio teatrale riservato ai detenuti di Alta Sicurezza della Casa Circondariale di Messina. Il laboratorio al quale hanno partecipato una decina di detenuti è stato tenuto dalla Compagnia del "Piccolo Teatro Blu" degli attori Cristina Capodicasa, Gerardo Fiorenzano e Giuseppe Capodicasa, e promosso dal Centro Prima Accoglienza Savio. È il secondo anno che il Cepas porta il Teatro in carcere, grazie a questa Compagnia. Da parte degli ospiti dell’Istituto di Pena c’è stata, anche questa volta, un’adesione compatta e convinta. La recitazione è stata, per gli aspiranti attori, un momento formativo, educativo, culturale e di crescita in senso lato. Il far parte (anche se tra le sbarre) di una mini compagnia teatrale ha significato per i partecipanti al corso impegno, disciplina, cura di se, aspetti relazionali e riscatto personale. Gli aspiranti attori hanno così provato sentimenti ed emozioni che all’interno di un carcere ognuno sente moltiplicati al cubo. Peppe, Antonio Luciano, Vito, Teodoro e tutti gli altri hanno potuto dimenticare in quelle ore d’incontro fatte di passione, entusiasmo e coinvolgimento, i loro pur grandi problemi e hanno potuto superare, grazie alla recitazione, anche le "crisi" della loro vita di reclusi volando così con pensieri e spirito oltre le sbarre. Parallelamente a questo laboratorio si è concluso anche un altro "Progetto sulla Genitorialità" promosso dal Centro prima accoglienza Savio. Questa iniziativa è stata seguita da Lalla Lombardi, vicepresidente Cepas e dalla pedagogista Rosa Maria Guarino. L’obiettivo di questo progetto sulla Genitorialità è stato quello di cercare di rinsaldare i legami familiari puntando sull’importanza della funzione paterna messa in discussione dalla "assenza" dovuto alla reclusione. Si è lavorato per alcuni mesi attraverso gruppi di parola e autoaiuto, test psicologici, tecniche di rilassamento e respirazione per allentare le normali tensioni e giochi di ruolo (role play). Ogni partecipante ha potuto trovare un sostegno, un parametro di confronto e di aiuto nell’altro. Momenti, quindi, di grande condivisone che hanno generato emozioni e fatto scoprire incertezze e difficoltà nel rapporto con gli altri e soprattutto con i familiari. Tutto questo nella consapevolezza che un padre, per quanto possa avere sbagliato, niente e nessuno potrà sostituirlo. Queste due iniziative, non prive di difficoltà, sono state seguite e incoraggiate dal presidente del Cepas, don Umberto Romeo e dal presidente del Tribunale di Sorveglianza, Nicola Mazzamuto. Importante è stata l’attenzione del direttore dell’Istituto di pena Calogero Tessitore e di Antonella Machì, comandante della Polizia Penitenziaria. Ai corsisti sono stati donati un attestato di partecipazione e un libro di racconti da consegnare ai figli. L’estate della grande paura: misure di sicurezza record per i 5 mila eventi a rischio di Giacomo Galeazzi La Stampa, 2 luglio 2017 Piazze, spiagge e stadi: uno spiegamento di polizia mai visto per blindare serate e spettacoli in tutto il Paese. Barriere mobili, prefiltraggio del pubblico, bonifica delle aree a rischio, piani di evacuazione. Così 19 volte al giorno, in tutta Italia. Sono 1700 i principali "eventi musicali aperti al pubblico" nell’estate della grande paura. "In realtà sono più del triplo", spiegano i sindacati di polizia: da luglio a settembre su 8mila comuni italiani la metà organizza manifestazioni che richiedono la presenza delle forze dell’ordine. Oggi, secondo l’indice internazionale Red 24, l’Italia è a rischio "medio" di attacco terroristico (come Spagna e Germania): finora si è salvata per l’esperienza maturata negli anni di piombo, l’uso delle intercettazioni, la scarsità di immigrati di seconda e terza generazione. Dal comitato di analisi strategica del Viminale sono usciti gli standard di sicurezza che organizzatori e amministrazioni locali devono rispettare negli eventi di piazza. Dal concerto di Vasco Rossi a Modena a quello dei Rolling Stones a Lucca il 23 settembre sono in cartellone date che raduneranno centinaia di migliaia di persone in piazze, spiagge e stadi, come il festival internazionale di musica Summer Jamboree a Senigallia o la Notte della Taranta a Melpignano e in altre 14 località turistiche del Salento. Negli Usa, in Gran Bretagna e in Germania, i costi per la forza pubblica sono a carico degli organizzatori dell’evento. In Italia l’ordine pubblico è gestito dallo Stato e i costi sono a carico della collettività. Tra le kermesse musicali la circolare del Viminale indica 215 date a Milano, 174 a Roma (inclusi i concerti degli U2 all’Olimpico il 15 e 16 luglio), 43 a Verona, 42 a Firenze, 25 a Torino. "Negli ultimi sei mesi le forze dell’ordine hanno garantito la sicurezza in quasi seimila appuntamenti di rilevanza pubblica", afferma Felice Romano, segretario Siulp, sindacato dei lavoratori di polizia. "Per i concerti deve funzionare come per le partite di calcio: chi organizza, contribuisce alla sorveglianza. E nelle questure servono black list per negare l’autorizzazione ai promotori di eventi che hanno creato in precedenza disordini pubblici. Poi le ordinanze vanno applicate". In media un concerto da 30mila spettatori vede schierati 200 poliziotti e carabinieri tra quelli locali e quelli dislocati dai reparti mobili delle principali città. Per gli agenti che arrivano da fuori raddoppiano l’indennità di ordine pubblico (18 euro l’ora) e gli straordinari (13 euro). "Non dobbiamo aver paura della paura - osserva il sindaco di Rimini, Andrea Gnassi. È stata fissata una strategia complessiva: chi fa cosa, compiti precisi per la sicurezza. Cancellare eventi è una vittoria del terrorismo. Attuiamo iniziative per la fase preventiva e repressiva verso i malintenzionati". Un modello di "safety, security, service" che coinvolge i privati nella vigilanza dell’evento che organizzano. "D’estate Rimini ospita 500 iniziative piccole e grandi, una media di 5, 6 al giorno, dalla Fiera del Fitness alla Molo Street Parade; dalla Beach Arena, alla notte Rosa e alla diretta in spiaggia del concerto di Vasco Rossi - prosegue Gnassi -. Di fronte a folle simili, facciamo sinergia con forze dell’ordine e prefettura". Quindi: "ordinanze, per controlli, steward, sorveglianza, pulizia delle piazze, transenne, vie di fuga". Costi per ridurre i rischi. "Vanno bene le limitazioni agli orari e alla vendita, accettiamo di dotarci di sorveglianza, ma poi vanno controllati venditori abusivi di alcol e minimarket", avverte Esmeralda Giampaoli, presidente della Federazione pubblici esercizi e turismo. "Non basta avere più polizia, vanno ridefiniti i criteri della capienza", avverte Maurizio Pasca che presiede le associazioni italiana ed europea delle imprese di intrattenimento e spettacolo. "Ero all’ultimo carnevale di Venezia e ho verificato che, malgrado la massiccia presenza di forze dell’ordine, il sovraffollamento di piazza San Marco non avrebbe consentito un ordinato deflusso in caso di imprevisti- spiega -. Sia ai locali sia agli eventi all’aperto deve entrare solo il pubblico autorizzato dalla commissione di vigilanza. Se si sfora sui numeri la manifestazione diventa pericolosa". Invece, "a concerti con l’autorizzazione per 5mila persone, ne entrano 15mila". Anche per questo il Modena Park di Vasco Rossi è "il pesce pilota", cioè "serve a cascata come parametro negli altri eventi estivi in termini di sicurezza, logistica, numero di addetti alla vigilanza per superficie occupata", precisa Pasca. Il promoter Jimi Muttoni ha organizzato a Torino il concerto di Madonna due giorni dopo la strage al Bataclan di Parigi. "Dal novembre 2015 la procedura prevede l’uso del metal detector per controllare tutto il pubblico e due settimane fa per Ariana Grande la questura di Torino ci ha chiesto di iniziare le verifiche lontano dall’impianto - spiega. Ci sono più code, ma la gente si sta abituando. I costi della sicurezza sono per noi sostenibili purché ci sia connessione con forze dell’ordine, prefettura ed enti locali". Sulle ordinanze dei sindaci dovranno sorvegliare i prefetti: divieto di vendita delle bevande in bottiglia di vetro, maggior personale per la sorveglianza, piani di evacuazione e vie di fuga. Chi organizza manifestazioni deve predisporre una vigilanza privata in coordinamento con le forze dell’ordine, come già accade per gli "steward" nelle gare negli stadi e nei palazzetti dello sport. "Senza queste garanzie non si svolgeranno gli eventi", chiarisce il Viminale. E così, più controlli all’ingresso e barriere mobili in zone chiave (come a Roma nell’area archeologica tra Colosseo e Fori). Nelle località turistiche, divieto d’accesso per i veicoli attraverso fioriere e jersey. Per David Cicchella, proprietario dello stabilimento Samsara Beach di Riccione la presenza degli steward è sia un "deterrente per impedire che la gente si faccia male" sia "un servizio alla sicurezza del pubblico" in collaborazione con le forze dell’ordine alle quali "spetta il compito di intervenire per qualunque problema". L’imperativo è "prevenire situazioni di allarme". Ma pesano i tagli ai comuni: l’uso della polizia locale è limitato dalla difficoltà di pagare gli straordinari. Dai campi di cotone uzbeki alla boutique, filiera criminale di Emanuele Giordana Il Manifesto, 2 luglio 2017 Aiuti allo sviluppo, ma solo del lavoro forzato e minorile. Banca mondiale sotto accusa. Condizioni critiche anche dietro al cuoio lavorato nei laboratori del Bangladesh. E nelle fabbriche cambogiane usate dai marchi sportivi più famosi le cose non vanno meglio. Dal cuore di Old Dakha, la capitale del Bangladesh, bisogna prendere dei piccoli battellini per attraversare il Buriganga e raggiungere l’altra sponda. Su questo largo fiume dalle acque nere come la pece si viene traghettati su piroghe sottili e dall’equilibrio apparentemente instabile. C’è un gran traffico di umanità, animali, utensili che, per qualche centesimo, si spostano dalla riva dove troneggia il Palazzo rosa di Ahsan Manzil, una volta sede del "nababbo" (nawab), a un quartiere anonimo dall’altra parte del fiume che scorre verso il Golfo del Bengala. Pieno di negozi di tessuti naturalmente, una delle grandi ricchezze del Bangladesh che ogni anno frutta al Paese 30 miliardi di dollari in valuta. Le fabbriche però, grandi o piccole, sono lontane dal centro città: stanno a Savar, dove si è consumato il dramma del Rana Plaza, o ad Ashulia, distretti suburbani industriali. In pieno centro c’è invece il cuore della produzione di un altro grande bene primario del Bangladesh che se ne va tutto in esportazione: il cuoio. Decine di fabbriche dove si fa la concia delle pelli: la prima lavorazione e quella più tossica che trasforma la materia prima nel prodotto base che può poi diventare scarpa o borsetta. A un pugno di isolati dal Palazzo rosa, nel distretto di Kamrangirchar e in quello gemello di Hazaribagh, divisi dal Buriganga, si lavora in condizioni bestiali anche con l’aiuto di ragazzi di 8 anni. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il 90% di chi lavora in queste fabbriche di veleni che si sciolgono nel fiume non supera i cinquant’anni. Pavlo Kolovos, il responsabile di tre cliniche di Medici Senza Frontiere a Kamrangirchar, spiega che "la metà dei pazienti che viene negli ambulatori di Msf lo fa per problemi legati al lavoro: malattie della pelle, intossicazioni, insufficienze respiratorie". "Le nostre inchieste - dice Deborah Lucchetti della campagna Abiti Puliti - mostrano come l’esposizione al cromo, quando viene trattato in maniera non adeguata e si trasforma in cromo esavalente, possa portare anche al tumore. Senza contare che gli scarti delle lavorazioni vanno a finire in falde e terreni espandendo il danno anche oltre la fabbrica". Il paradosso è che la materia prima - cotone o cuoio - non sempre viene dal Bangladesh che pure è un grande produttore di uno dei migliori cotoni del mondo. E non sempre i semilavorati finiscono, come avveniva una volta, nei Paesi dove hanno sede le grandi firme americane o europee che sono le vere regine del mercato dell’abbigliamento, dalla gonna allo stiletto, dalla t-shirt al mocassino. Uno dei grandi produttori mondiali di cotone ad esempio è l’Uzbekistan. È una produzione antica come il mondo che un tempo rese famosa la Valle di Fergana. E il cotone uzbeco va a finire in Bangladesh che non ne produce abbastanza per alimentare un’industria che vale il 90% dell’export nazionale. Quanto al cuoio, la pelle conciata, prima di andare a finire come scarpa nelle boutique di via Montenapoleone o di Bond Street, fa strade molto diverse. Magari arriva in Serbia oppure, ancora in Asia, in Indonesia, Cina, Cambogia. Condizioni critiche anche dietro al cuoio lavorato nei laboratori del Bangladesh - Due recenti inchieste ci aiutano a gettare una luce, anche se assai sinistra, su questa retrovia dei nostri abiti e delle nostre scarpe. Cominciamo dall’Uzbekistan. Un rapporto di Human Rights Watch mette sotto accusa il finanziamento di svariati milioni di dollari concesso dalla Banca mondiale all’Uzbekistan proprio nel campo del cotone. Si chiama aiuto allo sviluppo. Ma se si va a far visita al campo di cotone vero e proprio si scoprono cose molto spiacevoli: nel dossier We Can’t Refuse to Pick Cotton Hrw sostiene che il cotone viene raccolto anche da minori e, in gran parte, da gente che non avrebbe nessuna voglia di raccoglierlo (per 5 euro al giorno). Hrw non è l’unica organizzazione ad aver messo sotto la lente la filiera del cotone uzbeco e soprattutto i suoi finanziamenti. Come quello per l’irrigazione - oltre 300 milioni di dollari - nei distretti di Turtkul, Beruni, Ellikkala nel Karakalpakstan dove il cotone conta per il 50% delle terre arate, in un Paese che è il quinto produttore mondiale ed esporta in Cina, Bangladesh, Turchia, Iran. In quelle zone, dice il rapporto, lavoro forzato e minorile continuano. E la Banca mondiale lo sa perché un gruppo misto - Uzbek-German Forum for Human Rights - glielo ha già fatto sapere da un paio d’anni. Ma anziché sospendere i finanziamenti, la Banca mondiale li ha allargati. Per la verità anche la Banca mondiale sta attenta alle condizioni di lavoro e anzi il lavoro minorile è un mantra assoluto nella scala dei diritti da rispettare. Ma i burocrati di Washington non hanno sempre il tempo e la voglia di guardare oltre le carte e così hanno chiesto all’Ufficio internazionale del lavoro di fare accertamenti. L’Ilo l’ha fatto e ha stilato un rapporto dove si citano "progressi". Ma gli attivisti di Hrw fanno notare che, per stessa ammissione dell’Ilo, non solo un terzo dei raccoglitori è stato obbligato a lavorare (quasi un milione di lavoratori su tre), ma le autorità avevano messo in guardia gli intervistati. Lo stesso rapporto ammette che "…molti intervistati sembravano essere stati preparati alle domande". Secondo Hrw la Banca mondiale e la International Finance Corporation (Ifc), un’agenzia della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, dovrebbero immediatamente sospendere ogni finanziamento fino a che il governo non riesca a dimostrare che non esiste più lavoro minorile e lavoro forzato. E nelle fabbriche cambogiane usate dai marchi sportivi più famosi le cose non vanno meglio - Passando alla Cambogia, qualche giorno fa il britannico The Observer ha pubblicato un’inchiesta condotta con la ong Danwatch sugli incidenti nelle fabbriche cambogiane di alcune delle più note marche sportive: Nike, Puma, Asics e VF Corporation. Solo nell’ultimo anno, più di 500 dipendenti di quattro diverse fabbriche che lavorano per le firme occidentali sono state ricoverate in ospedale. Svenimenti di massa. Il problema è il caldo, la mancanza di ventilazione e di regole sui limiti sopportabili in giornate di lavoro anche di dieci ore. I prodotti chimici usati per la produzione fanno il resto. Insomma si lavora così. Lontano dai negozi a quattro luci che esibiscono scarpette e tailleur. Nell’ombra asfissiante del grande supermercato asiatico. Migranti. Un piano per gli sbarchi. La Guardia costiera detterà legge sulle Ong di Francesco Grignetti La Stampa, 2 luglio 2017 Nel nuovo piano che il ministro dell’Interno presenterà ai colleghi francese e tedesco c’è il ruolo di regia della Guardia costiera, che dovrebbe governare la presenza in mare delle imbarcazioni. Per governare il dramma dell’immigrazione che tumultuosa arriva dalla Libia, il governo sta seguendo le indicazioni del Rapporto finale della commissione d’inchiesta senatoriale sulle Ong, quello redatto da Nicola Latorre, Pd, e votato all’unanimità. I tecnici di tre ministeri (Difesa, Interno e Infrastrutture) sono al lavoro. E la Guardia costiera è stata incaricata di passare dalle parole ai fatti. Hanno già iniziato a preparare un nuovo regolamento sulle operazioni di salvataggio in mare. Nel regolamento ci saranno le nuove prescrizioni che le Ong dovranno rispettare, in termini di trasparenza sui finanziamenti, sulle spese, e sulle dotazioni, per essere accreditati presso la Guardia costiera. Chi non le rispettasse, potrebbe vedersi negato l’attracco in un porto italiano. Addirittura qualcuno ipotizza il sequestro delle navi inadempienti, come accadde nel 2004 alla nave Cap Anamur, di una Ong tedesca, i cui ufficiali furono arrestati e processati ad Agrigento proprio per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Quel precedente peraltro ci ricorda che i cinque imputati furono assolti e che è quasi impossibile, dal punto di vista della legalità nazionale e internazionale, opporsi a un salvataggio in mare. Nel nuovo regolamento ci sarà anche un capitolo cruciale dedicato a una cabina di regia attiva, sempre in capo alla Guardia costiera, per disporre in mare le imbarcazioni e finirla con l’anarchia attuale. Il tutto, però, dovrà essere condiviso anche con le istituzioni internazionali, a cominciare dall’Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni) e l’Imo (Organizzazione internazionale del mare). I tempi per modificare il regolamento del salvataggio in mare, insomma, necessariamente saranno lunghi e il governo ne è consapevole. Nell’immediato occorre sbloccare la risposta europea. E così l’incontro di oggi a Parigi tra ministri dell’Interno di Francia, Italia e Germania, alla presenza del commissario europeo Dimitris Avramopoulos, dovrebbe servire a preparare un progetto dei 3 Grandi in vista del vertice successivo di Tallin, previsto giovedì. L’idea del ministro Marco Minniti è che i francesi potrebbero iniziare a dare il buon esempio accogliendo almeno i naufraghi che vengono soccorsi dai mercantili e dalle navi delle Ong che battono la loro bandiera. Occorre poi che sia cambiato il meccanismo inceppato della redistribuzione dei richiedenti asilo. Matteo Renzi è più che d’accordo e anzi rilancia: "Nel 2018 si dovrà fare il bilancio europeo per il 2020-2026: io sono per dire che chi non rispetta le regole sui migranti non può avere i soldi che mettiamo ogni anno, 20 miliardi di euro, sul bilancio. Smettiamo di darli a quelli che costruiscono i muri". Piuttosto che minacciare la chiusura dei porti, su cui anche i ministri sono divisi, il governo ha ritrovato la sua compattezza sull’offensiva in Europa. E non solo il governo. "È chiaro - ha detto Pier Luigi Bersani intervenendo sul palco con Giuliano Pisapia - che bisogna organizzare un corridoio umanitario gestito dall’Ue. Non lo fanno? Per me si lascia la sedia vuota finché non si convincono. Bisogna puntare i piedi non sui migranti, i nostri valori non ce lo permettono, ma sull’ignavia di chi ci sta lasciando soli". Migranti. L’invasione non c’è: a giugno stessi sbarchi degli ultimi anni di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 2 luglio 2017 Oggi vertice a Parigi tra Minniti e i colleghi francese e tedesco sui porti e la crisi in Libia. Il vento forte e il mare agitato scoraggiano le partenze sulla rotta del Mediterraneo centrale e si contano così solo due sbarchi nelle ultime quarantotto ore, a Brindisi e Catania, in tutto poco più di mille migranti recuperati a largo della Libia dalla Guardia costiera italiana e da una nave militare svedese. A Catania sono sbarcate anche nove salme, i corpi di quattro uomini e cinque donne recuperati dagli svedesi. È risacca sui numeri però: dopo una settimana di bufera e spuma politica sull’emergenza "insostenibile", "l’invasione", sono stati diffusi i dati veri sugli sbarchi di giugno e dei primi sei mesi del 2017 dal Viminale e dall’Organizzazione mondiale delle migrazioni. Dall’inizio dell’anno sono 83.360 i migranti arrivati sulle nostre coste, mentre nei primi sei mesi del 2016 erano 70.222, quindi si segnala un aumento del 18,71 per cento che però in numeri assoluti significa poco più di diecimila persone in un paese di 60 milioni di abitanti. L’Oim fa notare che rispetto all’anno scorso in Europa gli arrivi complessivi di migranti e profughi sono diminuiti (95.768 contro i 230.230 del primo semestre 2016), quando erano ancora in maggioranza i siriani in fuga dalla guerra ad arrivare prima dell’accordo del 18 marzo 2016 che ha sigillato la frontiera tra Turchia e Grecia. A giugno poi gli ingressi sono praticamente identici: 22.907 quest’anno, 22.371 nel 2016, 22.877 nel 2015. Ora però l’85 per cento di queste persone sono destinate a restare in Italia, dove gli ultimi due governi renziani - come fa notare il giurista palermitano Fulvio Vassallo Paleologo - sono caduti in una "trappola repressiva" europea. La trappola per l’Italia è forgiata da una manovra a tenaglia: da un lato c’è stato il rifiuto da parte dei paesi del Nord Europa di modificare il regolamento di Dublino in modo da consentire la circolazione dei rifugiati che vogliono raggiungere Paesi diversi da quello di arrivo, dall’altra l’aumento del rilevamento delle impronte al momento dello sbarco tramite il sistema Hotspot, con le agenzie europee Frontex e Easo a supervisionare l’inserimento dei parametri biometrici d’identità nel sistema Eurodac con percentuali di rilevamento del 99%, più la chiusura sostanziale delle frontiere di Francia, Svizzera, Germania, Austria e Slovenia, e il fallimento delle quote di relocation, hanno bloccato i migranti in Italia. Il blocco dei porti alle navi delle ong battenti bandiera diversa dal tricolore, che ora il ministro dell’Interno Marco Minniti agita verso l’Europa come ultima carta coperta, visto che di minaccia ancora si tratta e probabilmente inattuabile nel rispetto delle convenzioni internazionali, verrà giocata stasera a Parigi, dove lo stesso Minniti si vedrà con i suoi omologhi franco-tedeschi, Gérard Collomb e Thomas de Maizière. Ma c’è poco da aspettarsi, quanto a soluzioni e "approccio coordinato", dal tavolo dello chemin de fer al quale parteciperà anche il commissario europeo per le migrazioni Dimitri Avramopoulos. Ascoltare le lamentele di Minniti a Parigi appare come un contentino rispetto al pesante niet già dichiarato dall’Estonia quanto a maggiori sostegni che l’Italia sperava di strappare sul tema dei flussi migratori al vertice europeo di Tallin in programma per giovedì e venerdì della prossima settimana. Al tavolo di Parigi forse verrà affrontato anche il tema del supporto dell’Italia alla Guardia costiera libica ma non è detto che anche su questo punto gli entusiasmi del Pd renziano saranno premiati. La Corte dell’Aja, su ricorso dell’ong tedesca SeaWatch, ha aperto un’indagine sulla Guardia costiera libica, finanziata dalla Ue e dall’Italia, per aver ostacolato i soccorsi a mare e sparato contro i gommoni. In più il sito libico al Wasat rivela che la missione Ue "Sophia" sta indagando sui traffici di un peschereccio di proprietà di un ufficiale della Guardia costiera di Misurata (governo Serraj) fortemente sospettato di trasportare mortai e armi anticarro, oltre a miliziani di Ansar al Sharia, coprendo l’attività a vantaggio dell’Isis con "scopi umanitari". Se è l’Onu a ricordarci che la droga è un dramma di Agnese Moro La Stampa, 2 luglio 2017 Uno dei meriti delle Nazioni Unite è quello di non perdere di vista l’insieme dei problemi che il mondo deve affrontare. E di ricordarlo a tutti. Farlo è necessario non solo quando si tratta di cose che riguardano Paesi lontani, ma anche quando si tratta di fatti di casa nostra, un po’ usciti dal nostro campo visivo. Per distrazione o per non voler vedere. In questi giorni le Nazioni Unite ci hanno mandato un promemoria sulla questione del traffico e dell’uso di droghe con il World Drug Report dell’Undoc - United Nations Office on Drugs and Crime www.unodc.org/ wdr2017/. Era opportuno. Da noi c’è chi sdrammatizza, fino a ritenere che l’uso di sostanze stupefacenti non sia un problema, ma un intrattenimento, un modo legittimo per dominare ansie, e addirittura una scelta di libertà. Convinzioni rischiose e false, come il Rapporto mostra chiaramente, trattando sistematicamente la situazione, sostanza per sostanza, con i danni specifici di ognuna; i proventi ricavati dalla criminalità; gli effetti spesso gravissimi sulla salute prodotti anche da droghe considerate da troppi, inclusi i nostri giovani, innocue (e non lo sono, soprattutto se sintetiche). Mentre da noi, poi, per almeno un paio di decenni le questioni del recupero dei tossicodipendenti, dell’attività delle diverse Comunità terapeutiche e della progettazione di attività di prevenzione sono state all’ordine del giorno della vita pubblica, oggi tutto va ripreso in mano perché sembra che la questione non riguardi più tutta la collettività - salvo che per la repressione della malavita organizzata, ma solo le persone direttamente coinvolte e, ovviamente, le loro famiglie. Sostanzialmente un fatto privato. Ma non lo è. Perché sono in gioco delle vite; vite la cui perdita impoverisce tutti noi. Il Rapporto ci dà un’idea del fenomeno: riferisce che 250 milioni di persone, circa il 5% della popolazione mondiale adulta, avrebbero fatto uso di droghe almeno una volta nel 2015. Di questi circa 29,5 milioni, lo 0.6% della popolazione adulta mondiale, hanno sviluppato dipendenza dalle sostanze e danni tali (tubercolosi, epatite C, Hiv) da avere costante bisogno di cure. L’Undoc stima che nel 2015 su scala mondiale siano stati perduti 28 milioni di anni di vita in buona salute, con decessi prematuri e inabilità. Uno dei mille modi con cui l’umanità cerca di distruggersi. Rimettiamolo subito in agenda. Iraq. La Norimberga dell’Isis, tra processi sommari ed esecuzioni di Giordano Stabile La Stampa, 2 luglio 2017 Il tribunale speciale allestito in ciò che resta della città cristiana di Qaraqosh. Ogni giorno giudicati 60 miliziani del Califfato. La pena minima è di 15 anni. C’è una Norimberga anche per l’Isis. Sotto tono, lontano dai riflettori dei media, ma dove fino a 60 ex combattenti dello Stato islamico vengono processati ogni giorno. La sede di questo tribunale speciale, nei fatti anche se non nel nome, è a Qaraqosh, una volta la più grande città cristiana dell’Iraq, sessantamila abitanti, quasi tutti appartenenti alla Chiesa cattolica sira. A Qaraqosh, conosciuta anche con il nome di Al-Hamdaniya, non è rimasto quasi nessuno. Una città fantasma, con la chiesa principale accartocciata su se stessa, attraversata da una strada che da Erbil porta a Mosul Ovest, l’unica percorribile dopo la distruzione dei ponti sul Tigri. Per una sorta di contrappasso si è trasferito qui il tribunale della provincia di Ninive, subito dopo la liberazione della cittadina. Ed è qui, man mano che Mosul veniva riconquistata, che sono stati portati gli islamisti catturati, pochi, e i civili sospettati di aver fatto parte dell’Isis e poi fuggiti in mezzo al fiume di profughi che ogni giorno usciva dalla città. Tra marzo e giugno quasi mezzo milione di persone ha lasciato Mosul Ovest. Ora il flusso si è quasi interrotto, anche se nella Città vecchia restano ancora 50 mila persone intrappolate. La selezione comincia alle porte della città, sulla strada che collega Mosul ad Hammam al-Ali, dove ci sono i più grandi campi profughi. La polizia federale divide uomini da donne e bambini. E poi verifica le identità su una "lista" dove sono segnati tutti i sospetti. Quelli identificati sono portati a Qaraqosh. La Corte unificata di Ninive occupa due edifici. In una c’è una specie di anagrafe. Per tre anni tutte le nuove nascite sono state segnate nel sistema del Califfato, come anche le nuove carte di identità, i certificati di matrimonio. Gli ex sudditi del califfo Abu Bakr al-Baghdadi vengono al primo edificio del tribunale per rimettersi in regola e tornare cittadini iracheni. Nel secondo edificio invece si tengono i processi. È un edificio a due piani, forse una villetta privata requisita per le esigenze dello Stato, anche perché meno di un decimo degli abitanti sono tornati. Al primo piano si tengono i processi per i risarcimenti dei danni di guerra. Famiglie che hanno perso la casa, la macchina, nei combattimenti fra esercito e jihadisti, e anche sotto i bombardamenti. La "Norimberga dell’Isis" è al secondo piano. Decine di sospetti "legati e bendati", secondo testimoni, vengono portati ogni giorno nelle stanze di sopra. Non ci sono "pezzi grossi". L’attenzione è soprattutto concentrata sugli appartenenti alla tribù dei Joubari, che forniva, secondo le milizie sciite, "l’80 per cento degli uomini della polizia dell’Isis". È una cifra difficile da verificare, ma è confermato, da fonti indipendenti, che nel 2014 l’Isis aveva stretto accordi con le più importanti tribù sunnite ostili a Baghdad e affidato a loro la gestione della città, mentre l’aspetto militare restava nelle mani dei jihadisti, soprattutto stranieri. Ora però la "Norimberga" di Qaraqosh potrebbe portare a una giustizia sommaria. Non a caso il premier Haider al-Abadi, su suggerimento degli americani, si è sempre opposto a processi di massa. Alla Corte le cose vanno spedite. Secondo il portale "Al Monitor" gli imputati rischiano pene da un mimino di 15 anni fino alla condanna a morte. Il capo di accusa è sempre quello, "terrorismo", in base a una legge del 2005 varata per stroncare la ribellione nelle province sunnite. Alcuni imputati vengono poi spediti a Baghdad. Altri, secondo la testimonianza di avvocati voluti restare anonimi raccolta da "Foreign Affairs", "sono mandati a combattere nelle file di milizie sunnite anti-Isis, se non si sono macchiati di fatti di sangue". Questo "riciclaggio" non è anomalo: il governo di Baghdad ha un bisogno disperato di combattenti per controllare le vaste aree sunnite strappate all’Isis, quasi metà del Paese. Gli interrogatori dell’accusa "durano al massimo quindici minuti". Le domande sono sempre le stesse: "Hai sparato colpi di mortaio o razzi sulle nostre truppe? Hai usato armi da fuoco? Nella tua unità altri hanno sparato contro i nostri soldati? Quanti combattenti stranieri o arabi erano con voi?". E poi la domanda finale. "Ti sei pentito?". I giudici cercano soprattutto di capire se il sospetto ha fatto parte del Diwan al-Jund, il corpo militare dell’Isis, incaricato di resistere all’offensiva dell’esercito. Il Diwan al-Jund aveva due guarnigioni, una a Mosul Est l’altra a Ovest, e ha inflitto perdite pesanti alle forze anti-terrorismo. Quasi tutti gli imputati cercano invece di farsi passare per semplici "impiegati" del Califfato, al massimo alle dipendenze del Diwan al-Morabata, cioè la polizia locale, "reclutati a forza, per evitare rappresaglie sulla famiglia" e avere diritto alla "distribuzione del cibo". La realtà del Califfato è anche questa: un nucleo di fanatici che ha tenuto in pugno una città di due milioni di abitanti ridotti alla fame.