Appello per il carcere Due Palazzi di Padova: l’adesione di Legacoop Veneto legacoop.veneto.it, 29 luglio 2017 Aderisce anche Legacoop Veneto, con la firma del suo presidente Adriano Rizzi, all’appello lanciato dalle realtà che lavorano nel carcere di Padova "Due Palazzi" (tra cui anche alcune cooperative sociali), allarmate per il futuro della Casa di reclusione: un futuro che potrebbe far ritornare quel luogo chiuso alla società civile a causa dei recenti attacchi, mediatici e non solo, rivolti alla gestione del carcere. "Quello che ci preoccupa - si legge nell’appello - è che ad essere attaccato sia il sistema "carcere Padova" nella sua totalità, e per di più in maniera poco chiara e incomprensibile". Così, per tanti eccellenti progetti rivolti alle persone detenute - nati grazie all’opera e all’impegno di realtà come le nostre associate "cooperativa sociale Giotto" e "AltraCittà", ma anche di numerose associazioni e organizzazioni di volontariato, università, scuole, potrebbe giungere la parola "fine". "Ognuna di queste - si legge sempre nell’appello - con la propria specificità ha dato vita, in questi lunghi e faticosi ma anche begli anni, a quell’autentico laboratorio di sperimentazione di un carcere rispettoso fino in fondo della Costituzione. Tutto questo, che è un patrimonio di tutti, oggi lo vediamo messo fortemente a rischio. Il lavoro di anni, svolto da tutti sempre attraverso un confronto aperto e serrato con le Istituzioni, ha avuto una caratteristica sopra ogni altra: la trasparenza". Lavoro paziente e tenace di tanti anni, che ha visto l’avvio e la crescita di numerosi progetti che impegnano e coinvolgono le persone detenute, ad esempio, in attività come la pasticceria, il teatro-carcere, il canto corale, la scrittura, lo studio, lo sport, la redazione di un giornale… e che dunque insegnano loro un mestiere riducendo così con successo il rischio di recidiva. Sono attività fondamentali, senza le quali un carcere che è considerato "fiore all’occhiello, a livello internazionale" si spegne isolandosi dalla sua città e dalla comunità di appartenenza. Carceri italiane, torna il rischio sovraffollamento di Luca Liverani Avvenire, 29 luglio 2017 L’allarme nel rapporto 2017: più 2.967 detenuti in un anno, in tutto 56.817. A questo ritmo nel 2020 torneremo ai numeri che portarono la Corte europea dei diritti umani a condannare l’Italia. Carceri italiane, torna il rischio sovraffollamento. Avanti di questo passo, tra tre anni le carceri torneranno al sovraffollamento per cui l’Italia fu condannata nel 2013 dalla Corte europea dei diritti umani. Processi troppo lunghi, troppa custodia cautelare, troppe celle disponibili solo in teoria, troppo basso il ricorso alle misure alternative che abbattono la recidiva. E in alcuni penitenziari siamo di nuovo sotto la soglia minima dei 3 metri quadri per detenuto: alcuni carceri hanno quasi il doppio dei detenuti rispetto ai posti. A lanciare l’allarme è Antigone Onlus, che da 19 anni vigila sulle condizioni delle strutture detentive. Il Pre-Rapporto 2017 sulle carceri, che contiene anche venti proposte per il nuovo ordinamento penitenziario, segnala sintomi preoccupanti. A cominciare dalla durata dei processi, peraltro cresciuti in 10 anni da 1,44 milioni a 1,54. I processi in 1° grado nel 18,9% dei casi superano il limite della "durata ragionevole" di 3 anni che determina un risarcimento, sforamento al 45,3% per gli appelli. La durata media del processo in 1° grado con rito collegiale è 707 giorni, 901 in 2° grado. I 25 mila casi di ingiusta detenzione degli ultimi 25 anni sono costati allo Stato 630 milioni di risarcimenti. E i detenuti aumentano: 2.967 in più in un anno, in totale 56.817, con un tasso di sovraffollamento del 113,3%. A questo ritmo nel 2020 saremo a oltre 65 mila con una capienza attuale di 50.241 posti. Gli stranieri - che sono il 34,1% dei detenuti - sono comunque calati del 3,3% dal 2007, nonostante l’aumento dei residenti. Antigone parla di "discriminazione nella fase processuale", visto che la custodia cautelare per gli stranieri è del 41,4% quando per gli italiani e del 32,5%. Da segnalare che i detenuti italiani nati al Nord sono 5.473, il doppio rispetto ai romeni. Così come i 3.669 calabresi superano i marocchini e i 2.644 laziali sono più degli albanesi. Secondo Antigone ben 15.236 detenuti - il 26,8% - potrebbero usufruire delle misure alternative perché devono scontare una pena residua inferiore ai tre anni. Tra i 42.109 condannati in misura alternativa alla detenzione, 13.972 sono in affidamento in prova al servizio sociale, 10.341 ai domiciliari, 9.768 alla messa alla prova, solo 808 in semilibertà. Pochi i detenuti tossicodipendenti affidati in prova ai servizi: solo 1.611 su una popolazione stimata di circa 15 mila. In calo i suicidi: 27, quasi metà dei 47 dell’anno scorso. Se la media del sovraffollamento è del 113,2%, singoli carceri sono già oltre i livelli di guardia. Busto Arzisio è al 174,2% e i detenuti in attesa di giudizio stanno assieme ai condannati definitivi. Como arriva al 186,6% e crescono gli atti di autolesionismo. E la capienza regolamentare "va presa con le pinze" se come a Nuoro tre bracci dell’istituto sono inutilizzabili, a Livorno un padiglione è chiuso dal 2016 e due dal 2011, a Civitavecchia due perché mai ristrutturati. Antigone segnala che solo Lecce separa i giovani adulti sotto i 25 anni dagli altri, come richiesto dall’ordinamento penitenziario. E il personale? "Da sempre i sindacati denunciano la loro carenza ma la questione non è affatto scontata". La media è alta, 1,7 detenuti per agente, dato superato solo dai paesi scandinavi. In realtà "sono distribuiti malissimo": a Pavia 2,9 per agente, ad Arezzo 0,5, cioè due agenti per detenuto. Drammatico invece il numero degli educatori: a Busto Arsizio uno ogni 196 detenuti, a Bologna ogni 139. Problematica la situazione lavoro: occupato solo il 30%, ma nel 26% degli istituti ispezionati non ci sono datori di lavoro esterni e nel 43% mancano corsi di formazione professionale. Scarsi anche i contatti con la famiglia, importanti per il reinserimento. Solo Opera (Milano) dispone delle videochiamate via Skype. Quelli che non sono Dell’Utri: i reclusi malati morti in cella di Fabrizia Caputo Il Fatto Quotidiano, 29 luglio 2017 Valerio Guerrieri, con disturbi mentali, si è ucciso. Borriello è deceduto senza essere stato curato. "Ciao fratello, ti scrivo adesso, 9:40 del mattino per dirti soltanto che mi dispiace per tutto. Io qui sto impazzendo, non ce la faccio più, ma vabbè, me la sono cercata". Mentre l’attenzione della politica sul tema carceri si fa vigile solo quando si parla di episodi eclatanti o inquilini eccellenti, come nel caso di Marcello Dell’Utri, ricoverato a giugno nel reparto di infermeria del carcere di Rebibbia, o di Totò Riina, assistito in una struttura ospedaliera di Parma, fornita di reparto apposito anche per i detenuti del 41 bis, ci sono altri "galeotti" a cui non è riservata la stessa premura. E, nel peggiore dei casi, i riflettori non si accendono nemmeno dopo la loro morte. Valerio Guerrieri aveva 22 anni quando si è suicidato il 24 febbraio scorso in una cella del carcere romano di Regina Coeli, dopo che è stata decretata la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. "Valerio aveva un problema psichiatrico rilevante e documentato" ha spiegato l’avvocato Simona Filippi, difensore civico dell’associazione Antigone, che si occupa dei diritti e le garanzie del sistema penale: "Per la storia di Valerio ora c’è un processo penale pendente con l’accusa della procura di Roma per omicidio colposo contro ignoti". Il ragazzo era stato arrestato per resistenza a pubblico ufficiale dopo che non si era fermato all’alt delle forze dell’ordine. per via del brevissimo intervallo di tempo tra l’avvio dell’eventuale terapia e il decesso, nonché per le condizioni di salute del detenuto, già compromessè". Sono 30 i suicidi in carcere dall’inizio del 2017 ad oggi, una media di uno a settimana. L’ultimo ieri a Rebibbia, dove un 46enne si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella. Nel 2016 i suicidi furono 45. Di questo passo sarà record. Proprio per questo il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ha inviato ieri le richieste di informazioni "sullo stato dei procedimenti alle diverse competenti procure della Repubblica" per affiancare la magistratura e, vista la gravità della situazione, interviene nelle indagini in corso come persona offesa. "Se si continua così c’è il rischio che le morti in carcere aumentino - spiega il garante nazionale Palma - Elemento comune è che una percentuale non irrilevante di questi detenuti aveva problemi psichiatrici e non si possono scaricare tutti i problemi della società nelle carceri". Altro grande problema secondo Palma riguarda i trasferimenti passivi: "Il ministro Andrea Orlando aveva ricordato che prima di eseguirli bisognava preparare il detenuto al cambiamento, ma questo non viene quasi mai fatto. E poi le carceri sono piene di detenuti con pene inferiori a due anni". In vigore lo statuto della Cassa delle Ammende, dopo 85 anni di attesa radicali.it, 29 luglio 2017 Boni e Manzi (Radicali Italiani): un passo in avanti sulla strada della trasparenza per uno strumento prezioso per il finanziamento di progetti a favore dei detenuti. Da ieri, venerdì 28 luglio 2017, entra in vigore lo statuto della Cassa delle Ammende, approvato con Dpcm n. 102 del 10/04/2017. La Cassa delle ammende si compone di: un Fondo Patrimonio, che raccoglie i finanziamenti derivanti da: somme versate a seguito di sanzioni disciplinari o pecuniarie disposte dal giudice; proventi ricavati dai manufatti realizzati dai detenuti; importi relativi alla vendita dei corpi di reato non reclamati da chi ne avrebbe diritto; un Fondo Depositi, che raccoglie: somme di cauzione ordinate dai magistrati per misure di prevenzione o di buona condotta; averi non reclamati da chi esce dal carcere. Tali fondi devono essere destinati a programmi di riabilitazione e reinserimento dei detenuti, progetti di edilizia penitenziaria e programmi di giustizia riparativa in favore delle vittime del reato o della comunità locale. Il bilancio 2015 della Cassa delle Ammende riporta un saldo attivo di oltre 53 milioni di euro. Igor Boni e Silvja Manzi (Direzione Radicali Italiani), che stanno accompagnando il consigliere regionale del Piemonte Marco Grimaldi (capogruppo e segretario regionale SI) nelle visite a tutti gli istituti di pena piemontesi, hanno rilasciato la seguente dichiarazione: "Ai sensi dell’art. 4, comma 4, della legge 9 maggio 1932, n. 547 - firmata da Benito Mussolini e Alfredo Rocco! - lo statuto della Cassa delle Ammende avrebbe dovuto essere emanato entro il 6 dicembre 1932. Ci sono voluti invece 84 anni e 8 mesi. L’istituto della "Cassa delle Ammende" è stato praticamente dimenticato da tutti fino agli anni 2000, quando il lavoro di ricerca e documentazione della radicale Jolanda Casigliani ha fatto riscoprire un ente rilevante, sia per le sue funzioni sia per la sua dotazione economica. Finora abbiamo assistito al paradosso di decine di milioni di euro disponibili ma non utilizzati quando in tutta Italia il mondo del carcere deve fare i conti con una drammatica mancanza di risorse. Ci sarà tempo per analizzare a fondo lo Statuto anche se qualche inadeguatezza balza subito agli occhi: le domande di finanziamento devono essere presentate tramite un modello approvato dal consiglio di amministrazione della Cassa, ma non sono stati previsti termini certi per l’approvazione del modello. L’importante, tuttavia, è che tutti i soggetti coinvolti nel "pianeta carcere" abbiano finalmente a disposizione regole certe, corrette e complete. Per intanto, sollecitiamo il Ministro di Giustizia alla nomina del presidente della Cassa e i Ministri dell’Economia e delle Finanze e del Lavoro alla nomina dei rispettivi rappresentanti nel Consiglio di Amministrazione, affinché l’istituto possa entrare finalmente a regime. Del resto, a ogni visita che effettuiamo, riportiamo le richieste dei direttori di urgenti adeguamenti strutturali, ci chiediamo se parte di questi oltre 53 milioni di euro non possa essere destinata proprio al miglioramento degli edifici degli e impianti più fatiscenti e, perciò, degradanti". Se questa è giustizia di Piero Sansonetti Il Dubbio, 29 luglio 2017 Secondo voi c’è qualcosa di anche vagamente ragionevole nella decisione di mandare la polizia, in piena notte, a casa di un signore di 86 anni, per tirarlo giù dal letto e realizzare una perquisizione - evidentemente molto urgente - che dovrebbe servire a gettare luce su delitti di circa un quarto di secolo fa? Sapendo per di più che questo signore non è un tale che in tutti questi anni era irreperibile, ma è un ex dirigente dei servizi segreti che è stato in prigione per dieci anni (ingiustamente), è stato perquisito e interrogato decine di volte, processato, messo a confronto con decine di pentiti e di testimoni, tenuto in isolamento per mesi e mesi in un carcere militare, e alla fine assolto dalla corte costituzionale, appena due settimane fa? Esiste qualche persona al mondo che ritiene che la perquisizione realizzata l’altra notte potesse portare a qualche risultato? Che fosse utile? E che fosse necessario farla a sorpresa, prima dell’alba, in modo da impedire al sospetto di far sparire eventualmente carte che negli ultimi ottomila giorni (trascorsi da quando fu arrestato la prima volta) aveva dimenticato sul tavolino? È una vicenda paradossale quella che è capitata al dottor Contrada. Paradossale oltre ogni limite. Della sua storia abbiamo parlato varie volte nelle settimane scorse. Contrada è stato negli anni settanta e ottanta, e nei primi anni novanta, un poliziotto molto importante e un dirigente dei servizi segreti. Poi una sciagurata sera della vigilia di Natale, anno 1994, lo andarono a prendere a casa, a Palermo, lo sbatterono in fondo a una cella e ce lo lasciarono per molti anni. Un gruppo di pentiti, al solito, lo aveva accusato di essere stato amico della mafia. Contrada fu prima condannato, poi assolto, poi condannato di nuovo, scontò per intero la pena di dieci anni, poi fu riabilitato prima dalla Corte Europea e, ai primi di luglio, anche dalla Cassazione. L’Italia è stata condannata a risarcirlo. Ma la sua vita, ormai, era distrutta. Nei giorni scorsi si è molto discusso sul perché ci fu l’accanimento su Contrada. E se fu accanimento. Ora mi pare che la discussione, almeno su questo punto, può dirsi conclusa. Il dottor Contrada può senza tema di smentita considerarsi un perseguitato dallo Stato italiano. O forse è meglio dire: da pezzi dello Stato italiano. Resta il grande interrogativo: perché? Sarà difficile trovare una riposata sul passato, bisognerebbe andare a scavare di nuovo nella storia delle lotte di potere che erano aperte in quegli anni, a Palermo - e non solo - tra gli apparati dello Stato. Bisognerebbe andare a controllare le posizioni e gli interessi dei vari pentiti e i loro collegamenti con le varie cosche. Non è semplice. Più semplice, forse, è dare una risposta sul perché la persecuzione prosegue anche oggi. C’è un pezzo, piccolo probabilmente ma molto vistoso, di magistratura che concepisce il proprio lavoro come attività politica e non giurisdizionale. Tutto qui. E considera il filone aperto in Sicilia delle inchieste sulla presunta trattativa Stato-mafia (che ha dato vita a un processo che ancora procede, ma senza più imputati e senza capi di imputazione...) come una miniera d’oro. Adesso a qualcuno è venuta l’idea di estendere le indagini alla Calabria (dove, peraltro, pare che Contrada non abbia mai messo piede). A che serve? Quanto costa? Non sappiamo quanto costa. Possiamo provare a indovinare a cosa serve. L’impressione è che serva a creare nuove visibilità in vista della futura campagna elettorale. Nell’aria c’è l’idea che il prossimo parlamento sarà molto rinnovato, e forse dominato da partiti nuovi, come i 5 stelle. E ci sia spazio per personaggi e forze nuove che provengono da quella che i politologi chiamano società civile. Chi ha voglia e filo da tessere si fa avanti, si mette in mostra. Va bene, fate pure. Ma almeno con un minimo di buonsenso. Svegliare alle quattro di mattina un signore di 86 anni, sua moglie cardiopatica e suo fratello ottantenne, buondio, non ha nulla che assomigli al buonsenso. Incontro al Ministero sulla "riserva di codice". Presenti Cnf, Camere Penali e Anm Il Dubbio, 29 luglio 2017 Si e tenuto ieri un incontro tra il presidente della commissione ministeriale Gennaro Maresca, il capo dell’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, il ministro Andrea Orlando, il presidente del Cnf Andrea Mascherin e i rappresentanti di Camere penali e Anm. Obiettivo dell’incontro, confrontarsi sul tema della cosiddetta "riserva di codice", che è oggetto di un decreto legislativo delegato dal Parlamento al ministero della Giustizia. "Il presupposto dal quale siamo partiti è che il codice attuale, varato in un clima politico completamente diverso dal nostro, nel 1930, ha una scala di valori che non corrisponde più alla situazione attuale, però una modifica generale dei precetti penali in questo momento non è praticabile perché non ci sono le condizioni politiche", ha spiegato il presidente Maresca. "Il legislatore però ha dato una delega per introdurre nel nostro codice un principio, quello di riserva di codice, che significa che ogni volta che il legislatore vuole proporre una norma penale, deve inserirla nel codice penale e non può disseminarla in varie leggi speciali come accade oggi". Una norma di indirizzo, dunque, che freni "l’iper-penalismo e razionalizzi il metodo legislativo". Il presidente Mascherin ha espresso parere favorevole al fatto di riportare all’interno dell’alveo del codice le norme ora disperse in miriadi di leggi, in ottica di razionalizzazione. La norma oggetto del decreto legislativo "è una norma di indirizzo per il legislatore del futuro. Non solo, sono state individuate anche una serie di fattispecie penali comprese in legislazioni speciali che tutelano beni costituzionalmente protetti, che son stati inseriti nel codice penale. È un tentativo di razionalizzazione dell’esistente, per rendere maggiormente percepibile anche ai cittadini quali siano i comportamenti sanzionati". Quanto al metodo di confronto, "il Ministro Orlando ha spiegato che si tratta di un nuovo metodo di lavoro e ha espressamente voluto che io, come presidente della Commissione, potessi confrontarmi con la rappresentanza dell’avvocatura e dell’Anm, in modo da poter sottoporre loro le linee portanti del futuro decreto legislativo", ha spiegato il presidente Maresca. Un sistema che - ha assicurato - "potrà essere usato non solo per questa attuazione della delega ma anche su deleghe più delicate come quello sulle intercettazioni". Albamonte (Anm): "in Tv sembra tutto facile, ma il processo è un’altra cosa" di Elisa Chiari Famiglia Cristiana, 29 luglio 2017 Il nuovo presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati racconta la giustizia: "noi per primi soffriamo le disfunzioni, ma dobbiamo fare lo sforzo di andare incontro ai cittadini". Il Palazzaccio della Corte di cassazione sembra fatto apposta, nella sua tortuosità, per tradurre in forme architettoniche lo stato della giustizia. Eugenio Albamonte da qualche mese presiede l’Associazione nazionale magistrati. Solo nello stanzone delle riunioni (che quando è in sede adopera per contare su una scrivania più ampia), nonostante sia alto quasi scompare sotto i soffitti altissimi. Anche questo ha un che di simbolico: fa pensare che la solitudine del giudice, tale per definizione, possa aumentare quando si ha l’onere di rappresentarli tutti, mentre la fiducia nella giustizia cala. Tanto vale allora affrontare subito il nodo, cogliendo al volo l’apertura di un sorriso amabile. Dottor Albamonte, la fiducia nella magistratura scende, i cittadini vedono in voi il volto di una giustizia che funziona male. "Siamo noi i primi a patire la frustrazione del malfunzionamento: la maggior parte di noi ha fatto il magistrato per rendere giustizia nel quotidiano, sperando di riparare a qualche torto. Un processo chiuso con la prescrizione è lavoro in fumo. E la cattiva reputazione cade su di noi: un cittadino che sente di non avere giustizia tende a pensare che questo dipenda dal singolo giudice che ha di fronte". E invece? "Mentre si caricano sul sistema giustizia sempre nuove ipotesi di reato, si contraggono le risorse: mancano oltre 1.000 magistrati su 9mila e tra gli amministrativi le carenze in organico lasciano scoperti ben 9mila posti, i 2mila in arrivo sono una trasfusione salvavita. Procuratori e presidenti di Tribunale, che sanno solo di diritto, si son dovuti inventare competenze organizzative per tirare una coperta sempre più corta, per non dire ai cittadini: questo ufficio è chiuso. Ma lo sforzo da solo non basta". Eppure l’Italia non spende in giustizia molto meno di altri Paesi... "Evidentemente spende male. Abbiamo Pc da età della pietra. La Spagna con un massiccio investimento per l’informatizzazione ha dimezzato i tempi dei processi. Non solo: ha senso impegnare nove giudici in tre gradi di giudizio per impugnare una contravvenzione al codice della strada che con le more non arriva a 100 euro? Possibile che non si trovi una soluzione meno onerosa per dare ristoro al cittadino, riservando il processo a fatti davvero rilevanti? Tante ipotesi di reato hanno perso l’interesse sociale della punizione penale o riguardano non propriamente delinquenti, per i quali basterebbe una sanzione amministrativa". E i magistrati che cosa possono fare per recuperare credibilità? "Ricordare che il cittadino di fronte a noi potrebbe non incontrare la giustizia altre volte nella vita: se, dovendo chiedere a un testimone di tornare perché non ho fatto in tempo a sentirlo gli mando a dire: "Deve tornare il tal giorno, se no mandiamo i carabinieri", gli do la sensazione di essere sballottato senza criterio; se gli spiego cortesemente perché avrò bisogno del suo senso civico un’altra volta, avrà della giustizia un’idea migliore". A proposito di comunicare: magistrati e social network. Un rischio? "C’è libertà di parola anche per i magistrati, ma il modo fa la differenza: siamo tutti abituati nei contesti pubblici a parlare come se avessimo sempre la toga sulle spalle, poi a casa se uno ha un’emozione la comunica come ogni persona. Il problema si pone quando ci si scorda che su Facebook si è in pubblico, non a casa o tra amici fidati". Magistrati in politica. L’Anm, non senza dibattito interno, chiede per il rientro in magistratura norme più rigide della legge allo studio. Perché? "Premesso che quando si scrive una legge l’apporto tecnico di magistrati, avvocati, professori di Diritto è utile, perché leggi poco chiare portano a decisioni a lungo discordi, per il magistrato candidato c’è qualche problema: la sua indipendenza rischia di soffrire oggi più che in passato. Perché è cambiata la politica: il sistema delle liste elettorali, nei fatti, ora vincola il parlamentare al leader dello schieramento più di un tempo: anche se non c’è vincolo di mandato. Il Parlamento ha perso centralità rispetto al Governo. I partiti sono finanziati da fondazioni - sistema poco trasparente - e, visto che anche il magistrato, pur non iscritto al partito, per essere sostenuto nella campagna elettorale deve rivolgersi al leader che ha la sua fondazione, si rischia un cortocircuito". Non è un problema già il solo fatto di schierarsi? "Ogni magistrato ha idee sulle cose della vita, ma le motivazioni dei provvedimenti servono anche a verificare che la sua decisione non sia condizionata da opinioni personali. Se ogni idea fosse sintomo di partigianeria, dovremmo chiederci se il magistrato ama gli animali, se è religioso o ateo, se è ambientalista, ma allora dovremmo metterlo in una teca di cristallo". La gente si accosta al processo vedendo casi di "nera" ricostruiti in Tv: che rapporto c’è con il processo vero? "Un po’ come tra una fiction di Montalbano e un’indagine vera. Poco o niente. Il processo in Tv si basa su informazioni di esperti che non conoscono le carte, informazioni non di prima mano. L’unico che abbia presenti gli atti è l’avvocato, ma se partecipa darà solo la sua tesi. Il Pm non può esprimersi. In Tv domina l’emotività, che il giudice e le parti nel processo sanno mediare, mentre il cittadino ne subisce la suggestione. Chi guarda si fa un’idea colpevolista o innocentista senza conoscere le regole del processo e senza distinguere ciò che è agli atti (e vale in giudizio) da ciò che non lo è e non vale: quando poi vede arrivare la sentenza spesso ne resta spiazzato". Spiazza anche lo scarto tra le pene sulla carta e quelle che si scontano... "Dovremmo fare una riflessione molto seria in tema di effettività della pena per dare corrispondenza ai numeri delle sanzioni date: bisognerebbe che, se sono tre anni, siano tre, se sono cinque siano cinque. Forse sarebbe giusto stabilire che la sospensione condizionale non sia un meccanismo di clemenza indiscriminata, in certe situazioni. In Olanda ad esempio capita che s’infligga una pena non detentiva, che però viene realmente scontata e questo ha una valenza rieducativa". Riforma del processo penale da poco approvata. Luci e ombre. "Positiva la parte del diritto penitenziario che riguarda il trattamento dei condannati definitivi: un buon equilibrio tra l’esigenza di garantire sicurezza sociale ed effettiva rieducazione. Avremmo preferito che si tornasse al meccanismo precedente la cosiddetta legge ex Cirielli che nel 2005, per ragioni di dubbio interesse generale, ha dimezzato la prescrizione per gli incensurati, ma meglio di niente. Ci preoccupa l’obbligo di avocazione da parte del procuratore generale: sarebbe stato più razionale riservarlo ai ritardi ingiustificati, così, invece, si rischia di complicare ancora di più". Rapporto tra magistratura e politica: c’è bisogno di un equilibrio più alto di Nicola Quatrano Corriere del Mezzogiorno, 29 luglio 2017 Finalmente il Csm ha nominato il nuovo Procuratore di Napoli, dopo oltre cinque mesi dal pensionamento di Giovanni Colangelo, che pure non era stato un evento improvviso o imprevisto. Che fretta c’era, si potrebbe dire. Se l’organo di autogoverno della magistratura non ha sentito l’impellente necessità di dare un capo alla Procura di Napoli durante i convulsi momenti dello "scontro" con Roma sul caso Consip, o durante l’emergenza incendi, avrebbe ben potuto aspettare settembre, o anche ottobre, o Natale di qualche anno a venire. Ma il Csm funziona secondo disegni che, divini o meno, sono imperscrutabili ai comuni mortali. I maligni parlano di "spartizione", i suoi membri - a mezza voce - preferiscono l’espressione "pacchetto", che è una specie di accordo win win tra le varie componenti e sotto componenti, che riesce alla fine ad essere soddisfacente per tutti. Comunque sia, alla fine sono riusciti a nominare il Procuratore e la cosa non può non farci piacere. Peraltro Giovanni Melillo è un magistrato preparato e di esperienza, ed è senz’altro in grado di svolgere una funzione che diventa sempre più complicata. Interessanti sono però i caratteri inediti e, perché no, paradossali di questa vicenda. Un’elezione che ha spaccato e contrapposto, in termini forse mai visti prima, famiglie correntizie e vincoli di colleganza su un solo tema: quello del precedente incarico di Giovanni Melillo come capo di gabinetto del guardasigilli Orlando. E ha diviso anche i magistrati. Bastava scorrere le loro chat nel corso di questi lunghi mesi, per capire che il problema non era lo specifico valore professionale dei due concorrenti. Che è più o meno equivalente: se Federico Cafiero de Raho può vantare l’impegno contro i Casalesi nel processo Spartacus, Giovanni Melillo ha collaborato alle indagini nate dal pentimento di Pasquale Galasso sulla camorra vesuviana e le sue collusioni politiche, anche ad altissimi livelli. Quello che una parte di magistrati sembrava non riuscire a digerire era la provenienza di Melillo (senza adeguata quarantena) dal ministero. Insomma il rapporto con la politica, per quanto molto sui generis e strettamente intrecciato ai temi dell’organizzazione giudiziaria. Il paradosso sta nel fatto che tanto timore verso il virus della politica va di pari passo con la progressiva assunzione, da parte delle Procure, di ruoli e rilievi sempre più schiettamente politici. Le indagini e i loro tempi, certo, ma anche il fatto che le Procure costituiscono oggi la principale agenzia di stampa del Paese. Non solo per le (frequenti) fughe di notizie, quanto per le conferenze stampa che seguono ogni operazione. Sono queste oramai a riempire i giornali, a condannare e assolvere (in luogo di sentenze che nessuno conoscerà mai), talvolta a fare e disfare governi, a dettare in qualche modo l’agenda politica del Paese. La diffidenza dei magistrati rischia allora di non essere tanto rivolta verso la "politica" (che non è facile tenere distinta dall’esercizio dell’azione penale), quanto piuttosto verso la "politica" dei "politici". O magari questo tenersene ostentatamente lontani può essere anche maliziosamente letta come una sorta di foglia di fico, un tentativo estremo di dissimulare la realtà di Procure che sono parte di quello "Stato profondo" che detta le linee di governo, oltre e a prescindere dalle mutevoli maggioranze parlamentari. A mio parere è un atteggiamento doppiamente pericoloso, perché tende a negare l’ampia discrezionalità che caratterizza il potere giudiziario, presentandolo quasi come pura tecnica giuridica, indifferente al contesto e alle conseguenze. E perché suggerisce una falsa alternativa: quella tra procure "cattive" che subiscono il condizionamento dei "politici", e procure "buone" che fanno "politica" in proprio. Io credo che la questione del rapporto tra giustizia e "politica" meriterebbe la ricerca di un punto di equilibrio più alto. Personalmente sono un fautore del procuratore eletto dal popolo, mi sembra un corollario del sistema accusatorio di ispirazione anglosassone. Nell’attesa (che potrebbe essere eterna), credo che un buon capo debba oggi porsi seriamente il problema degli effetti enormi e terribili che l’iniziativa penale può avere sulla vita delle persone, e anche sugli assetti istituzionali del Paese. E, pur se politicamente irresponsabile, debba proporsi di usare il massimo di equilibrio e prudenza, coltivando la trasparenza piuttosto che logiche corporative. Giovanni Melillo ha alle spalle una ricca e molteplice esperienza, e questo lo ha dotato di una visione non limitata e settoriale. È quindi perfettamente in grado di ricercare il delicato punto di equilibrio su cui oggi deve poggiare l’azione delle Procure. Ci aspettiamo, e ci auguriamo, che faccia tesoro del suo savoir faire, acquisito anche alla Presidenza della Repubblica e al Ministero, e riesca a dirigere l’ufficio con saggezza, prudenza e buon senso. Con questi auspici gli rivolgiamo i migliori auguri di buon lavoro. 2 Agosto. Bologna, i famigliari: "Governo truffaldino, sgradito alla commemorazione" di Ilaria Venturi La Repubblica, 29 luglio 2017 L’attacco del presidente Paolo Bolognesi alla vigilia delle celebrazioni. Dopo la polemica coi magistrati, critiche all’esecutivo su risarcimenti e desecretazione degli atti. Il sindaco: "Si faccia chiarezza su mancate promesse". Il programma della giornata. "Il governo si è comportato in maniera assurda e truffaldina nei confronti delle vittime della strage della stazione: la legge 206, la digitalizzazione delle carte, la direttiva Renzi sulla desecretazione degli atti non funzionano, non vanno avanti". Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione 2 Agosto, mette in fila le promesse mancate. Troppe. E dunque, alla vigilia della commemorazione, il cui programma è stato presentato oggi in Comune, ribadisce: i "rappresentanti del governo sono sgraditi" al 37esimo anniversario. Dopo lo strappo tra la procura e l’associazione dei familiari delle vittime, è il governo sotto tiro. I parenti delle vittime, che quest’anno saranno più numerosi al corteo di mercoledì, non si stancano di reclamare verità e giustizia. Sul tavolo la desecretazione degli atti inerenti alle stragi e la complessa questione dei risarcimenti. L’Associazione ha più volte sollecitato l’esecutivo in merito alla mancata applicazione della legge sui risarcimenti alle vittime di terrorismo e stragi. "Il governo non ha rispettato alcun accordo - continua il deputato indipendente Pd riferendosi agli incontri del maggio scorso - e non è stato fatto nulla per risolvere i vari problemi. Credo che questo sia il gioco delle tre carte". Per il rappresentante dei familiari delle vittime, dunque, i rappresentanti del governo "sono ancora sgraditi" a Bologna. "Avevamo stabilito di non andare il 9 maggio alla cerimonia per commemorare le vittime del terrorismo e delle stragi - prosegue Bolognesi - da quel momento ci sono stati incontri e riunioni, non è stato rispettato nessun accordo e lo Stato non sta facendo nulla per risolvere i problemi. Credo che questo sia il gioco delle tre carte". Ancora non si sa chi verrà il 2 agosto in rappresentanza del governo. Negli ultimi due anni c’è stato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti. "Ormai è da 37 anni che sappiamo solo il giorno prima delle manifestazioni chi sarà il rappresentante del governo a partecipare - spiega il sindaco Virginio Merola. Quest’anno poi non saprei a chi rivolgermi direttamente: mentre prima, l’altro anno, c’era un sottosegretario o un ministro che aveva la delega specifica ora questo non c’è, fa capo direttamente al presidente del consiglio. Immagino quindi deciderà il premier". Merola condivide le preoccupazioni dei famigliari: "È una legittima preoccupazione quella di Bolognesi. Si prendono impegni e si vede che non sono rispettati, quindi sarebbe anche opportuno chiarire perché non si riescono a rispettare". Il programma del 37esimo anniversario. Si parte martedì prossimo col discorso che il regista teatrale Matteo Belli terrà agli 85 narratori che il 2 agosto racconteranno in dodici luoghi della città (piazza Nettuno, ore 21). Poi, il giorno dell’anniversario, alle 8.15 il consueto appuntamento a Palazzo d’Accursio per l’incontro fra autorità, rappresentanti cittadini e familiari delle vittime. Da qui partirà il corteo che come ogni anno avrà il suo apice in piazza delle Medaglie d’Oro, col discorso alle 10.10 del presidente dell’Associazione familiari vittime della strage di Bologna Paolo Bolognesi e del sindaco Virginio Merola e il minuto di silenzio alle 10.25. La conclusione sarà in piazza Maggiore alle 21.15 con l’esecuzione delle composizioni vincitrici del "Concorso internazionale di composizione 2 agosto", eseguite dall’orchestra della Fondazione Arturo Toscanini. Per l’occasione è stato emesso dall’Istituto poligrafico dello Stato un francobollo commemorativo della strage, recante la scritta "Portiamo i nostri figli in stazione il 2 agosto", che sarà venduto dalle 8 alle 14 presso lo stand delle Poste italiane alla stazione centrale. Multato di mille euro a Palermo perché clochard: assolto dalla Cassazione di Patrizio Mannu Corriere della Sera, 29 luglio 2017 Per i giudici non è reato perché l’uomo versava in stato di difficoltà economica. E l’ordinanza del sindaco deve tener conto della condizione di chi non ha alloggio. Vivere in strada non è reato, se sussistono elementi di necessità. E i clochard non possono essere multati, anche in presenza di un’ordinanza di una qualsiasi pubblica autorità. A stabilirlo è stata la Cassazione. Che ha assolto un clochard multato a Palermo, nel dicembre del 2010, di mille euro. L’uomo, un quarantenne italiano, era stato condannato dal tribunale di Palermo a pagare la somma per inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità, reato previsto all’articolo 650 del codice penale, visto che non aveva rispettato l’ordinanza del sindaco di "divieto di bivaccare e predisporre accampamenti di fortuna per non alterare il decoro urbano ed essere d’intralcio alla pubblica viabilità". La difesa - Il difensore del clochard ha rilevato, nel ricorso in Cassazione, che l’uomo, senza fissa dimora, "versasse in stato di necessità, situazione tra le quali doveva essere compresa l’esigenza di un alloggio". Osservazione che ha trovato d’accordo la Cassazione. Secondo la prima sezione penale (sentenza n. 37787), l’ordinanza del sindaco è "una disposizione di tenore regolamentare data in via preventiva ad una generalità di soggetti, in assenza di riferimento a situazioni imprevedibili o impreviste", e "non è sufficiente l’indicazione di mere finalità di pubblico interesse". La Corte ha quindi annullato la condanna perché il fatto non sussiste. Rebibbia: detenuto romeno di 46 anni si impicca in cella di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 29 luglio 2017 Lo hanno trovato impiccato in bagno i compagni di cella del reparto G9 di Rebibbia, alle sei e mezza di ieri mattina. Costantin Ticu, un cittadino romeno di 46 anni, con la prospettiva di rimanere in carcere per i prossimi quindici per scontare la pena di un omicidio, aveva usato le lenzuola per togliersi la vita. "Si riteneva innocente", hanno riferito i compagni di cella. Adesso la procura procede per istigazione al suicidio. Un atto dovuto per accertare le cause del gesto, ma anche eventuali mancate attenzioni per il detenuto. Il pm Luigi Fede così ha disposto l’autopsia. "Si tratta del terzo suicidio in carcere, quest’anno nel Lazio. Il ventinovesimo a livello nazionale", ha detto il segretario generale Cisl Fns Massimo Costantino. "Il G9 andrebbe chiuso, l’illuminazione e il riscaldamento sono insufficienti. Il carcere poi è sovraffollato: sono previsti 1.172 detenuti e in istituto ce ne sono 1.424". Ad aprile si era impiccato a Regina Coeli Vehbjia Hrustic, un bosniaco in carcere per una lite che non ha resistito al dolore della morte della figlioletta di un anno. A giugno nel carcere di Velletri si è tolto la vita Marco Prato, il pierre accusato insieme a Manuel Foffo dell’omicidio di Luca Varani. Parma: malato e al 41bis come Riina, ma il Gup lo manda ai domiciliari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 luglio 2017 È Angelo Paviglianiti, condannato a 18 anni, ritenuto uno dei capi della ‘ndrina di Bagaladi. Era in regime di 41bis al carcere di Parma, ora scarcerato e mandato agli arresti domiciliari perché soffre di gravi patologie. Il Gup del tribunale di Reggio Calabria ha accolto l’istanza presentata dall’avvocato difensore Giuseppe Nardo riconoscendo i diritti fondamentali della salute e della dignità umana che non consentono trattamenti degradanti e disumani per nessuna persona, anche se detenuta. Il tribunale ha ritenuto valide le argomentazioni dell’avvocato Nardo, pur a fronte del parere fortemente contrario dell’ufficio di Procura che si era opposto alla scarcerazione. L’avvocato Nardo, contattato da Il Dubbio, ha spiegato che il suo cliente è afflitto da patologie serie come il cancro e un problema agli occhi che lo sta portando alla cecità, tali da renderlo incompatibile con la carcerazione. "Di fronte ad una situazione di questo genere - spiega l’avvocato Nardo, pericoloso o non pericoloso, il bene primario della salute è prevalso su tutte le altre esigenze". Una decisione del Gup che non è stata presa a cuor leggero, perché prima di emettere l’ordinanza di scarcerazione sono state effettuate diverse perizie da parte dei medici che hanno confermato l’effettiva precarietà delle condizioni di salute e l’incompatibilità con lo stato detentivo. Una vicenda che ricorda molto da vicino quanto avvenuto con Totò Riina, detenuto in regime del 41 bis presso il repartino dell’ospedale di Parma per via delle sue patologie fisiche, ma con esito diverso. Il detenuto, ora agli arresti domiciliari con l’uso del braccialetto elettronico, si chiama Angelo Paviglianiti ed aveva ricevuto una condanna in primo grado di 18 anni nel processo noto come "Ultima spiaggia" per essere stato ritenuto uno dei capi del sodalizio mafioso operante nel territorio ionico di San Lorenzo e Bagaladi. Resta il fatto che il tribunale calabrese ha fatto prevalere il diritto, ovvero assicurare il principio costituzionale a prescindere dallo spessore, o presunto tale, criminale della persona. Come ha denunciato Il Dubbio, l’istituto di Parma dove era detenuto Paviglianiti, è un carcere di alta sicurezza noto per ospitare detenuti al 41 bis, molti dei quali in età estremamente avanzata e malati. L’ultimo caso denunciato su queste pagine è quello riguardante il decesso di Gaspare Raia, ergastolano quasi ottantenne malato, considerato, però, compatibile con la carcerazione. Era da più di 25 anni in carcere, affetto da più patologie e per via di una complicanza è stato ricoverato all’ospedale di Parma i primi di giugno. Poi il 17 giugno scorso non ce l’ha fatta più ed è morto. Solo all’ultimo momento, la magistratura gli aveva concesso i domiciliari. Altro caso riguarda un vecchio ‘ndranghestista di 86 anni che è in gravi condizioni fisiche in regime del 41 bis nello stesso reparto ospedaliero dove c’è Totò Riina e Farinella, ma rimandato nel penitenziario perché considerato compatibile con il carcere. Il Garante dei detenuti del comune di Parma, Roberto Cavalieri, aveva così commentato a Il Dubbio la vicenda: "Il detenuto ha 86 anni e soffre di un decadimento cognitivo e fisico importante. Non resta che aspettare che i sanitari ne chiedano un nuovo ricovero". Parma: nel carcere gravi carenze di psicologi e personale sanitario di Fabio Bonati parmaquotidiano.info, 29 luglio 2017 Negando il personale sanitario che sarebbe necessario come sostegno ai detenuti, la Regione Emilia Romagna è il grande convitato di pietra corresponsabile del disagio carcerario da cui derivano gli episodi di violenza e autolesionismo sempre più frequenti. La gravissima carenza di personale penitenziario che contraddistingue la Casa Circondariale di Reggio Emilia e quella di Parma - entrambe teatro negli ultimi due giorni di episodi di suicidio - è solo una parte del problema, sottolineando come i problemi psichiatrici siano sempre più diffusi tra la popolazione carceraria, così come l’urgenza di implementare le attività rieducative sia in termini di impegno giornaliero che di numero adeguato alle esigenze dei detenuti, spesso stranieri, tossicodipendenti, poveri, privi di una rete famigliare di sostegno. Un’autentica emergenza, oggetto tra l’altro di una mia interrogazione al ministro Orlando, ma rispetto alla quale Viale Aldo Moro fa orecchie da mercante. A seguito della chiusura degli Opg in favore delle Rems in attuazione della c.d. Legge Marino, la Regione si è limitata semplicemente a spostare nelle Rems di nuova costruzione il personale sanitario già in servizio nelle carceri, col risultato di lasciare una copertura totalmente inadeguata a queste ultime. I detenuti non portano voti, per cui la risicata maggioranza Pd forse si illude che il problema resti confinato dietro le sbarre, ma la rivolta che c’è appena stata nella Casa Circondariale di Reggio è un segnale inquietante, così come l’alto tasso di recidiva per chi esce dal carcere. Tutelare le condizioni dei detenuti significa anche preservare la sicurezza dei cittadini fuori. Reggio Emilia: il Vicesindaco Sassi "per il carcere servono psicologi e operatori sociali" di Evaristo Sparvieri Gazzetta di Reggio, 29 luglio 2017 Il vicesindaco Sassi sulla situazione della Pulce: "Solo con queste figure professionali si può fare reinserimento sociale". "Il ministero della Giustizia deve capire che non c’è solo un problema di organico della polizia penitenziaria. Quello che vediamo noi, da osservatori esterni ma competenti, è che servono molte più figure professionali. Come psicologi, educatori e operatori sociali". Così il vicesindaco e assessore al Welfare, Matteo Sassi, interviene sulla situazione di emergenza del carcere reggiano, dove nei giorni scorsi un detenuto 28enne di origine tunisina si è tolto la vita in seguito ad una rivolta che ha coinvolto altri quattro reclusi. Un episodio estremo che ha mostrato una volta di più le problematiche denunciate da tempo dal sindacato Sappe sulle condizioni di difficoltà all’interno della Pulce, sottolineate nei giorni scorsi sulla Gazzetta anche dal direttore del penitenziario, Paolo Madonna. "È vero - afferma Sassi riferendosi alle dichiarazioni di Madonna - le carceri sono luoghi di disperazione e di privazione non solo della libertà, ma anche della dignità: sono una piaga aperta nel Paese, alla quale non si può trovare però rimedio nei singoli istituti". Secondo il vicesindaco, "quando si parla di organico, non dobbiamo pensare solo agli agenti. Bisogna immettere anche altre figure professionali. Se il carcere viene inteso solo in termini di sicurezza e sorveglianza, è facile che si incappi in quel clima di disperazione cui fa riferimento Madonna, senza alcuna ipotesi di reinserimento sociale. Su questo versante, non posso che ringraziare anche pubblicamente il direttore Madonna: da quando è arrivato si è assunto la responsabilità di favorire numerosi progetti di natura sociale". Dalla festa della musica alle attività sportive con l’Uisp, dal laboratorio teatrale al prestito libri in collaborazione con la Panizzi. E poi le attività di mediazione culturale, quelle di formazione, i progetti con l’Ausl, la Caritas, Camelot, Dimora d’Abramo e altri enti. In totale, sono 13 le attività organizzate nel carcere reggiano, che si diramano in diversi progetti. Il Comune svolge un ruolo di coordinamento su fondi regionali dedicati, stipulando convenzioni. "Occorre sottolineare che non sottraiamo risorse ad altri ambiti - specifica Sassi - e che a fronte di poche decine di migliaia di euro, i progetti in cui sono coinvolti decine di detenuti generano un’utilità sociale anche economica di centinaia di migliaia di euro, con un ampio beneficio della collettività anche in termini di risparmi". Fra le convenzioni, Sassi ricorda quelle che hanno portato quattro detenuti a prestare interventi di piccole manutenzioni per conto del Comune e altri quattro a realizzare opere di imbiancatura negli immobili Acer: "Ricevono un piccolo contributo, una sorta di rimborso, partecipando ad un percorso di reinserimento. È questa la chiave di volta. È chiaro che in un contesto dove il lavoro scarseggia, bisogna fare uno sforzo in questa direzione se si vuole garantire la sicurezza di tutti. E bisogna investire in buone politiche. La collaborazione con gli agenti qui a Reggio è molto elevata, altrimenti progetti del genere non sarebbero continuati. Ma il carcere non è solo degrado e suicidi proprio grazie a psicologi, educatori e operatori che vi prestano servizio, anche da volontari". Verona: la denuncia choc del giudice che vuol diventare magistrato di sorveglianza di Davide Orsato Corriere Veneto, 29 luglio 2017 Rinuncia alla carriera "per gli ultimi della terra", i detenuti. La protesta contro "un sistema giudiziario lottizzatorio". Il presidente della sezione fallimentare del Tribunale di Verona ha chiesto di diventare magistrato di sorveglianza Mirenda: "Sistema giudiziario lottizzatorio, minata la nostra indipendenza. Basta, me ne vado". Il giudice Andrea Mirenda, presidente della sezione fallimentare del Tribunale molla il posto per andare a a ricoprire quello di "magistrato di sorveglianza", ovvero quello che ha competenze relative all’esecuzione della pena. "Vado ad occuparmi degli ultimi della terra, da ultimo dei magistrati". Quindi la chiosa eloquente: "Bye bye Csm". Il giudice Andrea Mirenda, presidente della sezione fallimentare del Tribunale annuncia così la sua scelta "controcorrente": no alla carriera, no "alla luce della ribalta". Una scelta che spiega con parole amare, denunciando un sistema giudiziario "lottizzatorio". "Vado ad occuparmi degli ultimi della terra, da ultimo dei magistrati". Quindi la chiosa eloquente: "Bye bye Csm". Il giudice Andrea Mirenda, presidente della sezione fallimentare del Tribunale annuncia così la sua scelta "controcorrente": no alla carriera, no "alla luce della ribalta", sì al lavoro dietro le quinte. Occupandosi, per l’appunto, degli "ultimi", ossia dei detenuti. Dietro a queste parole c’è una richiesta formalizzata proprio al Consiglio superiore della magistratura: essere trasferito all’ufficio di magistrato di sorveglianza, sempre a Verona. L’annuncio è arrivato sul profilo Facebook (visibile al pubblico) del magistrato: "Bene - scrive Mirenda - dopo 32 anni la scelta è fatta. Ed è nel senso di un gesto controcorrente, di composta protesta verso un sistema giudiziario improntato oramai ad un carrierismo sfrenato, arbitrario e lottizzatorio, che premia i sodali, asserve i magistrati alle correnti, umilia la stragrande maggioranza degli esclusi e minaccia l’indipendenza dei magistrati con la lusinga della dirigenza o la mortificazione di una vita da travet. Lascio un posto semi direttivo di prestigio, dove avrei potuto restare ancora per anni, per andare ad occuparmi degli ultimi della terra, da ultimo dei magistrati. Ma è un bel giorno per la coscienza e per l’orgoglio della toga, entrambi assai più appaganti di qualsiasi gallone o mostrina…". Certo, il trasferimento, come sempre, dovrà essere approvato sempre dal Csm, ma Mirenda, contattato telefonicamente, fa sapere che non ci dovrebbero essere obiezioni di sorta. "Ci sono due posizioni e io in linea teorica sono il secondo - spiega - non si tratta di un posto molto ambito e quindi non ci dovrebbero essere problemi". Poche ore fa, il magistrato ha rilanciato la polemica, dopo alcune nomine recenti in altri tribunali. "Le recenti vicende delle nomine dei Presidenti di Tribunale di Pordenone e Rovereto - ha scritto sempre su Facebook - e del Procuratore della Repubblica di Napoli dimostrano ancora una volta, ove fosse sfuggito a qualcuno, da un lato quanto sia difficile (impossibile?) la carriera direttiva per i magistrati dediti al loro lavoro di scrivania e, dall’altro, come siano in ciò assolutamente favoriti coloro che hanno fatto altro - che col merito professionale c’entra poco o nulla - come essere chiamati, per diretta nomina politica, ai vari ministeri oppure eletti al Csm, per sodalità correntizia". Parole che sono state fatte proprie, negli ultimi tempi, anche da Piercamillo Davigo, ex pm di Mani Pulite e presidente della seconda sezione penale della Cassazione, che assieme alla sua corrente, Autonomi e Indipendenza, ha lasciato la giunta del Csm proprio perché in dissenso sulle scelte relative agli incarichi direttivi. Esattamente un mese fa, aveva fatto rumore una circolare emanata da Mirenda, nella quale aveva evidenziato "anomalie e prassi distorsive" nelle procedure fallimentari. In particolare il presidente di sezione aveva rilevato come spesso gli incarichi conferiti dal curatore finivano in un cerchio ristretto di professionisti. Una denuncia prima di lasciare l’incarico? Il giudice smussa i toni. "È una semplice segnalazione, dettata dal desiderio, dal dovere di migliorare le cose. Ho trovato una situazione molto in ordine e senza particolari criticità. Ma penso che non ci si debba stancare mai di apportare cambiamenti positivi, così, sentendo i colleghi, ho fatto presente questa cosa". Firenze: "I ventilatori in carcere? Li comprino i detenuti" di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 29 luglio 2017 Dal ministero la risposta al cappellano di Sollicciano. Che accusa: "Così si creano disparità". Volete i ventilatori? Nessun problema, però dovete comprarveli da soli. Nei giorni scorsi, il cappellano di Sollicciano, Don Vincenzo Russo, aveva fatto appello al ministro della giustizia Andrea Orlando per dotare il carcere di ventilatori, indispensabili per alleggerire il caldo torrido delle celle, che spesso supera i 40 gradi. Il ministero ha risposto all’appello emanando una disposizione ministeriale che invita i direttori dei penitenziari a favorire l’utilizzo dei ventilatori nelle celle e nei luoghi di detenzione. Una buona notizia per i reclusi, se non fosse che dovranno essere loro stessi a pagarne l’acquisto. Sta di fatto che soltanto pochissimi detenuti hanno provveduto all’acquisto, mentre gli altri ne sono rimasti sprovvisti. Suona come una beffa per Don Russo, che nei giorni scorsi aveva scritto anche una lettera al ministro per sollecitare un intervento: "È lo Stato che dovrebbe garantire ai detenuti condizioni di vita dignitose dentro al carcere. Altresì, dovrebbe garantire anche l’acquisto dei ventilatori". Secondo il cappellano di Sollicciano, "in questo modo si creano detenuti di serie A e detenuti di serie B, si crea una vera e propria guerra tra reclusi, quelli che hanno soldi potranno stare al fresco dei ventilatori, tutti gli altri dovranno continuare a soffrire". Dice ancora Don Russo: "Il ventilatore non è un vezzo, come magari possono esserlo le sigarette che i detenuti comprano autonomamente, ma uno strumento indispensabile per rendere sopportabile le temperature equatoriali dentro il carcere. Senza ventilatori è una tortura". Un problema, quello del caldo a Sollicciano, amplificato dall’architettura in cemento armato del penitenziario e riconosciuto anche dallo stesso direttore Carlo Berdini: "Certo, il problema del caldo c’è. È un problema per tutti i cittadini, figuriamoci se non lo è anche per i detenuti di Sollicciano". E poi: "Attraverso questa disposizione ministeriale, tentiamo di fare il possibile per risolvere questo problema, ma il caldo purtroppo esiste per tutti, detenuti e non". Rimini: Giachetti (Pd) "grave che il Giudice di sorveglianza non risponda ai detenuti" chiamamicitta.it, 29 luglio 2017 Il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti ha visitato ieri pomeriggio la casa circondariale di Rimini "Casetti", accompagnato dal deputato Pd romagnolo Tiziano Arlotti insieme al vicesindaco di Rimini Gloria Lisi e alla Garante dei detenuti del Comune di Rimini Ilaria Pruccoli. "È stato un momento importante - commenta Arlotti, bisogna andare in quei luoghi, visitarli, conoscerli, impegnarsi per mettere in condizione chi ha avuto problemi con la giustizia e vi è recluso, ma anche chi ci lavora, di vedere rispettati i propri diritti". "Il carcere dei Casetti non è tra le strutture peggiori che ho visitato in Italia - riferisce Giachetti. Ovviamente si porta appresso i problemi che stanno tornando nelle carceri italiane, anche qui c’è sovraffollamento. Dopo i provvedimenti che negli anni scorsi ne hanno ridotto il numero, anche a Rimini stanno crescendo i detenuti: attualmente sono circa un terzo in più, invece di 120 ce ne sono 160 (anni fa si era arrivati anche a 250). Il personale di custodia invece è sotto organico, con la stessa proporzione: dovrebbe essercene un terzo in più. Questo mette in crisi anche alcuni servizi che dovrebbero essere garantiti ai detenuti, penso ad esempio alla possibilità di colloqui con i familiari e in particolare con i bambini, che dovrebbero essere svolti in un luogo protetto. Manca inoltre la possibilità di portare il cibo dall’esterno dentro il carcere, la carenza di agenti di custodia non permette i necessari controlli, così come è necessario un ambiente certificato dall’ufficio di igiene. Ci sono perciò cose che non funzionano. La più grave è il rapporto con il magistrato di sorveglianza, che ha in mano una serie di partite fondamentali che ancora non hanno risposta, come il caso dei permessi di lavoro. Ci sono detenuti che hanno ottenuto contratti di lavoro, anche a tempo indeterminato, e che ora rischiano che gli saltino perché non hanno avuto la risposta entro i previsti sei mesi. Il giudice di sorveglianza non risponde alle domande e questo non è accettabile. È inaccettabile che persone che potrebbero uscire dal carcere grazie alle norme che abbiamo previsto con la legge non possano farlo perché qualcuno non si occupa delle loro domande. Sono anche un numero cospicuo, ed alleggerirebbero il peso del sovraffollamento dentro il carcere. Dal punto di vista strutturale alcune sezioni sono obiettivamente in buono stato. Quella che più mi ha colpito è quella in cui vengono posti i detenuti appena arrestati, che in parte risente del fatto che essendo carcerati che sanno di dovere restare lì pochi giorni si curano meno dell’ambiente. Dal punto di vista dell’igiene la struttura è in generale in buono stato, tendenzialmente si tratta di celle con 2-4 letti, solo in tre celle ho visto un lucernario invece di una vera e propria finestra. I tossicodipendenti sono il 40% dei detenuti, principalmente in trattamento con metadone. Gli stranieri sono quasi la metà dei reclusi. Nella sezione Vega al momento c’è una sola transessuale". Alla visita è seguito l’incontro con iscritti e simpatizzanti (presente tra gli altri l’ex sindaco Alberto Ravaioli) al circolo Pd "Tre Martiri" nel centro storico di Rimini per parlare di politica, legge elettorale, diritti, riforme. Brescia: tensioni in cella? cambiare passo di Carlo Alberto Romano Corriere della Sera, 29 luglio 2017 I fatti accaduti a Canton Mombello questa settimana non debbono essere sottovalutati, indipendentemente dalle specifiche motivazioni retrostanti e dalla capacità degli operatori penitenziari del Fischione di saperli affrontare con strumenti idonei. Al di là della palese condizione di inadeguatezza strutturale che ha ormai da tempo sancito la necessità di un nuovo carcere a Brescia, la stessa composizione della popolazione rinchiusa nella casa circondariale, con una massiccia presenza di detenuti stranieri, non può certo essere ignorata. E non può essere certo un caso che le tensioni siano sorte in questi giorni estivi, periodo in cui le proposte trattamentali all’interno delle carceri si indeboliscono e la gestione del quotidiano diventa più problematica. La situazione complessiva, del resto, dopo gli effimeri benefici derivanti dai provvedimenti seguiti alle condanne della Corte Europea diritti dell’uomo (Cedu), potrebbe nuovamente precipitare. I segnali sono purtroppo inequivocabili: il tasso di sovraffollamento nazionale è risalito al 113% e, in molte carceri lo spazio è tornato a scendere sotto i 3 mq pro capite. Anche la percentuale di detenuti in custodia cautelare è risalita, collocandosi al 34,6%, in diretta conseguenza del notevole numero di processi arretrati, irragionevolmente lunghi. Riferisce Antigone di un problema che non riguarda tanto il basso numero di detenuti in carico agli agenti di polizia penitenziaria (1,7 per ogni agente, uno dei più bassi dell’intera Ue) ma il numero assolutamente insufficiente di educatori. Essi citano il caso limite di Busto Arsizio con 1 educatore ogni 196 detenuti, ma in generale, istituti bresciani compresi, la situazione non rassicura. Il tema della tutela della salute, ma più in generale della presa in carico del detenuto e dei suoi bisogni, appare sempre fondamentale e, spesso, è all’origine di situazioni di malessere psico-fisico che possono poi sfociare in atti auto o etero aggressivi. Se le proposte lavorative e quelle scolastiche non possono certo essere definite esemplari, cosa dire della tutela dell’affettività, generalmente promossa da iniziative locali e sporadiche, frutto dell’impegno del volontariato più che di una programmazione condivisa e convinta. Il rischio di ricadere in una situazione da condanna Cedu non è campato per aria; diamoci da fare per evitarlo. In questo senso ci pare che il Governo debba per primo darsi una mossa, provvedendo a emanare i decreti previsti dai commi 82 e 85 della legge 103 del 2017, al fine di avviare una serie di interventi fortemente orientati al significato inclusivo della pena e a un rinnovato impulso dei percorsi trattamentali in carcere. Brescia tra l’altro, da questo punto di vista può anche essere un esempio, ma avremo modo di riparlarne. Lecce: droga, rapine e furti, 300 minori in "terapia". Siglato protocollo Asl-Procura Quotidiano di Puglia, 29 luglio 2017 Circa 300 nuovi casi l’anno. Si tratta principalmente di adolescenti tra i 16 e i 17 anni che nella maggior parte dei casi fanno uso di stupefacenti. La casistica è costante e il fenomeno, di vasta portata negli anni 90, è stato circoscritto e contenuto grazie alla prevenzione". Non sono pochi 537 casi se si pensa che Napoli ne registra 716, ma nel conteggio di Lecce confluiscono anche i dati di Brindisi su cui ha competenza l’Ussm salentino. Con la firma del protocollo sono stati regolati i rapporti di collaborazione tra la il Dipartimento dipendenze patologiche della Asl e l’Ussm di Lecce formalizzando "un impegno comune che riguarderà l’organizzazione e la realizzazione degli interventi di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione a favore di soggetti sottoposti a procedimenti penali dell’autorità giudiziaria minorile. I destinatari degli interventi sono i minori e i giovani fino al compimento del 25° anno di età, responsabili, quest’ultimi, di reati commessi quando erano minorenni. Soggetti con comportamenti antisociali, disturbi da dipendenza patologica, quadri di comorbilità". Questo percorso vede impegnati gli operatori del Centro Giustizia Minorile - Ussm Lecce e il personale delle cinque unità operative complesse (Lecce, Casarano, Galatina, Copertino e Maglie) con i rispettivi servizi che fanno capo al Dipartimento dipendenze patologiche diretto da Salvatore Della Bona. Il protocollo, di valenza triennale, è stato siglato dal direttore generale della Asl, Silvana Melli, e dal direttore del Centro giustizia minorile di Puglia e Basilicata, Francesca Perrini, alla presenza del direttore amministrativo della Asl, Antonio Pastore. "Con questo rinnovato percorso - rimarca il direttore generale Silvana Melli - andiamo ben oltre il semplice passaggio di testimone tra servizio minorile del Tribunale e Asl, perché ridisegniamo l’intero perimetro in cui avviene il trattamento di questi soggetti fragili. Non più un nome e un "problema" di cui occuparsi, ma una vera e propria presa in carico del minore con l’analisi del contesto e il pieno coinvolgimento della famiglia che va resa consapevole del percorso terapeutico da affrontare e aiutata a scrollarsi di dosso certe etichettature". E Della Bona aggiunge: "L’obiettivo sta nel riuscire a dare alle famiglie strumenti per gestire situazioni difficili e questo Protocollo consente di farlo, grazie anche alle risorse professionali e ai servizi specifici che Asl Lecce ha affinato nel tempo". Napoli: concerto nel carcere di Poggioreale con la Comunità di Sant’Egidio di Giuliana Covella Il Mattino, 29 luglio 2017 Tanta emozione all’insegna della musica per i 150 detenuti dei padiglioni Livorno e Firenze del carcere di Poggioreale. Ancora un concerto e una festa nell’istituto di pena, organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio. Stavolta nella casa circondariale intitolata a Giuseppe Salvia si sono esibiti Anthony, interprete di alcuni brani del docu.film di Michele Santoro "Robinù" e una delle più belle voci della canzone partenopea come quella di Stefania Lay. Due artisti che hanno portato il loro repertorio davanti ad una platea speciale, quella di chi vive dietro le sbarre ed ha diritto ad un’altra chance. "In quest’ottica la Comunità di Sant’Egidio - spiega Antonio Mattone - è presente da anni nell’istituto con iniziative di solidarietà e promozione sociale e anche ieri, dopo i concerti degli anni passati con Gianni Morandi e Clementino, ha voluto essere vicina ai carcerati, grazie alla sensibilità e alla disponibilità di questi artisti". Un pomeriggio di solidarietà, cui hanno partecipato il direttore del carcere Antonio Fullone e il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore. Al termine la Comunità di Sant’Egidio ha offerto gelati a tutti i 150 detenuti che hanno partecipato. Ferrara: al Festival di Internazionale i detenuti tornano in scena internazionale.it, 29 luglio 2017 Anche quest’anno il Festival di Internazionale a Ferrara incontra il carcere. Venerdì 29 settembre torna l’appuntamento con gli attori detenuti del laboratorio teatrale della casa circondariale Costantino Satta di Ferrara. Il testo scritto da Alfred Jarry alla fine del diciannovesimo secolo è una metafora che narra i lati oscuri del potere e le sue logiche perverse. Con il gusto irriverente di una satira popolare a tinte grottesche, Jarry dà la possibilità di guardare con ironia gli Ubu che ci circondano e anche quello che si nasconde dentro ognuno di noi. Regia di Horacio Czertok e Davide Della Chiara, drammaturgia, progetto scenografico e musica di Davide Della Chiara, costruzioni scenografiche presso il laboratorio della Cfe Edin Ticic, foto e video di Marinella Rescigno, foto di scena di Luca Gavagna, produzione di Teatro Nucleo, nell’ambito del progetto del Coordinamento regionale teatro carcere. Lo spettacolo si terrà alle ore 20,30 presso la casa circondariale di Ferrara, in via Arginone 327. Per partecipare è obbligatorio prenotarsi entro il 31 agosto. I biglietti saranno venduti presso il botteghino del Teatro Nucleo in via Ricostruzione 40, Pontelagoscuro, Ferrara. Per ulteriori informazioni è possibile consultare il sito di Teatro Nucleo. Così Internet mette a rischio la nostra democrazia di Salvatore Bragantini Corriere della Sera, 29 luglio 2017 La gente si informa sempre più sui siti e la curiosità batte l’approfondimento. I grandi operatori del web ne approfittano senza pensare alle conseguenze. La democrazia liberale rappresentativa e le sue antenate, forme di governo varie che nei secoli ne hanno determinato la genealogia, sono potute crescere solo perché i cittadini s’informavano leggendo le gazzette; queste ne lastricano la strada, a volte dritta e piana, spesso tormentata, talvolta macchiata del sangue, di chi l’ha voluta e di chi l’ha osteggiata. La democrazia ha bisogno, come dell’aria, di una stampa i cui padroni ultimi siano i lettori. Non a tutti i giornali, certo, s’addice tale qualifica, ma finché c’è una stampa di qualità, forte e libera, la democrazia vera, che abbisogna di elettori informati, vive bene. Essa però non è uno stato di natura: difficilmente nasce, è ancor più difficile che duri, senza decadere. Per questo la situazione della stampa desta ovunque gravi preoccupazioni. In tutto il mondo i cittadini formano le proprie opinioni sempre più su Internet, attraverso fonti spesso non verificate. Tratto costante di tali fonti è la gratuità; mentre il tratto costante dell’informazione di qualità, come di ogni cosa di qualità, è di costare, e tanto. Al modello che preveda forme di pagamento per rendere sostenibile l’informazione di qualità si oppongono i potentissimi operatori che stanno sopra tutti, gli Over the Top, o Ott: Apple, Google e Facebook pubblicano sui siti, o fanno transitare sui dispositivi, notizie e commenti per cui i giornali sopportano costi ingenti (si pensi ai servizi dalle zone di guerra), senza nulla riconoscere alla testata che li produce. Di più, essi corredano quelle notizie di pubblicità, "profilata" su misura del lettore, incassando somme che tengono per sé, senza nulla retrocedere al giornale che quei contenuti ha prodotto. Essi dunque, non contenti di succhiare linfa vitale alla stampa, "espellono" dal sistema informazione di qualità, sostituendola con informazione scadente. È facile per un Donald Trump accusare la stampa di inventarsi fake news, cui egli sarebbe costretto a reagire con gli alternative facts. I cittadini sono male, e meno, informati; i giornali non riescono a darsi un modello di business adatto alla nuova realtà, cioè a incassare abbastanza da far ancora bene il proprio lavoro. Il colpevole, o meglio il responsabile, è, come in certi gialli, simpatico, colto, moderno, ricco, insospettabile: il "signor Ott". Di più, egli non ha quasi presenze fisiche nei Paesi in cui lavora, mentre il sistema fiscale, ovunque, tassa i profitti nel luogo di "produzione"; tale "incorporeità" fa degli Ott i maggiori evasori fiscali del mondo. Non paghi di negare le tasse sui redditi allo Stato, gli Usa, che in ogni modo li protegge nel mondo, ovunque essi le eludono ed evadono, finendo per pagare a tale titolo frazioni infinitesime dei profitti. In tal modo essi tolgono agli Stati risorse indispensabili per il loro funzionamento; ne soffre per prima la spesa sociale, il che ulteriormente sfilaccia il tessuto civile colpendo un’opinione pubblica meno informata. Dovremmo aggiungere Amazon che, dopo aver semidistrutto le librerie, fa di molti negozi dei semplici camerini, ove provare vestiti e scarpe che poi potremo comprare online. E così decadono quei negozi che sono parte integrante del tessuto sociale delle nostre città. Questi simpatici Ott, che via via assumono il volto di chi sta avvelenando la democrazia, almeno come la conosciamo noi, cominciano anche a litigare per spartirsi il bottino. Giorni fa il Corriere intervistava un dirigente di Google che, sotto accusa nella Unione europea per aver approfittato della propria dominanza per imporre i siti a lei collegati, ha duramente attaccato Apple, rea di star distruggendo interi settori industriali, con un iPhone che è insieme telefono, orologio, macchina fotografica, videocamera, agenzia di viaggi, giornale appunto e via con tutti i prodotti spiazzati, o distrutti, dalle "App". Non si sa quale sia il rimedio, ma il rischio è chiaro. Queste comodità, oltre a renderci più semplice la vita, ottundono la nostra sensibilità al fatto che quel bene raro, fragile e prezioso che è la nostra democrazia, è in pericolo di vita; tale non era certo l’intenzione di chi ha così radicalmente mutato le nostre vite, ma che possa esserne l’esito, è probabile. Solo il cambiamento dura per sempre. Sulla privacy Roma e Bruxelles divise da un abisso di Guido Scorza* La Repubblica, 29 luglio 2017 È abissale la distanza tra il provvedimento con il quale ieri la Corte di giustizia dell’Unione europea ha detto no alla conclusione dell’accordo sul trasferimento dei dati dei passeggeri dei voli aerei tra Europa e Canada e l’emendamento al disegno di legge comunitaria approvato nei giorni scorsi dalla Camera dei Deputati con il quale il Parlamento italiano vorrebbe estendere a sei anni il termine per la conservazione dei dati di traffico telefonico e telematico da parte dei fornitori di servizi di telecomunicazione. A Lussemburgo i Giudici della Corte di giustizia mettono nero su bianco che nonostante la meritevolezza della finalità perseguita, ovvero l’antiterrorismo, il trasferimento dei dati personali dei passeggeri e il loro utilizzo da parte delle Autorità canadesi non possono considerarsi giustificabili e sono suscettibili di esporre a un rischio democraticamente insostenibile la privacy. A Roma il Parlamento, in nome di un fine pure indiscutibilmente sacrosanto come la repressione della criminalità, impone ai fornitori di servizi di telecomunicazione di conservare una quantità mastodontica di dati personali di milioni di persone per sei anni: tre volte di più di quanto previsto attualmente per i dati di traffico telefonico e sei volte di più per quelli di traffico telematico. Eppure l’Europa è una e una è la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione che accanto al diritto alla sicurezza prevede quello alla privacy. Ma non è solo l’apparente inconciliabilità nel merito tra le due decisioni a rendere siderale la distanza tra l’Italia e l’Europa nella vicenda in questione. Il tema è, soprattutto, di metodo. Il Parlamento europeo, davanti al Consiglio che gli chiedeva di approvare l’accordo ha avvertito l’esigenza - per la prima volta nella storia dell’Unione - di chiedere un parere alla Corte di giustizia sulla compatibilità tra il contenuto dell’accordo e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, con particolare riferimento alle disposizioni relative al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali. Una scelta, ponderata, prudente e evidentemente dettata dalla straordinaria delicatezza degli interessi in gioco e dalla difficoltà di identificare un punto di equilibrio tra gli scopi perseguiti e il costo, in termini di sostenibilità democratica, del loro perseguimento. L’emendamento in questione, invece, è approdato al Parlamento italiano in modo quasi estemporaneo, inatteso dai più - inclusi taluni dei deputati che lo hanno poi votato - "infilato" tra decine di altri emendamenti e previsioni di contenuto diversissimo. Nessun bilanciamento di interessi - almeno all’apparenza - e nessuna richiesta di parere all’Autorità garante per la protezione dei dati personali che pure, in passato, davanti alla decisione con la quale la Corte di giustizia aveva messo fuori legge la direttiva europea che imponeva la conservazione dei dati in questione ritenendo detto obbligo incompatibile con il diritto alla privacy dei singoli, non aveva mancato di auspicare che il legislatore italiano seguisse l’esempio, vietando accumuli massicci e indiscriminati e conservazioni di durata eccessiva di dati personali. "E ‘l modo ancor m’offende" scriverebbe Dante. Il metodo utilizzato per adottare una decisione di straordinario impatto sulla vita di milioni di persone e sulla nostra democrazia lascia perplessi più del merito di una decisione di natura politica in una materia nella quale sbaglierebbe chiunque pensasse di avere in tasca la risposta giusta o, semplicemente, quella migliore del suo vicino: sicurezza di tutti contro privacy di ciascuno è, infatti, un dilemma difficile da risolvere per chiunque. *Docente di diritto delle nuove tecnologie Migranti. Italia-Francia, battaglia navale contro l’umanità di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 29 luglio 2017 Quello che succede tra Francia e Italia è un groviglio grottesco di velleità geopolitiche, interventismo militare da due soldi, rivalità industriali e diplomatiche. Ma tutto questo contro le azioni umanitarie delle Ong e sulla pelle di migliaia di esseri umani, i migranti che si imbarcano in Libia alla volta dell’Europa. Ma andiamo con ordine. La nazionalizzazione dei cantieri di Saint Nazaire, da cui escono navi da crociera e militari, è solo un aspetto della politica francese di piccola grandeur nel Mediterraneo e in Africa. La Francia, che nel 2011 aveva lanciato la demenziale guerra in Libia, che ha portato al caos attuale, non poteva tollerare che Fincantieri mettesse le mani su un settore strategico così importante. Alla stessa logica appartiene l’incontro di "pacificazione" promosso da Macron tra Serraj e Haftar, un colloquio che, come ha notato Angelo Del Boca intervistato da Tommaso Di Francesco sul manifesto di giovedì, non cambia nulla dal punto di vista del conflitto di potere in Libia, ma è un affronto evidente all’Italia e alla sua pretesa di rappresentare gli interessi d’Europa nel tratto di mare delicatissimo tra Sicilia e Africa. Ma sottolineare una volta di più il nazionalismo francese non significa assolvere quello italiano, con la semplice differenza che l’apparato militare gestito dal ministro Pinotti non è paragonabile a quello francese, che già opera in Niger, Ciad e altre zone dell’Africa sub-sahariana. La proposta, da parte di Gentiloni, di inviare le nostre navi nelle acque della Libia contro i "trafficanti", ha il significato di una risposta alla Francia, sia per la questione Fincantieri, sia per il ruolo che Macron vorrebbe in Libia. Come dire: "Macron, stai attento, ci siamo anche noi!". La mossa italiana si situa nel solco delle iniziative di Minniti per far gestire ai libici il controllo dei migranti. E come quelle, creerà solo nuova confusione e sofferenze. Insomma, ruggiti di un topo. La verità è che la Libia è in mano ai signori della guerra, che Serraj conta sempre meno e che Haftar, il suo rivale in Cirenaica, sostenuto dai francesi (nonché da egiziani e russi) è sempre più potente. Di conseguenza, giorno dopo giorno, si scopre che l’Italia ha puntato sui cavalli perdenti, soprattutto per quanto riguarda il controllo delle risorse petrolifere. La debolezza strategica si somma in questo caso all’incapacità politica (tra l’altro, che fine ha fatto in tutto questo il ministro Alfano?). La smentita-conferma di Serraj - che, tornato a Tripoli ha prima negato di aver richiesto l’intervento italiano per poi confermare ma precisando che avrà solo una funzione di "supporto" - getta una coltre di ridicolo sull’intera vicenda. È possibile che Serraj si sia accorto che Macron è un po’ più potente di Gentiloni e ora ci abbia ripensato. O magari che tema di sbilanciarsi troppo dalla parte dell’Italia. E comunque di rivelarsi alle fazioni libiche come troppo subalterno all’occidente. Ma, in ogni caso, la faccenda delle navi italiane è un segnale gravissimo per le Ong, a cui si vuole già imporre un insensato codice di comportamento. Se la storia della guerra ai "trafficanti" si tramutasse in un blocco di gommoni e carrette del mare, i costi umani sarebbero enormi. Non solo perché le navi delle Ong sarebbero spinte a diradare o annullare gli interventi, ma perché i migranti sopravvissuti a possibili naufragi sarebbero ricacciati nell’inferno libico. Ecco un altro risultato dell’ottusità europea e del ruolo delle destre nel condizionare le politiche migratorie. I migranti continueranno ad arrivare in Libia. Ma troveranno un mare pullulante di navi militari pronte a respingerli. Un lavoro sporco che l’Italia, potenza di terz’ordine, vuole svolgere per un’Europa, Francia compresa, incapace di affrontare la questione delle migrazioni. In questi giochi di guerra e di petrolio tutti hanno qualcosa da guadagnare, tranne l’umanità. Migranti. Macron, piano con la Merkel per riscrivere Schengen di Marco Bresolin La Stampa, 29 luglio 2017 Berlino e Parigi vogliono carta bianca per chiudere i confini. Dito puntato contro l’Italia e i Paesi "inadempienti". Una mano è tesa all’Italia per spingere la riforma di Dublino e battezzare un vero sistema d’asilo europeo. Ma nell’altra sono pronte le chiavi per chiudere le frontiere. La Francia, con il sostegno della Germania, ha un piano per riscrivere le regole di Schengen e i due Paesi non intendono perdere tempo: vogliono risultati concreti già nel prossimo autunno. Anche perché le attuali deroghe concesse da Bruxelles per i "controlli temporanei in circostanze eccezionali" scadono a novembre e non possono più essere rinnovate. Parigi e Berlino - più gli altri Paesi che sono pronti ad appoggiare la proposta - puntano a un sistema più elastico che permetta agli Stati di blindare i propri confini senza troppi vincoli "in caso di crisi migratoria". Con tanti saluti alla libertà di circolazione, uno dei quattro pilastri su cui si regge l’Unione europea. È la Francia ad accelerare su questo fronte e il dito è puntato contro l’Italia. Una vicenda che rischia di aprire un’altra crepa con Roma dopo i dissidi sulla Libia e sui cantieri navali di Saint Nazaire. Parigi vuole impedire che i migranti risalgano lo Stivale e "fuggano" verso Nord. Emmanuel Macron lo ha detto senza mezzi termini durante il suo discorso di giovedì ad Orléans. Pur senza citare direttamente l’Italia, il riferimento al nostro Paese è fin troppo esplicito: "Serve cooperazione con i Paesi vicini che oggi, è bene dirlo, sono inadempienti" ha accusato il numero uno dell’Eliseo. Che poi ha argomentato così il suo ragionamento: "Circa la metà delle persone che chiedono asilo in Francia ha già visto respingere la propria domanda in un Paese europeo vicino. Ciò è frutto di una disfunzione che abbiamo in Europa e a cui bisogna porre rimedio". Quando Macron parla di "un Paese europeo vicino" non si riferisce certo alla Spagna o alla Germania. E lo fa sulla base di alcuni dati che effettivamente confermano la sua tesi. Lo dice anche il Risk Analysis 2017 di Frontex: "La Francia - si legge a pagina 28 - è stata colpita da un crescente numero di migranti arrivati dall’Italia attraverso movimenti secondari". Il rapporto, che incrocia le richieste d’asilo con i database di Eurodac, parla di 11 mila attraversamenti illegali nel 2016, pari a "un incremento del 156% rispetto all’anno precedente". In questa partita, Berlino sta con Parigi. E le due capitali possono contare sul sostegno di gran parte degli Stati Ue, dall’Austria fino al blocco dell’Est. Ma anche i nordici sono convinti che il quadro delle regole di Schengen vada rivisto. Il tempo a disposizione non è molto perché a novembre scade l’ultima proroga concessa dalla Commissione ad Austria, Germania, Danimarca, Svezia e Norvegia (che non fa parte dell’Ue ma è nell’area Schengen) per consentire i controlli ai confini. Il commissario Dimitris Avramopoulos a maggio aveva lanciato l’avvertimento: "Questa è l’ultima volta". In effetti, secondo il quadro normativo in vigore, non saranno possibili nuove deroghe. L’articolo 29 del Codice Schengen dice che l’autorizzazione a sospendere Schengen "in circostanze eccezionali" deve passare da una raccomandazione della Commissione e poi da una decisione del Consiglio. Ma tale autorizzazione - specifica l’articolo - può essere prorogata fino a un massimo di tre volte. I cinque Stati che ne avevano fatto richiesta nel maggio del 2016 (per contrastare i flussi sulla rotta balcanica) hanno esaurito i loro "bonus": dopo la prima autorizzazione di sei mesi, nel novembre 2016 Bruxelles ha dato il via libera per altri tre mesi. A febbraio una seconda proroga di altri tre mesi e a maggio la terza, l’ultima, questa volta per sei mesi. A novembre un’ulteriore proroga non sarà più possibile. A meno che non si cambino le regole. Da qui l’iniziativa franco-tedesca. Sempre a novembre scadrà anche la sospensione di Schengen decisa dalla Francia, che però ha seguito un iter diverso: Parigi aveva ripristinato i controlli per "minaccia terroristica". Ora però Macron vuole poter chiudere i propri confini per frenare i movimenti secondari dall’Italia: "Con la Germania - ha confermato giovedì il capo dell’Eliseo, vogliamo che il sistema Schengen sia modificato per permettere di ristabilire i controlli in caso di crisi migratoria". Ventimiglia e il Fréjus rischiano di rimanere blindate a lungo. Germania. Sei italiani in carcere da 20 giorni. Palazzotto (Si): governo assente fidelityhouse.eu, 29 luglio 2017 Sei nostri connazionali sono in carcere in Germania dopo il G20, nel silenzio generale di governo e stampa italiana: Erasmo Palazzotto ha presentato un’interrogazione parlamentare. Su questa vicenda vige un silenzio assordante da parte dei mass media italiani: dal G20 di Amburgo sei cittadini italiani sono in carcere in Germania. Il governo tedesco pare aver trovato il proprio capro espiatorio per la palese incapacità dimostrata dalla polizia nella gestione dell’ordine pubblico nei giorni del G20 ad Amburgo. Le proteste dilagarono per tre giorni, l’impianto poliziesco repressivo, messo in atto per proteggere il summit del G20, non riuscì a fermare l’avanzata dei manifestanti che tennero in scacco la città di Amburgo. Vennero arrestati circa 300 manifestanti in modo decisamente arbitrario: vennero trattenuti a lungo nel GeSa, il centro di detenzione creato appositamente per questo evento a Hamburg-Harburg. Nei centri di detenzione tedeschi vi sono 6 italiani dimenticati: le accuse a loro carico vanno da disturbo della quiete pubblica, a lancio di oggetti, fino a tentativo di lesione e attacco alla sovranità dello Stato. I ragazzi sono senza precedenti penali, e con un lavoro: il loro diritto di circolare liberamente è stato leso come i loro diritti civili. ll deputato tedesco Martin Dolzer ha ordinato che non vengano loro consegnati i pacchi contenenti il vestiario, e che non possano accedere alla biblioteca. Oggi, una delegazione di Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana e USB - Unione Sindacale di Base - era presente al presidio organizzato davanti all’Ambasciata tedesca a Roma, per chiedere a gran voce la liberazione degli italiani. Erasmo Palazzotto ha presentato una interrogazione parlamentare. L’esponente di Sinistra Italiana attacca duramente il Governo Tedesco: "La quasi totalità dei cittadini di nazionalità tedesca risulta già scarcerata. In nessun caso sono emersi elementi probatori tali da giustificare il trattenimento in carcere dei nostri connazionali: addirittura, nel caso di Maria Rocco, la ragazza è stata tratta in arresto mentre portava soccorso ad una ragazza ferita con una frattura scomposta alla gamba". Il parlamentare contesta anche il governo italiano, sentenziando che è intollerabile questo silenzio e quello del ministro degli esteri, Alfano, sulla condizione dei sei cittadini italiani detenuti in Germania. Sentenzia che i manifestanti, incastrati nelle maglie di una repressione assurda, trattenuti in carcere da oltre 15 giorni in regime di isolamento, non hanno potuto usufruire del rilascio su cauzione, e degli arresti domiciliari in Germania: sono trattati come pericolosi criminali con accuse a carico decisamente irrisorie. Italo Di Sabato - dell’Osservatorio Repressione - ha detto che questa situazione è ai limiti del paradosso: usano gli attivisti sociali di tutta Europa per la campagna elettorale tedesca, per coprire il fallimento politico del G20, e per coprire il fallimento della gestione della piazza di Amburgo. "Ci sono stati dei rastrellamenti alla fine del corteo e, per di più, sono stati fermati tutti gli attivisti che per strada non parlavano il tedesco". Libia. La missione si farà ma a partire non sarà una flotta di Carlo Lania Il Manifesto, 29 luglio 2017 Per ora saranno impegnate solo due navi fino alla fine dell’anno. Gentiloni: "È né più né meno di quanto ci ha chiesto Tripoli". "Quello che abbiamo approvato è né più né meno quanto richiesto dal governo libico". Il premier Paolo Gentiloni annuncia così ieri il via libera appena dato dal consiglio dei ministri alla missione italiana in Libia. Sottolineatura necessaria, considerando l’altalena di conferme e smentite con cui da due giorni Tripoli alimenta la confusione circa la richiesta di aiuto alla sua Guardia costiera libica per fermare i barconi carichi di migranti. Altalena proseguita anche ieri per tutto il giorno, fino a quando non viene alla luce il documento con cui il Governo di accordo nazionale (Gan) guidato da Fayez al-Serraj ha chiesto all’Italia un "sostegno tecnico, logistico e operativo per aiutare la Libia nella lotta al traffico degli esseri umani e a salvare i migranti". Di sicuro quella che si prepara a partire - dopo il voto del parlamento previsto per la prossima settimana - è una missione molto ridotta rispetto alle anticipazioni dei giorni scorsi, anche per non urtare sensibilità sull’altra sponda del Mediterraneo. L’invio di navi, spiega il premier, "può dare un contributo a rafforzare la sovranità libica, non è un’iniziativa contro la sovranità libica. Sarebbe come non rispecchiare la sostanza della decisione del governo presentarla come un enorme invio di grandi flotte e squadre di aerei". Almeno per la prima fase partiranno quindi solo due navi utilizzando mezzi ed equipaggi tra quelli già impiegati nel dispositivo "Mare sicuro", con il compito di proteggere e coadiuvare l’attività della Guardia costiera libica. I tecnici italiani aiuteranno inoltre le autorità libiche nella realizzazione di un centro operativo marittimo. La missione prenderà avvio il prossimo 1 agosto e durerà fino al 31 dicembre 2017 mentre per quanto riguarda i costi una stima li calcola in 34.950.000 euro, circa 7 milioni di euro al mese utilizzando i finanziamenti già stanziati per Mare sicuro. Le navi opereranno solo nelle acqua libiche controllate dal Governo di accordo nazionale di Tripoli senza sconfinare a Est in quelle sotto il controllo del generale Khalifa Haftar. Inoltre si limiteranno a fermare i barconi carichi di migranti in attesa dell’intervento della Guardia costiera libica che li riporterà indietro. Salvo emergenze, i migranti non potranno salire a bordo, evitando così eventuali richieste di asilo che costringerebbero i nostri mezzi a trasferirli in Italia. Se attaccati dagli scafisti, infine, i militari italiani potranno ovviamente difendersi. Per palazzo Chigi la missione libica è necessaria anche per contrastare l’attivismo francese nel paese nordafricano. Ma è chiaro che Roma sta investendo uomini, mezzi e soldi per aiutare un alleato come Serraj che si dimostra inaffidabile. Il premier libico non solo controlla solo in parte il territorio che dovrebbe governare, ma non avvisa il suo principale sostenitore quando viene invitato a Parigi per un vertice con il presidente francese e, soprattutto, quando si trova in patria afferma cose diverse da quelle che dice quando invece si trova a Roma. Il tutto per provare ad arginare solo parzialmente i flussi di migranti, visto che fermarli è impossibile e che molto probabilmente le organizzazioni criminali che li sfruttano avranno già trovato lungo la costa libica nuovi punti dai quali far partire i barconi. Martedì il governo presenterà la missione alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato dalle quali uscirà quasi sicuramente con un via libera all’operazione. L’unica ad aver già annunciato il suo voto contrario finora è stata Sinistra italiana mentre Mdp riunirà lunedì i gruppi parlamentari per decidere cosa fare. Nel frattempo a prevalere è soprattutto la prudenza, come spiega il capogruppo in commissione Difesa del Senato Federico Fornaro: "Se l’obiettivo è quello di contrastare i mercanti di morte con una strategia coordinata, allora siamo d’accordo, ma vogliamo sapere con quali strumenti e con quali modalità perché non vorremmo - conclude il senatore Mdp - che alla fine a pagare siano come al solito i più deboli, cioè i migranti". Turchia. Amnesty International oltraggiata: la denuncia alla politica internazionale di Marta Rizzo La Repubblica, 29 luglio 2017 Il 6 giugno, per "appartenenza a un’organizzazione terroristica", Taner Kilic, presidente di Amnesty International Turchia, è stato arrestato assieme a 22 avvocati. Dal luglio 2016, dopo il fallito colpo di Stato, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sta inesorabilmente mettendo a repentaglio libera espressione e democrazia, con atti prevaricatori sulla popolazione turca. AI si batte anche per questo, oltre che per i suoi leader ingiustamente arrestati nel Paese. Gianni Rufini, direttore generale di Ai Italia, spiega le ragioni e le urgenze democratiche della Turchia, che riguardano i leader e gli attivisti di AI, ma non solo. La Turchia vive una preoccupante fase antidemocratica, pericolosa per il mondo intero. Il presidente di AI Turchia, Taner Kilic, è stato arrestato all’alba il 6 giugno, a Smirne, insieme a 22 avvocati per il sospetto di avere legami col movimento di Fethullah Gülen (politologo, attualmente esule negli Usa, nemico principale di Erdogan, che lo ha accusato di essere l’organizzatore del quinto Colpo di Stato della storia recente della Turchia. Gülen sostiene invece che l’ideatore del golpe sia stato lo stesso presidente turco). Il 9 giugno, poi, Kilic è stato incriminato per "appartenenza alla organizzazione terroristica Fethullah Gülen" e posto in detenzione in attesa del processo. L’arresto della direttrice di AI Turchia. Qualche giorno dopo, il 5 luglio, Idil Eser, direttrice di AI Turchia, è stata anche lei messa in carcere, insieme a 7 difensori dei diritti umani e 2 formatori. Al momento dell’arresto, tutti insieme, erano impegnati a spiegare i meccanismi di sicurezza digitale e gestione delle informazioni, durante un seminario che si stava svolgendo a Büyükada, un’isola al largo di Istanbul. Due formatori di nazionalità tedesca e svedese sono stati a loro volta arrestati, insieme al proprietario dell’albergo in cui si svolgeva il corso di formazione. Il segretario generale di AI, al G20 di Amburgo reclama il rilascio. Salil Shetty, segretario generale di AI, l’8 luglio scorso, ad Amburgo ha rivolto un appello ai leader del G20 (in corso in quei giorni nella città tedesca), per sollecitare il presidente turco Erdogan a rilasciare Idil Eser e Taner Kilic e a porre fine agli abusi di potere sulla società turca: "Per la prima volta nella sua storia - ha dichiarato Shetty - AI ha, in un solo Paese, presidente e direttrice dietro le sbarre. Insieme a tutti gli altri difensori dei diritti umani in carcere, devono essere rilasciati immediatamente e senza condizioni. Se i leader riuniti al vertice dei G20 non prenderanno le parti della società civile turca sotto attacco, di questa non sarà rimasto più nulla quando si svolgerà il prossimo vertice. Diciannove anni fa, AI dichiarò prigioniero di coscienza Erdogan, la stessa persona che oggi è responsabile della massiccia repressione contro i diritti umani in Turchia". 18 luglio: la Turchia conferma il carcere per la direttrice di AI e i difensori dei diritti umani. "Una insensata e antidemocratica gestione della giustizia, il 18 luglio ha confermato la detenzione in attesa del processo per 6 difensori dei diritti umani. È un incredibile affronto alla giustizia e segna un primato negativo nella repressione seguita al tentato colpo di stato di un anno fa": questo ha dichiarato AI, dopo aver appreso che 6 dei 10 difensori dei diritti umani arrestati il 5 luglio sono stati rimandati in detenzione preventiva per aver "commesso reati per conto di un’organizzazione terroristica senza farne parte". Gli altri 4 difensori dei diritti umani, rilasciati su cauzione, restano indagati per lo stesso reato. I 6 difensori dei diritti umani raggiungono in carcere Taner Kiliç, presidente di AI Turchia. Il mondo si mobilita per AI. Intanto, nel mondo, si sono accese manifestazioni pacifiche, ma pressanti, di fronte alle sedi delle ambasciate turche di 30 Paesi ed è soprattutto dalla notizia del rinvio in detenzione preventiva di 6 difensori dei diritti umani in Turchia, che la Commissione europea si è aggiunta ai governi e ai leader mondiali, tra cui Angela Merkel, per chiedere il loro rilascio. Il 20 luglio, poi, un portavoce della Commissione europea ha chiesto il "rilascio immediato" dei difensori dei diritti umani, compresa Idil Eser. Lo stesso hanno fatto i governi di Germania, Usa, Francia, Belgio, Irlanda e Austria. Lo stesso giorno, AI organizza anche flashmob di protesta in tutto il mondo. Per l’Italia, Roma si è mobilitata il 20 luglio scorso. Gli arresti del 21 e 22 luglio. Nel frattempo, contro ogni logica, le autorità turche hanno emanato, tra il 21 e il 22 luglio, ordinanze di custodia cautelare contro gli altri 4 difensori dei diritti umani, che erano già stati rilasciati su cauzione martedì 18 luglio. Una dei quattro difensori è stata arrestata nella sua casa a Istanbul venerdì 21 luglio. Una seconda è stata arrestata sabato 22 nella sua casa ad Ankara. I 4 difensori dei diritti umani si uniranno ora ai loro sei co-sospettati dietro le sbarre. "Aria pesante nel mondo per chi difende i dritti umani". "La Turchia è uno dei casi verificatisi ultimamente di Paesi che subiscono una svolta contraria ai diritti umani - afferma Gianni Rufini, direttore generale di AI Italia - Usa, Egitto, Filippine, Polonia, Ungheria, tra gli altri, restringono in modo molto pericoloso le libertà. Si diffondono chiusure forzate di organizzazioni per i diritti umani, sottoposte a regole sempre più restrittive: dalla denominazione imposta alle Ong internazionali di qualificarsi come "foreign agent" (agente straniero) dalla Russia all’Ungheria, al codice di condotta cui il Governo italiano vuole obbligare le Ong che svolgono salvataggi nel Mediterraneo; si moltiplicano arresti e persecuzioni contro i difensori dei diritti umani, in America Latina, Africa, India, repubbliche dell’Asia Centrale e, sempre più, in Occidente. Anche come conseguenza delle politiche anti-terrorismo, che ampliano i poteri della polizia limitando quelli di libera stampa e associazioni civili. AI Italia viene querelata da alcuni sindacati di polizia per aver denunciato i maltrattamenti ai danni dei rifugiati e, chi critica il contenuto del decreto Orlando-Minniti, viene denunciato per vilipendio delle istituzioni: si respira un’aria sempre più pesante per i difensori dei diritti umani". "1 milione di firme a Federica Mogherini per scarcerare i leader di AI in Turchia". "Onore a Taner e Idil, i colleghi turchi arrestati in questi giorni con accuse infamanti, solo per aver affermato che i diritti umani sono uguali per tutti - prosegue Rufini - Due persone per bene, che hanno dedicato la vita a proteggere gli altri e che adesso sono chiusi nelle carceri di una dittatura che nasce e si rafforza, sotto gli occhi indifferenti e, forse, complici di un’Europa ormai irriconoscibile. Oggi per Taner e Idil e gli altri otto difensori dei diritti umani, il nostro segretario generale, Salil Shetty, ha consegnato quasi un milione di firme a Federica Mogherini (Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza ndr.), a conferma che ci sono tante persone che hanno a cuore i diritti e chi li difende". "La politica è sempre più soggetta a istanze discriminatorie". "La constatazione che mi sento di fare - conclude Rufini - è che se per anni abbiamo sentito che in Europa la politica si era fatta portatrice di un quadro di principi che sono articolati nella Cedu (Convenzione Europea sui Diritti Umani), oggi stiamo assistendo a una drammatica marcia indietro. A partire dalla crisi di rifugiati che colpisce in particolare il nostro paese, le organizzazioni per i diritti umani vengono ormai additate, assieme ad altri, come un nemico. E i media fanno sempre più eco a questi argomenti, creati da una politica, sempre più lontana dai principi ispiratori della Costituzione italiana e dell’identità europea. Dunque, gli Stati non sono più la prima difesa dei diritti dei cittadini. Anzi, sentono il bisogno di comprimerli e reprimerli, a partire dalla libertà d’espressione e dal ruolo fondamentale delle organizzazioni civiche. E la politica in generale, ha sempre più spesso deciso di agire ed esprimersi aderendo acriticamente alle istanze liberticide, discriminatorie e xenofobe di una parte dell’opinione pubblica, alla ricerca di un consenso che sente di aver perduto tra la gente".