Antigone: i processi pendenti sono troppi e le carceri scoppiano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 luglio 2017 L’Associazione ha presentato il pre-rapporto sulla condizione all’interno degli istituti. Si denuncia l’eccessivo ricorso alla custodia cautelare nonostante la legge che doveva limitarne l’uso: "è l’effetto di pratiche giurisdizionali, di polizia e la pressione dell’opinione pubblica". Continua la crescita dei detenuti -il tasso di sovraffollamento è al 113,2%) e il fatto che in alcune carceri si torna a scendere sotto la soglia minima prevista di 3 mq per detenuto; troppi reati e troppa durata irragionevole dei processi; nel 68% degli istituti visitati ci sono celle senza doccia, e solo in uno, a Lecce, e solo in alcune sezioni, è assicurata la separazione dei giovani adulti dagli adulti, come richiesto dall’art. 14 dell’Ordinamento penitenziario; l’Italia risulta di essere uno dei paesi dell’Unione Europea con il più basso numero di detenuti per agente: vi è in media un agente per 1,7 detenuti, mentre ciò che manca sono gli educatori. Sono questi i dati principali emersi dal pre-rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni delle carceri presentato ieri mattina durante la conferenza stampa alla Camera dei deputati. Già nell’ultimo rapporto, non a caso chiamato "Torna il Carcere", si era posta l’attenzione sul ritorno del sovraffollamento con tassi di crescita che se continuassero all’attuale ritmo porterebbero in pochi anni l’Italia ai livelli che costarono la condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ma quali sono le ragioni della crescita del numero dei detenuti? "Da una parte - spiega Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - il numero enorme di processi penali pendenti. Oltre 1,5 milioni di cui più di 300 mila dalla durata irragionevole e quindi prossimi alla violazione della legge Pinto. I tempi lunghi dei processi influiscono sull’eccessivo ricorso alla custodia cautelare che continua a crescere arrivando all’attuale 34,6%, quando solo due anni fa era al 33,8%. Dall’altra c’è il fatto che si registra un cambiamento anche nelle pratiche di Polizia e giurisdizionali, effetto questo della pressione dell’opinione pubblica a partire da casi eclatanti". Altri dati riguardano il totale dei processi penali dalla durata irragionevole. Troppi processi, ma anche troppi reati e troppa custodia cautelare. Si legge nel pre-rapporto che al 31 marzo del 2017 i processi penali pendenti erano 1.547.630. Dieci anni prima erano 1.446.448. Secondo la legge Pinto che impone risarcimenti nel caso di procedimenti penali dalla durata irragionevole non deve essere superata la seguente durata: 3 anni in primo grado, 2 in appello, 1 in Cassazione. A fine 2016 a rischio di risarcimenti sono rispettivamente il 4,2% dei procedimenti pendenti in Cassazione, il 45,3% di quelli in appello, il 18,9% di quelli di primo grado, il 19% di quelli davanti al tribunale per i minorenni. Sempre Antigone spiega che la durata media di un processo in primo grado con rito collegiale è pari addirittura a 707 giorni, 534 nel rito monocratico, 901 in secondo grado. Temi che non diminuiscono negli ultimi anni. Dal 1992 a oggi 25 mila casi di ingiusta detenzione costati 630 milioni di euro. La custodia cautelare ingiusta costa troppo allo Stato. Antigone denuncia l’eccessivo ricorso alla custodia cautelare nonostante l’introduzione della legge che doveva limitarne l’uso. Nel pre-rapporto si legge che "nonostante i positivi cambiamenti legislativi è in aumento l’uso del carcere prima della condanna definitiva. Purtroppo è l’effetto di pratiche di Polizia e giurisdizionali, a loro volta effetto della pressione dell’opinione pubblica a partire da casi eclatanti". Altro dato interessante riguarda la presenza degli stranieri in carcere: sono il 34,1% dei detenuti, ma rispetto a dieci anni fa sono il 3,34% in meno. Calano i reati ma aumenta il sopraffollamento di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 28 luglio 2017 Ma che giustizia penale è una giustizia che ha pendenti nei suoi tribunali un milione e mezzo di processi di cui 300 mila circa hanno già superato i limiti di durata massima con relativi obblighi di risarcimento? Il carcere nuovamente troppo affollato di oggi - poco meno di 57 mila detenuti rispetto ai 54 mila del giugno del 2016 - è l’effetto di un sistema penale irrazionale, ingombrante, selettivo e di classe. Se solo un grande tema come quello delle droghe fosse trattato in modo non repressivo avremo varie migliaia di detenuti in meno con benefici per tutti: per i consumatori di sostanze che non finirebbero in galera, per il fisco, per tutti gli altri detenuti che avrebbero più spazio a disposizione. A partire dalla questione del poco spazio (meno di 3 mq a testa) nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per i diritti umani. Allora fu messo in moto un virtuoso circuito riformatore che portò a importanti passi in avanti nella legislazione in materia di custodia cautelare, benefici penitenziari, diritti dei detenuti. Fu istituito il garante nazionale delle persone private della libertà. Come mai dunque in soli 4 anni, senza troppe modifiche in peggio della legislazione penale e penitenziaria e con un tasso di criminalità in calo, la popolazione detenuta di nuovo cresce? I motivi sono principalmente due: alcune di quelle riforme erano a tempo e il tempo è scaduto; il clima politico e culturale è pericolosamente deteriorato così influenzando l’operato delle forze di polizia e dei giudici non insensibili alle richieste securitarie che arrivano da politici e media. C’è una rinuncia da parte della classe dirigente all’esercizio di ogni vocazione pedagogica rispetto ai corpi sociali intermedi. Un dato è eloquente: negli ultimi cinque anni è diminuita del 3% circa la percentuale degli stranieri detenuti nelle carceri italiane nonostante le fantomatiche invasioni di migranti che turbano i sogni mezza Europa. Un dato di questo genere dovrebbe essere urlato per sconfiggere stereotipi e pregiudizi, invece passa sotto traccia. Nonostante tutto, questo scorcio finale di legislatura potrebbe riservare una sorpresa positiva. Tutto è nelle mani del ministro della Giustizia Andrea Orlando e del premier Paolo Gentiloni. Loro, dopo l’approvazione a giugno della legge delega dal parlamento, dovranno in tempi stretti proporre una riforma dell’ordinamento penitenziario per adulti (e un ordinamento del tutto nuovo per i minori) che migliori sensibilmente la vita interna alle carceri espandendo l’area delle misure alternative su cui si gioca la vera partita della risocializzazione. C’è spazio per mettere al centro la dignità umana, abolire l’ergastolo ostativo, estendere l’applicazione delle misure alternative, assicurare luoghi e tempi per la sessualità, liberalizzare per i detenuti comuni l’uso delle telefonate, delle mail e di skype, rendere identificabile il personale, eliminare le pene accessorie e garantire il diritto di voto ai detenuti. Antigone ha già messo a disposizione delle commissioni ministeriali le sue proposte. In poco tempo si può fare una grande riforma nel nome di chi l’aveva già scritta (Alessandro Margara) alcuni anni addietro, prima di lasciarci, ma anche per dare un segnale al paese, ossia che anche in campagna elettorale si può essere progressisti e coraggiosi. È più facile finire in carcere se sei straniero, anche per reati minori di Raphaël Zanotti La Stampa, 28 luglio 2017 Questa settimana, per la nostra rubrica di data journalism, ci siamo domandati: la probabilità di finire in carcere può essere influenzata dal colore della pelle? Domanda difficile, delicata. Eppure domanda ormai ineludibile in una società come la nostra diventata di immigrazione dopo decenni di emigrazione. Il dato generale ci dice che al 30 giugno scorso gli stranieri erano il 34,1% dei detenuti, percentuale calata del 3,34% rispetto a dieci anni fa. Abbiamo dunque preso questo dato e lo abbiamo confrontato con il numero di custodie cautelari attribuito. La custodia cautelare è quel provvedimento preso dalla magistratura in caso di gravi indizi di colpevolezza uniti ai pericoli di reiterazione del reato, fuga o inquinamento delle prove. Ebbene gli stranieri hanno percentualmente più custodie cautelari della loro presenza carceraria, mentre gli italiani ne hanno la metà. Stesso discorso emerge guardando gli ingressi in carcere da liberi. Potrebbe essere un effetto dovuto al tipo di reati di cui sono sospettati? Scorporando i dati non si direbbe. I delitti più gravi come mafia, reati contro la persona, armi vedono meno stranieri accusati rispetto alla loro presenza media. Il segno cambia se si guarda ad altri reati come prostituzione, stupefacenti e, ovviamente, immigrazione. "Giusto processo" anche per le toghe sotto trasferimento di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2017 Tempi certi, procedura standardizzata, trasparenza del procedimento. Il Consiglio superiore della magistratura ha approvato all’unanimità la circolare che introduce i principi del "giusto processo" anche nei procedimenti per il trasferimento d’ufficio dei magistrati. Si tratta dei cosiddetti "para-disciplinari" dell’articolo 2 della legge sulle Guarentigie (Rdlgs 511/1946) che disciplinano l’incompatibilità "per colpa" e le ipotesi in cui per qualsiasi causa il magistrato non possa più svolgere le sue funzioni in una determinata sede "con piena indipendenza ed imparzialità". Il nuovo procedimento prevede tempi certi di durata massima per evitare l’effetto "spada di Damocle" di non pochi precedenti del passato:?sei mesi dalla data fissata dal presidente per lo svolgimento della relazione dell’assegnatario. Nel caso di "motivata grave necessità" il termine può essere prorogato una sola volta e per un massimo di tre mesi, al termine dei quali la Prima commissione avrà 15 giorni per formulare la proposta di incompatibilità ambientale o funzionale al Plenum (o per archiviare). La circolare nel delimitare le varie fasi del procedimento fissa anche i diritti del magistrato in odore di incompatibilità che, al termine della prima valutazione conoscitiva della Commissione, deve ricevere senza ritardo la comunicazione di apertura del procedimento contenente gli estremi del fatto per cui si procede. L’"interessato", come viene definito nella circolare, da quel momento ha diritto di essere sentito con l’assistenza di un difensore, di accedere al fascicolo, presentare memorie scritte e documenti e di ricevere gli avvisi nel suo ufficio giudiziario di appartenenza. Tra l’altro il magistrato sotto procedura deve essere avvisato che le sue dichiarazioni potrebbero essere utilizzate in altri procedimenti (non solo amministrativi). L’unico caso di sospensione del procedimento è quando sia stata esercitata l’azione penale o quella disciplinare nei confronti dello stesso magistrato sui medesimi fatti. Il mancato rispetto dei termini - perentori e sospesi solo dal 1° al 31 agosto compresi - provoca la decadenza dell’azione. Con la nuova circolare che "garantisce una maggiore certezza dei tempi del procedimento" ha sottolineato il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, si compie "un’ulteriore passo avanti nella piena attuazione delle nuove disposizioni del regolamento del Consiglio e dell’autoriforma". Il relatore della circolare, Antonio Leone, ha sottolineato che "il diritto di accedere agli atti del fascicolo già nella fase di apertura del procedimento rappresenta un’innovazione ispirata ai principi del giusto procedimento". Sequestri, il curatore può ricorrere di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2017 Corte di Cassazione, Terza sezione penale, sentenza n° 37439 del 27 luglio 2017. L’interesse del curatore fallimentare a impugnare le misure cautelari va valutato dal giudice caso per caso. E la decisione si prende guardando alle norme fallimentari da un lato e a quelle penali dall’altro, bilanciando gli interessi in gioco e garantendo la prevenzione. La terza sezione penale della Corte di cassazione (sentenza 37439) prende le distanze da due precedenti Sezioni unite in contrasto tra loro. E accoglie il ricorso del curatore contro la decisione del Tribunale di bollare come inammissibile l’impugnazione del sequestro preventivo per equivalente di oltre 600 mila euro depositati sul conto della curatela. Alla base della misura preventiva la contestazione al legale rappresentante di una società dichiarata fallita, del reato di omesso versamento delle ritenute. Per il Tribunale il curatore era un soggetto terzo, non titolare dei beni nè"autorizzato" a rappresentare creditori privi di diritti sui beni prima dell’assegnazione. Un verdetto in linea con la sentenza Uniland (11170/14) con la quale le Sezioni unite avevano negato, in un caso di responsabilità da reato degli enti, la carenza di legittimazione del curatore a impugnare. Secondo la Uniland il Pm e l’interessato possono chiedere la revoca del sequestro preventivo, mentre l’imputato, il difensore, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla restituzione possono proporre riesame in appello. Già questa affermazione, precisa la Cassazione, avrebbe dovuto indurre il Tribunale a ritenere legittimato il curatore che, nello specifico, è la persona a cui le cose sono state sequestrate. Alla Uniland si contrappone la sentenza Focarelli (29951/2004) che ha ritenuto il curatore legittimato, facendo un distinguo: se il fine è la confisca obbligatoria, il sequestro prevale sullo spossessamento fallimentare per togliere dalla circolazione la cosa considerata pericolosa per presunzione assoluta. Nella confisca facoltativa invece basta che il reo non resti in possesso del "frutto del reato": risultato raggiungibile anche con lo spossessamento fallimentare. Per i giudici non basta a negare la legittimazione in tutti i casi l’affermazione, secondo la quale il curatore non è titolare di diritti sui beni, nè può rappresentare penalmente i creditori. Il curatore può contare, infatti, su un vasto raggio d’azione: dalla costituzione come parte civile nei processi per bancarotta fraudolenta alla disponibilità dei beni del fallito. Un sistema complesso che determina una scissione tra la titolarità nominale del diritto di proprietà e quella gestionale che deriva da un’esecuzione coattiva del patrimonio del debitore, che può non riguardare tutti i beni e tutti i creditori. E la complessità esclude generalizzazioni mentre impone "la valutazione del caso concreto per verificare se il curatore, con tutte le sue peculiarità, rientra o meno in una delle categorie penalistiche cui la legge ha attribuito la legittimazione attiva". La Cassazione afferma la legittimazione a impugnare, nel caso esaminato in cui sono sotto sequestro le somme nel conto della procedura, derivanti dall’attività di gestione degli organi fallimentari. Una condizione particolare (non risultano precedenti) che non può essere superata, per negare la legittimazione, dalla considerazione che l’attivo sia riconducibile ai soggetti indagati perché, anche superando il criterio della prevenzione, resterebbe il fatto che non è nota l’origine della giacenza sul conto corrente. Le somme potrebbero essere il risultato di un riuscito esperimento di azioni revocatorie o di azioni di responsabilità: in entrambi i casi è escluso il diritto di proprietà della fallita o dell’indagato. Va sgombrato il campo anche dalla "semplificazione" che l’interesse a impugnare sia sempre dell’indagato o della società fallita. La presenza di più vincoli sui beni potrebbe "scoraggiare" l’indagato e "aumentare" l’interesse della curatela. Non si può dunque negare seccamente la legittimazione, nè generalizzare la legittimazione del curatore, negandola all’indagato o al legale rappresentante della fallita. La strada è quella del singolo caso con un occhio alle norme speciali, al bilanciamento degli interessi e alla principio della prevenzione. Furto in cassetta di sicurezza, se c’è colpa grave risarcimento integrale di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2017 Nel caso di inadeguatezza dei sistemi di sicurezza, la Banca deve risarcire il valore dell’intero contenuto della cassetta di sicurezza - ricostruito anche sulla base di presunzioni e testimonianze - senza poter invocare la clausola limitativa della responsabilità, che non è applicabile nelle ipotesi di colpa grave ma soltanto quando la colpa è lieve. Con questa motivazione la Corte di cassazione, sentenza 27 luglio 2017 n. 18637, ha respinto il ricorso di un istituto di credito e confermato il risarcimento di quasi 1 mln di euro deciso dalla Corte di appello di Napoli dopo aver esperito il giuramento estimatorio della parte lesa. Per il giudice di secondo grado, infatti, "il giudizio circa le misure di sicurezza non va formulato ex ante, ma proprio ex post e non avuto riguardo all’astratta idoneità dei sistemi di controllo, ma, nello specifico, a come questi abbiano in concreto operato, essendo l’istituto tenuto a garantire il risultato dell’integrità della cassetta". Per cui, riesaminando le risultanze istruttorie ed evidenziati i profili di colpa in capo all’ente creditizio ("i sistemi di allarme erano disattivati"; "la porta blindata del caveau era sistematicamente aperta"; ecc.), nel contempo reputando le modalità inidonee a giustificare il caso fortuito, la Corte di merito ha ritenuto "provata la responsabilità dell’istituto bancario". E ha quantificato il danno in via presuntiva sulla base della "dettagliata denuncia delle cose che si trovavano all’interno della cassetta" sporta nell’immediatezza del fatto, delle "deposizioni testimoniali raccolte" e, non ultimo, degli esiti del deferito giuramento estimatorio. Un giudizio confermato dalla Cassazione che ha ribadito il principio per cui il furto "non costituisce caso fortuito, in quanto è evento prevedibile in considerazione della natura della prestazione dedotta in contratto". E che comunque è onere della banca dimostrare che "l’inadempimento dell’obbligazione di custodia è ascrivibile ad impossibilità della prestazione ad essa non imputabile, non essendo sufficiente ad escludere la colpa la prova generica della sua diligenza". Riguardo poi alla clausola limitativa del valore risarcibile, ormai di prassi, i giudici ricordano che "è nullo qualsiasi patto che escluda o limiti preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave". Ciò, prosegue, "preclude alla banca di valersi della predetta limitazione di responsabilità" laddove, come in questo caso, "l’inadempimento sia dovuto a dolo o a colpa grave", ma, prosegue, "non le impedisce di farsene scudo nell’ipotesi in cui, anche nel caso di furto, l’inadempimento sia cagionato da colpa lieve". Dunque, conclude la Cassazione, correttamente, il giudice di merito, facendo leva sui fatti accertati, ha escluso sia l’esonero di responsabilità per caso fortuito sia la clausola limitativa per colpa lieve. Infine, riguardo all’entità del danno, il ricorso a presunzioni e a testimonianze, conclude la Corte, è "doveroso" proprio in ragione della segretezza del contenuto della cassetta. Umbria: "terremoto, nessun nuovo detenuto in". Anastasia: carceri però soffrono umbria24.it, 28 luglio 2017 "La situazione del sistema penitenziario italiano può essere definita nuovamente ‘delicatà. Dall’inizio dello scorso anno si è registrato un incremento, a livello nazionale, di circa cinquemila unità. Gli istituti penitenziari umbri, al momento, soffrono relativamente. E questo anche per effetto di circostanze legate agli eventi sismici del 2016, per cui l’amministrazione penitenziaria, a suo tempo, ha dato disposizioni di non trasferire detenuti verso gli istituti delle Marche e dell’Umbria. Tuttavia, nonostante ciò, siamo arrivati comunque a livelli di capienza massima ed in alcuni casi leggermente superata". Lo ha detto ieri, in Terza Commissione, presieduta da Attilio Solinas, il Garante regionale dei detenuti, Stefano Anastasìa, eletto nell’aprile 2016 dall’Assemblea legislativa. "Per quanto riguarda il dato nazionale di rapporto tra detenuti e personale di polizia penitenziaria - ha aggiunto - è del 64,2 per cento (ogni 100 detenuti ci sono mediamente 64 unità di polizia). In Umbria questo dato mostra maggiori criticità ad Orvieto (59,6 %) e a Terni (54,2). A Spoleto, invece, la presenza di polizia penitenziaria, anche per la storica conformazione dell’istituto, è del 74,9 %". 1.400 detenuti Invitato a Palazzo Cesaroni su indicazione del consigliere Carla Casciari, Anastasia ha tracciato quindi un quadro generale sulla situazione degli istituti umbri, annunciando, a breve, la consegna alla Commissione e quindi all’Assemblea legislativa, della relazione annuale rispetto alla sua attività svolta. "Dai dati di fine giugno - ha spiegato il Garante regionale - sono 1399 i detenuti negli istituti umbri. Le situazioni più sensibili e difficili si verificano in quelli di Spoleto e Terni dove vengono trasferiti detenuti soprattutto in alta sicurezza dalle regioni meridionali. L’istituto di Orvieto, per le sue particolari caratteristiche di custodia attenuata, risulta non completamente occupato, mentre quello di Perugia copre esattamente la capienza regolamentare. In base alla tendenza nazionale, nei prossimi mesi, la situazione potrebbe aggravarsi anche in Umbria. Le risorse già scarse, sia economiche che di personale, in considerazione di una maggiore presenza in carcere, diventano ancora più scarse perché devono essere distribuite in una mole di attività che non sempre è possibile assicurare. L’Umbria ha sofferto, in modo particolare, le difficoltà della riorganizzazione predisposta dal Ministero della Giustizia a livello territoriale, che ha portato alla soppressione del Provveditorato dell’Umbria accorpandolo a quello della Toscana. Si sono registrate oggettive difficoltà di programmazione dell’intervento del provveditorato sul territorio regionale, anche con qualche spiacevole situazione di destinazione in Umbria delle situazioni più problematiche della Toscana. Situazioni, spesso, proprie di piccoli regioni aggregate ad altre più grandi. Quanto ad eventi critici all’interno degli Istituti, pur essendo reduci da una tragedia accaduta in quello di Spoleto, dove c’è stato il suicidio di un giovane detenuto, la situazione in Umbria non risulta grave come altrove. Si è trattato di un gravissimo episodio che però non ha riscontro. Nel 2016 si sono verificati quattro tentativi di suicidio a Spoleto". L’audizione Rispondendo ad una domanda del consigliere Casciari, in merito al reinserimento lavorativo e la formazione in carcere, Anastasia ha risposto che "le principali doglianze che arrivano, sia da parte dei detenuti che del personale e della dirigenza, si basano sul fatto che nello scorso anno e a tutt’oggi non è stata programmata attività di formazione professionale all’interno degli istituti. Questo è il risultato di un atto di indirizzo del Governo secondo il quale l’attività di formazione professionale intramuraria sarebbe stato parte del Por di inclusione gestito dal ministero per il Lavoro e quello della Giustizia. Ma questa attivazione di formazione intramuraria non c’è stata e quindi la Regione Umbria, più attenta e più ligia a seguire le indicazioni, e per non sovrapporre gli interventi di fonte comunitaria, ha indirizzato tutte le sue risorse disponibili del Por al sostegno dei percorsi di alternativa al carcere, all’esterno quindi del sistema penitenziario. Il risultato imbarazzante deriva dalla relazione del Garante nazionale dello scorso mese di marzo: rispetto ai dati del 2016 sulla formazione professionale, l’unica regione in cui risulta zero è l’Umbria perché, evidentemente le altre Regioni hanno ignorato l’indicazione del Governo, continuando a svolgere un minimo di attività e sostegno alla formazione intramuraria. Sollecitato dai detenuti e dalle dirigenze degli istituti mi sono attivato presso gli uffici che gestiscono il Fondo Sociale Europeo che mi hanno assicurato il recupero di risorse da dedicare a questo tipo di formazione con una disponibilità già per il 2018. Sarà comunque necessario, in futuro, riorientare le risorse in questo settore. Grazie comunque alla quota di fondi destinati alla formazione per l’inserimento lavorativo in alternativa al carcere. La componente di persone che lavora all’esterno ha visto un aumento da otto a 21 unità nel corso del 2016". Reggio Calabria: troppi detenuti al carcere di Arghillà rispetto alla capienza possibile di Ilaria Quattrone strettoweb.com, 28 luglio 2017 Sono aumentati i detenuti nel carcere di Arghillà di Reggio Calabria superando così la capienza regolamentare. Non solo notizie negative. Il percorso intrapreso dalle istituzioni competenti è lungo e tortuoso, ma sono già molte le notizie positive che riguardano la struttura. "Aumentano i detenuti nel carcere di Arghillà: oggi siamo già a 351 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 302. Il paventato rischio dell’incremento detentivo, già segnalato da questo Garante nella Relazione annuale 2015/2016, purtroppo, a distanza di pochi mesi, è già realtà. Segnalerò puntualmente la situazione ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria insieme alle varie problematiche che mi sono state rappresentante dai detenuti durante la mia visita odierna. Oggi, tuttavia, voglio guardare al "lato positivo" e perciò intendo soffermarmi su due aspetti meritevoli di apprezzamento: il primo, l’avvio dei lavori ad intenso ritmo per dotare finalmente l’istituto di un autonomo corpo di fabbrica da adibire a palestra, teatro e luogo di culto; il secondo, su cui intendo soffermarmi ulteriormente, il prosieguo della positiva esperienza del lavoro volontario e gratuito che alcuni detenuti stanno svolgendo in favore della collettività, occupandosi della manutenzione del verde pubblico. A questo proposito, merita infatti di essere segnalato che alle ultime due unità si sono aggiunti altre due nuovi detenuti, giusta la proposta della Direzione e la conseguente approvazione da parte della Magistratura di Sorveglianza. Il Protocollo d’intesa siglato il 7 giugno 2016 tra il Comune di Reggio Calabria, il carcere di Arghillà, il Tribunale di Sorveglianza e l’Ufficio di Esecuzione penale esterna, su iniziativa del Garante comunale, ha visto quindi, nell’arco di un anno, l’alternarsi di 6 detenuti nelle attività suddette. Grazie alla collaborazione con Avr, i ristretti sono forniti di divise, scarpe, attrezzature di lavoro e di sicurezza, con la dovuta copertura assicurativa garantita dal Comune di Reggio Calabria. Anche oggi i detenuti sono quindi usciti dall’istituto penitenziario per recarsi a Catona a svolgere l’attività di lavoro gratuito in favore della collettività. Il Protocollo da intendersi rinnovato fino al giugno 2018, pertanto, continua a produrre buoni frutti ed essendomi recato in visita ad Arghillà, unitamente al dott. Giuseppe Chiodo che sta svolgendo uno stage formativo presso l’Ufficio del Garante reggino, in virtù di una convenzione all’uopo stipulata con l’università Roma Tre, oltre a raccogliere le varie problematiche prospettate dai ristretti, ho potuto constatare come il colore delle divise arancioni indossate dai detenuti pronti per recarsi a svolgere il lavoro all’esterno e la loro raggiante espressione per l’opportunità concessa restituiscano, davvero, calore umano oltre che colore vitale rispetto al grigio spento delle sbarre, delle pareti e dell’aria stessa che si respira dentro il carcere. Si può e si deve, quindi, continuare su questa strada, perché il lungo cammino verso la libertà e la legalità non può essere privo di opportunità di scelte di vite positive, proprio per chi ha delinquito e intende cambiare, e questa responsabilità spetta alle istituzioni che devono farsene carico, mettendo al centro l’uomo e la sua possibilità di riscatto rispetto al male compiuto, onorando così il dettato costituzionale della funzione rieducativa della pena" conclude il garante l’Avv. Agostino Siviglia. Aversa (Ce): nel carcere "Filippo Saporito" un orto per i detenuti di Donato Liotto pupia.tv, 28 luglio 2017 Abbiamo fatto visita alla casa di reclusione "Filippo Saporito" di Aversa, ex Opg - Ospedale psichiatrico giudiziario, incontrando la direttrice Elisabetta Palmieri, alla quale abbiamo rivolto alcune domande sull’impegno della struttura riguardo al recupero dei detenuti. Direttrice, la prima domanda che Le voglio fare è in merito alla coltivazione del terreno presente all’interno del carcere. Di cosa tratta? Si tratta di un progetto partito tra febbraio e marzo di quest’anno, grazie a un finanziamento del nostro Dipartimento di circa 72mila euro. Questo ci ha dato la possibilità di recuperare un vasta area verde, circa 11 mila metri quadrati all’interno della struttura. Terreno che è stato completamente bonificato; prima, infatti, era una giungla! Con l’arrivo dei detenuti, abbiamo potuto mettere in atto finalmente questo progetto. I detenuti cosa fanno nello specifico su questo terreno? Ora che è stato pulito e bonificato del tutto, i detenuti si occupano soprattutto della semina e della coltivazione, per arrivare alla fase conclusiva che è quella del raccolto. Abbiamo anche piantato semi, piantine, alberi da frutto. Per ora siamo riusciti ad arrivare alla coltivazione di vari tipi di ortaggi, quali melanzane, pomodori, peperoni, insalata, zucchine. Posso dire con ottimi risultati. I detenuti, che svolgono questa attività sono remunerati? Sono pagati per lavorare cinque ore al giorno, al momento sono una decina i detenuti impegnati nel progetto. Loro scendono tutti i giorni, dal lunedì al sabato, seguiti dagli agenti di Polizia penitenziaria che hanno il compito di controllare con discrezione e professionalità il lavoro dei detenuti. Per questo li voglio ringraziare, sono veramente encomiabili e impagabili. Possiamo senz’altro affermare che questo progetto si pone, in primis, l’obiettivo del reintegro dei detenuti nella società? Sì, ha un senso assolutamente trattamentale, quindi di rieducazione dei detenuti. L’elemento fondamentale del trattamento è proprio il lavoro. Sono impegnati, vengono pagati, hanno la possibilità di stare fuori dalla sezione per diverse ore al giorno, e quindi non stare in situazioni di cattività. Hanno anche la possibilità di imparare un mestiere, che poi possono spendere una volta rimessi in libertà. Questa è la partenza, altri obiettivi che vi ponete con questo progetto? Il progetto ha una finalità di produzione. I detenuti coltivano, producono, e poi i detenuti stessi, o il personale, potranno acquistare questi prodotti. Poi è chiaro che noi cercheremo di estenderci anche all’esterno, nel momento in cui diventerà un progetto agricolo a tutti gli effetti. Ora avete donato alla Caritas Diocesana di Aversa i primi raccolti? Sì, abbiamo dato in beneficenza la prima raccolta di pomodori. Per me, ma soprattutto per i detenuti, è una bella soddisfazione. Difatti, proprio stamani Padre Guido Travaglini della Caritas di Aversa ha ritirato i nostri bellissimi pomodori. Dottoressa, ormai sono cinque anni che vive questa realtà: un bilancio lo può fare? Sì, l’ho traghettata, ho visto la trasformazione da Opg a casa di reclusione, adesso ci stiamo strutturando perché consapevoli di una crescita lenta ma costante. L’intento è di realizzare una custodia assolutamente aperta. Mi auguro, con detenuti selezionati, e che meritano questo tipo di regime, un regime più aperto appunto, più rieducativo e più risocializzante. Attualmente quanti detenuti ospitate? Circa 170, però tra poco arriveremo a 200. Un bel numero, che si può estendere fino a 300-350 detenuti come capienza tollerabile. Un impegno importante, e siamo sicuri che, grazie alla passione, e soprattutto alla sua professionalità, e con il supporto degli agenti della Polizia penitenziaria, e di tutti coloro che collaborano con lei, la direttrice Palmieri possa davvero riuscire a far sì che questi detenuti possano avere un futuro migliore fuori dal carcere. Questo progetto è un aprirsi alla città, al territorio. E la città dovrebbe fare altrettanto. Nuove iniziative saranno volte proprio al raggiungimento di questi obiettivi. Ringraziamo la direttrice Palmieri per il suo impegno e per l’amore che mette nel suo lavoro che riteniamo sia, senza alcun dubbio, davvero difficile e con non poche responsabilità. "A tutti va data una seconda possibilità": questo è il messaggio che ci arriva dal carcere "Saporito" di Aversa. Milano: detenute per colpa, sarte per passione arsutoriamagazine.com, 28 luglio 2017 Dal 2016 Schmid, specializzata in tessuti di alta qualità, collabora con Cooperativa Alice nata all’interno della Casa Circondariale San Vittore a Milano. La Cooperativa sociale Alice è nata oltre dieci anni fa all’interno della Casa Circondariale San Vittore di Milano con l’obiettivo di dare una formazione specifica e uno sbocco lavorativo alle detenute delle carceri milanesi. Un lavoro che permetta loro di restare lontani dalla recidiva, considerando che i dati riportano che l’80% degli ex detenuti reinseriti nel mondo lavorativo non torna più in carcere mentre il 70% di quelli che non lavorano scontano poi successive condanne. Schmid, da sempre impegnata in progetti sociali di formazione professionale e di recupero e reinserimento di persone meno fortunate, dopo altre precedenti esperienze, ha sposato con convinzione il progetto della Cooperativa Alice fornendo loro materiali e tessuti che per l’industria della moda, veloce nel costruire e ancor più veloce nel bruciare, hanno esaurito il loro ciclo vitale senza per questo perdere il loro valore qualitativo intrinseco. Materiali che impreziosiscono le creazioni delle stiliste Ilaria Venturini Fendi e Rosita Onofri che hanno sposato, anche loro, gli obiettivi sociali della Cooperativa, e che forniscono alle detenute il supporto tecnico e stilistico necessario a realizzare i loro capi e gli accessori. I capi e gli accessori della Cooperativa Alice possono essere acquistati nella boutique di Via Gaudenzio Ferrari 3, a Milano. sartoriasanvittore.com - sociallymadeinitaly.com. Perugia: nel carcere un laboratorio di sartoria supervisionato da Cucinelli lanotiziaquotidiana.it, 28 luglio 2017 Siglato l’accordo fra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e l’azienda del re del cachemire. I detenuti avranno il compito di confezionare maglioni per la Polizia Penitenziaria. Il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, e Carolina Cucinelli della Brunello Cucinelli Spa, hanno sottoscritto il protocollo d’intesa per la creazione di un laboratorio di sartoria artigianale all’interno della casa circondariale di Perugia Capanne ed il confezionamento di maglioni in dotazione al Corpo di Polizia Penitenziaria. L’accordo prevede la progettazione del laboratorio, la definizione dei cicli e dei tempi di produzione e un percorso finalizzato a formare nel tempo un numero di persone qualificate per l’intera lavorazione. Il progetto partirà a breve. Il prestigioso marchio - eccellenza mondiale nella produzione della maglieria - mette a disposizione gratuitamente e ai soli fini sociali, oltre al proprio know how, personale specializzato per la realizzazione e la supervisione del design del prodotto realizzato dalle persone detenute. Con l’accordo siglato oggi si aggiunge un ulteriore importante tassello per l’impiego lavorativo delle persone detenute, per l’accrescimento delle loro competenze ai fini del reinserimento sociale e della prevenzione della recidiva. Il progetto è stato realizzato dalla "Struttura organizzativa di coordinamento delle attività lavorative" istituito dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Roma: dal carcere alla cucina, ecco il riscatto dei giovani chef di Gianluca Testa Corriere della Sera, 28 luglio 2017 Anche lo chef può cambiare (pardon, salvare) una vita. Soprattutto se di fronte ha giovani affamati. Si sogni, di speranze, di opportunità. Giovani che fino a quel momento hanno conosciuto la strada. Giovani a cui è stata messa in mano una pistola anziché una penna o uno strumento da carpentiere. Giovani che hanno conosciuto, come unica strada obbligata e a senso unico, quella indicata dai boss della malavita locale. Dove il tessuto sociale si è sgretolato e non c’è spazio né possibilità di compiere una deviazione, la volontà di cambiare non basta. E così ci sono ragazzi minorenni finiti in carcere per lo spaccio di droga o per altri crimini simili. Vite perdute? Nient’affatto. Perché la rinascita, stavolta, passa da una cucina. È quella del Campus Etoile Academy. Ha 35 anni di storia e da sette ha la sede in Tuscania, in provincia di Vterbo. Qua si formano pasticceri e chef. Ma oltre a chi vuole intraprendere questa strada per passione e al di là dei professionisti alla ricerca di una specializzazione, questa accademia ha accolto (e accoglie) anche giovani ex detenuti. Merito della borsa di studio promossa da "Alveare per il sociale", un’associazione nata dalla società "L’Alveare Produce Cinema". La stessa che, non a caso, ha realizzato per la Rai "Angelo. Una storia vera" (prima serie web di Rai Play sul tema della giustizia minorile e interpretata dai ragazzi della comunità ministeriale di Lecce). Il regista Paolo Bianchini, in quella struttura, ha trascorso più di tre mesi. E di ragazzi ne ha incontrati tanti. Ha ascoltato le loro storie, toccando con mano i contorni sfumati di un’esistenza che in molti casi è priva di futuro. Da qui l’idea di una borsa di studio. Tra i destinatari c’è stato un diciottenne che ha scontato la sua pena proprio a Lecce. Un ragazzo arrestato per spaccio quando di anni ne aveva sedici. n giovane che ha rischiato di morire ammazzato durante l’adolescenza. E che, grazie all’opportunità formativa in accademia, ha scoperto l’amore e la passione per la cucina. Ora quello è il suo mestiere. "Il mondo culinario è un antidoto naturale contro i pregiudizi" spiega convinto lo chef Rossano Boscolo, rettore del Campus. "Offrire una borsa di studio a un ragazzo con un passato difficile significa incoraggiarlo a ripartire dalle proprie passioni, consentendogli di avvicinarsi a testa alta nel mondo del lavoro". Così è stato anche per questo giovane, e così sarà per altri ragazzi come lui. Finito il corso è arrivato il momento dello stage, e dopo lo stage è arrivata la proposta di lavoro. Niente più spaccio, niente più boss e criminalità. Non ci sono ostaggi, non stavolta. La nuova vita di questo diciottenne ricomincia da una cucina e dalla società che, grazie anche a lui, continuerà a preparare catering per matrimonio. Milano: gli avvocati e il garante dei detenuti "grave situazione dell’Ipm "Beccaria" ordineavvocatimilano.it, 28 luglio 2017 Da diversi mesi le segnalazioni sulla situazione dell’Istituto Penale Minorile "Cesare Beccaria" di Milano sono continue e sempre più allarmanti, in relazione sia alle oggettive condizioni strutturali del carcere minorile, sia alle problematiche disciplinari e di salute dei detenuti, e in generale alla situazione igienico-sanitaria. Ciò che preoccupa maggiormente è la ricaduta di tutto ciò sulle condizioni di vita dei ragazzi "ristretti", unita alla sensazione che le difficoltà siano anche legate, in un circolo vizioso, alla effettività dell’attività trattamentale di recupero dei giovani, nei confronti dei quali la funzione costituzionale della pena dovrebbe essere centrale. La manifestazione di protesta indetta per venerdì 28 luglio da diverse sigle sindacali della polizia penitenziaria rappresenta un’ulteriore conferma della gravità della situazione. Da parte nostra ci impegniamo ad alzare ulteriormente la nostra soglia di attenzione verso le problematiche evidenziate, e chiediamo di fare altrettanto a tutte le istituzioni cittadine. Riteniamo sia arrivato il momento di dar vita a un fronte ampio affinché, rispetto alle evidenti criticità, si possano trovare soluzioni durature ed efficaci, improntate a una chiara progettualità di recupero degli adolescenti autori di reato. Nonostante l’impegno profuso dagli operatori tutti, crediamo sia sempre più necessario ed urgente un intervento forte del dipartimento per la Giustizia minorile, a partire dall’immediata apertura del nuovo padiglione dell’Istituto, così da poter segnare una netta discontinuità e una profonda innovazione strutturale e poi funzionale dell’Ipm Beccaria, che consenta di adempiere al meglio al dovere di restituire alla società ragazzi migliori e capaci di non ricadere nella condotta criminale. Garante delle persone private della libertà personale Presidente sottocommissione carcere del Comune di Milano Ordine degli avvocati di Milano Camera penale di Milano "Giandomenico Pisapia" Camera minorile di Milano Bologna: i detenuti firmano per separare le carriere dei magistrati di Maria Manera La Repubblica, 28 luglio 2017 L’iniziativa dei penalisti bolognesi raccoglie il 15% di adesioni alla Dozza. Sono 112 i detenuti del carcere di Dozza che martedì scorso hanno firmato a sostegno della legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere dei magistrati. La raccolta è stata portata aventi in tre diverse aree del carcere, compresa quella femminile. A promuoverla l’iniziativa è stata la Camere Penale di Bologna. Gli avvocati penalisti sostengono che l’obbiettivo era quello di "dare voce a coloro che, pur privati della libertà personale, non devono essere privati della libertà d’opinione e del diritto di esprimersi. Soprattutto poiché i detenuti possono essere considerati i diretti interessati di quest’iniziativa: la decisione sulla necessità di una riforma costituzionale non può non coinvolgere, prime fra tutti, le persone già sottoposte o ancora sottoposte a processo". I penalisti hanno poi voluto sottolineare che "la separazione delle carriere è un obiettivo la cui realizzazione non è più prorogabile, oltre ad essere inscritto nella nostra Costituzione". Il tasso di adesione alla raccolta firme è stato rilevante, arrivando a toccare il 14,5%. Sullo stato dei detenuti, ieri tra l’altro l’associazione Antigone ha diffuso nuovi e sempre allarmanti dati riguardanti il sovraffollamento delle carceri. E al solito la Dozza emerge tra i casi più critici: 276 carcerati in più rispetto alle reali capacità della struttura, per un tasso di sovraffollamento del 155,8%. E un solo educatore ogni 139 detenuti. La campagna di raccolta firme, avviata il 4 maggio scorso e patrocinata dall’Unione delle Camere Penali, terminerà ad ottobre. A settembre i penalisti bolognesi prevedono di riproporre un’iniziativa analoga, sempre presso il carcere di Dozza, ma questa volta rivolta al personale. Negli ultimi mesi firme di cittadini sono state prese in Tribunale, ma anche in vie e piazze del centro: a livello locale è stata superata quota 1.600 firme, mentre oltre 50 mila sono state raccolte su scala nazionale. Verona: il progetto "Carcere e scuola" costretto a emigrare Cronaca di Verona, 28 luglio 2017 Si è chiuso con una coda polemica la lunga annata di "Carcere e scuola", il progetto di educazione alla legalità ideato da Maurizio Ruzzenenti e che in questi anni ha fatto nascere gli incontri tra studenti e detenuti della Casa circondariale di Montorio. "Purtroppo anche quest’anno scolastico", ha detto Ruzzenenti, "è stata impossibile la naturale conclusione del progetto con l’ingresso delle nostre scuole nel carcere di Verona, per l’incontro fra i giovani e la popolazione reclusa. Questo a causa della scelta della direttrice che ha preferito seguire altre modalità, costringendo le scuole che hanno voluto incontrare personalmente i detenuti e impegnarsi in una qualsiasi attività (di solito un incontro sportivo) sono state costrette a emigrare nella casa Circondariale di Vicenza. Lì al contrario, sfruttando una grande disponibilità del direttore e del personale del Carcere di Vicenza e la grande volontà (anche economica, ci sembra doveroso rilevare) di alcuni dirigenti e insegnanti, è stato permesso a ben cinque scuole del veronese la naturale conclusione del progetto con l’ingresso in una struttura carceraria. Nonostante queste difficoltà", ha concluso Ruzzenenti, "noi perseveriamo nella nostra opera e continuiamo a formare i giovani delle scuole perché crediamo fortemente in questo progetto e nelle positive ricadute che ha nella società". Quest’anno si sono tenuti "Corsi di Educazione alla Legalità" (che prevedono un minimo di quattro interventi per complessive 10 ore) nella scuola media "Don Cesare Scala" di Peri; alla "Zanella" di Monteforte; alle "Stimate"; alle elementari "Manzoni" di Verona; all’istituto "Medici" di Legnago; al liceo "Zanella" di Schio; alla scuola media "Montalcini" di Dossobuono e al liceo "Medi" di Villafranca. Tutto questo ha comportato un impegno molto gravoso per l’associazione. "Per la parte formativa", conclude Ruzzenenti, "dobbiamo ringraziare il fattivo apporto di due magistrati, Elvira Vitulli e Gennaro Ottaviano, rappresentanti dell’Anm che hanno coordinato la presenza dei colleghi, a partire dal procuratore capo della Repubblica Angela Barbaglio. Per non parlare dei carabinieri, a partire dal comandante, il colonnello Ettore Bramato. Oltre ai tanti avvocati. A tutte le persone va il nostro ringraziamento e la convinzione che saranno ancora al nostro fianco per una migliore crescita delle giovani generazioni perché è nostra intenzione riproporre a tutte le scuole questo percorso che ha ricevuto unanimi consensi da insegnanti e, soprattutto, dai ragazzi". Palermo: caso Mered, il vero trafficante parla al New Yorker di Silvia Buffa meridionews.it, 28 luglio 2017 "Un giorno, se mi prendono, la verità verrà fuori". Dopo mesi di indagini e documentazioni serrate, in giro tra Palermo, Roma, Svezia e Nord Africa, il giornalista Ben Taub è riuscito a parlare telefonicamente con colui che dice di essere il Generale, l’uomo ricercato dal naufragio del 2013 e che, secondo gli inquirenti, sarebbe detenuto al Pagliarelli da oltre un anno "Un giorno, se mi prendono, la verità verrà fuori". Si chiude così una telefonata durata circa tre ore fra il giornalista del New Yorker Ben Taub e colui che sostiene di essere il vero Medhanie Yehdego Mered, uno dei peggiori boss della tratta di migranti, il Generale, ricercato dalle forze di polizia di mezza Europa dal naufragio del 3 ottobre 2013 avvenuto a largo di Lampedusa, che causò 368 morti accertati. "Questi governi europei - sbotta - hanno una loro tecnologia che è così valida, ma non sanno niente". Per riuscire a ottenere questo contatto telefonico, realizzato grazie all’aiuto di un intreprete, il cronista del New Jersey incontra prima la moglie di Mered, Lidya Tesfu, personaggio chiave dell’intera vicenda, perché è dal suo profilo social che prende forma buona parte dell’impianto su cui si fonda Glauco II: nomi, contatti, messaggi, fotografie. Taub trova il numero e l’indirizzo della donna consultando i documenti in possesso dei magistrati italiani. Si incontrano in una caffetteria in Svezia, dove Lidya vive col suo bambino, il figlio avuto con Mered. Non sa dire dove si trovi suo marito, ma rivela che la chiama una volta al mese. "Segue il caso", dice al reporter. "Continuo a dirgli che dobbiamo fermare tutto questo, "devi contattare gli italiani"", gli racconta ancora la donna. Solo due mesi fa, Lidya Tesfu aveva dichiarato, attraverso MeridioNews e il Guardian, di non riconoscere l’uomo attualmente detenuto al carcere Pagliarelli di Palermo. "Quest’uomo non è mio marito", aveva risposto secca di fronte a una sua fotografia. "Tutto quello che so di Medhanie Tesfamariam Berhe - questa l’identità sostenuta sin dall’inizio dal giovane arrestato a Khartoum il 24 maggio 2016 - è che non è mio marito. L’ho conosciuto solo su Facebook, ma non so nient’altro di lui. Non ci siamo mai visti né conosciuti da nessun’altra parte". Le autorità italiane e inglesi sono arrivate al giovane eritreo attualmente sotto processo insospettiti dal nome Medhanie Meda, il suo contatto Facebook, presente tra gli amici di Lidya: "Questo significa che tutti i miei contatti di nome Medhanie sono mio marito? - aveva risposto lei - È un crimine dire una cosa del genere". Sono i primi giorni di luglio ed ecco che il telefono di Taub squilla. È Mered. Racconta al giornalista i dettagli delle sue attività, i problemi legati ai suoi affari e la sua posizione durante i sette anni precedenti, con alcune prudenti omissioni. "La sua versione dei fatti calza a pennello con quella che ho appreso, riguardo a lui, dai suoi primi clienti, da sua moglie e da quello che era sia presente che curiosamente mancante nei documenti della Corte italiana", scrive il giornalista. Tuttavia, Mered si lascia scappare quasi con una punta di orgoglio alcuni dettagli, mentre ne edulcora altri potenzialmente dannosi per lui, negando il fatto ad esempio di essere mai stato armato. "Mered mi ha detto che nel dicembre 2015 è stato arrestato con un nome diverso per aver usato un passaporto eritreo contraffatto - scrive il reporter - Lui non avrebbe specificato in quale paese si trovava, ma l’intercettazione della chiamata di suo fratello, quella che si riferiva al ritorno in ritardo di Mered da Dubai, suggerisce che lui fosse stato probabilmente catturato negli Emirati Arabi Uniti. Sei mesi più tardi, quando Berhe è stato arrestato a Khartoum, Mered ha appreso della sua presunta estradizione in Italia da alcune voci che circolavano in prigione". Secondo quanto riferito a Taub, Mered riesce a uscire di galera grazie all’aiuto di un fidato collaboratore, che ha fornito alle autorità locali un ulteriore passaporto falso, che ne attesterebbe una fittizia nazionalità ugandese. Uno stratagemma che gli vale il rimpatrio in quella che dovrebbe essere la sua terra d’origine. Luogo dove potrebbe anche essere nascosto ancora oggi. "Il tempo che ha trascorso in prigione spiega perché le intercettazioni italiane sul suo numero sudanese non hanno colto nulla nei mesi che hanno preceduto l’arresto di Berhe - si legge ancora sul New Yorker - E spiega anche perché, quando le autorità italiane hanno chiesto a Facebook di inviargli i dati di accesso di Mered, ci fosse un vuoto corrispondente a quel periodo". "Durante la nostra telefonata - scrive sempre Taub - Mered ha manifestato stupore rispetto a quanto poco abbiano capito gli italiani sulle forze che guidano la sua impresa. Non c’è nessun codice d’onore fra i trafficanti, nessuna gerarchia simile alla mafia da dover fermare. Solo soldi, manovre, rischio e morte". Così avrebbe detto Mered, puntando il dito proprio contro l’idea di partenza delle indagini rivolte al traffico di esseri umani: quella di applicare all’organizzazione criminale che fa partire clandestinamente i migranti alla volta dell’Europa metodi e mezzi impiegati nel contrasto a Cosa nostra. In modo da colpire i boss più potenti per indebolirne a poco a poco gli affari. Tuttavia, però, tolto Mered, i migranti oggi continuano a essere ostaggio di un business che ancora è fiorente e che prosegue inesorabile a mietere vittime invisibili. Migranti. Navi italiane in Libia, via libera all’uso della forza se gli scafisti attaccano di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 28 luglio 2017 Le regole d’ingaggio: solo supporto logistico, saranno i libici a fermare i barconi e a riportare a terra i migranti in centri d’accoglienza. Le regole di ingaggio ancora non sono definite del tutto, ma un punto è estremamente chiaro: a gestire nel concreto le operazioni di controllo dei flussi, a fermare le barche degli scafisti, a riportare sulla terraferma i migranti dovranno essere i libici. Il governo italiano non vuole che l’accordo fra Roma e Tripoli lasci spazi di ambiguità, che potrebbero trascinare il personale della missione in situazioni complicate, facilmente strumentalizzabili. Le motovedette della marina libica dovranno seguire le segnalazioni delle unità italiane, e intervenire direttamente, e il ruolo italiano sarà di "sostegno tecnico logistico". L’accordo tecnico militare dovrà stabilire che la giurisdizione a bordo delle navi resta italiana, ma anche precisare - e questo è il nodo più delicato - che fine faranno i migranti raccolti in mare: si parla di centri di raccolta nella terraferma libica sotto il controllo dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati e della Organizzazione mondiale per le migrazioni. Quest’ultima rientra in Libia dopo un periodo di assenza, mentre per l’Unhcr è un debutto, visto che né il regno di re Idris né la Giamahiria del colonnello Gheddafi hanno mai firmato le convenzioni di Ginevra del 1951 sul diritto di asilo e sul trattamento dei rifugiati. In questi centri di raccolta potrebbero essere avviate le procedure per la richiesta di asilo, ma anche organizzati i rimpatri. A finanziare il tutto ci sono cento milioni di euro resi disponibili da Italia, Francia, Germania e Unione europea. Il governo ha anche suggerito un impegno francese per il controllo della frontiera sud, con il Niger. Le regole di ingaggio dovranno prevedere anche casi particolari, come la necessità di intervenire a difesa della Guardia costiera libica, se questa fosse attaccata con le armi dagli scafisti: in questo caso, i militari italiani potranno usare la forza. La squadra navale dovrebbe essere basata almeno su due o tre unità, per arrivare se necessario fino a sei, fra quelle schierate nell’operazione Mare Sicuro, attiva nel Mediterraneo al di fuori delle acque libiche. La nave anfibia destinata ad accogliere il comando sarà con tutta probabilità la San Marco, affiancata forse da una fregata come la Bergamini e da un pattugliatore come il Cassiopea o da una corvetta come la Danaide. Accanto sarebbero schierati uno o due sottomarini, oltre che mezzi aerei. L’operazione comporterebbe l’impiego di 700 uomini. Il costo stimato si aggira sui nove milioni di euro al mese. Le Forze armate si dichiarano pronte a far partire la missione senza indugi, anche perché basterebbe entrare nelle acque libiche subito dopo il via libera delle Camere. Ma restano due elementi di preoccupazione. Il primo è la frammentazione politica della Libia: l’arrivo delle navi è stato richiesto dal governo di Tripoli, guidato da Fayez al Serraj, ma non è chiaro se ci sia una disponibilità dell’uomo forte dell’Est, Khalifa Haftar. Il generale controlla il cosiddetto Esercito nazionale e gode del sostegno del Parlamento di Tobruk, ma nonostante le strette di mano all’Eliseo sembra poco disponibile a riconoscere legittimità al governo di al Serraj. Il tutto si complica ancora se si valuta che non tutte le tribù e le milizie si riconoscono dei due schieramenti, e che nel sud si stanno ci sono segni di raggruppamento dei jihadisti fedeli allo Stato islamico. E l’ipotesi che qualche fazione sia ostile alla presenza italiana alza i rischi della missione. Secondo elemento è la possibilità di reazione degli scafisti che gestiscono il traffico di esseri umani. In molti casi sono gruppi legati a organizzazioni terroristiche, con forte capacità finanziaria e allo stesso tempo privi di scrupoli: il timore è che possano organizzare incidenti, cioè naufragi preordinati in gran numero, per portare al limite le unità libiche e costringere all’intervento umanitario quelle italiane, con serio pericolo di provocazioni. Migranti. Parigi annuncia: "Hotspot in Libia". Poi l’Eliseo, per ora, fa marcia indietro di Carlo Lania Il Manifesto, 28 luglio 2017 Migranti. Irritazione di Palazzo Chigi. E nel pomeriggio Macron telefona a Gentiloni. La Libia conferma di essere un terreno scivoloso anche per Emmanuel Macron. Messo da parte l’europeismo sbandierato in campagna elettorale, ieri il presidente francese ha prima annunciato e poi smentito l’intenzione di voler aprire "entro l’estate" una serie di hotspot nel paese nordafricano nei quali esaminare le richieste di asilo dei migranti, e di volerlo fare "con o senza l’Europa". Come se non bastasse ha poi aggiunto di essere d’accordo con la Germania per "rafforzare Schengen" nel caso la crisi dei migranti dovesse aggravarsi. Parole quelle sugli hotspot che a palazzo Chigi - dove ancora brucia lo sgarbo per il mancato invito al vertice parigino con il leader libico Fayez al-Serraj e il generale Khalifa Haftar - suonano come l’ennesimo tentativo di scavalcare l’Italia, che invece sulla Libia si muove da mesi in accordo con i partner europei. "Noi abbiamo la nostra agenda, sull’immigrazione e sulla Libia" replica infatti seccamente il premier Gentiloni, che ricorda anche come tra tutti gli Stati europei l’Italia sia quello "più impegnato a promuovere la stabilizzazione" del paese nordafricano". Il ministro degli Esteri Alfano liquida invece le esternazioni del presidente francese come "battute improvvisate". La reazione del governo italiano non deve però essersi limitata alle sole dichiarazioni, per quanto stizzite. Fatto sta che nel pomeriggio Macron telefona a Gentiloni e in serata da Parigi arriva una smentita che però smentisce solo fino a un certo punto: gli hotspot in Libia si faranno, specifica una nota dell’Eliseo, ma solo quando la sicurezza del Paese sarà garantita. Il fatto è che con il suo interventismo ieri il presidente francese ha dato uno schiaffo neanche tanto piccolo sia all’Unione europea che all’Italia, e la successiva marcia indietro non lo rende certo meno doloroso. Prova ne sia il silenzio imbarazzato con cui per tutto il giorno la Commissione europea ha evitato di commentare le sue dichiarazioni. Che non avrebbero potuto essere più esplicite di come sono state. Macron parla durante una visita a un centro rifugiati di Orleans dove annuncia di voler "filtrare" i migranti esaminando le richieste di asilo prima che rischino la vita attraversando il Mediterraneo. "L’idea è di creare degli hotspot in modo da evitare che le persone si assumano folli rischi anche se non sono idonee all’asilo" spiega, aggiungendo che in Libia si trovano "tra gli 800 mila e il milione di migranti in campi e hangar dove le condizione umane sono minime". "Cercheremo di farlo con l’Europa, ma noi, la Francia, lo faremo". Non finisce qui. Macron parla infatti anche della possibilità di rafforzare Schenen in caso di una ripresa consistente dei flussi di migranti, ipotesi sulla quale sarebbe d’accordo anche la Germania. Un’idea che fa tornare alla mente la proposta avanzata due anni fa, quando la rotta dei Balcani era attraversata da un milione di profughi, di dar vita a una mini-Schengen, vale a dire un gruppo di Paesi all’interno dei quali mantenere la libera circolazione con l’eventuale esclusione di quelli, come Italia e Grecia, maggiormente investiti dal problema. Va ricordato che a novembre scade la proroga alla revoca temporanea di del Trattato concessa da Bruxelles alla Francia. A completare il quadro ci sono poi le dichiarazioni rilasciate a Roma dalla ministra francese per gli Affari europei Nathalie Loiseau, che ha ricordato come la Francia sia favorevole a una revisione del Trattato di Dublino, a patto che lasci ai paesi di primo approdo la responsabilità di esaminare le richieste di asilo dei migranti. Proprio quello che invece l’Italia da anni chiede all’Europa di modificare. Intanto la missione delle navi militari in Libia comincia a prendere corpo. Oggi il consiglio dei ministri varerà il provvedimento che prevede l’impiego di quattro o cinque navi, altrettanti aerei, droni, forse un sottomarino e alcune centinaia di uomini. Il comando sarà affidato a un ammiraglio a bordo di una delle nuove fregate Fremm di cui la Marina si è dotata da poco. Al ministero della Difesa si sta lavorando alla definizione delle regole di ingaggio, della catena di comando e della sicurezza dei militari. Ma anche sul tipo di trattamento che subiranno i migranti fermati in acque libiche. Il dispositivo sarà poi presentato martedì al parlamento. Migranti. Schierato l’esercito al tunnel del Fréjus per impedire il passaggio dei profughi di Federico Genta La Stampa, 28 luglio 2017 Tredici chilometri percorsi a piedi col rischio di essere travolti da un treno Una fuga pericolosa e inutile: dall’altra parte ci sono i gendarmi francesi. La traversata dura poco più di tre ore. È buio pesto, ma basta conoscere gli impianti elettrici usati dagli addetti alle manutenzioni e, arrivati alla prima nicchia, si accendono le luci. Si cammina uno dietro l’altro su una fila di piastrelle di cemento larghe non più di due spanne. Tredici chilometri di marcia ed ecco la Francia. Ma le luci di Modane restano un miraggio che dura pochi secondi. Perché chi arriva fino in fondo trova ad aspettarlo la polizia di frontiera. Che lo carica su un pulmino e lo riporta al punto di partenza. Italia, stazione ferroviaria di Bardonecchia. Blindato il confine di Ventimiglia, è qui che arrivano gli ultimi degli ultimi. I profughi che non si possono permettere i passeur, che in cambio di denaro li stipano nei furgoni e tentano la via più veloce dell’autostrada, attraverso il traforo del Frejus. Anche loro dovranno attraversare un tunnel, ma è quello ferroviario da percorrere a piedi. È di fatto impossibile passare inosservati, perché nel tratto francese i sensori rilevano subito la presenza di intrusioni. Il rischio vero è quello di essere investiti, risucchiati dai treni che percorrono la galleria tra i cento e i centodieci chilometri orari. Ecco perché, da ieri, l’ingresso al tunnel è presidiato giorno e notte dall’esercito. Ma c’è di più: questura e prefettura di Torino hanno chiesto ad Rfi di aggiornare anche la tecnologia presente sul versante italiano della galleria. Con sensori termici e soprattutto con un impianto acustico, per avvisare di raggiungere la prima area di sicurezza disponibile e aspettare l’arrivo della polizia ferroviaria. Perché il primo obiettivo non è bloccare i gruppi di disperati, ma salvargli la vita. È storia di pochi giorni fa. Il 20 luglio la corsa di un Tgv diretto in Piemonte è stata bruscamente interrotta a Modane. Dentro al tunnel c’erano quattro ragazzi originari della Guinea. Ai piedi calzavano semplici infradito. Tutto il loro bagaglio consisteva in un sacchetto di plastica, uno spazzolino da denti e un dentifricio. Avevano raggiunto Bardonecchia da Milano. È questa la prima tappa per chi riesce a lasciarsi alle spalle Lampedusa e approdare nel Continente sottraendosi a qualsiasi controllo successivo. Così il capoluogo lombardo diventa lo snodo di un nuovo viaggio. C’è chi punta al Brennero, altri a Ponte Chiasso per guadagnare la Svizzera. Chi sogna la Francia sceglieva Ventimiglia. Ma oggi varcare quel confine è diventato quasi impossibile, anche con l’aiuto di un automobilista compiacente, perché la Gendarmeria controlla tutte le auto in transito. Ecco perché, con il clima favorevole, i migranti tentano la strada delle montagne. Da maggio ad oggi carabinieri e polizia hanno segnalato un arrivo quasi continuo di stranieri. Quattro, sei persone alla volta, tutte provenienti dall’Africa Occidentale. La scelta del tunnel ferroviario del Frejus è un fenomeno diventato emergenza soltanto da luglio. Ancora l’altra sera un uomo, pare magrebino, è stato notato dagli alpini della Taurinense mentre cercava di superare l’ingresso. Ha provato a nascondersi ai soldati restando rasente alla massicciata. Poi è stato visto più a monte, a cercare varchi oltre il posto di blocco. Le voci sui controlli si spostano veloci, di stazione in stazione. I prossimi profughi che arriveranno sanno già che le rotte percorribili tornano essere quelle dei sentieri. La salita lungo il torrente Rochemolles inizia dopo la galleria. Dopo ore di cammino un cartello di divieto sbarra la strada per il colle di Sommeiller: un altro miraggio. Perché la prima cittadina francese, Bramans, è ancora lontana chilometri. Figurarsi d’inverno: nel dicembre 2015 era stata una spedizione di Vigili del fuoco, Finanza e Soccorso alpino a salvare dall’assideramento tre donne iraniane. Avevano seguito il fiume e si erano perse, di notte, in un orrido. "Ormai lo sanno anche loro che bisogna passare da Ovest, sulla strada che una volta usavano i ladri d’auto", dice un vecchio poliziotto seduto al bar di Bardonecchia. "Dieci chilometri e si arriva alla statale che scende a Briançon". Va a fortuna. La salita al Colle della Scala ieri era presidiata dai carabinieri. Passato il confine, c’è un avamposto della Gendarmeria. La terza chance è il colle della Rho, anche questo verso Modane. Il tracciato è conosciuto da almeno quattro anni, quando i militari trovarono i segni di un piccolo accampamento, nascosto tra i boschi. Svizzera. Due italiani morti in carcere, le dinamiche non sono chiare di Silvia Nazzareni thesocialpost.it, 28 luglio 2017 Due ragazzi rispettivamente di 19 e 36 anni sono morti a due settimane di distanza in due differenti carceri svizzere. Nell’ultimo mese, due italiani carcerati in Svizzera sono morti in cella. La dinamica dei fatti e la coincidenza temporale hanno fatto sorgere il dubbio: si tratta di una casualità o è la cartina tornasole di un trend negativo? Paolo Rosamilia, morto di "overdose" - Paolo Rosamilia aveva solo 19 anni ed era andato in Svizzera per trovare sua madre, che da tempo risiedeva in provincia di Zurigo. La famiglia era originaria di Lioni, in provincia di Avellino. Paolo si trovava in carcere da qualche giorno, ed era sospettato di spaccio di stupefacenti. Secondo le prime ipotesi emerse dalle indagini, il giovane sarebbe morto di overdose il 12 luglio, mentre si trovava in cella. Chi ha dato a Paolo Rosamilia la dose di droga che l’ha portato all’overdose, proprio mentre era in carcere? Questa è una domanda che, ancora, non ha una risposta. La seconda morte in cella - A distanza di due settimane dalla morte di Rosalia, un altro italiano è morto in cella: si tratta di un uomo di 36 anni e si trovava in carcere in stato di detenzione preventiva. Era accusato di ripetuta coazione e altri reati. L’uomo pare ia morto strangolandosi da solo, per impiccagione. L’uomo non si trovava a Zurigo, bensì in un carcere di Pfaffikon. Di entrambe le morti è arrivata comunicazione ufficiale attraverso l’ufficio cantonale per l’esecuzione delle pene, che ha aperto le dovute indagini. Presto, si spera, emergerà maggiore chiarezza sulle dinamiche di queste morti. Carceri di lusso? - Queste morti potrebbero aprire un’inchiesta che metta in luce elementi interessanti relativi ai trattamenti riservati ai carcerati nelle carceri svizzere, che spesso vengono descritte come "prigioni a 5 stelle". Fece scalpore qualche mese fa la notizia di un detenuto slovacco che si vide ridurre l’indennizzo per ingiusta carcerazione per via della descrizione positiva fatta della sua quotidianità in carcere, in una lettera. Il detenuto infatti scriveva: "La prigione svizzera è il paradiso, si sta come in un hotel, sono molto ben nutrito, ben trattato e ben curato dai medici". Quanto scritto ha fatto supporre che l’uomo, in carcere, non avesse vissuto alcun disagio, e che quindi non fosse motivato un indennizzo al 100%. I cinesi usano la Digos contro gli Uiguri, la denuncia Radicale di Rocco Schiavone L’Opinione, 28 luglio 2017 Nuovo incidente diplomatico stile Alma Shalabayeva per il Viminale. Stavolta a comandarci è stata la Repubblica popolare cinese. Così mercoledì è stato fermato Dolkun Isa, segretario generale del congresso mondiale degli Uiguri in esilio. Operazione della Digos, circa 20 uomini mobilitati, e ciò mentre Dolkun Isa stava entrando a piazza Capranica, nei locali di Santa Maria in Aquiro, una sede distaccata del Senato della Repubblica. Dolkun Isa quindi non ha potuto partecipare a una conferenza stampa organizzata proprio per far ascoltare le sue parole di accusa contro la repressione che il suo popolo di fede islamica subisce da decenni nella regione cinese del Turkmenistan. Una specie di caso Shalabayeva in sedicesimo con la Cina al posto dell’Azerbaigian a dare ordini alla nostra polizia di Stato. Dolkun Isa, però, non è stato espulso, bensì trattenuto per accertamenti per oltre quattro ore nei locali della polizia politica. Secondo i Radicali transnazionali e Maurizio Turco, che ha seguito la faccenda nei locali della Digos, è chiaro che l’episodio, definito "ridicolo e preoccupante", è stato ispirato dalla crescente aggressività della diplomazia di Pechino. Che solo tre settimane fa, tanto per dirne una, aveva già fatto in modo che il ministero dell’Interno italiano negasse il visto a tre monaci tibetani che dovevano recarsi al loro monastero di Pomaia, in Toscana, per partecipare al Festival del Tibet. Dolkun Isa, oltretutto, è cittadino tedesco dal 2006 e vive in Germania dal 1996. E non ci sarebbe da stupirsi se il suo fermo mettesse in imbarazzo i rapporti diplomatici tra il Viminale e Berlino. Particolarmente duro il commento del senatore Luigi Compagna, uno degli organizzatori della conferenza stampa di denuncia del leader uiguro contro la repressione in Cina, secondo cui il fermo di Isa è stato "un chiaro tentativo di boicottaggio della causa uigura". Compagna ha implicitamente polemizzato con il presidente del Senato, Pietro Grasso, che all’ultimo momento ha spostato l’evento che si doveva tenere nella sala Nassiriya all’interno di Palazzo Madama, luogo dove sarebbe stato ben difficile procedere al fermo da parte di 20 uomini della Digos, alla sala periferica della ex chiesa di Santa Maria in Aquiro, diventata pertinenza del Senato. Posto in cui era sicuramente più facile procedere al fermo senza destare troppo allarme. In Questura è stato l’ex eurodeputato Maurizio Turco a dovere far sentire le ragioni del dissidente uiguro. Il quale, venuto in Italia convinto di poter parlare dei diritti umani violati in Cina ai danni del suo popolo, si è quasi ritrovato in galera. Peraltro, Dolkun Isa dai cinesi è considerato poco meno che un terrorista islamico, mentre in realtà è a capo dell’ala più moderata, non violenta e radicale degli Uiguri. Quelli che sono in esilio. Nella successiva conferenza stampa tenutasi intorno alle 16 di mercoledì pomeriggio dopo il rilascio di Dolkun Isa, quest’ultimo ha parlato di "orribile situazione" vissuta in Questura. Anche se Isa ha dato atto alla polizia italiana di averlo trattato "nicely", cioè gentilmente. E ci mancava pure che gli menassero... Dolkun Isa il giorno prima era stato già controllato al suo arrivo in aeroporto a Roma. Aveva spiegato le ragioni del suo viaggio nella Capitale ed era andato regolarmente in albergo. La sera aveva cenato in una trattoria romana e tutti sapevano che doveva partecipare con i radicali transnazionali a una conferenza stampa che si sarebbe dovuta tenere mercoledì mattina al Senato. Quindi che bisogno c’era di farlo venire a prelevare da venti agenti di polizia davanti all’entrata di una sede periferica del Senato? Il ripetersi di questi episodi, che i radicali ritengono essere ispirati dalle autorità diplomatiche cinesi in Italia, rischiano di nuocere prima di tutto all’immagine italiana a livello internazionale. Non possiamo permettere, hanno detto quasi tutti i rappresentanti del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, che Stati stranieri di certo non particolarmente democratici come la Cina possano disporre in Italia delle nostre autorità di polizia per continuare all’estero la loro attività di persecuzione dei dissidenti. Dolkun Isa è nella lista nera cinese al numero tre degli Uiguri all’estero, ma nella conferenza stampa tenutasi a largo Argentina ha detto di non aver mai posseduto un’arma in vita sua e di aver visto azioni terroristiche solo nei film. Purtroppo, però, questa non è stata la prima volta che il leader uiguro viene arrestato all’estero: gli è già successo in Corea del Sud, in Turchia, in Svizzera davanti alla sede dell’Onu e adesso qui da noi. Tunisia. Esultano le donne, sì alla legge antiviolenza di Valerio Sofia Il Dubbio, 28 luglio 2017 La Tunisia si conferma all’avanguardia nel mondo arabo-islamico nel campo dei diritti, varando una nuova legge contro la violenza sulle donne. Composta da 43 articoli, la legge 60 del 2016 è una legge complessiva che riguarda diversi aspetti, per sradicare ogni forma di violenza basata sulle differenze di genere, al fine di raggiungere la parità e la tutela della dignità umana. L’Assemblea dei rappresentanti del popolo, il parlamento monocamerale tunisino, l’ha approvata all’unanimità, seppure con diversi assenti. Il nuovo testo - che entrerà in vigore sei mesi dopo la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale - introduce il riconoscimento di ogni genere di violenza - fisica, morale e sessuale) e prevede un’assistenza legale e psicologica alle vittime. Tema molto spinoso e significativo è stata la riforma dell’articolo 227 bis del Codice penale, che prevedeva la possibilità per gli stupratori di evitare la prigione se sposavano le loro vittime. In particolare questo valeva per lo stupro di minori, prevedendo l’abbandono del procedimento legale contro il responsabile di atti sessuali "senza violenza" nei confronti di una minore di quindici anni in caso di matrimonio con la vittima. Non un caso astratto, ma una pratica che è capitata in diverse occasioni e che spesso finiva poi col ripudio della giovane da parte del marito stupratore. La rivolta contro questa attenuante era scaturita proprio da un caso recente, quando a dicembre la società civile si era mobilitata contro un tribunale del Kef che aveva autorizzato un uomo a sposare la ragazza di 13 anni che aveva violentato. Ora questo escamotage non esiste più - anche se il violentatore potrà sposare la vittima, essendo comunque punito), e anzi secondo il nuovo articolo 227 bis, chiunque abbia rapporti con una minore di 16 anni senza il suo consenso sarà punito con sei anni di reclusione. L’età del consenso per un rapporto sessuale inoltre è stata innalzata dopo un acceso dibattito e cambiamenti dell’ultima ora da 13 a 16 anni. Altro divieto introdotto, quello di impiegare ragazze minorenni come collaboratrici domestiche, altrimenti si incorre in pene fino a sei mesi di detenzione. L’articolo 16 poi stabilisce che ogni tipo di molestia contro le donne negli spazi pubblici, sia fisica che verbale, sarà punita con tre mesi di carcere e con 550 dinari di multa, l’equivalente di circa 200 euro. Molti politici e commentatori tunisini hanno accolto la legge con favore, definendola una "rivoluzione legislativa", in armonia con la Costituzione e gli accordi internazionali sui diritti umani ratificati dalla Tunisia. L’unanimità è stata infatti ottenuta sottolineando la necessità di superare le differenze politiche e ideologiche al fine di preservare la donna, il bambino, la famiglia e la società tunisina nel suo insieme da tutte le forme di violenza. Diversi attivisti sottolineano che quanto stabilito nella legge non è ancora sufficiente, ma tutti sono consapevoli di quale passo avanti sia rispetto ad altre realtà arabo-islamiche: basti ricordare la carenza di diritti per le donne in Arabia Saudita, dove pochi giorni fa un video di una donna in minigonna in un sito archeologico ha suscitato grande scandalo. Inoltre la Tunisia è già all’avanguardia nel campo dei diritti femminili. Nel 1956 le autorità tunisine hanno introdotto l’abolizione della poligamia e la possibilità di divorziare. La difesa della parità di genere è stata inserita all’articolo 20 della Costituzione approvata nel gennaio del 2014. Ad oggi, inoltre, la Tunisia presenta la più alta percentuale di donne in Parlamento nei Paesi arabi, con il 34 per cento dei seggi. Ciononostante i problemi non mancano. Secondo un recente studio del Centro di Ricerca e Informazione sulle donne, oltre il 50 per cento delle donne tunisine ha affermato di aver subito almeno una volta violenze o molestie in strada, al lavoro, nei trasporti pubblici o altri luoghi di intrattenimento. Sud Sudan. Il corpo del nemico: stupri e altre violenze sessuali di massa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 luglio 2017 Violenze sessuali di massa eseguite con premeditazione, stupri di gruppo, penetrazioni con bastoni e mutilazioni coi coltelli. In uno dei rapporti più sconvolgenti pubblicati nell’ultimo decennio, Amnesty International denuncia che, dalla fine del 2013, migliaia di donne in tutto il Sud Sudan (ma anche non pochi uomini) hanno subito gravi atti di violenza sessuale. Gli autori appartengono a entrambe le parti in conflitto - le forze governative del presidente Salva Kiir di etnia dinka e dell’ex presidente Riek Machar di etnia nuer - e dei gruppi armati loro alleati. In quest’altro post, si trovano informazioni sull’origine del conflitto e la situazione attuale. Gli obiettivi dello stupro di massa sono gli stessi già conseguiti, in tutto o in parte, in altri luoghi di conflitto: terrorizzare, degradare e far vergognare le donne, impedire agli uomini di procreare ulteriormente. Nella maggior parte dei casi descritti nel rapporto di Amnesty International, uomini dinka hanno attaccato donne nuer e uomini nuer hanno attaccato donne dinka. Non sono mancati casi in cui uomini nuer favorevoli al governo hanno stuprato donne della loro stessa etnia sospettandole di parteggiare per l’opposizione, o in cui le forze governative hanno preso di mira donne di etnia diversa dalla nuer. Il rapporto di Amnesty International si basa sui racconti in prima persona di 168 vittime di violenza sessuale, tra cui 16 uomini, in città e villaggi di quattro stati del Sud Sudan - Equatoria centrale, Jonglei, Alto Nilo e Unione - e in tre campi per rifugiati nel nord dell’Uganda. In alcuni casi, gli aggressori hanno ucciso le donne dopo averle stuprate. Una donna che aveva cercato di resistere allo stupro ha subito la mutilazione della vagina con un coltello ed è morta quattro giorni dopo. Non sono stati risparmiati neanche gli uomini. Alcuni sono stati stuprati, altri castrati o torturati con aghi infilati nei testicoli. In un caso particolarmente terrificante, quattro soldati hanno inserito dell’erba nell’ano di un uomo e hanno acceso il fuoco assistendo alla sua morte. Altre terribili testimonianze si trovano nel rapporto o in questa sintesi in italiano. Abbandonate a sé stesse, allontanate dalle famiglie e dalle comunità, le vittime stanno affrontando da sole le gravi conseguenze fisiche e psicologiche della violenza subita, senza nessuno cui chiedere aiuto. Molte vittime hanno raccontato di avere continui incubi, perdita di memoria, difficoltà di concentrazione e desideri di vendetta così come di suicidio: si tratta di tipici sintomi del disturbo post-traumatico da stress. Pakistan. Occhio per occhio, stupro per stupro di Emanuele Giordana Il Manifesto, 28 luglio 2017 Punjab. Una ragazza violentata per vendicare la violenza del fratello su un’altra giovane. La pena decisa dagli anziani del villaggio. Ma lo Stato interviene: 20 arresti. E ora le vittime cominciano a denunciare. Un caso di ordinaria barbarie ai danni di due donne, una delle quali minorenne, stuprate nella provincia pachistana del Punjab, è stato ieri preso in carico dal Chief Justice del Pakistan, la più alta carica del sistema giudiziario del Paese dei puri. Accanto a una delle ricorrenti pessime notizie che accompagnano la violenza contro le donne ce n’è dunque almeno una positiva. Un caso che rischiava di restare confinato in ambito locale è stato assunto motu proprio da Mian Saqib Nisar, costituzionalista non certo noto per essere un progressista ma che ha deciso di andare a fondo in questa terribile storia avvenuta nel cuore del Punjab e che ha appreso dai giornali. Comincia a metà luglio in un campo di fieno della zona di Muzzafarabad, un sobborgo della città di Multan. Una ragazzina di 12-13 anni, che i giornali locali chiamano F, viene violentata da un uomo. Due giorni dopo si riunisce il panchayat, il consiglio degli anziani della zona, che individua il colpevole e stabilisce la pena. Occhio per occhio: il fratello di F si deve vendicare con uno stupro equivalente su N, sorella diciassettenne del colpevole. Pena eseguita e, stando alla stampa locale, addirittura in presenza del primo violentatore e dei suoi parenti. Non è purtroppo una novità e i consigli degli anziani sono spesso accusati di applicare le leggi consuetudinarie in barba alle più elementari norme che regolano il pur modesto apparato difensivo pachistano nei confronti delle donne. Ma questa volta qualcuno non ci sta e viene sporta denuncia dai membri delle due famiglie agli agenti i cui uffici si trovano a Multan, nel Centro contro la violenza sulle donne. Si muove la polizia e scattano le manette: per ora sarebbero già in carcere 20 persone mentre proseguono le ricerche sugli altri componenti del panchayat (una quarantina) e il caso arriva agli uffici giudiziari di Islamabad. I due violentatori sarebbero ancora uccel di bosco. Il panchayat (assemblea) è un sistema antico diffuso nel subcontinente indiano che resiste da secoli. È una delle tante forme di amministrazione del consenso e della giustizia che spesso sfuggono non solo al dettato legislativo nazionale ma persino agli ordini del clero. Ne esistono forme diverse a seconda della tradizione. Nel Nordovest pachistano, abitato da popolazioni afghane, la jirga assume lo stesso ruolo. Qualche mese fa un’assemblea condannò a morte un ragazzo ripreso da un telefonino mentre ballava con delle giovanette. Le ragazze sparirono e non è ancora chiaro se, dopo che il caso aveva interessato la magistratura, quelle che erano riapparse fossero le vittime. Si teme siano state uccise. Ma queste punizioni del codice d’onore non fanno parte solo delle popolazioni afghane della montagna, confinate nelle cosiddette aree tribali e strenue avvocate della tradizione: il Punjab è il cuore del Pakistan moderno e Multan una città di due milioni di abitanti. Un caso famoso (e denunciato) fu quello di Asma Firdous, una donna di 28 anni a cui, nell’aprile del 2011, due uomini tagliarono sei dita, il naso e sfregiarono labbra e braccia. Alla base una disputa col marito, la vendetta si scaricò sulla ragazza. Il rapporto sulla violenza femminile relativo al 2010 della Commissione diritti umani del Pakistan, diceva che almeno 800 donne erano state vittime di "delitto d’onore" e punite con la morte e altre 2.900 erano state violentate, al ritmo di otto al giorno. Il Punjab deteneva il primato. Ancor più noto il caso di Mukhtar Mai, giovane punjabi di Muzaffargarh violentata nel 2002 da 4 uomini per il sospetto di una presunta relazione tra il fratello minore di lei, Shakoor, e una parente. Grazie alla determinazione della ragazza, che non si suicidò per il disonore ma denunciò gli stupratori, si scoprì che l’accusa a Shakoor doveva coprire la violenza subita dal ragazzo stesso da parte di membri del clan. Ne venne fuori un libro (In nome dell’onore), una scuola per ragazze finanziata da Mukhtar Mai e Thumbprint, un’opera teatrale di respiro internazionale. Un altro caso recente è quello di Fouzia Azeem, più nota come Qandeel Baloch, una giovane di 26 anni diventata un idolo in Pakistan per le sue performance video, le interviste scioccanti, il modo di esporre il corpo e le continue provocazioni. Suo fratello Waseem, reo confesso, l’ha prima drogata e poi strangolata nel sonno nella casa dei genitori l’anno scorso sempre a Multan. Lentamente anche in Pakistan le cose cambiano: in termini di dati (mille morti nel 2016) la situazione sembra stabile o peggiore ma ora le donne - anziché uccidersi come vorrebbe la consuetudine - denunciano e la magistratura interviene; si lavora su leggi che evitino la scappatoia del delitto d’onore che, ufficialmente, dovrebbe essere considerato un omicidio tout court. Strada in salita e non solo in Asia: in Italia l’abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore è solo del 1981 e le donne uccise, spesso da mariti, conviventi o ex, sono una ogni tre giorni. Quasi 7 milioni, per l’Istat, le italiane che hanno subito abusi.