Piano del Servizio Sanitario Nazionale per la prevenzione dei suicidi in carcere quotidianosanita.it, 27 luglio 2017 In 10 anni più di 500 detenuti si sono tolti la vita. Aggiornati gli interventi e la metodologia per riuscire a prevenire il più possibile i suicidi nelle carceri italiane. Un obiettivo che vede impegnato sia il Ssn, che dal 2008 ha la responsabilità della sanità carceraria, che l’amministrazione penitenziaria che resta comunque la titolare della funzione. Molte le novità, con l’obiettivo di dotare tutti gli Istituti di pena di quelle misure di monitoraggio e prevenzione del rischio suicidario già definite con le precedenti linee guida. La salute dei detenuti è compito dal 2008 del Ssn. E da quell’anno i suicidi in carcere sono stati oltre 500 (22 solo da inizio anno fino a giungo 2017). Per questo in Conferenza Unificata approda per l’intesa il "Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti" che ha come obiettivo quello di prevenire, appunto, le condotte suicidarie in ambito penitenziario degli adulti ed è finalizzato a realizzare in tutti gli Istituti Penitenziari attività che posseggano le seguenti caratteristiche: - piena condivisione del complesso degli interventi da parte del Servizio sanitario nazionale e dell’Amministrazione della Giustizia; - implementazione di organizzazioni funzionali dedicate a livello centrale, regionale e locale, costantemente integrate nelle professionalità e negli obiettivi; - regolamentazione del monitoraggio degli interventi e degli esiti; - definizione idonea a soddisfare adeguatamente i criteri di riferimento dei diversi attori interessati all’analisi e alla gestione del fenomeno suicidio; - costante definizione e aggiornamento di protocolli operativi e locali; - esclusione di ogni forma di iniziale coinvolgimento dei servizi sanitari specialistici della salute mentale nelle attività per prevenire il rischio di riconduzione errata delle scelte suicidarie nell’ambito di condizioni patologiche psichiatriche. Il Piano nazionale di prevenzione prevede tre livelli organizzativi - centrale, regionale e locale - in cui sono costantemente rappresentate le istituzioni sanitarie e penitenziarie ed è stato elaborato dallo specifico Tavolo sulla sanità penitenziaria presso la Conferenza Unificata. Il Piano prevede l’attivazione, innanzitutto, di una rete di referenti che lo sostenga e in questo senso la prima azione da compiere è formalizzare i vari gruppi, che ai livelli regionali e locali e nella logica precedentemente indicata, si occuperanno dell’implementazione dei programmi. In coerenza con il Piano, le Regioni formulano o rivedono e se adeguano, i protocolli già redatti tra le rispettive parti che dovranno fornire le indicazioni più utili ai livelli locali, prendendo necessariamente in considerazione e prevedendo tutti i punti indicati nelle Linee guida dell’Oms. Metodologicamente sono quattro le aree operative che devono ricomprendere l’opera di tutte le componenti professionali, volontarie e detenute. A ognuna di queste aree è assegnato uno o più dei seguenti compiti: 1. Area dell’attenzione e del sostegno tecnico - clinico. Vi afferiscono tutte quelle figure clinico - professionali che operano quotidianamente e che possono cogliere sintomi e/o richieste di attenzione e di cura nel corso di visite, colloqui, distribuzione di terapie. Tale ambito si compone di medici, infermieri, psicologi che possono, in questi casi, dare corso ad un primo sostegno e alla segnalazione del caso. 2. Area dell’attenzione e del sostegno tecnico. In questo caso ci si riferisce specificatamente alla figura del funzionario giuridico pedagogico che, seppur non dotato di competenza clinica, nell’ ambito delle sue incombenze può individuare situazioni personali di fragilità e difficolta, comunicarla e dare corso ad un primo sostegno. 3. Area dell’attenzione atecnica. È la parte numericamente più consistente della rete. Se tutte le altre figure citate possono venire in contatto con situazioni di rischio nel corso delle loro attività professionali (colloqui, visite, ecc.) quelle che compongono quest’area svolgono un presidio, o comunque hanno una presenza, costante dei settori detentivi e possono, quindi, agire un’attenzione diffusa e capillare. Ci si riferisce al personale di polizia penitenziaria e agli stessi compagni di detenzione. Un’ulteriore rete, sicuramente non di minore importanza, è rappresentata dai volontari penitenziari che possono intercettare casi di fragilità e interfacciarsi sia con i sanitari che con gli operatori penitenziari per segnalare le situazioni di vulnerabilità sociale. È necessario da subito, sgombrare il campo da eventuali equivoci. Trattandosi di figure non dotate di competenze specifiche, non potranno essere assegnati compiti tecnici di natura clinica, e nel caso dei detenuti, il loro impegno non potrà in nessun modo essere considerato sostitutivo dell’attività istituzionale e ancor di più potenzialmente costitutivo di potenziali responsabilità. Ed è da ritenere essenziale la possibilità di sviluppare nel personale, nei volontari e nei detenuti una sensibilità finalizzata a cogliere segnali di disagio e generare soluzioni che limitino la possibilità che i loro portatori rimangano senza una rete di attenzione. 4. Area della decisione. È costituita dal Direttore dell’istituto ma anche da chi, nel particolare momento della decisione, in assenza delle figure apicali, svolge le funzioni di governo quali, ad esempio, il Comandante del reparto o gli Addetti alla c.d. Sorveglianza Generale. A queste figure spettano le decisioni operative in ragione degli elementi di conoscenza che, nell’ immediatezza dei fatti, la rete di attenzione gli sottopone. L’ elaborazione dei Piani regionali e locali di prevenzione costituisce il nucleo centrale del Piano Nazionale di prevenzione. Il livello centrale non può infatti impartire direttive di dettaglio, per la naturale diversità tra le varie realtà locali in termini di strutture, scelte operative, contesto, risorse e opportunità a disposizione. Ed è possibile indirizzare l’operato di tutte le realtà fornendo loro conoscenze, spunti di riflessione, indicazioni e direttive che aiutino l’elaborazione regionale e locale attraverso la declinazione delle prime con riferimento alle dovute differenziazioni già dette. È questo il senso del presente Piano che si ispira alle indicazioni elaborate dall’Oms e ad alcuni specifici studi condotti in Italia. Sulla base di questi ultimi, i livelli regionali e locali elaboreranno i propri Piani ricercando, rispettivamente, gli accordi generali e le soluzioni localmente praticabili. L’approccio più opportuno fa riferimento alla necessita di coinvolgere tutti gli attori del sistema penitenziario e sanitario, compresa la componente detenuta, per attivare una rete di attenzione più possibile estesa e capillare, che consenta di rilevare eventuali segnali di disagio e sofferenza emotiva, in correlazione con un rischio suicidario. Colte queste necessità, si tratterà di prevedere le modalità con le quali segnalarle a quelle componenti specialistiche che possono adeguatamente predisporre gli interventi più opportuni. È fondamentale, quindi, promuovere il modello di lavoro interdisciplinare tra le diverse aree di intervento, penitenziario e sanitario, per intercettare e trattare in modo coordinato, celere, adeguato e continuo, le criticità dei detenuti. Suicidi in carcere: è strage. Clamorosa iniziativa del Garante di Valter Vecellio L’Indro, 27 luglio 2017 La media è di un morto a settimana. Si sta parlando dei suicidi "ufficiali" nelle carceri italiane. Dall’inizio anno, in 29 hanno scelto di "evadere" in questo modo. Un dato preoccupante (e in crescita), che spinge il Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma, ad avviare un’azione che non ha precedenti: intervenire come parte offesa nelle indagini relative a tutti i casi di suicidio, a cominciare dall’anno in corso. "Pur considerando la difficoltà di ricondurre eventi del genere a un’unica matrice e di fermarli completamente", chiarisce Palma, "ritengo che la situazione meriti tutti gli approfondimenti necessari per perfezionare il sistema di prevenzione elaborato dal ministero della Giustizia con la Direttiva del 3 maggio 2016. Per questo, come titolare della tutela dei diritti delle persone detenute e, di conseguenza, di persona danneggiata dalle violazioni dei diritti protetti, interverrò come parte offesa nelle indagini relative a tutti i casi di suicidio, a cominciare dall’anno in corso, per fornire il mio eventuale contributo di conoscenza e per seguire gli accertamenti che saranno condotti. Nei prossimi giorni invierò le relative richieste di informazioni sullo stato dei procedimenti alle diverse Procure della Repubblica competenti per i vari casi". Un provvedimento, come si è detto, che non ha precedenti. Servirà? Palma non dubita che le procure che indagano sui suicidi facciano con scrupolo il loro lavoro. Tantomeno, assicura, "ho alcuna velleità di mettere in dubbio le varie ricostruzioni. I suicidi sono situazioni molto spesso imperscrutabili. Ma c’è un problema: quello di averne avuti solo quest’anno 27 in carcere e 1 in una Rems e sono numeri che fanno pensare. Tanto più che lo scorso anno il ministro stesso aveva emanato una direttiva sulla prevenzione ponendo l’attenzione su molti elementi: per esempio sui trasferimenti "passivi", cioè non richiesti dalla persona, sull’accoglienza o sul momento del rilascio. Chi ha il compito, come il Garante nazionale, di tutelare i diritti, ha anche il compito e il dovere di guardare come sono avvenute le cose e aiutare le procure. Anche per contribuire a togliere un po’ i sospetti che vengono rimbalzati, come leggo spesso sui social. Insomma, una figura di garanzia che tiene sott’occhio la questione secondo me è di aiuto ed è un segnale della gravità del problema". Altro doloroso capitolo quello dei cittadini incarcerati e dopo un lungo, lunghissimo, penare, assolti con formula piena, e in via definitiva. Quanti sono ogni anno? Più o meno 90mila. Facciamo che ogni anno una media città italiana sia assolta da reati che evaporano come neve al sole, ma dopo lunga, preventiva, carcerazione: tante scuse: il reato non sussiste. Si tratta del 38 per cento delle sentenze. L’Istat calcola che ogni dieci condanne, in media arrivano quasi quattro assoluzioni piene. A questa contabilità vanno poi aggiunti le migliaia di imputati assolti perché il fatto non costituisce reato, o perché non è previsto dalla legge come reato (accade anche questo); infine le circa 140 mila prescrizioni. Qualche riflessione, infine, su Leonardo Sciascia. I lettori del settimanale "L’Espresso" in edicola questa settimana si possono imbattere in un corposo fascicolo dedicato alla cosiddetta vicenda di Mafia capitale. Non è qui in questa rubrica che si vuole discutere di una sentenza di cui comunque è bene conoscere le motivazioni. Qui ci si limita a qualche considerazione a margine dell’editoriale del direttore Tommaso Cerno. Il titolo già dice molto: "Cari giudici, è l’ora di rileggere Sciascia". C’è poi un brano, tratto da "Il giorno della civetta". Cerno tra l’altro scrive: "Diciamo che qualcuno dovrebbe rileggersi Sciascia. Se si ricorda chi sia. Denunciava già nel 1961 questa tendenza italica, quella di non sapere o volere adattare alla modernità la criminalità organizzata che cambia metodi e modi con maggiore velocità rispetto al codice penale". Poi si ricorda la sintetica come già nel 1957 Sciascia definì sinteticamente la mafia: "Associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi di violenza". È vero che il fine della mafia è quello sopra detto; non è però vero che tutti coloro che coltivano questo fine debbano essere necessariamente mafiosi. Ma non è neppure questo che si vuole qui discutere. È il suggerimento a rileggere Sciascia, e segnatamente "Il giorno della civetta"; è lettura preziosa non tanto per quello che dice Cerno, quanto per il fatto che già nel 1960 indica come davvero lottare la mafia e le mafie: con il diritto, con il rispetto della legge; senza cedere alla tentazione di usare metodi alla Cesare Mori; e soprattutto seguendo la pista e le tracce che lascia il denaro. La lezione, se così si può dire, del "Giorno della civetta" è questa; e fa piacere che Cerno e "L’Espresso" invitino a leggere questo grande romanzo di questo grande autore. Perché da ambienti vicini a "L’Espresso" non troppo tempo fa, ben altra valutazione è venuta, a proposito di Sciascia e del suo romanzo. Impareggiabile, per esempio, il sociologo Pino Arlacchi per il quale Sciascia non lo si può considerare un maestro: gravissimi i suoi silenzi, mentre altri sfidavano le cosche. Quanto a "Il giorno della civetta" fa l’apologia di Cosa Nostra. Testuale: "Una storia ben narrata… della sconfitta della giustizia dello Stato e dei suoi rappresentanti di fronte a un delitto di mafia". Il figlio del generale Dalla Chiesa, Nando dice: "Ci ho pensato a lungo, e sono giunto alla conclusione che "Il giorno della civetta" di Leonardo Sciascia è uno splendido libro sulla mafia, una fotografia perfetta, ma non uno strumento di lotta contro la mafia". Il filosofo Manlio Sgalambro definisce Sciascia "uno scrittore civile, un maestro di scuola che voleva insegnarci le buone maniere sociali. Ma rivisitarlo oggi è come rileggere Silvio Pellico. La sua funzione è esaurita, Sciascia non ci serve più". Andrea Camilleri sostiene che Sciascia, coi suoi libri, ha reso "la mafia simpatica. A teatro gli spettatori applaudivano, quando nel Giorno della civetta don Mariano distingue tra "uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo e quaquaraquà". Leonardo mi chiedeva: ma perché applaudono? "Perché hai sbagliato", gli rispondevo. Altre volte rendeva la mafia affascinante. "Lei è un uomo", fa dire a don Mariano. Ma la mafia non ti elogia, la mafia ti uccide; per questo di mafia ho scritto pochissimo, perché non voglio darle nobiltà". Fermiamoci qui, anche se tanti altri esempi si potrebbero fare. "L’Espresso", ora, rivaluta Sciascia e "Il giorno della civetta". Chissà: tra un po’ troveranno del buono anche in quel famoso articolo intitolato "I professionisti dell’antimafia" da tanti vituperato e che procurò a Sciascia accuse, sospetti e insulti a non finire. Carcere, lavoro da reinventare. Ecco le proposte per chi si impegna nel sociale di Teresa Valiani Redattore Sociale, 27 luglio 2017 Gli esperti delle commissioni ministeriali per la delega penitenziaria studiano la formula per rilanciare "uno degli elementi principali del trattamento". Intervista a Pasquale Bronzo: senza lavoro o formazione difficilmente ci può essere vera rieducazione. "Incremento delle opportunità di lavoro, sia dentro che fuori dal carcere, e delle attività di volontariato individuale e di reinserimento sociale, anche attraverso il potenziamento del ricorso al lavoro domestico e a quello con committenza esterna, aggiornando quanto il detenuto deve a titolo di mantenimento". Lavoro in evidenza per gli esperti chiamati dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, nelle commissioni impegnate a formulare proposte per la riforma dell’ordinamento penitenziario e del sistema delle misure di sicurezza. Ma cosa prevede al momento la legge e come si vorrebbe intervenire per modificarla? Lo spiega a Redattore Sociale Pasquale Bronzo, ricercatore di Procedura penale alla Sapienza di Roma, docente di Diritto penitenziario, componente del comitato scientifico della commissione Giostra, che all’interno del volume "Proposte per l’attuazione della delega penitenziaria" ha approfondito il tema specifico. Professore, che cosa prevede al momento l’ordinamento penitenziario sul tema lavoro? Una volta il lavoro penitenziario era un modo per rendere più dura la carcerazione, oggi, al contrario, è tra gli elementi centrali del trattamento penitenziario, e dunque uno strumento di riscatto personale: l’impegno lavorativo, oggi sempre volontario, insieme all’istruzione e alla formazione professionale, aiutano ad acquisire competenze a chi spesso non ha istruzione, né formazione, né ha mai lavorato, preparano al ritorno del detenuto nella società libera, danno "senso" al "tempo" del carcere. Eppure questa centralità del lavoro nella legge è tradita nella realtà, per la cronica ed endemica mancanza di offerta lavorativa. Questo dipende da tante cose ma soprattutto, da una parte, dall’obiettiva difficoltà di creare e gestire questo tipo di offerta trattamentale, che richiede investimenti finanziari ingenti e abilità lontane da quelle tradizionalmente connesse alla mission dell’amministrazione penitenziaria. E, dall’altra, dalla particolarità della popolazione carceraria, piena di problemi e di varie specie di "fragilità". Cosa cambierebbe con le modifiche proposte? La delega parla di "incremento delle opportunità di lavoro retribuito" e delle "attività di volontariato individuale e di reinserimento sociale": sono indicazioni di scopo, i mezzi sono tutti da studiare. Per un verso, bisognerebbe creare nell’amministrazione penitenziaria, o fuori da essa, strutture specializzate e dedicate che sappiano anche fare incontrare domanda ed offerta, offerta e attitudini personali. Per altro verso, occorre pensare anche ad occupazioni che non configurino lavoro in senso giuridico, ma che siano in grado di migliorare la persona, e premiarla, anche senza assicurargli un compenso in senso tradizionale. Come si potrebbe risolvere secondo lei la cronica carenza di lavoro in carcere? Il lavoro intramurario, che è quello meno problematico rispetto alle esigenze di sicurezza e di custodia dei reclusi, deve essere reinventato. Del resto, il continuo disinvestimento nelle finanziarie degli ultimi anni rispetto al lavoro penitenziario (anche agli sgravi contributivi della legge Smuraglia) non danno scelta. Si dovrebbe pensare a lavorazioni senza costi retribuitivi ma solo contributivi ed assicurativi, i cui proventi siano devoluti a scopi sociali, ad esempio ad alimentare fondi di solidarietà per le vittime di reato, che anche l’Europa negli ultimi anni ci chiede di creare. Perché il lavoro di pubblica utilità, introdotto da anni nel nostro ordinamento, stenta a decollare? Credo perché il lavoro di pubblica utilità, ad oggi, è quasi soltanto una sanzione che sostituisce la pena tradizionale, prevista per reati di poco conto e scarsamente utilizzata perché i procedimenti per questo tipo di reati spesso non arrivano neppure alla decisione definitiva. Concepito invece come modalità di trattamento carcerario da assicurare a tutti quelli che sono condannati ad una pena detentiva, il discorso cambia. Quali sono, a suo parere, le resistenze maggiori che queste proposte di modifica potrebbero incontrare? E perché? In passato, in altri Paesi, alcuni istituti di lavoro penitenziario non retribuito hanno caratterizzato regimi autoritari, oppure sono stati applicati male e perciò sono stati abbandonati. Questo ha creato una cattiva fama. Però è possibile costruire figure che siano in armonia coi principi generali del sistema. Poi, è chiaro che comunque istituti giuridici così delicati vanno ben amministrati, innanzi tutto. Questo tipo di lavoro potrebbe essere incentivato anche con sconti di pena, ulteriori a quelli già previsti dalla liberazione anticipata speciale: impegnarsi nel lavoro ha un altissimo valore, in termini di progressione trattamentale, e impegnarsi in lavori socialmente utili lo è ancor di più. Troverei giustificato desumerne un diminuito bisogno di carcerazione: "l’adesione al trattamento", che già oggi, e da tradizione, giustifica l’anticipazione del fine pena nella liberazione anticipata, in questo caso si presenterebbe come una adesione particolarmente qualificata e dunque potrebbe giustificare, a mio parere, una decurtazione ulteriore. Quanto inciderebbero le modifiche sulla qualità della vita dei detenuti, sulla loro formazione professionale e sul trattamento penitenziario? Senza lavoro o formazione difficilmente ci può essere vera rieducazione. Unione ciechi e Governo insieme nella rieducazione dei detenuti forumterzosettore.it, 27 luglio 2017 Il Presidente dell’Unione Italiana ciechi e ipovedenti Mario Barbuto e il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, alla presenza del sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, hanno siglato il 26 luglio un Protocollo d’intesa per promuovere la stipula di convenzioni che prevedano lo svolgimento di lavori di pubblica utilità da parte di imputati maggiorenni, ai fini della loro messa alla prova. Lavoro di pubblica utilità, cioè una prestazione non retribuita, in favore della collettività, non inferiore ai dieci giorni anche non continuativi, che deve tener conto delle specifiche professionalità e attitudini di coloro che avranno questa opportunità e può svolgersi presso lo Stato, le Regioni, le Province o altri Enti locali, aziende sanitarie, organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria o di volontariato. Risarcire la società per il danno subito e la consapevolezza dell’imputato circa le responsabilità derivante dalla sua condotta, sono le finalità che l’Accordo persegue. Gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna favoriranno i contatti tra i Tribunali ordinari e le sedi periferiche dell’Uici, che a loro volta valuteranno la rispondenza del richiedente alle loro specifiche esigenze, avendo preventivamente individuato il numero massimo di posti disponibili nella propria sede e il tipo di attività da svolgere; il referente nominato fornirà informazioni sull’andamento complessivo del compito assegnato. Il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, attraverso le proprie sedi territoriali, fornirà i chiarimenti necessari e favorirà i contatti tra le sedi dell’Uici e i Tribunali competenti, prestando supporto ai fini della stipula delle convenzioni. La durata è annuale, con rinnovo tacito salvo comunicazione di disdetta e nessun onere economico grava sulle parti. "Il protocollo siglato questa mattina tra l’Uici e il Ministero di Giustizia è motivo di grande orgoglio per l’Unione, che diventa parte attiva nel processo di rieducazione e reinserimento sociale dei soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria", dichiara Mario Barbuto, Presidente Nazionale Uici. "Il tema dell’integrazione e dell’inclusione di tutti i cittadini ciechi e ipovedenti nella società civile ci sta particolarmente a cuore; anzi, è l’elemento fondante del nostro lavoro. Così come la comunità ha il dovere di garantire alle persone con disabilità visiva di poter condurre una vita sociale a qualsiasi livello, è necessario promuovere anche il coinvolgimento dei cittadini in azioni di sostegno agli autori di reato, previste dal nostro ordinamento. Come presidente Uici sono lieto di poter dare l’avvio a questa attività che favorisce sia il risarcimento alla società del danno procurato da parte del reo, ma anche il suo processo di rieducazione, attitudine essenziale di una società civile". "La nostra istituzione - ha aggiunto il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore - deve essere aperta ai contributi di chi nella società civile costruisce un raccordo con parti vitali della nostra società". Il ministro Orlando, nel ringraziare l’Unione italiana ciechi e ipovedenti, ha sottolineato come "questo protocollo sia una importante occasione di collaborazione tra una grande Onlus, che svolge una funzione rilevante per il Paese, e lo Stato. Con la firma di oggi si afferma il principio secondo il quale l’esecuzione della pena non deve solo essere un momento di riabilitazione, ma anche un modo per restituire alla società ciò che le è stato tolto con la violazione della legge. L’idea che chi ha sbagliato possa aiutare chi si trova in difficoltà rappresenta un messaggio di grande forza. Purtroppo, viviamo in una fase storica in cui si crede sempre meno in questa possibilità, convinti che ognuno debba affrontare le proprie difficoltà in modo frammentato e che la condanna sia uno stigma che non può essere cancellato. Con questo protocollo, possiamo affrontare con successo la sfida verso questi due atteggiamenti culturali che purtroppo si sono radicati e si diffondono". Giustizia: imputati al lavoro nelle sedi dell’Unione Italiana Ciechi di Teresa Valiani Redattore Sociale, 27 luglio 2017 Siglato ieri mattina il protocollo tra il ministero di via Arenula e l’Uici per promuovere lo svolgimento dei lavori di pubblica utilità da parte di persone in messa alla prova. Lucia Castellano: "Il contatto con le fasce più deboli ha una doppia valenza. Ora bisogna diffondere l’offerta su tutto il territorio nazionale". Imputati impegnati con i lavori di pubblica utilità nelle sedi dell’Unione italiana ciechi e ipovedenti (Uici), per risarcire la comunità del danno causato dalla propria condotta e come forma di prevenzione della recidiva. È stato firmato questa mattina dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e dal Presidente nazionale Uici, Mario Barbuto, alla presenza del sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, il protocollo d’intesa "che promuove la stipula di convenzioni per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità da parte di imputati maggiorenni ai fini della loro messa alla prova". Con il documento, sottoscritto nella sede di via Arenula, il Ministero, attraverso il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, e l’Unione italiana ciechi e ipovedenti si impegnano a promuovere convenzioni per "rendere effettiva la funzione riparativa prevista nella messa alla prova" e "favorire nell’imputato la consapevolezza delle responsabilità conseguenti alla propria condotta e l’assunzione di comportamenti orientati a una corretta partecipazione alla vita sociale, come forma di prevenzione della recidiva e di garanzia della sicurezza sociale". Sono circa 9 mila le persone che in Italia stanno usufruendo della messa alla prova, mentre altre 13 mila ne hanno fatto richiesta e stanno aspettando il lavoro che offra loro una possibilità. Tra i compiti della direzione generale per l’esecuzione penale esterna del Dipartimento, proprio la creazione di una fitta rete di contatti e collaborazioni per diffondere su tutto il territorio nazionale le misure alternative al carcere. "Con la firma di oggi - ha spiegato il ministro Andrea Orlando - si afferma il principio secondo il quale l’esecuzione della pena non deve solo essere un momento di riabilitazione, ma anche un modo per restituire alla società ciò che le è stato tolto con la violazione della legge. L’idea che chi ha sbagliato possa aiutare chi si trova in difficoltà rappresenta un messaggio di grande forza. Purtroppo, viviamo in una fase storica in cui si crede sempre meno in questa possibilità, convinti che ognuno debba affrontare le proprie difficoltà in modo frammentato e che la condanna sia uno stigma che non può essere cancellato". "Colpiscono - commenta Lucia Castellano, dirigente generale per l’Esecuzione penale esterna del Dgmc - le parole del Ministro sulla contaminazione tra le persone disabili e chi ha commesso un reato. In questo senso la parte risarcitoria del patto sociale è enfatizzata perché non solo si va a ricucire, come per tutti i lavori di pubblica utilità, ma lo si fa con fasce deboli della popolazione, con persone che hanno problemi e disabilità e, per questo, l’azione ha una doppia valenza. Da pare nostra c’è tutto l’impegno a far sì che il protocollo si diffonda sull’intero territorio e non resti sulla carta. La mia direzione generale monitorerà il concretizzarsi di queste ottime misure, con l’auspicio che possano coinvolgere anche altri settori. Il nostro compito è proprio quello di gettare un seme che poi dia i suoi frutti nelle articolazioni territoriali. Non è l’unico protocollo perché ne abbiamo già stipulato, ad esempio, uno con Libera per la messa alla prova, e ne stipuleremo altri. Ma il fatto che abbiamo iniziato da qui, è un valore aggiunto. Il nostro intendimento è impiantare convenzioni a livello centrale per poi, a cascata, andare sul locale, con un obiettivo molto concreto: rendere omogenea questa misura sul territorio nazionale. È del tutto evidente che ci sono realtà dove è più applicata e realtà dove è quasi assente. Per questo la nostra azione da Roma vuole essere pervasiva su tutto il territorio nazionale". In base al protocollo, gli uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) favoriranno i contatti tra le sedi territoriali dell’Uici e i Tribunali ordinari competenti. "La struttura dell’Unione presso cui si svolgerà il lavoro di pubblica utilità, valutata la validità dell’apporto dell’imputato alle attività svolte dall’associazione, rilascerà la dichiarazione di disponibilità, revocabile in presenza di situazioni di inadeguatezza allo svolgimento dell’incarico". L’Uici, tramite le proprie Sezioni territoriali, "si impegna a individuare il numero massimo di posti disponibili presso le sedi, specificare le mansioni cui potranno essere adibite le persone che presteranno lavoro di pubblica utilità e a indicare i nominativi dei referenti, incaricati di coordinare la prestazione lavorativa degli imputati, di impartire le relative istruzioni e rapportarsi con l’Ufficio Epe per rappresentare l’andamento della prova, anche al fine di segnalare eventuali inosservanze degli obblighi". Mentre il Dipartimento, tramite gli Uepe, si impegna a "fornire le informazioni necessarie alla piena comprensione delle modalità di esecuzione dell’istituto della messa alla prova per gli adulti e dello svolgimento del lavoro di pubblica utilità presso le sedi indicate. E a supportare le Sezioni territoriali, individuando un funzionario dell’ufficio che interagisca per assicurare il buon andamento della prova". "Questo protocollo è motivo di grande orgoglio per l’Unione, che diventa parte attiva nel processo di rieducazione e reinserimento sociale dei soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria - ha detto Mario Barbuto, presidente nazionale Uici -. Il tema dell’integrazione e dell’inclusione di tutti i cittadini ciechi e ipovedenti nella società civile ci sta particolarmente a cuore; anzi, è l’elemento fondante del nostro lavoro. Così come la comunità ha il dovere di garantire alle persone con disabilità visiva di poter condurre una vita sociale a qualsiasi livello, è necessario promuovere anche il coinvolgimento dei cittadini in azioni di sostegno agli autori di reato. Sono lieto di poter dare l’avvio a questa attività che favorisce sia il risarcimento alla società del danno procurato da parte del reo, ma anche il suo processo di rieducazione, attitudine essenziale di una società civile". I nuovi giustizialisti di Giuseppe Sottile Il Foglio, 27 luglio 2017 Pretendono giustizia, ma quando la giustizia arriva bastonano i giudici che la pensano diversamente Saltellano da un convegno all’altro, non perdono né un dibattito né un confronto, girano senza sosta per le redazioni dei giornali e non c’è intervista o talk-show in cui non affermino che questa malandata Italia ha solo bisogno di verità e giustizia. Ma poi, quando la giustizia finalmente arriva, eccoli lì a sputacchiare sulle sentenze, a denigrare giudici e collegi giudicanti, a mettere in dubbio la legittimità di ogni verdetto che sia maledettamente difforme dalle loro aspettative. Sono i giustizialisti di nuovo conio, quelli che non smettono di bacchettare la politica in nome degli interessi superiori della giustizia ma che puntualmente bastonano ogni tribunale o corte di appello che, dopo avere attentamente esaminato prove e testimonianze, arrivi a conclusioni diverse da quelle ipotizzate dalle procure o, peggio ancora, da quel vivacissimo circo mediatico che le procure ormai si portano costantemente dietro. Prendiamo quello che è successo con Mafia Capitale, la maxi inchiesta approntata dai pubblici ministeri di Roma per colpire e affossare le cosche che, secondo la loro tesi, ammorbavano la vita politica e amministrativa del Campidoglio. Un’inchiesta mastodontica e non solo per il numero di imputati che ha trascinato davanti a un tribunale, ma anche per le attese, le solidarietà e le mobilitazioni politiche che un’accusa così pesante ha finito per raggrumare attorno ai magistrati: si sono spesi scrittori e giornalisti, non sono mancate le fiction televisive né le suburre né i romanzi criminali. Ma quando è arrivata la sentenza che pure ha sparso a piene mani condanne per corruzione ma ha categoricamente escluso l’aggravante mafiosa, i giustizialisti di pronta indignazione sono esplosi in coro dicendo che i giudici del tribunale non hanno capito un bel niente perché a Roma la mafia, quella mafia che i pm hanno descritto così bene, c’è, e chi non la vede o è cieco o è in cattiva fede. Sono insorti i fedelissimi di Beppe Grillo; è intervenuto Roberto Saviano, sommo scrittore di camorra; hanno puntualizzato le proprie idee editorialisti e opinionisti; ha detto la sua il procuratore capo Giuseppe Pignatone e pure il capo della polizia Franco Gabrielli: tutti lì a lamentarsi perché la mafia che doveva esserci non c’è stata; tutti a strapparsi le vesti perché Roma, pur così piena di corruttori e lazzaroni, di cravattari e speculatori, non ha un boss stragista al pari di Totò Riina né picciotti sanguinari alla stregua di Giovanni Brusca - quello che azionò il telecomando per massacrare sull’autostrada di Capaci il giudice Giovanni Falcone - o di quegli altri corleonesi che per bloccare le rivelazioni di un pentito non hanno avuto scrupoli a sciogliere il figlio di 12 anni nell’acido muriatico. Tutto si poteva immaginare, nell’Italia dei zibaldoni e dei ribaltoni, tranne che i giustizialisti manifestassero - lo annota oggi su Panorama il direttore Giorgio Mulè - "una malsana voglia di mafia". Ma tant’è. Questo non significa, ovviamente, che le sentenze non si possano o non si debbano criticare; ci mancherebbe altro. Ma la giustizia, così tanto invocata dai giustizialisti, è fatta di sentenze; e le sentenze sono scritte da giudici autonomi e indipendenti sulla base delle prove che gli uffici dell’accusa sono riusciti a produrre e comunque dopo un ampio e approfondito confronto in aula tra accusa e difesa. Se si afferma il principio che le sentenze emesse in nome del popolo italiano possano essere invece il frutto di chissà quali manovre o di chissà quali superficialità, allora bisognerà mettere nel conto che siamo di fronte al crollo di una istituzione. È questo il risultato finale a cui mira la ridotta giustizialista che in questi giorni tiene banco su certi giornali e nelle stanze più estreme di poche ma bene individuate procure? A fianco di una intellighenzia che mostra insofferenza verso un tribunale che, valutati i fatti e i riscontri, decide di ridurre Mafia Capitale a una sorta di Mazzetta Capitale c’è poi un particolare filone del giustizialismo che, pur di affermare le ragioni di una propria campagna politica, non esita a demolire persino la legittimità della Cassazione, quella che in gergo giudiziario si ama definire la Suprema Corte, cioè la punta più alta dell’equilibrio e della sapienza giuridica. È successo, tanto per restare alla cronaca delle ultime ore, che i supremi giudici di piazza Cavour hanno fatto serenamente a pezzi l’inchiesta avviata dal pm napoletano John Woodcock sulla presunta corruzione alla Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione. E l’hanno fatto con motivazioni pesanti, pesantissime: sostenendo che ci sono state non poche forzature nelle intercettazioni e che alla base dell’indagine c’era più fumo che arrosto. In un paese ordinato, e che abbia soprattutto rispetto per l’ordinamento giudiziario, un pronunciamento così severo da parte della Suprema Corte avrebbe dovuto sollevare un giudizio altrettanto severo sul pm titolare dell’inchiesta. Invece i giustizialisti da combattimento, forse perché mossi dal proprio interesse politico, hanno preferito sporcare con una coltre di sospetto l’autorevolezza della Cassazione. Avete letto il titolo del Fatto quotidiano? "Gara di solidarietà. Csm, procuratore e Cassazione: tutti in soccorso di papà Tiziano". Dove il Tiziano è notoriamente il padre dell’ex premier Matteo Renzi, oggi segretario del Pd. Ma se un tribunale non vede la mafia che c’è; e la Suprema Corte svende il proprio prestigio per soccorrere il padre di un potente, quale fiducia potranno ancora avere nella giustizia i cittadini italiani? Se mai ne fosse rimasta un po’ di quella fiducia, la ridotta del giustizialismo non manca occasione per annientarla. Sulla riforma "epocale" della giustizia penale e dell’Ordinamento penitenziario di Raffaele Crisileo (Avvocato) Ristretti Orizzonti, 27 luglio 2017 Dopo tante e tante astensioni di noi penalisti, perché non condiviso in alcuni punti, il progetto di legge "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario" è oramai legge dello Stato Italiano. Il testo modifica le disposizioni che riguardano le indagini preliminari, l’archiviazione e l’udienza preliminare ritoccando i tempi delle diverse fasi, le garanzie della persona offesa dal reato e, al contempo prevede che, allo scadere del termine massimo di durata delle indagini preliminari, il pm ha tre mesi di tempo (12 per i reati più gravi), prorogabili una sola volta, per decidere se chiedere o meno al Giudice per le indagini preliminari l’archiviazione oppure se esercitare o no l’azione penale. Viceversa scatterà l’avocazione dell’indagine del procuratore generale presso la Corte d’appello. Innovazione importante riguarda le persone offese dal reato che potranno chiedere informazioni sullo stato del procedimento dopo sei mesi dal deposito della denuncia. E non solo! Esse avranno a disposizione (e ciò è estremamente positivo) un tempo più lungo per opporsi alla richiesta di archiviazione (il termine degli attuali dieci giorni non era assolutamente sufficiente). Ma la riforma è epocale e va ad incidere anche sulle impugnazioni penali e sui riti speciali, tra cui l’abbreviato ed il patteggiamento. Infine legge delega il Governo ad intervenire sulle intercettazioni, per trovare un equilibrio tra l’informazione e la riservatezza (le intercettazioni come investigazioni restano intatte); ad intervenire sul casellario giudiziale, per ridurre gli adempimenti amministrativi; sull’ordinamento penitenziario: sull’incremento delle opportunità per i detenuti di lavoro retribuito; sul miglioramento della medicina penitenziaria; sulla tutela delle donne recluse e madri; sulla rieducazione dei detenuti minori di età. Il testo prevede inoltre la revisione delle misure alternative alla detenzione e dei benefici penitenziari, in particolare all’istruzione e ai contatti con la società esterna, in funzione del reinserimento sociale. Ma il punto dolente, causa di tante polemiche, è stato (ed è) quello della prescrizione riformata. La novità centrale (che noi penalisti non abbiamo condiviso) è che - dopo la sentenza di condanna di primo grado - il termine prescrizionale sia sospeso fino al deposito della sentenza di appello, e comunque, per un tempo non superiore a un anno e sei mesi. È ciò, a mio avviso, può essere incostituzionale. Per i reati di maltrattamenti in famiglia, tratta delle persone, sfruttamento sessuale di minori e violenza sessuale e stalking, se commessi in danno di minori, il termine di prescrizione invece decorre dal compimento del diciottesimo anno di età della vittima, salvo che l’azione penale non sia stata esercitata in precedenza; in quest’ultimo caso, infatti, il termine di prescrizione decorre dall’acquisizione della notizia di reato. E su questo punto nulla quaestio. Per i reati di corruzione l’interruzione della prescrizione non può comportare l’aumento di più della metà del tempo necessario a prescrivere. Anche questa novella non è condivisibile perché non si può rimanere imputati e "tra quel che sono sospesi" per lunghissimi anni (in questo caso tra i dodici anni ed i quindici anni). Ciò considerato che, come sosteneva il giurista Dario Santamaria, la prima pena per un imputato è il processo che costituisce per sè e per la propria famiglia il peggiore dei mali che possa capitare. E per fortuna che è stata introdotta la precisazione che la riforma della prescrizione potrà applicarsi ai soli fatti commessi dopo l’entrata in vigore della legge. Viceversa anche questa norma si prestava ad un giudizio di incostituzionalità. Ma è inconcepibile, per esempio, che una persona che ha commesso un reato a 45 anni (se condannato con sentenza irrevocabile dopo i 3 gradi di giudizi) vada ad espiare la sua pena a 60 anni, quando ha cambiato vita e cosi via. Questo, a mio avviso, non può avvenire in un Paese civile!! Altre modifiche al codice penale (che condividiamo a pieno titolo) consistono nell’inasprimento delle pene per il reato di scambio elettorale politico-mafioso (reclusione da sei a dodici anni, al posto dell’ attuale pena edittale che ha delle forbici che vanno da quattro a dieci anni) e per alcuni reati contro il contro il patrimoni (ad es. tra il furto in abitazione e con strappo, il furto aggravato e la rapina ecc.). Ma una importante novità (che condividiamo in pieno e che, a nostro avviso, avrà un forte potere deflattivo) è l’estinzione del reato per condotte riparatorie. In buona sostanza il giudice può dichiarare estinto il reato se l’imputato ha posto in essere delle condotte riparatorie (ha eliminati le conseguenze del reato), relativamente ovviamente a reati perseguibili a querela. Le nuove disposizioni si applicano anche ai processi in corso. Il provvedimento poi modifica direttamente il regime di procedibilità del reato di violenza privata richiedendo nelle ipotesi non aggravata la querela di parte. Il provvedimento contiene la delega al governo a riformare le intercettazioni e i giudizi di impugnazione. In particolare, per le intercettazioni sono previsti principi a tutela della riservatezza delle comunicazioni e una nuova fattispecie penale (punita con la reclusione non superiore a 4 anni) a carico di quanti diffondano il contenuto di conversazioni fraudolentemente captate, al solo fine di arrecare danno alla reputazione. La punibilità è esclusa però (a nostro avviso correttamente quando le registrazioni vengono utilizzate in un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca. Il pm deve assicurare la riservatezza anche degli atti contenenti registrazioni di conversazioni o comunicazioni informatiche o telematiche inutilizzabili a qualunque titolo, ossia contenenti dati sensibili che non sono utili al procedimento. Anche le intercettazioni che abbiano coinvolto occasionalmente soggetti estranei ai fatti per cui si procede devono essere escluse. Il provvedimento contiene anche una disciplina per le intercettazioni effettuate tramite i cosiddetti trojan (i captatori informatici che consentono di captare dialoghi tramite dispositivi mobili). In conclusione questa riforma anche se presenta molti lati positivi, questi non compensano alcuni aspetti di essa che non sono condividibili in punto di diritto che confermano costantemente una incertezza generale in tema di processo penale. Ciò perché si legifera e si novella continuamente mettendo in discussione un assetto che dovrebbe essere fermo e stabile con dei paletti ben determinati nell’ambito di linee guide che tali dovrebbe restare. Viceversa si barcolla nel buio delle interpretazione. Cosa, questa, che dal 24 ottobre 1989 (entrata in vigore del nuovo codice tipicamente accusatorio) ad oggi è una costante. E cosi, in uno stato di diritto, tale non dovrebbe essere. Speriamo che questo per il futuro non accada più. La legislazione penale e il pericolo dei colpi di mano di Antonio D’Amato* Il Mattino, 27 luglio 2017 Le misure di prevenzione sono oggetto di un confronto alimentato, da settimane, dal dibattito parlamentare e dal contributo di autorevoli giuristi. Si tratta di un confronto che non può prescindere da un’analisi dell’evoluzione che ha caratterizzato la materia. Strumento sempre più all’avanguardia nel contrasto ai nuovi fenomeni di pericolosità sociale di tipo mafioso e ordinario che, tuttavia, non sottace l’urgenza di porre mano ad una riforma del diritto penale sostanziale, soffocato e confuso dall’esistenza di oltre ottomila reati. Frutto malato di una ipertrofica legislazione penale, figlia di emotività ed emergenze, che sovente alimentano la risposta demagogica della politica, allorquando, per rassicurare la collettività, ricorre ad allargare il campo dell’illegalità, avente rilevanza penale. Nate nel 1956 per colpire e neutralizzare la piccola criminalità violenta; successivamente (dal 1965) utilizzate per colpire la criminalità mafiosa; compiono il salto di qualità con le leggi 125/2008 e 94/2009, attraverso le quali si applicano il sequestro e la confisca di prevenzione anche ai soggetti pericolosi ma non mafiosi. Arma di aggressione ad ogni forma di accumulazione di ricchezza illecita, consente così di assicurare allo Stato quei patrimoni geneticamente illeciti, riconducibili a soggetti "affetti" da pericolosità generica. E, infine, con il decreto legislativo n. 159/2011, sequestro e confisca di prevenzione possono prescindere dal riconoscimento della attualità della pericolosità sociale. Ciò significa, ad esempio, che quelle misure possono essere applicate all’evasore fiscale seriale, al truffatore seriale, al trasportatore di rifiuti seriale, al corrotto e al corruttore seriale, per la prima volta, considerati rientranti nelle generiche categorie di pericolosità cosiddette "comuni". Il campo della discussione è scivoloso. La tentazione di colpi di mano sempre in agguato. Per cui la vera domanda cui fornire una risposta non riguarda tanto questo disegno di legge in discussione, bensì se si è pronti a fare a meno della categoria normativa della pericolosità sociale. Premesso che la risposta in senso positivo, per tutta una serie di motivi, non può essere esclusivamente e strettamente penalistica ma impegna lo sforzo del legislatore e prima ancora del giurista, a realizzare un quadro normativo armonico in cui si amalgamano le esigenze di contrasto della pericolosità sociale e di aggressione dei patrimoni illeciti, con le garanzie e le libertà individuali. Sul versante della giurisprudenza sono stati compiuti passi da gigante da una magistratura responsabile e specializzata, che ha posto progressivamente a base del giudizio di pericolosità, superando la vecchia logica del sospetto, condotte giudicate e giudicabili in sede penale. Giudizio fondato sull’accertamento di reati seriali, ripetitivi, trasudanti di pericolosità. Come non si può sottolineare l’evoluzione giurisprudenziale che in tema di confisca ha fatto della pericolosità la misura temporale dell’ablazione, consentendo così allo Stato di acquisire e sottrarre alla libera circolazione quei beni e solo quei beni, che siano manifestazione di pericolosità. Se, dunque, già da ora e per effetto dei consolidati orientamenti giurisprudenziali dei giudici nazionali, le condotte di reato sono poste a monte della valutazione di pericolosità sociale, va apprezzato lo sforzo del legislatore di ulteriormente tipizzare le fattispecie comportamentali genericamente indicate negli artt. 1 e 4 del decreto legislativo n. 159/2011, attraverso la previsione (innovativa), come soggetti destinatari delle misure di prevenzione, di coloro che sono indiziati del delitto di cui all’art. 640-bis cp (truffa aggravata per conseguire erogazioni pubbliche); ovvero del delitto di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di taluno dei delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter, 319-qua-ter, 320, 321, 322 e 322-bis del medesimo codice (vale a dire, delitti contro la pubblica amministrazione, fra i quali peculato, concussione e corruzione); ovvero ancora del delitto di atti persecutori (stalking). Questa riforma, approvata dal Senato e ora all’esame della Camera dei Deputati ha il pregio di essere in linea con le osservazioni critiche della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che recentemente (sentenza De Tommaso febbraio 2017) aveva sottolineato la mancata tipizzazione dei comportamenti, la cui pericolosità sociale costituisce presupposto per la sua applicazione. La sentenza ha altresì criticato il profilo della mancata preventiva conoscenza per i soggetti destinatari delle misure di prevenzione, delle prescrizioni applicabili. Norme carenti per quanto attiene al requisito di prevedibilità prescritto dalla Cedu. Le indicazioni della Corte di Strasburgo costituiscono un input prezioso. Un’occasione storica per aggiornare i contenuti prescrittivi della sorveglianza di pubblica sicurezza ancorata a profili di devianza generici e abrogando norme sostanzialmente desuete quanto ininfluenti. Il compito del legislatore non è semplice. Ma siamo fiduciosi che in sede parlamentare si riesca a trovare il giusto equilibrio fra istanze di difesa sociale e garanzie delle libertà individuali. La posta in gioco sul terreno dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata è fondamentale per uno sviluppo armonico del Paese, per la sua società, per la sua economia. Non dobbiamo dimenticare che le misure di prevenzione, soprattutto quelle patrimoniali, sottraggono all’economia illegale patrimoni nati e accumulati illecitamente. Capitali ingenti che devono riciclarsi, in grado di inquinare interi comparti, alterandone i mercati o infiltrandosi nella Pubblica Amministrazione, per aggiudicarsi gli appalti, o per condizionarne addirittura l’operato. Un intreccio perverso, invasivo, silente, in grado di fiaccare ed espellere le economie e le aziende sane. Criminali in giacca e cravatta. Dell’intreccio consorterie criminali - Pubblica amministrazione se ne è reso ben conto il legislatore da oltre un ventennio. Così, a partire dal 1990, a fronte di un sempre più evidente connubio tra criminalità organizzata e politica, il legislatore ha voluto con forza associare, all’azione di contrasto della criminalità organizzata, l’esigenza di buon andamento e trasparenza della Pubblica amministrazione. Un accostamento non estemporaneo, allarmante, suffragato dal gran numero di amministrazioni comunali sciolte per infiltrazioni o condizionamento mafioso. Un quadro inquietante ove si consideri che la quasi totalità di questi comuni è concentrata in quattro Regioni: Campania, Calabria, Sicilia, Puglia, cui si sono aggiunte Basilicata, Lazio e Piemonte. Pur comprendendo le polemiche che stanno accompagnando il disegno di legge in discussione, non ci si deve preoccupare se tra i reati spia della pericolosità siano stati inseriti quelli dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione. Inoltre, al sequestro e poi alla confisca si giunge non in base a semplici sospetti o indizi, bensì sulla base di reati, seriali, ripetuti, giudicati e giudicabili. La corruzione è un cancro in grado di inquinare un’intera economia e la stessa società civile. Una democrazia moderna come la nostra deve prevenire la corruzione, se vuole progredire realmente La deve efficacemente contrastare con l’azione giudiziaria (indagini e processi) e aggredire tutte quelle ricchezze accumulate illecitamente facendo ricorso, in maniere sistematica, alla corruzione. *Procuratore della Repubblica aggiunto Santa Maria Capua Vetere "I tabulati telefonici conservati per 6 anni". Ma il Garante protesta: l’Europa dirà no di Liana Milella La Repubblica, 27 luglio 2017 Scontro tra Soro e Verini (Pd), autore dell’emendamento: "Misura contro il terrorismo". Il Garante Soro non cede sulla privacy: "Sei anni sono troppi". "Ma la lotta dura contro il terrorismo e la tutela della privacy possono stare insieme. Basta intendersi sulle regole" replica il Dem Walter Verini quando affronta, e difende, il suo emendamento approvato il 19 luglio alla Camera che fa aumentare di due anni il tempo in cui il traffico via filo e via web non viene distrutto. "Non si può dire che aver spostato da 4 a 6 anni l’asticella della conservazione dei dati telefonici e telematici faccia inclinare l’ago della bilancia tutto a svantaggio della riservatezza". D’accordo il Procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti: "Certo. È un tempo lungo, ma in questo Paese dobbiamo decidere se la lotta al terrorismo si vuol fare davvero oppure no. Sia io che il procuratore di Roma Pignatone avevamo chiesto al ministero della Giustizia la proroga del decreto antiterrorismo del 2015 che blocca per 4 anni la cancellazione dei dati. Ma il vero problema non sta nel fatto che quei dati restino in vita, ma nel come vengono conservati per garantire la loro sicurezza e un loro uso congruo e non distorto". Un fronte contro l’altro. Soro, di fronte al Copasir, il Comitato di controllo sui servizi segreti, martedì pomeriggio, non ha tenuto a freno i suoi dubbi: "No, non sono d’accordo, questi 6 anni sono troppi. È una misura in palese contrasto con l’ordinamento e la giurisprudenza dell’Unione europea". A strettissimo giro, a Soro replica Felice Casson, ex giudice istruttore a Venezia, senatore di Mdp, componente del Copasir: "Il Garante sbaglia. Non bisogna far confusione tra "sorveglianza massiva" e conservazione dei dati, giocando sulle direttive della Ue e soprattutto dimenticando le ormai tante sentenze della Corte di Giustizia del Lussemburgo che ha ammesso la memorizzazione più lunga dei dati e il loro uso, ma solo a patto che ci sia la garanzia del controllo del giudice, che l’uso sia giustificato da reati molto gravi, che i magistrati fondino la loro indagini su elementi specifici". Ecco, è in questi pareri la querelle scatenata dalla norma appena approvata dalla Camera che, basandosi sulle direttive Ue del 2017 sul terrorismo, "per garantire strumenti di indagine efficaci, tenuto conto delle straordinarie esigenze di contrasto al terrorismo anche internazionale, per l’accertamento e la repressione dei reati gravi e gravissimi", porta a 72 mesi la durata della conservazione. Protestano Soro, molti avvocati, noti giuristi, si augurano tutti che al Senato la norma venga cambiata. Ma Verini si stupisce dello stupore, e ovviamente spera che a palazzo Madama non ci siano problemi: "Di certo non ce ne sono stati alla Camera, dove non ha protestato proprio nessuno né in aula, né fuori contro un presunto attentato alla privacy e alla democrazia, neppure i 5stelle". Verini spiega la genesi della norma: "Io non ho inventato proprio nulla. L’esigenza di prorogare il decreto antiterrorismo del 2015 è arrivato da via Arenula, che ha raccolto a sua volta le sollecitazioni preoccupate di noti magistrati. Sei anni sono troppi per Soro? Secondo me no. Sono il tempo giusto per non perdere una traccia investigativa importante, magari un telefono che ha squillato una volta, e poi ha taciuto per 3 o 4 anni, per poi risvegliarsi di nuovo. O un identico segnale informatico". Tutto qui per Verini che tuttavia non nega la questione della privacy e concorda sulla necessità di "approvare una legge organica e di sistema per non usare in modo improprio e illegale i dati personali". Quale sarà, a questo punto, il destino della sua norma che ha sfruttato un contenitore occasionale, una delle tante leggi che italianizzano direttive Ue, per evitare, in tempi di lotta al terrorismo, che migliaia di possibili conferme investigative siano distrutte? Casson dà per scontato il sì del Senato: "È sbagliato lasciar intravvedere, qui in Italia, uno scenario simile a quello Usa in cui si sono verificate migliaia di intercettazioni abusive. Non è accaduto in passato e non succederà domani, in un Paese in cui solo il giudice può stabilire l’uso del traffico telefonico e telematico". Perché non bisogna dimenticare che non stiamo parlando né di telefonate registrate, né di singole consultazioni del web. Balducci (Csm): "Il femminicidio si ferma con l’educazione, non con la galera" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 27 luglio 2017 Nessun calo dei delitti dopo l’entrata in vigore della legge che ha inasprito le pene per i reati di genere, il cd "femminicidio". Ad oggi, infatti, si contano oltre 660 vittime. L’ultimo tragico caso quello di Erika Preti, la 28enne di Biella uccisa la scorsa settimana dal suo fidanzato con due coltellate alla gola mentre si trovava in vacanza in Sardegna. La consigliera del Csm Paola Balducci, avvocatessa, vice presidente della Sesta commissione (competente sull’ordinamento giudiziario), è da sempre impegnata per la tutela dei diritti. Recentemente ha organizzato un incontro con le reti nazionali dei centri antiviolenza. Consigliera, l’inasprimento delle pene pare non aver sortito alcun effetto in questi anni. Molte donne, tralasciando i casi tragici, continuano a subire violenze dai propri uomini. Su questo aspetto voglio essere chiara. Inasprire le pene non serve, non è quella la soluzione del problema. L’aumento della pena è un fatto simbolico che non ha molto senso: se una persona decide di assassinare la propria donna non cambia idea perché la pena è stata aumentata il giorno prima. Però l’introduzione del reato di atti persecutori è stato un passo importante... Certamente. Mi ricordo da avvocato quando, non essendoci il reato di stalking, si accompagnava il cliente a fare denuncia al commissariato e spesso capitava di tornare a casa perché non esisteva una fattispecie incriminatrice entro la quale inquadrare i fatti descritti. E ricordo anche le polemiche quando tali norme erano in discussione in parlamento. Alcuni colle- ghi dicevano addirittura che per un uomo sarebbe diventato impossibile corteggiare una donna. C’è il rischio che le donne strumentalizzino alcune situazioni particolari? Ovvio. Quando ci si trova di fronte a rapporti conflittuali, penso alle cause di separazione, può accadere che la donna sia tentata di "amplificare" queste dinamiche. Magari facendosi "scudo" dei figli. Cosa si può fare? Io credo sia importante "l’educazione sentimentale". Spesso si discute di educazione alle legalità e al rispetto delle regole. Ecco, anche su questi temi è fondamentale e una forte campagna culturale che parta proprio dalle scuole. In che modo? Un tempo esisteva l’educazione civica. Ora bisogna educare le giovani generazioni alla tutela dei diritti in modo da prevenire, ad esempio, il bullismo o il mito del branco. È importante educare i giovani al rispetto della donna e di chi è diverso. I ragazzi devono comprendere, poi, che la violenza non serve per risolvere i contrasti. Su questi temi faremo prossimamente un convegno qui al Csm. La magistratura è preparata? Le cronache riferiscono spesso di pregresse denunce rimaste inascoltate. Diciamo che fra le toghe c’è di tutto. Pensiamo alle denunce strumentali in una causa di separazione: può capitare che un magistrato sottovaluti il problema. Però negli anni, come anche nelle forze dell’ordine, si sono fatti passi in avanti, ora il personale è preparato ed orientato verso questo tipo di reati. Uno dei lavori che questo Csm sta portando avanti è quello di verificare le buone prassi negli uffici e l’adeguatezza dei moduli organizzativi adottati. Non tutti hanno la stessa percezione, la società è cambiata ed il magistrato deve necessariamente essere al passo con i tempi. Cosa dovrebbe fare il magistrato? Verificare buone pratiche in modo che la risposta giudiziaria alle persone offese sia tempestiva e migliorare lo strumento culturale. Il magistrato non è bravo solo quando applica le legge, serve anche sensibilità. E poi vanno istruiti i consulenti dei magistrati che spesso svolgono i compiti in materia routinaria. Ecco perché i corsi fatti presso la scuola della magistratura sono molto importanti. Per questo genere di reati, una donna magistrato è più preparata? Le donne magistrato non vanno ghettizzate come un tempo quando facevano solo diritto di famiglia. Questo genere di reati non deve essere un loro monopolio. Però va detto che la donna su questi reati ha una maggiore sensibilità non fosse altro perché è mamma. A proposito di donne, in questo Csm la componente femminile è ridotta ai minimi termini. Da donna di sinistra qual è la sua opinione? Il tema è complesso, diciamo che ci sono due aspetti: uno legato alle correnti delle magistratura e alle loro scelte al momento di proporre le candidature, l’altro di tipo "culturale". In che senso? Esiste un limite mentale. È inutile negarlo. La donna magistrato pensa che la collega sia una sua rivale. Questo significa che quando ci sono le elezioni invece di votare per la collega vota per il collega uomo. Gli uomini conoscono bene da tempo questo tipo di dinamica e ne approfittano. Va cambiata in radice questa mentalità. Incarichi direttivi. Anche qui sono poche le donne al vertice di uffici giudiziari. La situazione sta comunque migliorando. Per la donna, spesso madre, è però difficile accettare la sfida con gli uomini accettando incarichi in posti distanti dal luogo in cui i figli vanno scuola. In una società dopo la separazione è diventata la normalità, e questo vale anche per i magistrati, è complesso conciliare la famiglia con il lavoro. C’è bisogno delle quote? Io sono contrarissima alle quote! In un momento come questo, però, per sbloccare la situazione penso non sarebbe una idea da escludere a priori. Il ministero risponde in solido con il medico se il detenuto affetto da Hiv muore in carcere di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2017 Corte di cassazione n. 18380/2017. Il ministero della Giustizia risponde in solido con il medico, in qualità di responsabile civile, per il risarcimento dei danni subiti dai parenti del detenuto affetto dal virus Hiv che sia morto in carcere a causa delle sue condizioni e per via della condotta omissiva del sanitario responsabile della struttura. E ciò vale anche se il processo penale si sia concluso con l’intervenuta prescrizione. Questo è quanto emerge dalla sentenza n. 18380/2017della Cassazione, depositata ieri. Il caso - La complessa vicenda prende le mosse dalla morte di una donna, affetta dal virus Hiv, detenuta presso una casa circondariale siciliana. Il decesso della donna veniva addebitato al comportamento omissivo del medico avente funzioni di responsabile dell’assistenza dei detenuti. Di qui il procedimento penale per omicidio colposo nei confronti di quest’ultimo, con richiesta di risarcimento dei danni non patrimoniali da parte dei parenti della vittima rivolta al medico responsabile, nonché quale coobbligato in solido al ministero della Giustizia. Dopo i tre gradi di giudizio, la Cassazione aveva dichiarato l’estinzione del reato contestato per intervenuta prescrizione, annullando l’assoluzione disposta in appello e rinviando ad altra sezione della corte territoriale per statuire sulla domanda di risarcimento del danno. I giudici di merito, poi, ritenevano sussistente il nesso di causalità tra il comportamento omissivo del medico e il decesso della detenuta e condannavano così il sanitario al risarcimento dei danni in favore dei parenti della donna, nonché il Ministero coobbligato, disattendendo l’istanza di estromissione dal processo avanzata dai legali di quest’ultimo ai sensi dell’ articolo 86 del codice di procedura penale. A questo punto, il nuovo ricorso per Cassazione con il medico che contestava la valutazione dei giudici d’appello sull’esistenza del nesso di causalità tra la sua omissione e la morte della detenuta e il ministero che chiedeva l’estromissione dalla prosecuzione civilistica del processo, una volta dichiarato estinto il processo penale per intervenuta prescrizione. La decisione - I giudici di legittimità non accolgono però i ricorsi e pongono la parola fine alla lunga vicenda processuale. Ebbene, quanto all’affermazione del nesso di causalità, la Corte ritiene pacifico che laddove il giudice penale sia chiamato a provvedere ai fini degli interessi civili, costui non deve ritenersi vincolato ai criteri che presiedono all’accertamento del reato, dovendo unicamente far riferimento ai criteri civilistici dell’accertamento del nesso di causalità, meno rigidi rispetto a quelli penalistici. Quanto alla posizione del ministero della Giustizia, invece, la sua esclusione dal processo penale non ha effetti sul versante civilistico della vicenda, posto che nella fattispecie, la difesa del ministero non ha assolto all’onere di completezza del ricorso, dolendosi del fatto che la corte d’appello in sede di rinvio abbia trascurato l’efficacia del provvedimento di esclusione del ministero dal processo penale, disposto dai giudici di merito, senza però fornire alla stessa corte di legittimità elementi per valutare la fondatezza di quanto richiesto. Stante l’inammissibilità del ricorso, rimane quindi la responsabilità solidale tra medico e ministero della Giustizia per l’obbligazione risarcitoria. Parma: Samuele Turco si è ucciso, trovato impiccato in cella di Roberto Longoni Gazzetta di Parma, 27 luglio 2017 Prima di togliersi la vita ha scritto un biglietto: "Addio, ora me ne vado dalla mia Gabriela". Da presunto omicida a boia di se stesso. Un lenzuolo è diventato lo strumento della propria esecuzione: ricavata una corda da una striscia di stoffa, Samuele Turco ha legato un capo alle sbarre della finestra, mentre l’altro l’ha usato per farne un cappio. Dopo averci infilato la testa dentro, si è fatto cadere sul pavimento della cella. Quei pochi centimetri sono stati il suo abisso senza ritorno. Nel silenzio che precede il sonno di via Burla, il tonfo è riecheggiato come un grido soffocato. Subito sono accorsi gli agenti della Polizia penitenziaria, subito è stato dato l’allarme al 118, ma per il 42enne catanese non c’era più nulla da fare. Ritenuto responsabile del duplice omicidio di Natale con il ventenne figlio Alessio detenuto nel carcere di Reggio Emilia, l’uomo è morto all’istante. Dietro di sé ha lasciato una lettera d’addio: poche parole, per spiegare di voler raggiungere Gabriela, ossia proprio colei che lo aveva denunciato per stalking e che si ritiene sia morta per mano sua. Sfugge così alla giustizia umana il principale accusato del massacro del casolare di San Prospero, nel quale Gabriela Altamirano, 45enne di origini argentine, e la 49enne trans parmigiana Kelly (Luca Manici) vennero trucidate a colpi di coltello. "Personalità istrionica, narcisista e drammatizzante", come viene descritto da Renato Ariatti, autore della perizia psichiatrica appena depositata, ancora una volta ha preteso la scena tutta per sé. E, prima che fosse un giudice a farlo attraverso una sentenza, ha deciso di essere lui a scrivere l’ultimo atto di una tragedia impregnata del sangue e delle lacrime di troppe vite. La notizia del suicidio è stata data ieri dal procuratore capo Antonio Rustico, che ha annunciato che il corpo del presunto omicida sarà sottoposto a un’autopsia. Un atto dovuto, così come l’apertura di un altro capitolo ancora nel ponderoso fascicolo relativo a Turco. Anche di quest’ultimo atto si occupano la pm Emanuela Podda e gli investigatori della Squadra mobile entrati in via Burla l’altra sera con la Polizia scientifica al fianco degli uomini della Polizia penitenziaria. Erano da poco trascorse le 22,30 dell’altra sera, quando Turco ha messo in atto il proprio piano. Forse ha improvvisato. Il sospetto che in qualche modo possa aver saputo d’esser stato dichiarato sano di mente (con la conseguente preoccupazione che il conto del massacro gli venisse presentato per intero) c’è, ma non appare molto fondato. Più facile invece che il suicidio sia stato progettato. A questo punto, viene da pensare che anche la recente colluttazione avuta un paio di giorni prima con il compagno di cella sia stata una tappa meditata per la tragica uscita di scena. Un modo per restare solo e avere libertà di manovra in quell’angusto spazio affacciato su via Burla. Questa volta Turco ha fatto sul serio: più di così non avrebbe potuto. E ha sorpreso tutti, non solo gli agenti della Penitenziaria agli occhi dei quali era apparso tranquillo, seduto sul letto, durante il controllo di pochi minuti prima. Ha preso in contropiede anche e soprattutto chi conosceva il suo passato, perché in almeno un paio di occasioni l’ex di Gabriela Altamirano aveva simulato il suicidio. La prima fu nel febbraio 2013, quando, impugnato un coltello, si procurò una serie di tagli sul braccio sinistro. Una sceneggiata studiata non si sa bene a quale scopo. Fatto sta che Turco, allora gestore di un negozio di animali in viale Fratti, aveva atteso l’ingresso di un cliente per incidersi quei graffi, badando bene di rispettare la distanza di sicurezza dalle arterie. Il secondo episodio è recente, collegato al duplice delitto nel casolare a luci rosse. I cadaveri di Kelly e di Gabriela erano stati scoperti da un paio di giorni, quando Turco fece in modo di farsi trovare a villa Angelica dagli uomini della Squadra mobile titolari del caso. Gli investigatori impiegarono pochi secondi a capire che il 42enne aveva appena ingerito candeggina Ebbero anche il forte sospetto che la sua fosse solo ima messinscena. Ma presero comunque tutto molto sul serio: caricando sull’auto civetta colui che già allora era il principale indiziato, per portarlo a tutta velocità al Pronto soccorso del Maggiore. La candeggina, allungata con acqua, era stata anche rigettata durante il tragitto: dal Pronto soccorso, il 42enne passò ben presto al Diagnosi e cura. L’ultima tappa per via Burla. Dal carcere parmigiano è stato lo stesso Turco a decidere di non uscire vivo, due giorni prima che davanti al gip Sara Ricucci venisse assunta in un incidente probatorio la perizia psichiatrica relativa a lui e al figlio ritenuto a sua volta capace, ma suo succube e affetto di "variabilità emozionale" oltre che di "scarsa capacità di elaborare il pensiero". Ora rimane lui solo a rispondere di una mattanza nella quale forse è stato trascinato senza nemmeno sapere bene perché. La perizia: "Solo dimostrativi i tentativi fatti in precedenza" La perizia psichiatrica sulle condizioni mentali di Samuele Turco e del figlio Alessio era stata depositata lunedì pomeriggio dal perito incaricato dal Tribunale, lo psichiatra bolognese Renato Ariatti. E il verdetto era inequivocabile: entrambi erano capaci di intendere e di volere al momento del duplice delitto ai danni di Gabriela Altamirano e di "Kelly", Luca Manici. Nella perizia ci sono parole che, alla luce del gesto estremo compiuto ieri da Samuele Turco assumono un significato particolare. Nel documento si parla dei precedenti tentativi di togliersi la vita di Turco padre che vengono definiti come "gesti dimostrativi, nulla di realmente depressivo". In particolare, lo specialista si riferisce all’ingerimento di candeggina effettuato dopo la scoperta dei corpi nel casolare di San Prospero. Una volta trasportato d’urgenza al Maggiore, però, i medici scoprono che Samuele Turco la quantità di candeggina ingurgitata (forse anche in parte annacquata e rigettata) non era comunque sufficiente a provocare la morte di nessuno. Anche quattro anni prima, nel febbraio 2013, Turco si era tagliato il braccio sinistro, ma con ferite troppo superficiali per provocare emorragie gravi. In pratica, secondo il perito, più che di gesti di voleva davvero farla finita sarebbero state sceneggiate degne di un commediante. Una personalità narcisista - Nella perizia si scrive che Samuele Turco ha "una personalità istrionica, narcisista e drammatizzante" e in lui "c’è mancanza di empatia oltre che ostentazione e bisogno di ammirazione". La conclusione, secca, è che nell’assassino di Gabriela Altamirano e Luca Manici non c’è ombra di follia in un uomo che invece si è dimostrato freddo e determinato nella decisione di uccidere. Dunque, nessun vizio di mente nella personalità di Samuele Turco era stato riscontrato dallo psichiatra che ne aveva scandagliato la personalità, la stessa conclusione cui era giunto anche per il figlio Alessio, anche se quest’ultimo si era visto attribuito "un disturbo antisociale della personalità". Che però non è sufficiente per riconoscere neppure a lui anche solo una parziale infermità mentale. Incidente probatorio per oggi - Proprio oggi era fissato l’incidente probatorio davanti al gip Sara Ricucci che avrebbe fatto entrare le conclusioni della perizia psichiatrica a pieno titolo nel fascicolo processuale di Samuele Turco. Conclusioni che avrebbero portato quasi certamente a un processo nel quale sarebbe stata riconosciuta la sua piena imputabilità con la possibilità dunque di una condanna senza le attenuanti previste nel caso del riconoscimento di un vizio mentale. Un processo che però, a questo punto, dopo il suicidio del padre, avrà come unico imputato Alessio Turco, anche lui riconosciuto nella perizia come pienamente capace di intendere e di volere nei tragici momenti del duplice omicidio natalizio nel casolare di San Prospero. "Il suicidio? Impossibile prevederlo" - "Una cosa è la valutazione di una persona che ha commesso il "reato dei reati", ossia un delitto, tramite un’osservazione continuata in una struttura di ricovero psichiatrico. Altra cosa è redigere una perizia psichiatri-co-forense tramite colloqui in carcere". Premessa importante, quella che fa Cesare Piccinini, psichiatra e docente di psichiatria forense del nostro Ateneo, per spiegare l’apparente contraddizione fra la perizia dello psichiatra bolognese Renato Ariatti, che parlava di Samuele Turco e dei suoi tentati suicidi come "gesti dimostrativi, nulla di realmente depressivo", e il tragico gesto compiuto ieri da Turco. "I colloqui ripetuti in carcere non consentono una valutazione paragonabile a quella di un rapporto continuativo fra medico e paziente", continua Piccinini. Sulla stessa lunghezza d’onda Sergio Dazzi, psichiatra e presidente di PDlab, centro per i disturbi di personalità: "Nella perizia il campo di osservazione è più limitato rispetto al trattamento clinico, che consente allo psichiatra di cogliere sfumature e indicatori sottili, tanto più validi quanto più profondo è il rapporto terapeutico". Detto questo, "la psichiatria non è una scienza esatta, come non lo è la medicina in generale. Ci sono pazienti con patologie di rischio di suicidio che non lo commetteranno mai, e il contrario" aggiunge lo psichiatra Giuliano Turrini, direttore sanitario della casa di cura Villa Maria Luigia. "Teniamo conto anche che la detenzione in carcere è un potente fattore di rischio, che sicuramente ha avuto un peso nello stato psicologico del detenuto", aggiunge Turrini. Sulla psiche di Turco un ruolo può averlo giocato, ipotizza Piccinini, anche il risultato proprio della perizia di Ariatti che esclude l’infermità mentale, aprendo così la prospettiva di una lunga detenzione. Il suicidio si prospetterebbe quindi come "una forma reattiva tipica di un disturbo istrionico, quale è quello diagnosticato dal collega Ariatti. Una rappresentazione ex-post, una forma di protesta", dice Piccinini. Non è infine da escludere, dice Dazzi, che la morte di Turco faccia parte di quella serie di tentativi dimostrativi di suicidio che l’uomo aveva già messo in atto: "Un gesto che stavolta ha avuto un esito imprevisto". Parma: il Garante dei detenuti "era in isolamento, minacciava di farla finita da giorni" di Francesca Devincenzi parmapress24.it, 27 luglio 2017 "Il suicidio di Samuele Turco è avvenuto in isolamento, dove Turco si trovava da domenica, dopo aver litigato con un compagno di detenzione". Lo racconta Roberto Cavalieri, garante dei detenuti del carcere di Parma, raggiunto al telefono da Parmapress24 appena giunta in redazione la notizia del suicidio in Via Burla di Samuele Turco. "Sono appena uscito dal carcere, e li ho saputo" - racconta. "È accaduto ieri sera alle 21,15 circa, nel settore di isolamento Iride. A quanto mi risulta Turco si è impiccato alle sbarre con un lenzuolo". È triste, la voce di Cavalieri. "Nella morte non c’è vittoria" - commenta. "Posso dirvi" - racconta - "che non ha visto nessuno, Turco, quindi non so se potesse aver saputo in alcun modo che la perizia psichiatrica negava la tesi di una possibile infermità mentale. I giornali non erano ancora usciti, internet non è permesso in cella, forse il gesto è a prescindere". Anche perché Turco non è nuovo a gesti del genere, in passato aveva ingoiato candeggina e si era parzialmente tagliato le vene, seppur senza grossi danni. "Questo lo scopro da Lei, so che in carcere più volte aveva minacciato/promesso di ammazzarsi. Poi domenica ha litigato, lo hanno isolato, non ha nemmeno aspettato di essere sentito dal Consiglio di disciplina, che doveva decidere sulla punizione, si è ammazzato prima". Cavalieri coglie l’occasione per fare il punto sulle condizioni di vita in carcere. "In Via Burla ci sono quattro carceri in uno, 41 Bis, AS1 (Altissima sicurezza), Media sicurezza (AS2) e ordinaria detenzione, più i malati, i disabili, gli anziani. Mancano almeno 100 secondini, servirebbe un presidio costante, una direzione designata e non suddivisa con altre carceri (Carlo Berdini, direttore del carcere, riveste lo stesso ruolo in quello di Sollicciano ndr), e con l’estate, tra ferie e permessi è sempre peggio. C’è caldo, solitudine, abbandono. In Emilia Romagna su 3200 detenuti si registrano due suicidi a settimana, basta fare una proporzione, sarebbe come se a Parma, che ha poco più di 180mila abitanti se ne suicidassero 60 ogni sette giorni" (in realtà si registra una media di 2/3 suicidi a settimana tra i non detenuti ndr). Numeri che rendono l’immagine di una vita carceraria dura, alla spasimo, che porta a scegliere di morire piuttosto che espiare. "Non dico che il suicidio di Turco fosse evitabile o meno, o che sia colpa di qualcuno" - chiude Cavalieri - "ma dico che urge una riforma, e servono misure, progetti alternativi. Sennò parleremo sempre più di tragedie come questa". Reggio Emilia: suicida in cella uno dei cinque "rivoltosi", doveva essere trasferito di Leonardo Grilli Gazzetta di Reggio, 27 luglio 2017 Il ragazzo tunisino di 28 anni si è impiccato prima del trasferimento disposto dopo la sommossa a cui aveva partecipato. Si è suicidato nella sua cella, impiccato con un lembo del suo lenzuolo, uno dei cinque carcerati che lunedì mattina avevano iniziato una sommossa all’interno dell’istituto penitenziario di Reggio Emilia. Un gesto, quello compiuto dal 28enne tunisino, arrivato alla vigilia del suo trasferimento in un’altra struttura disposto proprio a causa della sua condotta alla Pulce. Tutto è successo nella notte fra lunedì e martedì. Poche ore prima il ragazzo, dopo aver distrutto assieme ad altri quattro carcerati i bagni di un’area comune del penitenziario, aveva minacciato gli agenti con armi rudimentali. Erano servite oltre tre ore di trattative per riportare lui e gli altri alla ragione. Il 28enne era quindi stato visitato in infermeria, ascoltato e tranquillizzato e gli era stato anche dato del tabacco per venire incontro alle sue esigenze. Tutto sembrava essere tornato alla normalità e il giovane, che sarebbe dovuto rimanere in galere fino al 2041 per un omicidio commesso in un’altra provincia, non dava segni di instabilità. Poi, verso mezzanotte, il suicidio. Il tunisino ha strappato dei lembi del suo lenzuolo, li ha arrotolati e legati ad alcune sbarre e infine si è impiccato. Ad accorgersi di tutto sono stati gli agenti di polizia penitenziaria di turno che sono intervenuti quando il ragazzo ancora respirava tentando in tutti i modi di rianimarlo ma per lui, ormai, non c’era più nulla da fare. "È stata una morte che ci ha lasciati tutti stupiti e scossi - racconta Michele Malorni, segretario provinciale del Sappe - visto un fine pena così lungo l’amministrazione penitenziaria aveva fatto di tutto per farlo sentire a suo agio, era seguito da psicologi, aveva un lavoro. Un gesto che non ci sappiamo spiegare". Il direttore del carcere: "I penitenziari sono luoghi di disperazione" Pochi agenti rispetto alla popolazione carceraria, un sovraccarico di lavoro a causa del processo Aemilia e la gestione di situazioni di violenza o autolesionismo. Con l’apertura a breve di altri due reparti. Sono queste le criticità messe in evidenza da Paolo Madonna, direttore del penitenziario di Reggio Emilia. Circa 360 detenuti e pochi agenti. Una situazione non facile. "Siamo pochi. Abbiamo sollecitato più volte il dipartimento per questa grossa carenza di organico, quantomeno servirebbero venticinque agenti in pianta stabile ma purtroppo non ci sono. E in tutto questo il processo Aemilia ci impegna ancora di più, ci stiamo adattando con le forze che abbiamo ma, per la sorveglianza del tribunale dobbiamo sottrarre unità alla sicurezza del carcere. La realtà è che non abbiamo avuto, per adesso, il supplemento di uomini che ci si aspettava". Quasi inevitabili quindi gli episodi di violenza. "Le risse, le aggressioni, l’autolesionismo fino ai gesti più estremi purtroppo capitano qui come in tutti i penitenziari italiani, che sono diventati sempre di più luoghi di disperazione. Si tratta spesso di persone straniere irregolari che non hanno nessun appoggio in Italia, entrano illegalmente e quindi per sopravvivere si dedicano ad attività illegali. Da parte di molti di loro c’è una scarsa osservanza delle regole. Facciamo ogni sforzo per alleviare la loro detenzione ma il più delle volte sono riottosi al mantenimento di una convivenza civile". Ma quali sono le loro richieste principali? "Generalmente una sola: lavorare. Parlo costantemente con i detenuti per far capire loro che con la disoccupazione di oggi non è facile, cerchiamo di garantire a tutti una possibilità con le risorse attuali, da poco anche aumentate, ma spesso non vogliono capire". Trento: suicidio in carcere, il pm vuole archiviare, i familiari dicono no Corriere del Trentino, 27 luglio 2017 La Procura ha chiesto l’archiviazione, ma il fratello non si arrende. Ora deciderà il giudice. Non si arrende Massimo Soricelli, il fratello di Luca, il giovane morto suicida nella notte tra il 16 e il 17 dicembre scorso, dopo l’arresto, avvenuto alcuni giorni prima, per l’incendio del distributore di benzina Agip di Rovereto. Secondo il pm Davide Ognibene che, dopo la tragedia, aveva subito aperto un fascicolo d’indagine, non c’è alcuna responsabilità nella morte dell’uomo. La Procura aveva unito l’indagine sulla morte di Soricelli con quella sui presunti maltrattamenti in un unico fascicolo e ad aprile ha chiesto l’archiviazione, non ravvisando alcun profilo di reato. Una decisione che il fratello di Soricelli fatica ad accettare. L’uomo, che si è rivolto all’avvocato Stefano Trinco, vuole sapere la verità, vuole capire perché Luca, con le sue patologie, era stato portato in carcere, e così ha presentato opposizione all’archiviazione. L’udienza davanti al gip Francesco Forlenza si è svolta martedì, ma il giudice si è riservato. L’avvocato Trinco ha chiesto che venga fatta chiarezza sull’operato della psichiatra che aveva in cura Luca Soricelli e aveva ritenuto le condizioni del paziente compatibili con il carcere, nonostante la sua fragilità. Inoltre il fratello dell’uomo vuole capire perché Luca è stato lasciato solo nell’infermeria del carcere e nessuno gli ha somministrato un sonnifero per tenerlo tranquillo. I familiari vogliono chiarezza anche sull’operato dei carabinieri e del pronto soccorso che non avrebbero trattato Luca come dovevano. Ma la triste vicenda del trentacinquenne roveretano si intreccia ad un’altra storia delicata, di presunti maltrattamenti in carcere. La Procura ha chiesto l’archiviazione anche per questo, ma il garante dei detenuti, Emilia Rossi, rappresentata dall’avvocato Nicola Canestrini, si è opposta. Ora deciderà il giudice. Milano: "a San Vittore la conoscenza è sicurezza", parla la direttrice Gloria Manzelli di Fabrizio Cavalli La Repubblica, 27 luglio 2017 Una che, dice ridendo, "aveva tutte le carte in regola per fallire". Una ragazza al comando di 600 agenti, 500 uomini e 100 donne. Una ragazza calabrese di Reggio, famiglia borghese: madre insegnante di latino e greco, padre ingegnere, un fratello pure ingegnere e uno alla Bocconi. Studi milanesi alla Cattolica: "Mi sono laureata in criminologia e diritto penale con il professor Federico Stella, e ho lavorato nello studio dell’avvocato Massimo Dinoia. Poi un giorno ho deciso di fare il concorso". E quando ha annunciato in famiglia, dove non sapevano niente, di averlo vinto, la mamma s’è parecchio preoccupata: "Diceva: ma cosa vai a fare in un carcere, è un posto pericoloso, ma che brutto lavoro". E anche con gli amici non lo racconta spesso che mestiere fa: "Mi chiedono: ma veramente, i detenuti li vedi? Poi diciamo che la cosiddetta società civile riguardo al carcere ha un atteggiamento rigido, custodialista, con scarse aperture. E a volte sono io a parlare di rispetto verso i detenuti, e di rieducazione". All’inizio non è stato uno scherzo: "Mi guardavano tutti. Perché questo era un luogo tipicamente maschile e maschilista, e questa cosa io la respiravo profondamente. Mi sono chiesta: ma io qui il comandante come lo faccio? Perché è vero che a San Vittore ci sono due donne ai vertici, Gloria Manzelli direttrice e Teresa Mazzotta vice. Ma sono civili, rispondono al ministero della Giustizia. Il comandante è a tutti gli effetti un funzionario di polizia, alle dipendenze del ministero degli Interni. Un’altra faccenda". E ancora: "Qui il valore aggiunto è l’esperienza, e io non ne avevo. Ero laureata, il che qui costituisce quasi un disvalore. Il mio predecessore era un uomo sopra i cinquanta, con trent’anni di esperienza alle spalle. Io arrivavo da un contesto diverso, ed ero pure giovane". Quindi all’inizio c’è stata "diffidenza, sospetto, non riconoscimento". "Ho pensato che avrei dovuto gestire il tutto con naturalezza. Non potevo fare l’uomo, sennò facevo casino. Ho pensato di spendere le qualità che ha una donna, e mi sono messa in gioco. Sempre presente, e mai chiusa nella mia stanza. Mi immaginavo: se ho problemi con gli agenti uomini, figuriamoci con i detenuti. E invece, in qualche modo, sono stata legittimata proprio dai detenuti. Nessuno mi ha mai mancato di rispetto, perché mi vedevano sempre in mezzo a loro. Io c’ero se scoppiava una rissa, se qualche detenuto si arrampicava sul tetto per protesta, se c’era da convincere chi si era cucito la bocca, o si feriva per autolesionismo. Mi rispettavano anche quando c’era da mostrare fermezza. Eppure sono il loro comandante, anche dei detenuti: non do consigli, do ordini". Eppure anche il capo di un corpo militare che deve gestire la sicurezza e la custodia di un carcere come San Vittore con mille detenuti sa bene che "è conoscendo i detenuti che si fa sicurezza, non solo chiudendo dei cancelli o facendo perquisizioni". E sa bene che a San Vittore "la maggior parte è di persone disperate: abbiamo il 67 per cento di extracomunitari. Emarginati che non vedono la famiglia ai colloqui, che non hanno una casa, che non fanno nemmeno le telefonate concesse, che chiedono solo una cosa: poter lavorare, perché non hanno un soldo in tasca". E allora, "se uno soffre, tutto il resto non conta. Io conosco e gestisco solo detenuti problematici". E d’altra parte la ragazza Manuela per questo aveva deciso di partecipare al concorso: "Mi dicevo: magari posso fare qualcosa di buono. Perché se non hai questo spirito il lavoro diventa mostruoso". Si capisce che il comandante Manuela, in questi 11 anni, sta vincendo la scommessa. Basta vederla in giro per il carcere, su e giù per le scale anche dei reparti più difficili, per capire che il rispetto se l’è guadagnato. Si capisce che è tosta, che all’occorrenza sa esercitare l’autorità. Come vice ha due donne. Perché anche in questo mestiere, come dice l’ex-direttore e ora provveditore Luigi Pagano, "le donne sono meglio". Aversa (Ce): la direttrice Elisabetta Palmieri "reintegro dei detenuti? con progetti mirati" di Donato Liotto larampa.it, 27 luglio 2017 Abbiamo fatto visita, alla Casa di reclusione "Filippo Saporito" in Aversa, già ex Opg, e abbiamo incontrato la Direttrice, dott.ssa Elisabetta Palmieri. Dott.ssa Palmieri, la prima domanda che le voglio fare, è in merito alla coltivazione del terreno presente all’interno del carcere da lei diretto, ci vuole spiegare di cosa tratta? "Si tratta di un progetto, partito tra febbraio e marzo di quest’anno, grazie a un finanziamento del nostro Dipartimento di 72 mila euro circa. Questo, ci ha dato la possibilità di recuperare un vasta area verde, circa 11 mila mq all’interno della struttura. Terreno poi, che è stato completamente bonificato, prima era una giungla. Con l’arrivo dei detenuti, abbiamo potuto mettere in atto finalmente questo progetto". I detenuti, cosa fanno nello specifico su questo terreno? "Ora che è stato pulito e bonificato del tutto, i detenuti si occupano di tutto, soprattutto della semina e coltivazione, per arrivare alla fase conclusiva, che è quella del raccolto. Abbiamo anche piantato varie sementi, piantine, alberi da frutto. Per ora, siamo riusciti ad arrivare alla coltivazione di vari tipi di ortaggi; melanzane, pomodori, peperoni, insalata, zucchine. Posso dire con ottimi risultati". I detenuti, che svolgono questa attività sono remunerati? "Sono pagati per lavorare 5 ore al giorno, al momento sono una decina di detenuti. Loro scendono tutti i giorni, dal lunedì al sabato, seguiti dagli Agenti di Polizia Penitenziaria. Gli Agenti, hanno il compito di controllare con discrezione, e professionalità il lavoro dei detenuti. Per questo, li voglio ringraziare, sono veramente encomiabili e impagabili." Possiamo senz’altro affermare, che questo progetto, si pone in primis un reintegro dei detenuti? "Si, ha un senso assolutamente "trattamentale," quindi, di rieducazione dei detenuti. L’elemento fondamentale del trattamento, è proprio il lavoro. Sono impegnati, vengono pagati, hanno la possibilità di stare fuori dalla sezione per diverse ore al giorno, e quindi, non stare in situazioni di "cattività" diciamo. Hanno anche la possibilità di imparare un mestiere, che poi possono spendere una volta rimessi in libertà". Questa è la partenza, obiettivi che vi ponete con questo progetto? "Il progetto ha una finalità di produzione. I detenuti coltivano, producono, e poi i detenuti stessi, o il personale, potranno acquistare questi prodotti. Poi è chiaro, che noi cercheremo di estenderci anche all’esterno, nel momento in cui diventerà un "progetto agricolo" a tutti gli effetti". Ora avete donato alla Caritas Diocesiana di Aversa i primi raccolti? "Si, abbiamo dato in beneficenza la prima raccolta di pomodori, per me, ma soprattutto per i detenuti, è una bella soddisfazione. Difatti, proprio stamani Padre Guido Travaglini, della Caritas di Aversa, ha ritirato i nostri bellissimi pomodori". Dottoressa, ormai sono cinque anni, che vive questa realtà, un bilancio lo può fare? "Si, l’ho traghettata, ho visto la trasformazione da Opg, a Casa di Reclusione, adesso ci stiamo strutturando, perché consapevoli di una crescita "lenta," ma costante. L’intento, è di realizzare una custodia assolutamente "aperta." Mi auguro, con detenuti selezionati, e che meritano questo tipo di regime, un regime più aperto appunto, più rieducativo, e più risocializzante". Attualmente quanti detenuti ospitate? "Circa 170, però tra poco, arriveremo a 200. Un bel numero, che si può estendere fino a 300-350 detenuti, come capienza tollerabile". Un impegno importante questo, e siamo sicuri, che grazie alla passione, e soprattutto alla professionalità della dott.ssa Palmieri, e con il supporto degli Agenti della Polizia Penitenziaria, e di tutti coloro, che collaborano con lei, si possa davvero riuscire a far si, che questi detenuti, possano avere un futuro migliore fuori dal carcere. Questo progetto, è un aprirsi alla città, al territorio, e la città dovrebbe fare altrettanto. Nuove iniziative, saranno volte proprio al raggiungimento di questi obiettivi. Grazie alla dottoressa Palmieri, per il suo impegno, e soprattutto, per l’amore che mette nel suo lavoro, che riteniamo sia senza alcun dubbio, davvero difficile e con non poche responsabilità. A tutti, va data una seconda possibilità, questo è il messaggio che ci arriva dal carcere F. Saporito di Aversa. Brescia: tensioni in cella, giorni difficili nel carcere di via Spalato Corriere della Sera, 27 luglio 2017 Atti di autolesionismo di alcuni detenuti, proteste nelle celle. Giornate difficili a causa di un gruppo di carcerati stranieri. Non è solo la temperatura torrida di queste settimane a rendere difficile la convivenza a Canton Mombello, ma le proteste di alcuni detenuti stranieri che contribuiscono a creare tensioni e pericoli. Se fossero liberi vi sarebbe stata la tacita spartizione del territorio di sempre: un gruppo in centro storico, altri due tra la stazione e via Milano, un quarto manipolo di "soldati" dello spaccio a presidiare la provincia. Ora che alcuni componenti di quei gruppi criminali dediti al piccolo traffico di droga sono finiti in cella, le dinamiche sono saltate, le supremazie pure e in uno spazio ristretto come quello di Canton Mombello, le rivalità e le guerre tra bande sono potenziali bombe ad orologeria. Così può capitare che parta la protesta perché il capo di un gruppo è stato messo in una sezione diversa da quello degli affiliati, oppure che al passeggio o nei corridoi riaffiorino vecchie ruggini tra "manovali" appartenenti a fazioni rivali. È quello che sta capitando in questi giorni a Canton Mombello. Non bastano il caldo, gli spazi ristretti, il personale all’osso per via delle ferie, ma in questa estate torrida bisogna far fronte a tensioni e a momenti destabilizzanti, come è destabilizzante per un ambiente come il carcere un episodio di autolesionismo. In questi ultimi giorni ce ne sono stati cinque, tutti ad opera del medesimo gruppo di detenuti di nazionalità tunisina finiti in cella negli ultimi giorni, dopo una serie di arresti che hanno interessato alcuni spacciatori delle zone di Via Milano e della stazione ferroviaria. Auto-ferimenti (atteggiamenti comuni fra i detenuti magrebini) che hanno contribuito a creare una certa tensione sfociata anche con accese discussioni con il personale della polizia penitenziaria. Momenti potenzialmente pericolosi che hanno spinto la direzione del carcere a chiudere le celle (attualmente i detenuti possono girare liberamente all’interno delle sezioni) ieri mattina per cercare di capire quali fossero le ragioni della protesta e soprattutto quali fossero i detenuti che più di altri soffiavano sul fuoco del malcontento. La decisione ha provocato le proteste di una parte del carcere che ha voluto far sentire la propria voce con la "battitura" delle sbarre. Una tensione durata fino all’ora d’aria quando le celle sono state riaperte e i detenuti accompagnati al passeggio. Una procedura che, per motivi di sicurezza del personale di Polizia penitenziaria, è stata effettuata con la protezione di scudi, caschi e manganelli. "Non sono serviti - ha spiegato la direttrice Francesca Gioieni - perché i nostri agenti hanno saputo gestire la situazione di tensione con la massima professionalità. Anche perché queste cose si risolvono soprattutto con il dialogo". E il dialogo, nonostante giornate non facili, alla fine ha pagato, permettendo al clima di tensione di stemperarsi e alle celle di riaprirsi durante il giorno così come accade da quando l’istituto bresciano ha iniziato la sorveglianza dinamica. Un plauso al lavoro degli agenti è arrivato anche da Cgil e Sinappe (il sindacato autonomo della polizia penitenziaria). Vibo Valentia: arrivano altri 20 detenuti, Polizia penitenziaria in protesta zoom24.it, 27 luglio 2017 Colpo di grazia al sistema penitenziario Vibonese ormai al collasso: "Si passa quindi a 430 detenuti e soli 137 agenti in pianta organica". Nel giorno in cui il Sappe con a capo il suo segretario provinciale Francesco Ciccone pone inizio all’astensione del personale dalla mensa, con l’adesione di oltre 98%," il Dap- denuncia il sindacato" dimostra vicinanza assegnando ulteriori 20 detenuti, per di più appartenenti alla criminalità organizzata, dando il colpo di grazia al sistema penitenziario Vibonese ormai allo stremi. Si passa quindi a 430 detenuti e soli 137 agenti in pianta organica con un aggravio nel reparto colloqui familiari e avvocati che ormai mette in cattiva luce la polizia penitenziaria colpevole di non riuscire, purtroppo, a garantire nei tempi previsti i servizi a favore delle utenze. Numerose le segnalazioni anche da parte degli avvocati, chee testimoniano ciò che il Sappe sta denunciando da diversi giorni anche attraverso lo straordinario incontro con il prefetto. "Lavori forzati". I movimenti in sezione sono triplicati; sono di fatto ridotti i servizi di manutenzione ordinaria fabbricati; così come accorpati e soppressi sono molti altri posti di sevizio, con la polizia penitenziaria che quotidianamente è costretta ad andare oltre le otto ore di servizio, a fronte delle sei previste dal contratto e lo stratificarsi dei riposi settimanali revocati. Anche il settore delle traduzioni è allo stremo: mezzi fatiscenti e personale di scorta al lite della sicurezza. Eppure malgrado questa situazione di malese emergenza, non sono note iniziative dei vertici di supporto alla Direzione di Vibo, che al contrario riceve continue superiori richieste di impiego del personale di Vibo in servizi di traduzioni di competenza di altri istituti oltre che l’impiego di personale negli uffici colloqui di altre carceri. Si comunica - conclude il Sappe - che l’iniziativa si ripeterà nel mese di agosto e laddove non dovessero arrivare segnali e rassicurazione sulla dotazione organica, il Sappe promuoverà una manifestazione alla presenza di giornalisti e politici". Livorno: emergenza collegamenti con Gorgona, Polizia penitenziaria in stato di agitazione rassegna.it, 27 luglio 2017 Fp-Cgil: "I lavoratori rischiano l’isolamento in carcere, allo stesso modo a detenuti e famiglie sarà negato il diritto ai colloqui". "È ancora emergenza sull’isola carcere dell’arcipelago toscano: se da un lato il dipartimento amministrazione penitenziaria vanta Gorgona come fiore all’occhiello del sistema detentivo, che purtroppo, a causa di ciò che accade in altri istituti, viene condannato a Strasburgo per "trattamento inumano", dall’altro la stessa amministrazione sembra dimenticare il particolare disagio sofferto dai suoi lavoratori e dai cittadini". Lo afferma, in una nota, la Fp-Cgil di Livorno. Ed è a questi che nei giorni scorsi è stata comunicata una drastica riduzione del servizio di collegamento navale con la terraferma sino al 28 luglio, data dopo la quale, si passerà dal disagio al disastro, perché il giorno successivo non è dato sapere se esisterà ancora un minimo servizio di collegamento col porto di Livorno. "Un provvedimento - per il sindacato - appesantito dalle avarie che hanno colpito le ultime due motovedette disponibili, che non sollevano l’Amministrazione dalla responsabilità di non aver previsto per tempo la manutenzione e sostituzione di quelle imbarcazioni ormai vecchie, malridotte, nate per il solo servizio di vigilanza e dunque inadeguate al trasporto dei passeggeri". I lavoratori presenti sull’isola rischiano "l’isolamento in carcere" e, allo stesso modo, ai cittadini detenuti e alle loro famiglie sarà negato il diritto ai colloqui. In questo contesto ci chiediamo come verrà garantita la sorveglianza sanitaria e il diritto di cure mediche, o semplicemente il servizio mensa, in assenza di collegamenti marittimi. "Nel quadro catastrofico - scrive ancora la Fp - si registrano due recenti gravissimi episodi violenti che hanno messo a rischio perfino la sicurezza di operatori e detenuti: alcune settimane fa l’aggressione portata da un detenuto armato di sgabello in danno di un assistente di polizia penitenziaria e, in questi giorni, le lesioni riportate durante una colluttazione tra due detenuti che hanno richiesto, per uno dei due, il ricovero urgente per mezzo dell’elisoccorso". Ma l’amministrazione riesce ad aggiunge al danno la beffa, e per la prima volta in 148 anni di storia del carcere di Gorgona, i lavoratori saranno costretti a pagare un canone d’affitto per le stanze occupate in caserma, nonostante l’assenza di collegamenti e di alloggi privati da locare o acquistare. "Ce n’è abbastanza, secondo la segreteria della Fp-Cgil di Livorno, per proclamare lo stato di agitazione di tutti i lavoratori e chiedere al Prefetto l’immediata apertura di un tavolo di confronto. Confronto che dovrà coinvolgere ogni istituzione interessata, per garantire che il Carcere di Gorgonia rilanci la sua meritoria azione di rieducazione dei cittadini detenuti, attraverso l’impiego di ogni risorsa e sostegno necessario ad assicurare la previsione costituzionale di una pena che deve tendere alla piena rieducazione e al rispetto dei diritti dei lavoratori". Sondrio: "Il piccolo principe" chiude gli incontri di lettura in carcere Giornale di Sondrio, 27 luglio 2017 Si chiudono gli incontri di lettura in carcere. Martedì 1 agosto l’evento conclusivo dedicato a "Il piccolo principe" con ospiti e festa finale. Incontri di lettura in carcere: l’iniziativa piace, ha riscosso successo l’iniziativa della lettura nell’istituto di via Caimi che ha visto protagonisti diversi volontari. La biblioteca ospiterà martedì 1 agosto alle 18 l’evento conclusivo del progetto tenuto da due volontari: Paola Rainoldi e Alessandro Crepaldi. "Per incoraggiare le persone detenute alla lettura, avevamo pensato di realizzare incontri con qualche volontario per leggere insieme un libro", spiega la direttrice Stefania Mussio. È stato così proposto "Il Piccolo Principe" e sono così iniziati gli incontri, una volta ogni 15 giorni per alcune ore, tra le persone detenute interessate e i due volontari. Il commento della volontaria - Paola Rainoldi racconta così l’esperienza: "La lettura del libro è stata una opportunità di incontro con la lingua italiana e anche un’occasione per apprezzare un testo che, nella sua freschezza, molto ha da comunicare anche agli adulti. "Il Piccolo Principe" suggerisce uno sguardo da fanciullo che sempre sa cogliere nella realtà spunti di speranza e di fiducia". L’evento finale dell’iniziativa - Martedì vi sarà come detto il momento conclusivo di questa esperienza: il professor Gianluigi Garbellini introdurrà il momento commentando il testo e sottolineandone l’attualità. Insieme a lui, i partecipanti al progetto condivideranno le loro esperienze e riflessioni. "Poi tutti insieme trascorreremo un momento conviviale mangiando pizze che saranno preparare dalle persone detenute", conclude la direttrice invitando a partecipare i volontari che operano nella struttura detentiva di Sondrio. Como: sport in carcere, sabato al Bassone il torneo di calcio Giornale di Como, 27 luglio 2017 Al carcere Bassone di Como si scende nuovamente in campo. L’appuntamento è per sabato alle 13, con una gara tra i dipendenti della Navigazione Lago di Como che si sfideranno con la squadra degli ospiti dell’istituto. La giornata di sport in carcere è stata possibile grazie alla disponibilità del direttore del carcere Carla Santadrea. Insieme alle formazioni, parteciperanno alla partita, da tifosi, anche alcuni rappresentanti del Coni Lombardia e di Como. "Un’iniziativa che ci vede impegnati in prima persona perché credo che lo sport per molti aspetti serva a superare certe situazioni e permetta, in questo caso ai detenuti, di crescere e di formarsi perché, come nella vita, ogni disciplina è fatta di regole e di tempi. - commenta così il Consigliere Segretario Daniela Maroni, promotrice dell’iniziativa - Ho visto in questi mesi di collaborazione con la direzione del carcere e gli educatori grande impegno e voglia di rendere il periodo di detenzione meno impegnativo. A tutti dobbiamo offrire un’altra chance. Spesso si sbaglia, ma si può rimediare a quegli errori". "Siamo ancora in fase di analisi - continua Daniela Maroni -, ma con Katia Arrighi stiamo gettando le basi per andare dietro le sbarre e creare dei progetti legati al mondo dello sport destinati sia ai detenuti che agli agenti di polizia penitenziaria. Un impegno non indifferente poiché sono moltissime le idee e tutte devono essere realizzate nel migliore dei modi". Tra i presenti, oltre al Consigliere Segretario Daniela Maroni, il direttore della struttura Carla Santandrea, il Presidente del Coni Lombardia, Oreste Perri, la delegata del Coni di Como Katia Arrighi, la referente marketing e comunicazione Coni Lombardia Paola Pietrobelli. Arbitra la partita Alessandro Rigoletto. La nuova guerra digitale di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 27 luglio 2017 Una tempesta elettromagnetica ha cancellato tutte le memorie degli archivi informatici. Annientate le tecnologie digitali, il mondo è tornato a quelle analogiche e una cupa dimensione fisica spazza via quella cibernetica. È solo un film, certo: possiamo liquidare come fantascienza apocalittica il "sequel" di Blade Runner che arriverà nei cinema in autunno e che farà sprofondare Harrison Ford, Ryan Gosling e Jared Leto in un mondo devastato, senza Internet. Eppure quello che sta avvenendo nella dimensione poco nota ma molto preoccupante della criminalità informatica già oggi contiene brandelli di quell’incubo. Migliaia di utenti sotto attacco - aziende, ospedali, ministeri o semplici cittadini - sono stati, infatti, messi davanti a un vero ricatto digitale: "O paghi un riscatto, o distruggiamo tutti i tuoi dati". E molti (ma nessuno sa quanti) pagano per riavere i dati dei clienti di una banca, quelli dei pazienti di un ospedale o salvare la memoria di una famiglia contenuta in un archivio fotografico informatico. L’attacco degli hacker contro Unicredit è solo l’ultimo di una catena di episodi sempre più inquietanti: al timore che l’uomo stia sviluppando tecnologie che non è in grado di controllare fino in fondo si aggiunge il sospetto che i rischi più gravi - black out elettrico o telefonico, paralisi del traffico aereo e anche peggio - vengano taciuti per timore di spaventare l’opinione pubblica. La crisi è diventata improvvisamente emergenza negli ultimi mesi col furto, forse da parte di hacker criminali, delle armi di cyberwar messe a punto dalla Nsa, la centrale informatica dei servizi segreti Usa. Fino a ieri la prospettiva di una guerra informatica con le grandi potenze tecnologiche che, anziché bombe fisiche, scagliano l’una contro l’altra ordigni digitali capaci di lasciare una nazione senza energia o di mettere fuori uso la sua aviazione, era ben presente ai leader del Pianeta che confidavano, però, nel senso di responsabilità dei governi: magari interessati a lanciare azioni limitate (il virus Stuxnet col quale americani e israeliani hanno rallentato il programma nucleare dell’Iran) o a mandare avvertimenti, ma non a scatenare incontrollabili conflitti su vasta scala. Gli attacchi planetari di maggio e di fine giugno stanno, però, facendo emergere un realtà diversa e più agghiacciante, nei suoi contorni ancora non ben definiti: la Nsa si è fatta rubare le sue armi cibernetiche (è come se qualcuno avesse sottratto all’Air Force Usa missili con testate nucleari e li puntasse contro le città americane) che ora vengono utilizzate da diverse, misteriose entità criminali contro un gran numero di obiettivi in tutto il mondo. Ce ne siamo accorti poco perché l’Italia, con rare eccezioni (come l’Università Bicocca) è, per ora, fuori dal mirino di criminali che, invece, hanno preso di mira 36 ospedali inglesi, il governo dell’Ucraina, molti giganti industriali russi (da Rosneft alle acciaierie Evraz), francesi (Saint Gobain), spagnoli (Telefonica), inglesi (WPP, il colosso mondiale della pubblicità) e anche americani (da FedEx a Mondelez, la ex Kraft). Ma, lontano dall’attenzione dell’opinione pubblica, si accumulano i quesiti inquietanti. Il primo riguarda identità e intenzioni dei ladri informatici. I principali sospettati sono, ovviamente, servizi segreti e strutture informatiche militari di Russia e Cina, se non altro per la potenza dei lori sistemi di intelligenza artificiale e le capacità dei loro computer scientist. Ma il modo in cui si stanno muovendo i banditi cibernetici fa pensare più alla formazione di grandi organizzazioni criminali autonome, magari con collegamenti a gruppi terroristici (Isis) o Stati-canaglia, come la Corea del Nord. E siccome non solo nessuno sa chi ha rubato le armi cibernetiche e a chi le ha date, ma nemmeno quanti dei soggetti ricattati hanno pagato il riscatto (300 dollari per un singolo utente, molti di più per un’azienda), il timore è che stiano nascendo delle Spectre (la "piovra" combattuta da James Bond) dalle capacità finanziarie illimitate. Altri dubbi riguardano la stessa Nsa (tace su tutto e non si sa se avverta le aziende quando scopre falle nei loro sistemi informatici, prima dell’arrivo degli hacker) e le reali dimensioni del fenomeno: quante aziende nascondono i ricatti subiti per non spaventare i clienti? Unicredit ha avuto il coraggio di denunciare i criminali, ma gli attacchi erano iniziati nel 2016. Mentre Darktrace, una società inglese di cybersecurity, fa sapere di aver scoperto un attacco lanciato nel 2015 contro una banca italiana (la cui identità resta ignota) di natura completamente diversa: anziché i dati dei clienti, gli hacker hanno rubato la potenza di calcolo dei computer dell’istituto, utile per estrarre bitcoin, la valuta digitale ormai comunemente accettata al pari di quelle emesse dagli Stati. Migranti. La Corte Ue: "Paese d’arrivo è competente per le richieste d’asilo" di Alberto D’Argenio La Repubblica, 27 luglio 2017 Bacchettata alla Croazia, ma che riguarda anche l’Italia: "Il patto di Dublino si applica nonostante la crisi migratoria". Avvocato generale: "No a ricorsi contro ricollocamento". Ok a procedure più snelle nel nostro Paese. La Corte di giustizia europea salva le regole di Dublino sui richiedenti asilo deludendo le speranze del governo italiano e dei partner ‘di frontierà che speravano di poter cancellare il principio secondo il quale è solo il Pese di primo ingresso nell’Unione - e non gli altri stati Ue dove l’aspirante rifugiato eventualmente si reca - a dover esaminare le richieste di asilo da parte dei migranti e poi a doverli accogliere sul proprio territorio. Principio che per i giudici europei vale anche in situazione di emergenza, con flussi fuori controllo. A Roma ora non resta che attendere la riforma di Dublino proposta dalla Commissione europea che prevede un meccanismo di distribuzione automatica ed obbligatoria dei richiedenti asilo tra i Ventisette nel caso di flussi straordinari. Riforma che però non passerà prima delle elezioni tedesche del 24 settembre visto che il governo Merkel non intende toccare il tema in campagna elettorale. La speranza di far saltare Dublino arrivava dalla causa intentata da un cittadino siriano e due famiglie afghane che nel 2015 senza visto erano entrati in Croazia, territorio Ue, dalla Serbia. Le autorità di Zagabria li hanno quindi portati al confine con la Slovenia per permettere loro di andare in altri paesi dell’Unione. I migranti - venendo da due Paesi a rischio e dunque potenzialmente in grado di ottenere l’asilo - hanno quindi fatto richiesta di protezione internazionale in Slovenia e in Austria, ma i due paesi hanno decretato che ai sensi di Dublino spettasse alla Croazia prendersi carico delle pratiche in quanto i richiedenti erano entrati illegalmente sul suo territorio. Gli stessi migranti hanno fatto ricorso sottolineando che il loro ingresso in Croazia era illegale e che pertanto le loro domande sarebbero dovute essere prese in carico da Vienna e Lubiana. Le cui corti supreme si sono rivolte ai giudici europei, per i quali innanzitutto l’aver portato i migranti al confine sloveno non equivale al rilascio di un visto, anche in circostanze straordinarie come quelle di due anni fa, quando sulla rotta balcanica premevano centinaia di migliaia di migranti e profughi. Inoltre per la Corte basata nel Lussemburgo l’ingresso in territorio Ue senza i requisiti è necessariamente un attraversamento illegale della frontiera e dunque la gestione della eventuale richiesta di asilo spetta allo stato di primo arrivo. Così come i motivi umanitari per cui può rimanere in territorio europeo riguardano solo quest’ultimo. Per queste ragioni per la Corte la nozione di "attraversamento irregolare di una frontiera" abbraccia anche la situazione in cui uno Stato membro ammetta nel proprio territorio cittadini non Ue invocando ragioni umanitarie e in circostanze eccezionali. Un principio al quale si può derogare solo se altri paesi Ue decidono volontariamente di dare una mano a un partner per ragioni di solidarietà. La Corte però dovrebbe salvare l’attuale piano d’emergenza sulle riallocazioni - 160 mila richiedenti asilo in Italia e Grecia devono essere ripartiti tra i soci dell’Unione - messo in discussione dai paesi dell’Est Europa. L’avvocato generale Ue ha infatti proposto ai giudici di respingere i ricorsi presentati da Slovacchia e Ungheria contro il ricollocamento dei migranti. Un parere non vincolante, ma che normalmente viene seguito dalla Corte. E proprio oggi la Commissione europea darà un mese di tempo a Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria per prendere le loro quote di richiedenti asilo accolti da Italia e Grecia, finora non ne hanno accolto nemmeno uno, altrimenti saranno a loro volta deferiti in Corte, un passo verso le sanzioni. Sempre dal Lussemburgo, oggi i giudici Ue hanno dichiarato legali le procedure italiane per snellire la gestione delle domande di asilo. Per la Corte non è necessario sentire una seconda volta il richiedente se nella prima fase gli è stata offerta la possibilità di essere ascoltato di persona. Il caso era stato sollevato da un cittadino del Mali, il signor Sacko, arrivato in Italia nel 2015 e che si era visto respingere la richiesta di asilo dopo una audizione perché secondo il Tribunale di Milano la sua richiesta era spinta da ragioni puramente economiche e dunque non aveva diritto alla protezione internazionale. Migranti. Grillini al voto sui profughi: tolleranza zero per le Ong e aiuti a casa loro di Giuliano Santoro Il Manifesto, 27 luglio 2017 Scarsa conoscenza della legge Bossi-Fini, si prediligono i piccoli progetti in Africa e gli ingressi tramite ambasciate nei paesi d’origine o di transito. Circa 20mila iscritti alla piattaforma Rousseau (su 140 mila) hanno votato ieri "Sbarchi zero", il programma immigrazione del Movimento 5 Stelle. Come al solito, si trattava di approvare o meno una serie di opzioni precedentemente elaborate dai vertici grillini. Che hanno dato un preciso indirizzo alla questione, nonostante i contributi apparsi sul blog e alcune delle proposte, prese singolarmente, non fossero proprio in sintonia con la linea dura sui migranti intrapresa soprattutto nell’ultimo periodo. La cosa che colpisce su tutte è che un soggetto politico che si propone come forza di cambiamento ignora completamente la legge sull’immigrazione in vigore, che si chiama Bossi-Fini e praticamente non prevede vie d’accesso legali alla Ue. Meglio concentrarsi sulla questione evocativa della tolleranza zero verso le navi dei migranti. "L’obiettivo del Movimento 5 Stelle è arrivare a sbarchi zero entro 5 anni - si legge nell’introduzione al programma approvato - L’immigrazione è il più grande fallimento dei partiti: hanno firmato accordi suicidi che hanno trasformato l’Italia nel campo profughi d’Europa e foraggiato il business della criminalità organizzata". Per il resto, più che di immigrazione si parla di profughi e richiedenti asilo. "Per fermare l’illegalità degli sbarchi", i grillini si propongono di affidare la valutazione dell’ammissibilità delle domande di asilo politico "alle ambasciate e ai consolati nei paesi di origine o di transito o nelle delegazioni dell’Ue presso i paesi terzi". C’è poi il tema, riconosciuto ormai trasversalmente, del superamento degli accordi di Dublino e del "ricollocamento obbligatorio" dei migranti. Allo scopo di "velocizzare le procedure del riconoscimento o meno della protezione internazionale", gli iscritti hanno scelto di potenziare le commissioni territoriali. Infine, la versione grillina dell’aiutiamoli "a casa loro". La domanda era: "Qual è la priorità per rimuovere le cause profonde delle migrazioni?". La maggioranza ha scelto questa opzione: "Tanti piccoli programmi di sostegno allo sviluppo rurale, all’agricoltura sostenibile e alla sicurezza alimentare, all’ istruzione e alla formazione professionale per attività artigianali, di contrasto alle emergenze sanitarie". Migranti. Navi della Marina Italiana nelle acque di Tripoli contro i trafficanti di Grazia Longo La Stampa, 27 luglio 2017 Gentiloni riceve il premier Sarraj e accoglie la sua richiesta. La discussione in Parlamento prevista per i primi di agosto. Già domani il consiglio dei ministri preparerà un provvedimento e la discussione in Parlamento approderà nei primi giorni di agosto. Ha subìto un’accelerazione la richiesta del premier libico Fayez al-Sarraj per l’invio di navi italiane in acque libiche, contro i trafficanti di esseri umani. La proposta è al vaglio del nostro ministero della Difesa, ma il governo ha già deciso di accettare. Dopo il passaggio in Parlamento della prossima settimana, verrà istituito un tavolo italo-libico per fissare le regole dell’ingaggio. Non si vuole perdere tempo prezioso, insomma e per l’Italia è importante - a giudicare dalla rapidità con cui si sta muovendo Gentiloni - recuperare terreno e centralità sullo scacchiere libico dopo la mossa con cui Macron ha portato al tavolo negoziale, martedì a Parigi, Sarraj e Haftar. L’istanza di Sarraj è arrivata al presidente del consiglio Paolo Gentiloni, tramite una lettera, alcuni giorni fa. Ieri è stata resa noto dopo l’incontro a Roma tra i due capi di governo. Ma la possibilità di mettere a disposizione un nostro gruppo navale a sostegno del legittimo governo della Libia per affrontare l’emergenza migranti era al vaglio del nostro esecutivo già da qualche giorno. I tecnici della ministra della Difesa Roberta Pinotti stanno già studiando le modalità di intervento. A partire dal numero delle navi da impiegare e al modus operandi. Al tavolo italo-libico sarà demandato il compito di stabilire le clausole della nostra partecipazione. Mentre, infatti, è già chiaro il ruolo deterrente svolto dalle unità della Marina militare, va delineato il resto. Tanto per capirci: a quale distanza dalla costa libica dovranno rimanere le nostre navi? Se i trafficanti di essere umani sparassero contro il nostro personale questo dovrebbe reagire sparando a sua volta? E ancora: nel caso in cui i migranti venissero riavvicinati alla Libia, chi garantisce il rispetto dei loro diritti umani? Da chiarire anche il numero delle unità navali da mandare in Libia. Attualmente, oltre alle due navi della Marina militare in servizio nell’operazione europea Sophia, nelle acque del Mediterraneo centrale si trovano 5 navi dell’operazione tutta italiana "Mare sicuro". Un’ipotesi, all’esame della Difesa, prevede il dirottamento di alcune di queste ultime, ma non è neppure esclusa l’autorizzazione di nuovi mezzi. Il ministro dell’Interno Marco Minniti auspica un "intervento in tempi rapidi. La lettera di Sarraj, all’attenzione della Difesa, è un salto di qualità nel supporto logistico alla Guardia costiera libica e nel contrasto ai trafficanti di uomini". È evidente, tra l’altro, come la richiesta del premier libico dimostri la fiducia nel nostro Paese per la soluzione dell’emergenza del traffico di essere umani. E Gentiloni ribadisce l’importanza della "collaborazione con la Libia che si sviluppa su più fronti. Ci auguriamo che sia anche sempre più una cooperazione economica, sul terreno delle infrastrutture, contro il terrorismo e naturalmente sul contrasto all’immigrazione clandestina". Gentiloni incassa anche il sostegno della cancelliera tedesca Angela Merkel: "Mi ha confermato l’impegno della Germania a sostenere le iniziative italiane per contrastare il traffico di esseri umani". Droghe. Il Pd sceglie il proibizionismo e affossa la legge per la cannabis legale di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 luglio 2017 Lega, Ncd e Forza Italia votano insieme ai dem il testo Miotto, circoscritto al solo uso terapeutico. Il Partito democratico cambia idea e affossa la legge per la legalizzazione della cannabis. Con buona pace dell’onorevole Roberto Giachetti (di stretta fede renziana seppur Radicale), primo firmatario del testo base, e delle decine di deputati dem che hanno sottoscritto la proposta dell’intergruppo parlamentare. E con buona pace anche delle raccomandazioni, tra gli altri, della stessa Direzione nazionale antimafia. Il testo che andrà in aula alla Camera tra settembre e ottobre prossimi (l’11 settembre alle 16 scade il termine per la presentazione degli emendamenti in commissione) è circoscritto al solo uso terapeutico. Lo hanno deciso ieri il Comitato ristretto e le commissioni competenti riunite. Con i voti di Pd, Lega, Ncd e Forza Italia è stato bocciato il testo unificato messo a punto dal relatore della commissione Giustizia, Daniele Farina (Si), che norma la legalizzazione della cannabis sia a scopo terapeutico che ludico, e approvato quello di Margherita Miotto, relatrice in commissione Affari sociali, considerato peraltro "blando" ancorché finalizzato ad aggiustare la disciplina per il solo uso medico. Dura la protesta di M5S, SI e Radicali contro il Pd, che "alla fine ha gettato tutto alle ortiche - attaccano i deputati a 5 Stelle - tirandosi indietro e votando contro la proposta del primo firmatario Giachetti, cui denunceremo la scomparsa a Chi l’ha visto? per totale assenza dal dibattito. Hanno fatto i Giovanardi del momento. Anzi, peggio". "Mafie e mercanti della droga non possono che dire grazie - dichiarano Riccardo Magi e Antonella Soldo, dirigenti di Radiali Italiani - La scelta proposta dall’on. Miotto di portare avanti solo la parte relativa alla cannabis terapeutica è irresponsabile e ipocrita. La cannabis terapeutica è legale dal 2007 in Italia e nonostante ciò fatica ad affermarsi proprio a causa dell’aurea di criminalizzazione che ancora circonda questa sostanza. Legalizzare la cannabis - precisano il segretario e la presidente dell’associazione Radicale - non è un capriccio ma è un’urgenza che riguarda migliaia di detenuti nelle carceri, migliaia di processi che intasano i tribunali, milioni di euro e risorse sottratte ad operazioni della polizia; riguarda la salute, i diritti e le libertà delle persone". Amara anche la reazione del sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, promotore dell’intergruppo costituito da oltre 300 tra deputati e senatori di varie forze politiche: "Il Pd ha deciso di smentire la scelta antiproibizionista di oltre cento parlamentari democratici che avevano sottoscritto il disegno di legge #cannabislegale". "Dispiace che a questo provvisorio risultato si giunga dopo quattro anni di estenuante melina parlamentare - commenta per Si Daniele Farina - Il Pd ha scelto la via più semplice alla propria discussione interna che però avrà pochissimi effetti sui cittadini cui nello specifico la legge si rivolge e al loro diritto alla salute, oggi largamente disatteso. Un testo distante anni luce dalla sensibilità maturata nel Paese che poteva essere adottato con atti ministeriali. Lavoreremo perché cambi, cercando di superare un impianto totalmente arretrato per la società e le evidenze scientifiche". Ora, l’unica speranza che l’Italia possa mettersi al passo di altri Paesi, come gli stessi Stati uniti, che hanno preso atto del fallimento di quasi 50 anni di politiche proibizioniste, sta nella legge di iniziativa popolare - che come tale non decade con l’attuale legislatura - depositata dai Radicali Italiani e numerose organizzazioni, e sottoscritta da quasi 70 mila cittadini. Svizzera. Detenuto italiano di 36 muore suicida nel carcere di Zurigo Reuters, 27 luglio 2017 Aveva 36 anni, era sospettato di ripetuta coazione e altri delitti. Aperta un’inchiesta. È il secondo italiano morto in un carcere zurighese in pochi giorni. Dramma nel carcere svizzero dove un detenuto, italiano, si è impiccato in cella. A dare la notizia, in una nota, è l’Ufficio cantonale zurighese per l’esecuzione delle pene. L’uomo di 36 anni che si è strangolato, si trovava in detenzione preventiva, è stato ritrovato senza vita ieri mattina in una cella della prigione di Pfäffikon (Zh). Era finito in carcere perché sospettato di ripetuta coazione e altri delitti. Un fatto questo che avviene a pochi giorni da un’altra morte di un 19enne italiano sempre in un carcere svizzero, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente "Sportello dei Diritti". Non sappiamo ancora bene la storia accaduta ieri mattina nel carcere, ma ogni suicidio è una sconfitta, una disfatta per lo Stato che aveva in custodia la persona e per questo non solo ci addolora ma ci indigna anche. In ogni caso, questi due eventi drammatici avvenuti negli ultimi quindici giorni nelle carceri zurighesi, dimostrano che la Svizzera non è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti. Arabia Saudita. Amnesty: 14 detenuti rischiano esecuzione per decapitazione Adnkronos, 27 luglio 2017 Quattordici sauditi rischiano l’esecuzione al termine di un processo "gravemente irregolare". Lo denuncia Amnesty International secondo cui l’esecuzione dei 14 prigionieri mediante decapitazione potrebbe essere "imminente". A metà luglio la Corte suprema della monarchia ha confermato le 14 condanne a morte emesse il primo giugno 2016 dalla Corte penale speciale della capitale Riad per presunti reati collegati a proteste. L’esecuzione potrebbe essere "imminente", sottolinea l’organizzazione, perché manca solo la ratifica del re Salman. I 14 prigionieri sono stati condannati a morte, al termine di un "processo gravemente irregolare e basato su confessioni estorte con la tortura", per una serie di reati tra cui "rivolta armata contro il re", "attacco con le armi a personale e veicoli della sicurezza", "preparazione e uso di bombe Molotov", "furto e rapina a mano armata" e "incitamento al caos e partecipazione a disordini", come riporta Amnesty. Secondo l’organizzazione dall’inizio del 2017, in Arabia Saudita sono state eseguite 66 condanne a morte, 26 delle quali solo nel mese di luglio. Il 20 luglio la Corte suprema ha ricevuto dalla Corte penale speciale gli atti relativi ad altre 15 condanne a morte inflitte il 6 dicembre 2016 per presunto spionaggio in favore dell’Iran. In attesa dell’esecuzione si trovano almeno 34 appartenenti alla minoranza sciita (che rappresenta circa il 10-15% della popolazione), condannati per attività considerate minacciose nei confronti della sicurezza nazionale. Turchia. Le rassicurazioni (inutili) sul lavoro di Amnesty International di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 27 luglio 2017 Non sono di certo bastate ad Amnesty International le rassicurazioni del ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu che, nella conferenza stampa successiva all’incontro di Bruxelles con l’Alta rappresentante per la politica estera Federica Mogherini, ha detto di rispettare il lavoro dell’Ong ribadendo che i suoi attivisti "sono in grado di lavorare liberamente in Turchia". "Apprezziamo il fatto che il ministro degli Esteri abbia riconosciuto che Amnesty International è considerata una "organizzazione globale credibile". Ma affermare che noi saremo "in grado di svolgere le nostre attività liberamente", quando la direttrice e il presidente di Amnesty International Turchia sono dietro le sbarre insieme ad altri sette difensori dei diritti umani, è decisamente ardito" è stato il commento di John Dalhuisen, il direttore di Amnesty International per l’Europa e il Medio Oriente. "L’assurda procedura giudiziaria contro la nostra direttrice Idil Eser non deriva da alcun’azione delittuosa ma si basa interamente sul legittimo operato di Amnesty International. Se questo viene criminalizzato, è difficile immaginare come non solo questa organizzazione ma il più ampio movimento per i diritti umani della Turchia possa continuare a esistere". "Allo stesso modo, l’infondata accusa che ha portato in carcere il nostro presidente Taner Kiliç, ossia che abbia scaricato e usato l’applicazione Bylock, è falsa e lo dimostreremo. Il vitale lavoro svolto da Amnesty International non può essere separato dalle persone che lo portano avanti ma anzi è indivisibile. Lotteremo per il loro rilascio". Martedì 25 luglio, a margine dell’incontro tra i ministri turchi degli Esteri e per i Rapporti con l’Unione europea, Amnesty International aveva consegnato all’Alta Rappresentante della Commissione Europea per la politica estera, Federica Mogherini, una petizione per chiederle di usare la sua influenza per contribuire ad assicurare l’immediato rilascio di 10 difensori dei diritti umani imprigionati all’inizio del mese. Tunisia. Voto storico: approvata legge contro violenza sulle donne La Repubblica, 27 luglio 2017 Via libera del Parlamento alle misure contro i soprusi basati sul genere. Abrogato l’articolo del Codice penale che prevedeva una sorta di "perdono" per lo stupratore di una minorenne in caso di matrimonio con la vittima. Quarantatré articoli divisi in cinque capitoli, un iter parlamentare fitto di ostacoli e di rinvii, il timore del fallimento. Alla fine, invece, quello espresso dal Parlamento della Tunisia si può considerare un voto storico: all’unanimità, con 146 voti a favore, è stata approvata la legge contro la violenza e i maltrattamenti sulle donne e per la parità di genere. Quelle approvate oggi sono misure in grado di contrastare ogni forma di sopruso o violenza basato sul genere. Obiettivo del testo, garantire alla donna il rispetto della dignità e assicurare l’uguaglianza fra i sessi, garantita dalla Costituzione, attraverso un approccio generale che si basa sulla prevenzione, la punizione dei colpevoli e la protezione delle vittime. La legge punta inoltre ad eliminare ogni forma di disuguaglianza tra i sessi anche sul lavoro. Cade anche un articolo particolarmente odioso, il 227 bis del Codice penale, abrogato: quello cioè che prevedeva una specie di "perdono" per gli stupratori di una minorenne in caso di matrimonio con la vittima. Il nuovo dettato legislativo prevede invece pene molto severe per gli stupratori senza più alcuna possibilità, per questi, di sfuggire alla legge. "La versione del testo votato in Parlamento - ha dichiarato la deputata indipendente Bochra Bel Haj Hmida - risponde alle aspettative delle donne e della società civile che si sono mobilitati per vent’anni per ottenere questo risultato". Venezuela. Sciopero generale contro la costituente di Maduro: 2 morti e 50 arresti La Stampa, 27 luglio 2017 C’è anche un adolescente di appena 16 anni tra le vittime degli scontri tra manifestanti e forze di sicurezza, nella prima giornata di sciopero generale in Venezuela contro l’Assemblea Costituente voluta dal governo di Nicolas Maduro. Nei disordini sono morti almeno 2 persone e ci sono stati oltre a 50 arresti. Oltre all’adolescente, è rimasto ucciso anche un uomo di 30 anni. I due sono morti nello Stato occidentale di Merida e a Caracas; e adesso sono oltre 102 i morti causati dall’ondata di proteste degli oppositori che scuotono il Paese da oltre quattro mesi. Secondo l’opposizione allo sciopero ha aderito il 92% dei lavoratori, ma secondo Maduro l’appello ad incrociare le braccia "è stato sconfitto dalla classe operaia". Intanto il presidente venezuelano ha respinto le sanzioni annunciate dal governo americano contro 13 alti dirigenti chavisti, che ha definito "illegali, insolenti ed insolite", in un discorso trasmesso a reti unificate dalla televisione del suo Paese. Maduro ha invitato i 13 dirigenti - fra i quali si trovano il comandante della Guardia Nazionale e quello della polizia, la presidente del Consiglio Nazionale Elettorale, L’Ombudsman nazionale e la ministra responsabile delle prigioni - ad un meeting elettorale in vista delle elezioni per l’Assemblea Costituente, previste per domenica prossima. A tutti, il presidente venezuelano ha consegnato una replica della spada dell’eroe nazionale, Simon Bolivar, sottolineando che "queste sanzioni rappresentano una vittoria per il nostro Stato, che dimostrano che siamo in piedi, uniti e forti, mentre ci incamminiamo verso la Costituente". "Grazie a Dio che a questi imbecilli è venuto in mente di sanzionarmi, è il miglior riconoscimento che possa immaginare per il mio spirito rivoluzionario", ha commentato Iris Varela, la ministro responsabile del sistema di carceri nel Paese.