Il futuro del carcere Due Palazzi? È ascoltare le associazioni Il Gazzettino, 26 luglio 2017 Piscitello: "Regole di pari passo col cambiamento". Il direttore generale detenuti e trattamento del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Roberto Piscitello, ha incontrato i promotori dell’appello "La Casa di reclusione di Padova è un avamposto culturale dove da decenni si disegna il futuro rispetto all’art. 27 della Costituzione". Piscitello ha discusso di questo argomento con la redazione di Ristretti Orizzonti e, in un altra occasione, con tutte le realtà attive al Due Palazzi: associazioni di volontariato, scuole, Università, cooperative sociali di inserimento lavorativo, diocesi. All’incontro si sono uniti anche il settore sanitario, alcuni Sindacati rappresentativi del personale penitenziario, le camere penali. Da questi era partito un accorato appello al Dipartimento per fare chiarezza sui numerosi veleni circa il rapporto della Casa di reclusione con i detenuti dell’Alta Sicurezza, il circuito dove sono situati gli autori dei reati più gravi di tipo associativo. Durante l’incontro con Ristretti Orizzonti, Roberto Piscitello, dopo aver rassicurato sul fatto che "il treno che è partito a Padova non verrà fermato", ha richiamato l’attenzione sull’importanza "delle regole nella gestione di un carcere, che non è assolutamente alternativa alla necessità di cambiamento". Con emozione Piscitello ha esordito invitando i presenti a un minuto di silenzio in onore di Paolo Borsellino: e il momento si è caricato di significati forti, vista la presenza nell’aula di rappresentanti delle istituzioni, volontari e operatori delle cooperative, e soprattutto detenuti di Alta Sicurezza, ex 41 bis, che stanno scontando condanne all’ergastolo per omicidio, alcuni nomi noti delle mafie italiane: tutti accomunati dal fatto che stanno seguendo un percorso di recupero e reinserimento che passa attraverso la presa di distanza dalle organizzazioni criminali. Il dialogo con Ristretti Orizzonti è stato come in altre occasioni serrato e pieno di spunti. Nell’incontro con tutte le realtà associative, scolastiche, cooperative, unitamente a tutti i promotori dell’appello, Piscitello ha insistito nell’affermare che la sua presenza a Padova vuole essere una testimonianza e uno stimolo a continuare nelle azioni intraprese, rivolto sia al privato sociale, che agli operatori penitenziari. Una risposta che arriva, dunque, anche dai vertici del Dipartimento all’accorato appello a considerare l’esperienza di Padova un patrimonio comune, che sta raccogliendo adesioni e incoraggiamenti in tutt’Italia e dall’estero. "Liberi-sospesi", condannati (ma fantasmi) di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 26 luglio 2017 Sono 40-60 mila i condannati a pene "minori" in attesa del verdetto dei Tribunali di sorveglianza. Andranno ai servizi sociali o finiranno in carcere? Manca il personale, la risposta arriva dopo anni. Un esercito di fantasmi giudiziari si aggira per l’Italia, decine di migliaia di persone che sono state condannate al carcere vivono come sospese in un limbo chiedendosi se saranno affidate in prova ai servizi sociali o se andranno in cella. C’è chi vorrebbe tornare a una vita normale, ma non può finché non ha chiuso i conti con la giustizia, e chi in carcere dovrebbe andarci immediatamente, ma grazie ai ritardi ha ripreso e continua a delinquere. Liberi-sospesi - Sono i "liberi-sospesi", coloro che sono stati condannati a pene inferiori a 3 anni di reclusione (in alcuni casi anche a 4 o a 6 se tossicodipendenti) e hanno potuto chiedere l’affidamento in prova ai servizi sociali e che, in attesa che il Tribunale di sorveglianza decida sulla loro sorte, hanno ottenuto dalla Procura la sospensione dell’esecuzione della pena, cioè non vanno in carcere. Non ci sono dati su quanti siano, perché non esiste una rilevazione a livello nazionale, ma potrebbero essere tra le 40 e le 60 mila unità secondo alcune stime. Nella stragrande maggioranza si tratta di persone che hanno sbagliato una sola volta nella vita commettendo reati generalmente non gravi, anche se talvolta la pena è scesa sotto i tre anni grazie alle sostanziose riduzioni garantite dai riti alternativi e attenuanti. Quasi tutti vogliono mettere a posto la loro situazione presto, perché come "sospesi" possono avere problemi di lavoro oppure non possono uscire dall’Italia. Tra le fila di questo esercito si nascondono anche delinquenti che erano riusciti sempre a farla franca e se la cavano ancora, anche adesso che sono finiti nelle maglie della giustizia, perché navigando in una fase indefinita possono commettere altri reati finché i Tribunali di sorveglianza non esaminano i loro casi accorgendosi che non meritano affatto la misura alternativa grazie alle indagini dell’Uepe (l’Ufficio che si occupa dell’esecuzione penale esterna al carcere) e delle forze di polizia. "La maggior parte dei liberi-sospesi ottiene l’affidamento, il che vuol dire che non sono delinquenti e che il rischio che commettano altri reati è basso", spiega Francesco Maisto, di recente andato in pensione dopo essere stato presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, secondo il quale "questa è una situazione diseducativa perché, affinché una pena sia efficace, essa deve arrivare il più presto possibile anche in una forma alternativa al carcere". Carenze di personale - La causa principale dei ritardi è dovuta alla carenza di personale negli Uffici e nei Tribunali di sorveglianza dove manca un numero di magistrati e di unità di personale amministrativo sufficiente a far fronte alla massa di lavoro che arriva ogni giorno, così come nell’Uepe dove gli assistenti sociali non riescono a svolgere tutte le indagini che vengono richieste. A Milano, ad esempio, il Tribunale di sorveglianza può contare su 13 magistrati impegnati negli Uffici di sorveglianza del distretto a fronte di un organico che ne prevede 19, una scopertura di oltre il 30% dei posti previsti. Analoga è la situazione tra il personale amministrativo. Al 15 giugno scorso erano pendenti 14.110 fascicoli di cui ben 10.971 relativi ai soli "liberi-sospesi". Gli stessi 13 magistrati devono poi occuparsi anche di chi è già affidato in prova, è in detenzione domiciliare o ha ottenuto una delle altre misure alternative e di qualcosa come 6.567 detenuti, 505 a testa, il cui numero è tornato a crescere in maniera vertiginosa e costante. Anni di attesa - Le richieste di chi è in carcere, anche quelle apparentemente meno importanti, hanno la precedenza rispetto a quelle dei "sospesi" che essendo, appunto, liberi finiscono in coda alla fila. Ci sono casi di persone che hanno commesso reati alla fine degli anni 90, sono condannate definitivamente e aspettano di ottenere l’assegnazione ai servizi sociali da 3-4 anni, nel frattempo si sono reinserite nella società, hanno cambiato vita, non sono più ciò che erano prima, ma non sono ancora riuscite a chiudere il conto con la giustizia. "A fronte di migliaia di condanne in tutta Italia ci sono solo poco più di 170 magistrati di sorveglianza che si devono occupare di tutto", dichiara Marcello Bortolato, segretario del Conams (Coordinamento Nazionale dei Magistrati di Sorveglianza) e presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze. "Siamo pochi e le risorse sono scarsissime, il problema è che in Italia ci si occupa molto dei processi e molto poco della parte esecutiva che viene dopo", aggiunge Bortolato che riconosce, comunque, che il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha aumentato gli organici, anche se ritiene che non sia stato fatto in maniera adeguata per far fronte alle esigenze. Il dipartimento del ministero sta studiando nuove prassi e nuovi strumenti organizzativi. Più udienze - Il presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano Giovanna Di Rosa, che ha ereditato una delle situazioni più allarmanti in Italia, ha aumentato le udienze e riorganizzato le procedure, ma la coperta resta sempre corta. "Come si può pensare di rispettare in questo modo il principio secondo il quale la giustizia si compie con l’esecuzione della pena?", si chiede Di Rosa preoccupata anche perché "ogni ritardo è un’istanza sulla libertà personale di qualcuno sulla quale non si decide". Carceri, discariche sociali o luoghi di rieducazione? di Fabio Corsaro informareonline.it, 26 luglio 2017 Il Ministro Orlando: "Non bisogna negare mai la dignità che l’uomo ha e non deve mai perdere". Il carcere è uno degli argomenti più impopolari che la pubblica opinione fatica ad affrontare senza speculazioni o invocazioni prettamente politiche. Il racconto delle realtà penitenziarie è spesso evitato, o quantomeno sottovalutato, perché lo configuriamo solitamente come un tema che non ci appartiene, come l’espressione più eclatante di una giustizia che fa il suo corso. Non esiste fascino intorno a queste strutture, bensì solo l’idea di demonizzazione del luogo e dei suoi detenuti. Tuttavia, esiste un vissuto di volontari, operatori, poliziotti e tutte quelle figure che gravitano intorno a queste realtà che stentano ad emergere e del quale si parla mal volentieri. Il carcere va compreso, studiato, analizzato nei suoi dati, che influiscono sulla qualità del carcere stesso e soprattutto sulla società di riferimento. Gli andamenti, le statistiche e le percentuali ci descrivono uno scenario poco confortante che si sta vivendo in Italia. Siamo, ad esempio, il Paese col più alto costo in Europa relativo al sistema penitenziario nazionale e, nonostante ciò, quello col tasso di recidiva maggiore. Inoltre, oltre il 90% dei dipendenti sono agenti di custodia, con un rapporto di 1,5 detenuti per ogni agente. Solo il 9,90% rappresenta il personale composto da insegnati, medici, formatori, mediatori culturali e altri civili. Insomma, in Italia è ampiamente diffusa la concezione di carcere come discarica sociale e non luogo di rieducazione. Ciò è dovuto anche e soprattutto al sovraffollamento delle strutture che non garantiscono il corretto e degno funzionamento di quei processi sociali e culturali, incaricati di compensare la devianza criminale dell’individuo. Il sovrannumero dei detenuti è la vera piaga di un sistema giudiziario che sta provando a rimodularsi per mezzo di pene alternative. Alla fine del 2010 il tasso di affollamento del nostro sistema penitenziario era del 151% con punte, in regioni come l’Emilia Romagna e la Puglia, di oltre il 180%. Alla fine del 2015 il tasso di affollamento era del 105% e solo in Puglia superava il 130%. Dal 2010 al 2015 si è verificato un trend di decrescita dei detenuti e di alcuni dati che hanno contribuito al miglioramento del sistema penitenziario, come, ad esempio, l’aumento dei detenuti che lavoravano o studiavano e la diminuzione del tasso dei suicidi. "Stiamo lavorando a delle misure per realizzare maggiore sicurezza" - Ad esporsi su questa tematica, è stato lo scorso mese il Ministro della Giustizia Andrea Orlando presso Palazzo Arlotta di Napoli, in occasione della presentazione del libro di Antonio Mattone "E adesso la palla passa a me", una raccolta di storie e lettere di detenuti che tolgono il velo di una comoda cecità alla condizione degli uomini dietro le sbarre, e di cui Orlando ha scritto la prefazione. "Il carcere - ha affermato il Ministro - è radice di facile consenso, un argomento di cui si parla tanto invocandolo, ma poco raccontandolo. È utilizzato dalla politica come strumento di esorcismo sociale: messo dentro il "mostro" la società ha risolto i suoi problemi. Il "buttare via la chiave" è solamente un’auto-rassicurazione che si cerca di realizzare, come se la segregazione risolvesse i problemi sociali che hanno portato alla devianza". La parola "Umanità" configura per una sola volta nella Costituzione Italiana, nell’articolo 27 relativo alle pene che "non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". La rieducazione è una sacrosanta verità che trova difficile applicazione ai giorni nostri. "Parlare di carcere - afferma Orlando - è importante perché è una tematica democratica, che non riguarda soltanto i detenuti e i detenenti, bensì la società nel suo insieme. Esso è un preziosissimo luogo di raccolta di informazioni e considerarlo come mondo a parte è un pericolo per la democrazia. Negli ultimi anni abbiamo fatto numerosi passi avanti nella ridefinizione del sistema penitenziario: fino a qualche tempo fa non avevamo un sistema delle pene alternative. Siamo passati da 10.000 esecuzioni penali esterne a 40.000; il bilancio destinato agli uffici delle esecuzioni penali esterne è passato da 400.000 euro a circa 23 milioni di euro. La segregazione - continua il Ministro - non è la soluzione finale. Stiamo lavorando a delle misure per realizzare maggiore sicurezza. Abbiamo un’esperienza pilota che è quella del circuito minorile: il carcere è una estrema ratio e la recidiva è scesa in questi anni in modo drastico. Abbiamo un carcere che tratta detenuti con storie diverse e professioni criminali diverse, un carcere fordista che non tiene conto della complessità sociale. Bisogna provare a riprendere la individualità del singolo. Stiamo stimolando nuovi progetti di introduzione al lavoro all’interno del carcere. Non bisogna negare mai la dignità che l’uomo ha e non deve mai perdere". Mettere l’antimafia al centro della politica e della società di Andrea Orlando (Ministro della Giustizia) huffingtonpost.it, 26 luglio 2017 Le ricorrenze, le sentenze. Ma poi c’è la vita di tutti i giorni. Mettere la lotta alle mafie al centro della politica e della società. Questa deve essere la prospettiva, a venticinque anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, trentacinque anni dopo l’assassinio di Pio La Torre e del Generale Dalla Chiesa. Questa è l’esigenza che ha ispirato l’iniziativa degli Stati Generali della Lotta alle Mafie. Dieci mesi di lavori, 16 tavoli tematici, a cui hanno preso parte esperti e studiosi di varie discipline, esponenti del mondo dell’associazionismo, dell’avvocatura, della magistratura e alcune importanti figure istituzionali, hanno lavorato per raccogliere contributi ed elaborare documenti che sono stati depositati nel maggio scorso. Un ampio comitato scientifico avrà il compito di rielaborare e sintetizzare questo importante lavoro, in un report che rappresenterà la base per la conclusione di questo percorso, una grande iniziativa aperta che si terrà a inizio autunno. Si tratta di un metodo di lavoro che abbiamo già sperimentato con gli Stati generali dell’esecuzione penale, e come in quel caso si è potuto nutrire del contributo di quasi duecento persone, che con diversi approcci e prospettive disciplinari hanno contribuito a realizzare un lavoro di approfondimento, conoscenza, analisi e proposta davvero partecipato. Il filo rosso di questo percorso sta nella capacità - inedita per ampiezza - di leggere l’evoluzione delle mafie in tutti gli ambiti della vita sociale: globalizzazione, economia, pubblica amministrazione, politica, agricoltura, sport, informazione, formazione e altro ancora. Di cogliere i punti di vulnerabilità del sistema, l’adeguatezza o meno dell’armamentario di contrasto, i "varchi" attraverso cui le organizzazioni criminali riescono a incunearsi. Di portare la lotta alle mafie oltre il recinto dell’azione penale, con l’attenzione all’ordinario svolgersi della vita pubblica, e la cura per le persone (i minori, le vittime), superando logiche manichee e meramente repressive per adottare approcci di prossimità, che guardino ai contesti in cui proliferano le mafie. Sono emersi spunti molto originali, in ambiti rimasti troppo spesso sommersi. Penso ad esempio al rapporto tra le mafie e il fenomeno religioso, all’esigenza di una "teologia della liberazione" dalle mafie. Il venticinquesimo anniversario del 1992 non può essere un’occasione perduta, la resa a un ricordo che progressivamente si affievolisce. Per costruire una nuova prospettiva antimafia, che è una nuova prospettiva per l’Italia, dobbiamo evitare due rischi. Il primo è il tentativo, più o meno esplicito, di una rimozione della minaccia mafiosa. La mafia non ha vinto, ma non ha nemmeno perso. Lo Stato ha risposto con efficacia alla sfida dello stragismo mafioso e grazie al lavoro quotidiano della magistratura e delle forze dell’ordine continua la sua costante azione repressiva, ma non dobbiamo mai abbassare la guardia. L’altro rischio è quello dello stereotipo, della strumentalizzazione per cui la mafia diventa una sorta di algoritmo, un meccanismo di reazione nella polemica politica, più che un vero pilastro della battaglia per una società più giusta. Gli Stati Generali della lotta alle mafie hanno posto al centro una convinzione, che guiderà anche la nostra elaborazione di misure concrete, culturali, normative e organizzative: la resistenza delle mafie è lo specchio della crisi sociale e della crisi politica. Le mafie sono poteri che riempiono i vuoti della crisi della politica, della crisi dei soggetti istituzionali e sociali. Le mafie giocano sull’arretramento degli Stati nazionali, dei corpi sociali, dei meccanismi di inclusione. Si inseriscono nelle loro crepe, sfruttando ogni fragilità per rafforzarsi. Il paradosso delle mafie contemporanee è un’amara verità: le mafie sono gli ultimi corpi sociali "sopravvissuti", attori di connessione e di intermediazione. Pur volendo lo svuotamento del capitale sociale, le mafie presidiano la società. Cercano di controllare il territorio sociale, con un welfare che compete apertamente con il welfare dello Stato in ritirata, con capacità che, fuori da ogni vincolo democratico, sfidano le debolezze dei corpi ispettivi dello Stato o delle competenze progettuali locali. Le mafie sono attori di innovazione. I nostri nemici sono entità reattive, dinamiche, proteiformi, che sanno adattarsi ai cambiamenti della società e dell’economia. Nella loro corsa, pongono costantemente il tema della crisi della democrazia. Nel riconoscere queste caratteristiche delle nuove mafie, dobbiamo agire secondo due livelli. In primo luogo, dobbiamo ripartire dai territori e dai settori dove le mafie penetrano, per comprendere e sostenere i presidi istituzionali e dell’inclusione sociale contro i presidi della criminalità. In secondo luogo, dobbiamo rilanciare la cooperazione giudiziaria internazionale. È un grande tema culturale e che dovrebbe ricevere maggiore attenzione nel dibattito pubblico, perché non riguarda solo gli esperti. Gli Stati, da soli, non riescono a contrastare mafie sempre più globali. Non cooperare a sufficienza, e utilizzare uno strumentario antiquato, significa essere complici. Per rafforzare queste esigenze, tra la fine settembre e i primi di ottobre chiameremo a raccolta le forze sociali e culturali per confrontarsi sugli esiti dei lavori degli Stati Generali della lotta alle mafie. L’ambizione è alta, presentare un Manifesto per una nuova consapevolezza antimafia. Provare a colmare i troppi vuoti che, negli anni, le mafie si sono incaricate di riempire. Provare a ricollocare la lotta alle mafie dentro una prospettiva di sviluppo e di democrazia. Femminicidio. Se raccontare la rabbia aiuta a evitare i delitti di Aldo Masullo Il Mattino, 26 luglio 2017 La vita quotidiana è come un mare sotto costa, in cui invisibili gorghi insidiano chi si bagna. Spesso i malcapitati finiscono male. Aiutare a rendersi conto in tempo di queste insidie io credo sia una funzione molto importante, che il dibattito pubblico dovrebbe esercitare. Su tale linea sembra muoversi questo giornale quando, dopo l’intervista di Maria Chiara Aulisio ad una madre disperata per la dissipazione irrefrenabile della figlia quattordicenne, pubblica l’intervista di Ettore Mautone. Questa tocca un altro dolentissimo tasto dell’affannata società del nostro tempo. L’intervistato è ancora una volta un protagonista, qualcuno che in prima persona, provocato, può parlare del gorgo che minacciava di risucchiarlo. A parlare, è "un marito violento", un uomo che ha seriamente corso il rischio di diventare femminicida, e si è salvato per una circostanza fortunata. Si tratta di una confessione liberatoria, tanto più salutare, quanto più grave è il male vinto. A quanto s’intende dalle parole dell’uomo, il suo matrimonio è stato un fallimento, sia pure a lungo nascosto nelle pieghe dell’orgoglio. La rabbia crescente corrisponde alla violenza che si fa su se stessi, quando non si vuole lucidamente ammettere quel che in fondo si sa. Lei benestante, colta e frivola. Lui carico di tutte le responsabilità familiari ma anche presuntuoso per il suo mascolino e solitario impegno. Su ambedue pesa la totale mancanza di comuni. interessi. "Spentala passione non c’era più amore, sostituito da rabbia e risentimenti". Un unico bisogno irresistibile s’impone: "Imparare a dire: mi sento arrabbiato, e spiegare i motivi". Qui si tocca il cuore del male: non avere le parole per dirlo. Addirittura la personalità si sdoppia in due soggetti l’uno è arrabbiato e non sente; l’altro sente che il primo è arrabbiato, come se non fosse lui stesso ad esserlo. È l’inizio della situazione più pericolosa: la deresponsabilizzazione. Avviene nell’animo umano come nelle grandi crisi bancarie. Per alleggerire l’insopportabile peso dei crediti inesigibili di una banca, se ne fonda un’ altra, la "banca cattiva", in cui si raccolgono i crediti screditati. Così la mente umana, per essere da una parte libera di decidere il normalmente inaccettabile, scarica il senso di responsabilità sull’altra parte. L’altra parte, quella dell’arrabbiato, può fare quella che vuole: io, quello che sente, non c’entro, sono soltanto uno spettatore. A questo punto la parte arrabbiata è pronta per tradurre la sua rabbia in delitto. A ciò si può effettivamente arrivare quando, un po’ diversamente dal caso dell’intervistato, a rompersi è un matrimonio animato ancora almeno dall’illusione dell’amore oppure dalla prepotenza di un possesso intimamente inteso come inviolabile, e dunque la notizia della rottura è traumatica, sconvolge un saldo assetto emotivo. In fondo, tra tutti i legami affettivi, la cui rottura produce un lutto profondo, assai difficilmente elaborabile, c’è, o potrebbe esserci, dopo quello tra genitori e figli, il vincolo di coppia, per il complesso d’investimenti emozionali diversi che esso comporta: sentimenti erotici, sociali, prolungamenti ideali nel passato per i ricordi e nel futuro per le aspettative. Il che non vuol dire che le rotture di coppia non debbano avvenire. Sarebbe irrealistico il pensarlo. Anzi possono essere a volte sacrosanti gesti d’igiene morale. Ma non debbono essere decise per superficialità e avventatezza, per capriccio o addirittura per moda, con totale mancanza di senso delle proporzioni tra il guadagno e la perdita di beni preziosi di umanità. L’aspetto più interessante dell’intervista comunque è la notizia della esistenza di "gruppi di consapevolezza", a cui l’uomo, per il suggerimento di un’amica, tanto sollecita quanto saggia, si è rivolto. Si tratta, immagino, non di gruppi professionali, quanto di volontari. Se è così, ci si trova dinanzi a un bell’esempio di solidarietà, declinata in termini nuovi. Il termine solidarietà ha un significato, che spesso si perde nella banalizzazione corrente. Esso vuol dire: il bene tuo è il bene di tutti noi; il tuo male è il male di tutti noi. Se si ha concreta consapevolezza di ciò, non si può mancare dimettere in campo l’aiuto, di cui si è capaci, per difendere l’altro individuo da un male e assicurargli il bene. La solidarietà è innanzitutto intelligenza dell’umano. Bisogna capire che i mali dell’anima possono sanarsi, se vengono socializzati. Talvolta, com’era avvenuto all’intervistato, si prova vergogna di sé, di qualche proprio comportamento. In sostanza, ci si mortifica al pensiero che per esso si sia peggiori degli altri. Allora, chiudendosi in sé, si rinforza la propria vergogna e, prigionieri di essa, non si riesce a cambiare, come pur si vorrebbe. In questi casi, solo il parlarne con altri, il rompere il cerchio perverso della solitudine, il sapersi non diversi dai più, libera al cambiamento. Sarebbe interessante portare attenzione e sostegno a iniziative come quella dei "gruppi di consapevolezza". Concorrerebbe oltre tutto a stimolare fattivamente la pigrizia morale dei più, e a suscitare un nuovo serio interesse per la sapiente gestione di noi stessi. Ma innanzitutto eviterebbe che vite preziose si perdano nei gorghi della follia. Bavaglio sul web, marcia indietro dei dem di Liana Milella La Repubblica, 26 luglio 2017 Filippin: "Vogliamo tutelare le vittime di diffamazione, le soluzioni possono essere altre". Diritto all’oblio nelle mani del Garante della privacy, il Pd frena. A cominciare dalla relatrice del ddl sulla diffamazione, la senatrice veneta dem Rosanna Filippin, che a Repubblica dice: "La mia è un’ipotesi aperta su cui discutere, non è affatto un diktat, né un testo blindato. È un tentativo di mediazione sul modello del cyberbullismo. Ma, ammesso che il ddl ce la faccia a essere approvato, c’è tutto il tempo per discutere". Come sempre, quando si parla di legge sulla diffamazione, scoppiano le polemiche. Quattro passaggi parlamentari, un testo che da tempo giace al Senato profondamente rivisto rispetto a quello della Camera, poche chance di essere licenziato da palazzo Madama, anche se il Pd non esclude che possa farcela per ottobre, quando poi però dovrebbe tornare alla Camera per l’ennesima lettura. Tuttavia il caso scoppia lo stesso quando il Fatto quotidiano scopre che il contestato "diritto all’oblio" - via dal web, con un colpo di spugna, le notizie ritenute diffamatorie con un ricorso al Garante della privacy se entro 5 giorni dalla richiesta il sito non cancella quella considerata lesiva - torna a far parte di quello che resta dell’originario ddl sulla diffamazione. Stralciati, per mancanza di accordo politico, sia la soppressione del carcere per il giornalisti, sia le norme sulla rettifica. Tutto finito in un provvedimento che non vedrà mai la luce, restano tre articoli, due sulle querele temerarie nel penale e nel civile, e il rivisitato diritto all’oblio. Che, nella versione di Filippin, ha subito sollevato le proteste di Mdp, con Felice Casson e Lucrezia Ricchiuti. Dice l’ex giudice istruttore di Venezia: "In primis va difesa la libertà di stampa contro le querele temerarie, tant’è che ho ripresentato il mio emendamento che le punisce. Quanto al diritto all’oblio esso può arrivare solo dopo che il giudice ha constatato la diffamazione". Ricchiuti è furibonda: "Stanno mettendo il bavaglio ai giornalisti e gli stessi giornalisti non se ne accorgono e non reagiscono con la necessaria energia. Quella di Filippin è una norma antidemocratica che lede il diritto all’informazione. Da censurare e criticare al di là del fatto che la legge sia alla fine votata. Dal Pd mi aspetterei un sussulto di indignazione...". Il Pd, in realtà, reagisce sorpreso. Perché sull’ipotesi di affidare al Garante della privacy la materiale cancellazione e la "deindicizzazione" delle notizie ritenute diffamatorie non ha ancora discusso, né preso una decisione. Lo dimostra la stessa Filippin che spiega così la genesi del suo emendamento: "Compito del relatore è trovare una soluzione su un problema sentito da tutte le forze politiche. È un fatto innegabile che tutti i gruppi, ad eccezione di M5S, hanno riproposto il diritto all’oblio che la Camera aveva cancellato. Io ho semplicemente cercato una norma coerente cui agganciarmi e ho ritenuto che il codice della privacy potesse essere uno strumento giusto". Ricchiuti e Casson, con una battuta, dicono che Filippin avrebbe riproposto pari pari un emendamento del forzista Giacomo Caliendo. Lei, Filippin, sostiene invece di essersi ispirata al caso "Google Spain" finito alla Corte di giustizia del Lussemburgo e di essersi appoggiata a una norma che già esiste, la possibilità di ricorrere al Garante qualora ci sia stata una manifesta violazione della privacy. Spiega: "Se il sito non cancella entro 5 giorni, chi si ritiene danneggiato presenta un ricorso al Garante che, con i suoi tempi necessari, fa un’istruttoria e decide". Manca, in questa procedura, la parola del giudice. Filippin commenta: "il problema è difendere le vittime, le soluzioni possono essere molte, e non è detto che quella che ho proposto io sia la migliore. Vedremo, non c’è fretta". Anche perché la possibilità che la legge passi gode di una percentuale molto bassa. Dunque si può dire che la mafia non c’è (a Roma) di Mauro Mellini L’Opinione, 26 luglio 2017 Tra tante sciagure e sciocchezze, una notizia buona: almeno a Roma la mafia non c’è. Così ha detto il Tribunale. Certo, restano le sciocchezze, ma da quelle non c’è Tribunale che ci liberi. "Mafia Capitale": per mesi e anni era diventato lo slogan di leghisti, meridionalisti dozzinali, pentastellati, giustizialisti di destra e di sinistra. A me, non faccio per vantarmi, a quel preoccupante slogan sembrò sempre che si potesse rispondere parafrasando la scritta di un manifesto elettorale particolarmente cretino, per sbracata imitazione grillina, della propaganda elettorale del povero Ignazio Marino ("questa non è politica, è Roma!") da cambiare in: "Questa non è mafia, è Roma". Ora il Tribunale, dopo tante discussioni e tanti dubbi sulle imputazioni mosse a ladroni e ladruncoli nel processo a Carminati e soci ha detto proprio questo: "Non è mafia, è Roma". Amo questa Città, ma l’amava anche di più il Belli che, a proposito di "mance" (progenitrici piccine delle tangenti) scriveva: "Si dura Roma ha da durà cusì". Ma voglio lasciar perdere la storia (il che, poi, è impossibile). Dire "la mafia non c’è" e sentirlo dire da un Tribunale non è cosa da niente. Nella teologia di quella che Vitiello chiama "la mafia devozionale", l’esistenza della mafia è un dogma. Negarne l’esistenza è come negare quella del Diavolo al tempo del governo dei preti; un po’ come negare l’esistenza di Dio. Roba da fare la fine di Giordano Bruno. Certo, si tratta, oggi, di un dogma "regionale"; a Palermo solo uno con la vocazione del martirio o con tendenze masochiste potrebbe dire "la mafia non c’è", anche solo per formulare un’ipotesi, contestare l’attualità di una denominazione, proporre un termine diverso (di cui non oso fare esempi). Chi dice "la mafia non c’è è comunque identificato come mafioso, nemmeno solo "concorrente esterno". C’è, dicono, libertà di pensiero e di parola. Ma, poi, ci spiegano che a tutto c’è un limite. Per fortuna c’è un limite geografico anche a queste "interpretazioni" della Costituzione, oltre che, pare, alla Mafia, della quale già da tempo era stato accertato che, benché sbarcata ad Ostia-Fiumicino, era rimasta "inchiodata sul bagnasciuga", come invano Benito Mussolini aveva ordinato che si doveva fare con lo sbarco degli anglo-americani. Il guaio è che, se, almeno per ora, non è reato e si può non finire sul rogo affermando che in parte del territorio nazionale la mafia non c’è, l’antimafia "devozionale" suscettibile e, soprattutto, i professionisti dell’antimafia. Anche e soprattutto quelli togati, ce ne sono in abbondanza "dalle Alpi alla Sicilia" e fanno ottima carriera un po’ dovunque. Ma con certi amici c’è poco da scherzare. Questa storia della sentenza dei "magnaccioni" di Roma Capitale cui è stato negato il "marchio di qualità mafioso" è comunque una buona notizia (anche perché ai "magnaccioni" alla matriciana non sono stati risparmiati anni di galera). Ma, come dicevo all’inizio, la buona notizia non esclude le sciocchezze o, per il rispetto dovuto anche alle opinioni di alcuni amici tutt’altro che sciocchi che hanno parlato e scritto sull’argomento, diciamo pure le obiettive storture di questa vicenda. Il processo per "Mafia Capitale" era nato male, sulla base di una norma infelice tra le infelicissime "novelle" del nostro Codice penale, l’articolo 416 bis. Un altro caso di "fattispecie penale apparente" o "aperta" secondo la classificazione della loro incostituzionalità per inidoneità a soddisfare il precetto del "principio di legalità" imposto dall’articolo 25 comma 2 della Costituzione, secondo l’insegnamento della sentenza Volterra della Consulta. Quando fu istituito il reato di "associazione di stampo mafioso" io ero deputato, ma il padre-padrone del Partito Radicale aveva voluto che lasciassi il posto in Commissione Giustizia ad altri di me più "idonei". E quella norma, che ha infestato la nostra giustizia penale per decenni, fu approvata senza "passare per l’Aula", in Commissione. Me ne occupai subito dopo come avvocato, contestandone, naturalmente senza ombra di successo, la legittimità costituzionale. Non starò qui a ripetere gli argomenti di quel mio poco fortunato tentativo. Ma provate anche voi a leggere l’articolo 416 bis. Lo leggerete e lo rileggerete come diceva Marciano insegnando ai suoi giovani colleghi a "trovare" i motivi di ricorso. E vi accorgerete che più lo leggete e meno chiaro ne è il significato, così da dover concludere: è associazione di stampo mafioso quella composta da mafiosi. O giù di lì. E allora si capisce perché quella di Massimo Carminati "non è mafia". È Roma. La Roma di Giuseppe Gioachino Belli, delle mance e degli "strozzi", dei Papi e dei Cardinali nepotisti, delle manifestazioni di pietà religiosa in moneta sonante, dove la legge c’è, ma "un ladro che tiè a mezzo chi commanna e cià donne che l’arzino la vesta rubbassi er palazzon de Propaganda troverete er cazzaccio che l’arresta ma non trovate mai chi lo condanna". Magari oggi è più facile essere arrestati e condannati, anche, e soprattutto, per chi i palazzi non li ruba. Ma la sostanza è quella. Per farla breve: Giuseppe Pignatone è venuto a Roma dalla Sicilia. Portandosi dietro un bel carico di imputazioni di mafia da distribuire, Ma anche il sistema secondo cui la "personalità del diritto" è da identificare con la personalità del Pm e del giudice, ha un limite. Almeno geografico. "Questa non è mafia: è Roma". Terrorismi, onore al portogallo di Pino Casamassima Corriere della Sera, 26 luglio 2017 La concessione dell’estradizione dal Portogallo all’Italia per Maurizio Tramonte, alias Fonte Tritone dei Servizi, cioè uno dei due condannati all’ergastolo in via definitiva col compare Carlo Maria Maggi per la strage di piazza Loggia, induce a una riflessione sul rimpatrio in relazione alla giustizia. Estradizione che non dovrebbe essere salutata come fatto eccezionale, come nel caso di Tramonte, ma normale. Grazie a questa anomalia, sono invece ben oltre 140 i latitanti per reati legati ad attività eversive che godono di una impunità che si avvia per tutti a diventare definitiva per prescrizione. Fra essi, ad esempio, Cesare Battisti, salito spesso alle cronache proprio per il balletto fra gli affari esteri italiani e quelli di Francia e Brasile per la concessione della sua estradizione. Ma quei paesi hanno continuato a concedere rifugio all’ex leader dei Proletari Armati per il Comunismo, condannato in contumacia e in via definitiva per quattro omicidi. Un altro caso è quello di Alessio Casimirri, scappato in Nicaragua (che non concede estradizione) con sua moglie Rita Algranati: entrambi condannati all’ergastolo da latitanti per l’agguato di via Fani. Eccidio per il quale fu condannato - sempre in contumacia - pure Alvaro Lojacono. L’ex "compagno Camillo" delle Brigate rosse (Casimirri) gestisce a Managua un ristorante frequentato spesso da italiani che si fanno raccontare un po’ di storie. (Venga in Italia, Casimirri, a raccontarle quelle storie, così, se non altro, renderà un po’ di utilità alla nuova commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro). La "compagna Marzia" ai tempi della militanza brigatista (Algranati), dopo la fine del matrimonio con Casimirri, vagò un po’ per l’Europa prima di farsi arrestare in Egitto. Attualmente sta scontando l’ergastolo, fra le inutili suonate di fisarmonica davanti al carcere fatte da Oreste Scalzone, che un grido di dolore non lo nega a nessuno nella sua professionale attività di antagonista com’è, anch’egli miracolato dalla prescrizione dopo anni di "Dottrina Mitterrand". Il "compagno Otello" (Lojacono) è cittadino svizzero, cioè di quel paese che - da sempre - fa cucù all’estradizione. Sul fronte opposto geografico e politico troviamo il cittadino giapponese Roi Hagen, alias Delfo Zorzi, cioè quel neofascista indicato da più fonti come coinvolto nella stragi di piazza Fontana e piazza Loggia, poi assolto in via definitiva. E a nulla servì un viaggio fino in Giappone di Manlio Milani, che andò a chiedergli di venire a deporre in Italia durante l’inchiesta. "Non mi fido" disse il samurai vicentino ora sollevato da ogni accusa, ma che ai tempi la procura avrebbe voluto arrestare. Così come tanti che sono sempre scappati, lontano da ogni punizione. Da ogni giustizia. Da ogni estradizione. Latitanti ad libitum. Consip, la Cassazione bacchetta le procure: "Romeo spiato con i metodi dell’antimafia" di Valentina Errante Il Messaggero, 26 luglio 2017 L’uso di intercettazioni, avvenute con metodi particolarmente invasivi consentiti solo nelle inchieste per mafia, e la carenza di argomentazioni che sostengano le esigenze cautelari per Alfredo Romeo, arrestato nell’ambito dell’inchiesta Consip. La Corte di Cassazione adesso rispedisce gli atti al Tribunale del Riesame e invita i giudici a motivare la decisione di confermare il carcere per l’imprenditore, al quale intanto il gip ha concesso i domiciliari sotto il controllo del braccialetto elettronico. "Non si comprende dall’ordinanza impugnata - scrive la Cassazione - di quali contenuti operativi consista e in quali forme e modalità concrete s’inveri il "metodo" o il "sistema" di gestione dell’attività imprenditoriale da parte del Romeo, cui si fa riferimento per giustificare l’ipotizzato esercizio di una capacità d’infiltrazione corruttiva in forme massive nel settore delle pubbliche commesse". Parole che tirano direttamente in ballo le procure di Napoli e Roma dopo che gli avvocati Francesco Carotenuto, Giovanni Battista Vignola e Alfredo Sorge, avevano impugnato l’ordinanza del Riesame, che confermava il carcere per Romeo. Secondo l’accusa, supportata dalle dichiarazioni del funzionario Consip Marco Gasparri, l’imprenditore aveva pagato 100mila euro per ottenere informazioni sulle gare della centrale di acquisto della pubblica amministrazione e per correggere le offerte. Una vicenda già a processo, la prima udienza, con rito immediato, è fissata per il prossimo 19 ottobre. La difesa contestava, però, l’uso delle intercettazioni ambientali, disposte a Napoli in un fascicolo dove Romeo era indagato per associazione di stampo mafioso, ipotesi che aveva consentito di utilizzare software spia, dai quali erano emersi 13 incontri tra Gasparri e l’imprenditore dal 3 agosto al 29 novembre 2016. Scrivono i giudici: "Il Tribunale dovrà svolgere verifiche sul materiale indiziario emerso dalla operazioni di intercettazione ambientale, espressamente utilizzate dal pm a sostegno della propria richiesta ed in seguito valutate dal gip" accertando in particolare il collegamento tra "la condotta delittuosa" oggetto dell’accusa e "l’esistenza di associazioni criminali", che giustifichi l’utilizzo di mezzi "particolarmente invasivi" come i captatori informatici. Sottolineano i giudici che al momento della richiesta di misura cautelare da parte dei pm di Roma "È scomparso ogni riferimento" all’aggravante mafiosa inizialmente prefigurata dalla procura di Napoli. Nessun rilievo sull’impiego delle conversazioni, ma la richiesta di argomentazioni più approfondite che collochino i fatti contestati in un contesto di criminalità organizzata vista "la forza intrusiva del metodo usato". In relazione alle esigenze cautelari la Cassazione precisa: "Solo apoditticamente risultano, in difetto di precise e concrete argomentazioni volte a confutare le puntuali obiezioni difensive sollevate al riguardo, le finalità corruttive collegate a non meglio definite vicende in cui l’indagato avrebbe fatto ricorso all’impiego strumentale di denaro non tracciatile, né possono assumere valore di concretezza e specificità i cenni alla vastissima attività imprenditoriale di Romeo, al sentimento di soddisfazione da lui espresso per l’espansione dei propri interessi al di fuori della Regione Campania. alle sue conoscenze presso settori delle istituzioni ovvero ai contatti illeciti che egli potrebbe continuare a coltivare trovandosi ai domiciliari". "Nessuno sia giudicato a sua insaputa". Migliaia di processi a rischio. di Franco Vanni La Repubblica, 26 luglio 2017 L’ordinanza del Tribunale di Milano apre una breccia. Non si può processare chi non sa di essere imputato. Lo afferma un’ordinanza del giudice Guido Salvini, della Prima sezione penale del Tribunale di Milano, sul caso di un 29enne algerino accusato di possesso di banconote false. L’uomo non ha fissa dimora. All’apertura del fascicolo, nel 2014, è stato affidato a un avvocato d’ufficio, che non sa dove si trovi il suo assistito né ha avuto contatti con lui. Eppure, su indicazione della polizia giudiziaria, è domiciliato presso il suo studio, dove riceve gli atti processuali. Scrive il giudice: "Vi è da chiedersi se da tale elezione di domicilio, del tutto formale se non fittizia, possa ricavarsi la prova della conoscenza da parte dell’imputato della celebrazione dell’udienza a suo carico". Dal momento che "quello che si celebrerebbe è un processo a un fantasma", dispone che le udienze siano sospese (insieme ai tempi di prescrizione del reato) fino a quando la polizia giudiziaria non riuscirà a raggiungere l’imputato, informandolo del processo. La portata dell’ordinanza potrebbe essere molto più ampia del singolo caso. Si legge che "situazioni identiche a quella ora esaminata si presentano con molta frequenza in questo Tribunale". Sono infatti centinaia, a Milano, i processi aperti con imputati irreperibili. Quasi sempre stranieri, accusati di reati come furto, ricettazione, occupazione di immobili e resistenza a pubblico ufficiale, che non prevedono l’arresto obbligatorio. Un giudice veterano illustra l’orientamento prevalente: "Una volta che viene indicato un difensore, e il domicilio è stabilito presso il suo studio, è l’imputato a doversi informare sull’evoluzione del processo". Quindi, si va avanti fino a sentenza. Secondo la stima di un presidente di sezione penale, si tratta del 15 percento di tutti i processi che si celebrano a Milano di fronte al giudice monocratico. Sono esclusi i procedimenti in cui l’imputato viene arrestato ed è quindi consapevole di quello che lo aspetta. L’ordinanza, emessa lo scorso 14 luglio, cita una sentenza di Cassazione del 24 gennaio scorso, che afferma come l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio di per sé non prova la conoscenza del processo. E fa riferimento a due pronunciamenti della Cedu - del 2004 e del 2007, relativi a condanne di stranieri - che censurano la tendenza dei Tribunali italiani a portare a processo imputati ignari, violando l’articolo 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, che disciplina il giusto processo e il divieto di discriminazione. Eppure, ovunque in Italia, si registrano a migliaia ogni anno le condanne a imputati introvabili. Processi in cui il difensore non ha elementi per difendere il proprio assistito, né una sua procura per scegliere riti alternativi (rito abbreviato o patteggiamento), e in molti casi finisce per accettare che la decisione si basi sul fascicolo del pubblico ministero. Sulla questione è intervenuto il decreto Orlando di riforma della giustizia, in vigore dal prossimo 3 agosto, che consentirà agli avvocati di non accettare l’elezione di domicilio se non riterranno di potere davvero sostenere la difesa. Con la linea promossa da Salvini si schiera intanto la Camera penale di Milano, associazione dei penalisti. La presidente Monica Gambirasio commenta: "In caso di incertezza della conoscenza del processo non rimane che sospenderlo. Così si risparmiano anche risorse economiche della giustizia, già limitate". Per il sistema della giustizia significa ammettere l’impossibilità di raggiungere l’imputato, e rinunci a punire i reati. Una scelta impopolare. "Bisogna poi rendere conto alla società del fatto che un possibile colpevole viene di fatto graziato perché non si è stati in grado di trovarlo", dice un giudice. Migranti liberi di lasciare l’Italia di Alessandra Ricciardi Italia Oggi, 26 luglio 2017 Attesa per oggi la sentenza della Corte Ue che potrebbe cambiare la gestione dei flussi migratori. In ballo il diritto a spostarsi dal territorio di primo approdo. Per il governo di Paolo Gentiloni sarebbe un bell’aiuto per fare la voce grossa in Europa sui migranti. Soprattutto contro paesi, come l’Austria e l’Ungheria, che hanno detto chiaro e tondo di non poter ospitare nuovi arrivi non controllati, chiedendo all’Italia di bloccare i flussi sul proprio territorio. Se la Corte di giustizia europea dovesse decidere, e la sentenza è attesa per oggi, che gli stranieri privi di visto possono fare domanda di protezione internazionale anche in un paese europeo diverso da quello di primo approdo, questo significherebbe di fatto non costringere più l’Italia a dover trattenere gli immigrati aspiranti all’asilo. Che ben potrebbero raggiungere altri stati per vedersi riconoscere il diritto a restare in Europa. Con la conseguenza che anche i costi per l’eventuale rimpatrio sarebbero a carico del paese di destinazione. Una sentenza in attesa della quale ieri il Senato ha sospeso i lavori sulla risoluzione per la ricollocazione e il reinsediamento dei migranti (As. 404), rinviandone l’approvazione alla prossima settimana. Alla Corte di giustizia europea è stato sottoposto il caso di alcuni migranti siriani che hanno fatto ricorso contro la decisione delle autorità slovene e austriache di rifiutare la domanda di protezione internazionale presentata. Il rifiuto era motivato dalla circostanza che i richiedenti avevano varcato "illegalmente" la frontiera dei due stati e che avrebbero dovuto fare istanza nello stato di primo ingresso, nella fattispecie la Croazia. L’avvocato generale, nelle sue conclusioni, ha già ammesso che pur se si tratta di transito irregolare sui territori non si può però classificare come "illegale", in virtù delle motivazioni umanitarie che ne sono alla base. E pertanto non dovrebbe trovare applicazione il regolamento di Dublino invocato invece da Slovenia e Austria. Se la Corte dovesse fare proprio il ragionamento del procuratore, questo consentirebbe a migliaia di migranti, passando per l’Italia, di provare ad arrivare dove hanno già punti di riferimento prima di fare domanda di protezione. L’avvocato generale ha anche affermato che se gli stati di confine, la Croazia ma anche l’Italia, fossero ritenuti gli unici competenti ad accogliere e gestire i numeri eccezionali dei richiedenti asilo, vi sarebbe il rischio per gli stessi stati di non poter più fronteggiare la situazione e di rispettare i conseguenti obblighi internazionali. "Si tratta di una decisione importante che potrebbe rafforzare in maniera significativa le richieste del governo italiano", spiega la relatrice della risoluzione in prima commissione, la senatrice Mdp Doris Lo Moro, "che non trovano il giusto consenso in paesi europei da cui ci si aspetterebbe maggiore e più concreta solidarietà". Intanto la Commissione europea è pronta a intervenire per la gestione dell’emergenza migranti a sostegno dell’Italia con misure concrete da attuare rapidamente su richiesta di Roma, già nelle prossime settimane. È quanto si legge in una lettera inviata al presidente del Consiglio Gentiloni e firmata dal presidente Jean-Claude Juncker, dal vicepresidente Frans Timmermans e dal commissario per l’immigrazione Dimitris Avramopoulos. In particolare, si legge nella lettera, "la Commissione è pronta a decidere, se il governo italiano lo ritiene utile, azioni complementari". Sequestro preventivo, il termine per il riesame decorre dall’acquisizione completa degli atti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2017 In caso di trasmissione frazionata degli atti, il termine di dieci giorni entro cui deve intervenire la decisione relativa a una richiesta di riesame di sequestro preventivo, a pena di inefficacia della misura, decorre dal momento in cui il tribunale ritiene completata l’acquisizione della documentazione. Che deve essere la stessa posta alla base della misura cautelare. Non sono invece utili a spostare il termine eventuali successive integrazioni inviate dalla Procura e non conosciute dal Gip al momento dell’adozione del provvedimento di sequestro. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 25 luglio 2017 n. 36814, annullando l’ordinanza con cui il Tribunale di Frosinone aveva rigettato la richiesta di riesame contro il decreto di sequestro preventivo per lavori su di un immobile sottoposto a vincolo monumentale in assenza di titoli abilitativi e delle prescritte autorizzazioni. Secondo il Tribunale, infatti, l’eccezione di perdita di efficacia del provvedimento impugnato era infondata perché, siccome la documentazione era stata trasmessa in modo frazionato, il termine di dieci giorni per la decisione doveva essere posticipato alla ricezione degli ultimi atti. La Suprema corte rileva però che secondo la nota della Procura della Repubblica di Cassino gli atti erano stati consegnati al Tribunale del riesame il 27 dicembre 2016 e, a integrazione, il 2 gennaio 2017, era stata trasmessa dal Comune di Formia "la relazione tecnica e reportage fotografico comparativo". Ora tale relazione "certamente" non faceva parte degli atti sulla base dei quali il Pm aveva chiesto e il Gip aveva disposto la misura cautelare, in quanto l’ordinanza di convalida e il decreto di sequestro risultavano emessi il 17 dicembre 2016. Per cui il Tribunale ha errato nel fare decorrere il termine dal 2 gennaio 2017. Infatti, prosegue la decisione, "gli atti di cui è consentita la trasmissione frazionata sono solo quelli sulla base dei quali è stata disposta la misura". In quanto è su di essi che deve esercitarsi il controllo del riesame. "Sicché, soltanto quando la trasmissione sia stata completata ed il Tribunale abbia a disposizione tutti gli elementi per poter esercitare la sua funzione di verifica e definire il procedimento incidentale, inizierà a decorrere il termine di dieci giorni per l’emissione del provvedimento che decide sulla richiesta di riesame". L’articolo 324, comma 3, del Cpp prevede espressamente che l’autorità giudiziaria procedente debba trasmettere "gli atti su cui si fonda il provvedimento oggetto del riesame". Il termine di dieci giorni (comma 5) decorrente dalla ricezione degli atti, "non può, pertanto, che riferirsi agli atti che siano stati posti a base dell’applicazione della misura". E se anche il Tribunale può emettere la sua decisione "sulla base degli elementi addotti dalle parti nel corso dell’udienza" (e quindi anche di elementi sopravvenuti) - art. 309, comma 9 - "la perdita di efficacia della misura, prevista dal comma 10, in caso di mancata decisione entro il termine prescritto, non può che decorrere da quello in cui è stata disposta la trasmissione completa degli atti su cui è stata fondata la misura". Una diversa interpretazione sarebbe "in contrasto con il dato letterale e sistematico" e farebbe dipendere la sanzione di inefficacia della misura da elementi "incerti e discrezionali". Aprendo alla possibilità per il Pm di procrastinare a sua discrezione tale termine, per esempio trasmettendo al Tribunale del riesame atti acquisiti successivamente o, comunque, non trasmessi al Gip in sede di richiesta di emissione della misura. Uso dei virus spia solo se c’è un collegamento con organizzazione criminale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2017 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 25 luglio 2017 n. 36874. Per giustificare l’uso di strumenti di intercettazione invasivi come i software spia è necessario verificare il collegamento tra condotta la delittuosa - messa sotto controllo - e l’esistenza di organizzazioni criminali. È solo uno degli argomenti contenuti nelle motivazioni della sentenza (36874) depositata ieri con la quale la Corte di cassazione, il 13 giugno, ha accolto il ricorso contro la custodia cautelare in carcere dell’imprenditore campano Alfredo Romeo, ora ai domiciliari con il braccialetto. Il tribunale del riesame dovrà nuovamente pronunciarsi sulla base delle indicazioni fornite dalla Cassazione sulla custodia cautelare in carcere, con l’accusa di corruzione, per l’imprenditore arrestato nell’ambito dell’inchiesta Consip. Diverse le lacune "evidenziate" dai giudici nell’ordinanza impugnata. Sul fronte delle intercettazioni i giudici sottolineano come la forza intrusiva del mezzo usato e il potenziale vulnus all’esercizio delle libertà tutelate dalla Costituzione debba essere bilanciato, nel rispetto dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità, inquadrando il fatto, sia pure provvisoriamente, in un contesto di criminalità organizzata che risulti supportato da elementi obiettivi. Appurata l’esistenza di un’adeguata motivazione nessuna violazione ci sarebbe invece per il fatto che i virus spia siano stati installati in un luogo considerato privata dimora essendo questa "una delle naturali modalità attuative di tale mezzo di ricerca della prova". Non regge il vaglio della Cassazione neppure la motivazione relativa al rischio di inquinamento delle prove. Per affermare il timore che l’indagine possa essere manipolata dall’indagato non basta, infatti, che emerga un interesse a concordare una versione di comodo con altri indagati, nel caso esaminato con il dirigente Consip Marco Gasparri al quale, secondo l’inchiesta, sarebbero stati versati da Romeo 100 mila euro per ottenere informazioni riservate e consigli per aggiudicarsi gli appalti. Per la Cassazione la preparazione di una strategia comune, anche se basata su una versione mendace, può essere discutibile dal punto di vista della correttezza processuale, ma rientra nel diritto di difesa e non è in grado di turbare il processo formativo della prova. Poggia invece su basi solide, ai fini della configurabilità del reato di corruzione propria, la motivazione con cui i giudici di merito hanno giustificato il rilievo pubblicistico dell’attività svolta da Gasparri all’interno della Consip. Né è determinante che l’atto d’ufficio contrario ai doveri d’ufficio sia rientri nell’ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, purché sia nelle competenze dell’ufficio al quale il soggetto appartiene e sul quale abbia un’influenza. Non c’è sottrazione di minore se la madre dopo il parto resta nel suo Paese di Giorgio Vaccaro Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2017 Corte di Giustizia dell’Unione europea - Sezione V - Sentenza 8 giugno 2017 Causa C-111/17. Se la madre cambia idea e rimane, dopo il parto nel suo paese di origine non commette "illecito trasferimento o mancato ritorno", ovvero sottrazione internazionale di minore. Questo l’esito di una istanza interpretativa formulata dal giudice greco del procedimento avente ad oggetto la "domanda di ritorno" di una figlia in Italia, formulata da un padre, in replica alla decisione della madre della piccola che, dopo il parto, aveva deciso di rimanere in Grecia, nonostante i coniugi avessero fissato la loro residenza abituale in Italia. La Corte di giustizia europea, con la sentenza dell’8 giugno 2017 (quinta sezione Causa C-111/17) nell’interpretare il contenuto della Convenzione dell’Aja del 25.10.80 e del Regolamento CE n. 2201/2003(art.11) ha così statuito "in una situazione quale quella di cui al procedimento principale, in cui un minore è nato ed ha soggiornato ininterrottamente con la madre, per diversi mesi, conformemente alla volontà comune dei suoi genitori, in uno Stato membro, diverso da quello in cui questi ultimi avevano la loro residenza abituale prima della sua nascita, l’intenzione iniziale dei genitori in merito al ritorno della madre, in compagnia del minore, in quest’ultimo Stato membro, non può consentire di ritenere che detto minore abbia ivi la sua "residenza abituale" ai sensi di detto regolamento. Secondo la Corte di Giustizia in una situazione de quo, il "rifiuto della madre" di far ritorno in questo stesso Stato membro in compagnia del minore, non può essere considerato come un "illecito trasferimento o mancato ritorno" del minore, ai sensi di detto art. 11, paragrafo 1." Ne consegue come l’autorità giudiziaria (greca) non dovrà procedere d’urgenza al fine del ritorno del minore nello stato "originario", ma sarà ovviamente lasciata al Giudice del singolo caso, la decisione di realizzare l’interesse del minore, rispetto al diritto del medesimo a godere della bigenitorialità, eventualmente motivando in merito al rientro della piccola nel paese del padre. La decisione interpretativa della Corte di Giustizia ha, infatti, ritagliato il solo concetto dello "illecito trasferimento o dell’illecito trattenimento" di minori in qualsiasi stato contraente, escludendolo nel caso in esame in base all’assunto, comprovato, che il viaggio della madre ed il suo soggiornare in Grecia, dopo il parto, era avvenuto nell’accordo dei due genitori. Ai sensi dell’art. 3 della Convenzione dell’Aja del 1980 ricorda la sentenza, un tale comportamento genitoriale viene considerato "illecito" quando avviene in violazione dei diritti di custodia, assegnati ad una persona, ed in tema di diritto di custodia, l’articolo 5 lettera A della stessa Convenzione, prevede come questo "comprenda il diritto vertente sulla cura della persona del minore, ed in particolare quello di decidere in merito al luogo della residenza". In buona sostanza la domanda del Giudice greco era tesa a "determinare la residenza abituale di un neonato o di un lattante" ed il magistrato ellenico osservava come in questi casi la tenera età del minore non potesse consentire di fare il perno sul poco tempo del radicamento del piccolo in un luogo, ma piuttosto fosse necessario indagare sulla "iniziale intenzione dei genitori, che può dedursi dai preparativi che questi ultimi hanno effettuato...quali la preparazione della sua stanza od ancora la locazione di una abitazione più grande". Al contrario la decisione della Corte di Giustizia, ha riduttivamente osservato in modo dogmatico, come la procedura di ritorno miri solo a "ricollocare" il minore nell’ambiente che gli è più familiare e così facendo a ripristinare la continuità delle sue condizioni di esistenza e sviluppo. Bancarotta per dissipazione o per distrazione in danno ai creditori della società Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2017 Bancarotta per dissipazione o per distrazione in danno ai creditori della società - Reati fallimentari - Bancarotta per dissipazione - Riduzione del patrimonio dell’impresa - Mancato versamento di contributi previdenziali - Non sussiste - Rinvio - Fattispecie. La bancarotta per dissipazione si configura in presenza di operazioni incoerenti per le esigenze dell’impresa che ne riducono il patrimonio, pertanto, il mancato versamento di contributi previdenziali non è riconducibile a questa fattispecie delittuosa perché, pur consistendo in un’operazione o meglio una serie di operazioni incoerenti con il legittimo esercizio dell’attività d’impresa, non incide direttamente sulla consistenza patrimoniale dell’impresa stessa; al massimo, la espone all’eventuale insorgenza di un obbligo sanzionatorio nei confronti dell’erario. (Nel caso di specie, la Suprema corte cassa con rinvio la decisione della Corte territoriale che si era limitata ad attribuire la diversa qualificazione giuridica della bancarotta per dissipazione alla mera omissione del versamento dei contributi, erroneamente contestata come bancarotta impropria per causazione di fallimento). • Corte di cassazione, sezione V penale, 17 luglio 2017 n. 34836. Reati fallimentari - Concordato preventivo - Omologazione - Successiva bancarotta patrimoniale per distrazione. Integrano il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale anche gli atti di distrazione o di dissipazione del patrimonio commessi successivamente all’approvazione del concordato preventivo da parte dei creditori e al provvedimento giudiziale di omologa, a condizione che il soggetto proponente il piano di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti abbia utilizzato la procedura concordataria in frode al ceto creditorio, mediante una chiara e indiscutibile manipolazione della realtà aziendale, tale da falsare il giudizio dei creditori e orientarli in maniera presumibilmente diversa rispetto a quella che sarebbe conseguita alla corretta rappresentazione. • Corte di cassazione, sezione I penale, 5 luglio 2017 n. 32406. Reati fallimentari - Bancarotta per dissipazione - Attività distrattiva - Elementi - Depauperamento dell’attività - Sviamento dei fornitori - Impiego del personale - Non sussiste - Rinvio - Fattispecie. È logicamente e giuridicamente non configurabile la fattispecie di bancarotta per dissipazione nella misura in cui l’attività distrattiva abbia per oggetto rapporti economicamente valutabili che costituiscano una passività per l’azienda (quali lo sviamento dei fornitori e del personale), se non nella misura in cui si configuri un depauperamento dell’attività attraverso l’aumento dell’esposizione debitoria per finalità estranee all’azienda. (Nel caso di specie, il Tribunale del riesame confondendo il concetto di fornitori con quello di clientela, aveva ravvisato la dissipazione dell’avviamento della società fallita attraverso lo sviamento dei fornitori e l’impiego del suo personale nella s.r.l., oltre che nella distrazione di un certo numero di barattoli di vernice). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 28 giugno 2017 n. 31677. Reati fallimentari - Bancarotta per distrazione o dissipazione - Elementi - Dissipazione di autovetture - Bancarotta riparata - Inefficacia - Fattispecie. È irrilevante, ai fini dell’esclusione dell’elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione o dissipazione, che l’attività restitutoria o riparatoria, consistente in qualsiasi operazione idonea a reintegrare il patrimonio dell’impresa annullando ogni potenziale pericolo per le ragioni del ceto creditorio, derivante da pregresse condotte, sia posta in essere in epoca successiva alla dichiarazione di fallimento per iniziativa del curatore. Il delitto di bancarotta per distrazione, infatti, è qualificato dalla violazione del vincolo legale che limita (ex art. 2740 c.c.) la libertà di disposizione dei beni dell’imprenditore che li destina a fini diversi da quelli propri dell’azienda, sottraendoli ai creditori. (Nel caso di specie, l’amministratore della società fallita aveva concesso in noleggio ad altra società numerose autovetture, talune di lusso, facenti parte del parco auto della fallita, o per un canone di gran lunga inferiore a valori medi del mercato o addirittura senza la previsione di alcun corrispettivo). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 23 giugno 2017 n. 31436. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Bancarotta per distrazione - Fatti distrattivi commessi successivamente alla dichiarazione di fallimento - Pluralità di fatti - Concorso di reati - Circostanza aggravante - Esclusione - Fattispecie. In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualsiasi tempo siano stati commessi e, quindi, anche quando l’insolvenza non si era ancora manifestata. Trattandosi di reati fallimentari, nel caso di consumazione di una pluralità di condotte tipiche di bancarotta nell’ambito del medesimo fallimento, le stesse mantengono la propria autonomia ontologica dando luogo a un concorso di reati, unificati ai soli fini sanzionatori nel cumulo giuridico previsto dall’art. 219, comma 2, n. 1, legge fall., escludendosi la circostanza aggravante. (Nel caso di specie, l’imputato era reso responsabile della dissipazione di risorse della società fallita ristrutturando un immobile dell’ente con impiego di materiali e personale propri, per poi cedere gli appartamenti così ricavati a tre suoi familiari, per un prezzo complessivo inferiore di circa 100 mila euro rispetto agli stessi costi vivi sostenuti per la ristrutturazione). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 23 giugno 2017 n. 31427. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Dissipazione del patrimonio sociale - Imprese collegate tra loro - Atti posti in essere a favore di una società del medesimo gruppo - Configurabilità. La bancarotta fraudolenta per dissipazione si distingue dalla bancarotta semplice per consumazione del patrimonio in operazioni aleatorie o imprudenti, sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo: per il primo, rileva l’incoerenza, nella prospettiva delle esigenze dell’impresa, delle operazioni poste in essere e, per il secondo, rileva la consapevolezza dell’autore della condotta di diminuire il patrimonio dell’impresa per scopi del tutto estranei alla medesima. Il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione sussiste anche nel caso di imprese collegate tra loro, qualora gli atti di disposizione patrimoniale, privi di seria contropartita, siano eseguiti a favore di una società del medesimo gruppo, poiché il collegamento societario ha natura meramente economica e non scalfisce il principio di autonomia della singola persona giuridica; ne consegue che, nel valutare come distrattiva un’operazione di diminuzione patrimoniale senza apparente corrispettivo per una delle società collegate, occorre tenere conto del rapporto di gruppo, restando escluso il reato se, con valutazione ex ante, i benefici indiretti per la società fallita si dimostrino idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi, sì da rendere l’operazione incapace di incidere sulle ragioni dei creditori della società. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 15 giugno 2017 n. 29893. Sicilia: arriva la Carovana per la Giustizia, il tour dei Radicali nelle carceri livesicilia.it, 26 luglio 2017 Raccolta di firme e adesioni fino a ferragosto. Con Rita Bernardini e altri esponenti del partito di Pannella. Dare voce a chi non ne ha, ripristinare lo stato di diritto, proseguire le battaglie di civiltà condotte per una vita da Marco Pannella. Arriva in Sicilia la "Carovana per la Giustizia", del Partito Radicale in un tour che si protrarrà fino a Ferragosto toccando le carceri siciliane. Gli obiettivi della campagna, che ha già toccato altre regioni d’Italia e che vede a capo gli esponenti del Partito Radicale Sergio D’Elia e Rita Bernardini, sono quattro: la raccolta di firme sulla proposta di legge delle Camere Penali per la separazione delle carriere (che ha già superato 50mila sottoscrizioni), i 3000 iscritti al Partito Radicale entro il 31 dicembre 2017 per continuare le lotte di Marco Pannella, l’amnistia e l’indulto come riforme obbligate per l’immediato rientro dello Stato nella legalità costituzionale e il superamento del 41 bis e il sistema dell’ergastolo, a partire da quello ostativo. La Carovana partirà da Roma venerdì, si imbarcherà a Napoli e arriverà a Palermo sabato, dove in serata è previsto un evento organizzato dalle Camere penali. Domenica nel pomeriggio raccolta firme al carcere Ucciardone e in mattinata al carcere di Termini Imerese. Lunedì la raccolta di firme proseguirà al carcere Pagliarelli e l’indomani nei penitenziari di Trapani e Castelvetrano. I radicali si sposteranno poi a Sciacca, Caltanissetta, San Cataldo, Agrigento, Racalmuto, Palma di Montechiaro, Enna, Piazza Armerina, Nissoria. Domenica 6 agosto iniziative a Caltagirone e Gela. Poi tappe a Ragusa, Noto, Augusta, Siracusa, Catania, Giarre, Barcellona, Capo d’Orlando. Alle iniziative prenderanno parte anche gli attivisti siciliani, come Gaetano D’Amico e Rossana Tessitore del comitato "Esistono i diritti" e il deputato del Pd iscritto al Partito radicale transnazionale Pino Apprendi, già presidente dell’associazione Antigone. Santa Maria Capua Vetere (Ce): carcere senz’acqua, la Garante dei detenuti "è inumano" di Raffaele Sardo La Repubblica, 26 luglio 2017 La protesta di Adriana Tocco: "Non c’è condotta idrica". "È un trattamento inumano e degradante. Credo che se qualcuno si rivolgesse alla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo l’Italia verrebbe condannata per questo". Non usa mezzi termini Adriana Tocco, garante dei detenuti della Regione Campania, per definire la situazione in cui si trovano i carcerati dell’istituto di pena di Santa Maria Capua Vetere che patiscono la mancanza d’acqua. "Non riesco a capacitarmi di come sia stato possibile fare un carcere senza una condotta idrica", insiste la dottoressa Tocco che nei giorni scorsi ha presentato per questo un esposto alla Procura della Repubblica sammaritana. L’acqua per gli usi quotidiani viene fornita dai pozzi e nel periodo estivo la falda si abbassa a causa della siccità creando non pochi problemi, soprattutto ai piani alti del carcere che come tutte le strutture della Regione, sconta problemi di sovraffollamento. "Attualmente i detenuti sono 950 - conferma il segretario regionale dell’Unione sindacati polizia penitenziaria (Uspp) Ciro Auricchio - Il 35 per cento in più della capacità di ricezione del carcere. Quello di Santa Maria è un carcere ad alta sicurezza ed ospita anche una sezione femminile che attualmente conta 84 donne e una sezione di "articolazione mentale", di circa 20 detenuti degli ex Opg. A fronte di tutto questo c’è carenza di personale. Mancano almeno 70 agenti. È una condizione davvero difficile che incide anche sui rapporti tra guardie e detenuti. Negli ultimi giorni si sono moltiplicati gli episodi di aggressione agli agenti". "Ho scritto anche al ministro della Giustizia, Andrea Orlando - dice ancora Adriana Tocco - sui ritardi del Comune di Santa Maria Capua Vetere circa la realizzazione della condotta idrica che, peraltro, è già stata finanziata dalla Regione Campania. Ho segnalato le lentezze collegate alle gare di appalto". Sulla vicenda ci sono state anche le interrogazioni parlamentari di Wilma Moronese, del M5S e di Camilla Sgambato del Pd, ma il Comune ha già fatto sapere che la procedura della gara per l’assegnazione della progettazione dei lavori si concluderà nel prossimo mese di ottobre. Poi, dopo la progettazione, la gara per l’esecuzione dei lavori. Ma sui tempi nessuno si sbilancia, nemmeno il primo cittadino, Antonio Mirra: "È una questione che compete all’ufficio tecnico". "Ho proposto al Ministro Orlando di chiudere il carcere di Santa Maria Capua Vetere - dice ancora Adriana Tocco - finché la situazione dell’acqua non sarà venga risolta Speriamo di trovare ascolto". Siena: catturato Johnny Lo Zingaro, l’ergastolano evaso dal carcere di Fossano globalist.it, 26 luglio 2017 Lo hanno ritrovato in un appartamento di Taverne d’Arbia, in provincia di Siena, Johhny lo Zingaro. Assieme al latitante sono stati arrestati anche la compagna e alcuni fiancheggiatori: si tratta dei parenti di Giovanna Truzzi, la donna che era legata sentimentalmente a Mastini e che li avevano ospitati nella casa abitata dalla sorella di lei. L’operazione è stata svolta da agenti dello Sco della Polizia, delle squadre mobili di Cuneo, Lucca e Siena e dagli uomini del Nucleo investigativo centrale della Polizia Penitenziaria. Johnny Lo Zingaro è stato arrestato da uomini del Servizio centrale Operativo delle Squadre Mobili di Cuneo, Lucca, Siena e da agenti della Polizia penitenziaria che hanno fatto irruzione in un appartamento di Taverne d’Arbia (Si) dove è stato rintracciato il latitante 57enne. Arrestata con lui una donna - È stato tradito dall’amore per una donna Johnny lo Zingaro, evaso lo scorso 4 luglio. Come detto al momento dell’irruzione, l’uomo era in compagnia di Giovanna Truzzi, 58 anni, evasa a sua volta dagli arresti domiciliari che stava scontando a Pietrasanta, in provincia di Lucca. Le indagini della polizia e il blitz - La Polizia ha seguito le tracce dell’uomo fin da quando era fuggito su un taxi a Genova. Grazie alle più sofisticate tecnologie, gli uomini della Direzione centrale anticrimine sono riusciti ad individuarlo a Pietrasanta, da dove si è allontanato con la compagna. Johnny e la donna sono stati seguiti dai poliziotti e dagli uomini della Penitenziaria fino a quando non sono arrivati a Taverne d’Arbia. Qui la coppia è stata ospitata da alcuni parenti di Giovanna Truzzi che, per l’arrivo dei due, avevano ordinato un nuovo materasso. Ed è qui che i poliziotti hanno messo in atto lo stratagemma che ha consentito la cattura: gli agenti si sono sostituiti ai corrieri e, una volta all’interno dell’appartamento, hanno segnalato la presenza dell’uomo, facendo scattare il blitz coordinato dal Servizio centrale operativo. La condanna e l’evasione - Condannato all’ergastolo nel 1989, Mastini stava scontando la pena nel carcere di Fossano, nel cuneese, e dall’agosto del 2016 godeva del regime di semilibertà. Dallo scorso novembre tutti i giorni si recava a Cairo in treno e alla scuola svolgeva piccoli lavori di manutenzione. La mattina del 30 giugno Johnny alla scuola non è mai arrivato. Ed erano scattate le ricerche. Una fuga sorprendente, per chi lo descriveva oggi come una persona tranquilla e cordiale. Tanto diversa da quella raccontata dal suo curriculum: un protagonista della Roma criminale degli anni Ottanta, una lunga serie di rapine e omicidi, l’amicizia con Pino Pelosi, morto qualche giorno fa, per la quale finì tra i sospettati dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Rapine, evasioni e omicidi: così Johnny lo Zingaro terrorizzò Roma negli anni 80. Dopo l’evasione, la ricerca delle ultime tracce lasciate da Johnny lo Zingaro avevano portato da Fossano fino a Genova, dove Mastini si era fatto accompagnare da un taxi. Come si era dedotto dalla visione delle immagini delle telecamere della stazione di Fossano, che avevano ripreso l’evaso mentre saliva su un taxi, probabilmente quello che lo aveva portato fino a Genova. Una fuga preparata da tempo, secondo gli inquirenti, forse con la complicità di altre persone. Sembrava essere svanito nel nulla, Johnny lo Zingaro, fino alla cattura di oggi. Milano: carceri, il Partito Radicale invita il Sindaco Sala a visitarle insieme Agenpress, 26 luglio 2017 Sala dichiara alla Festa del Pd che la riforma della giustizia è necessaria? Il Partito Radicale coglie l’occasione al volo e lo invita a visitare un carcere milanese insieme. Durante il confronto con il suo collega di Parma, Pizzarotti, il Sindaco di Milano ha elencato le 3 riforme necessarie per il paese mettendo tra di esse quella della giustizia. Ecco allora la lettera mandata a Sala ieri. "Egregio Sindaco e Assessore alle periferie Sala, dopo che Lei ha messo ieri sera la riforma della giustizia tra le 3 riforme urgenti per il paese ho subito contattato il Coordinamento che regge il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito dopo l’ultimo congresso (tenuto proprio in un carcere, quello di Rebibbia) e abbiamo concordato nell’invitarla a visitare una delle carceri milanesi insieme a una delegazione radicale. Lei ha ribadito ieri sera di voler essere l’Assessore alle periferie del comune di Milano, e le carceri milanesi sono, a parte San Vittore, geograficamente alla estrema periferia di Milano ma anche, San Vittore compresa, alla periferia del dibattito pubblico sui mezzi di informazione. E questo nonostante tanti suoi concittadini vivano come un dramma i problemi strutturali dell’amministrazione della giustizia nel nostro paese in prima persona o per un loro caro, detenuto o in attesa di giudizio. Le delegazioni radicali hanno compiuto oltre 200 visite negli istituti di pena italiani negli ultimi mesi, e continueranno queste visite anche ad agosto, periodo in cui i detenuti (e gli operatori che compongono con loro quella che Marco Pannella chiamava la "Comunità Penitenziaria") soffrono di più. L’invito è a visitarli proprio in questo mese, magari dopo la metà, quando inizierà una grande azione nonviolenta per chiedere al ministro Orlando di emettere entro agosto i decreti attuativi relativi alla riforma dell’esecuzione penale che rischiano altrimenti, per ammissione dello stesso ministro, di essere rimandati a un futuro più remoto che prossimo. In attesa di una risposta, speriamo favorevole, -e porgo i miei più cordiali saluti". Gianni Rubagotti, Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito Roma: "Gazzosa Solidale", grazie ai detenuti dell’associazione Isola Solidale romasociale.com, 26 luglio 2017 Prende il via l’operazione "Gazzosa Solidale" promossa dall’associazione Isola Solidale per dare una risposta concreta alla siccità e la grande caldo che sta colpendo la Capitale da diverse settimane e per sostenere soprattutto la terza età. Infatti, grazie alla grande sensibilità della Chinotto Neri ogni pomeriggio dalle ore 18 sarà possibile, nella sede di via Ardeatina, 930 sorseggiare gratuitamente in uno splendido parco una bibita fresca del marchio Chinotto Neri. Per tale occasione sarà possibile anche conoscere i segreti dell’agricoltura biologica praticata nel grande orto dell’associazione, visitare i laboratori di falegnameria e il grande mercatino dell’usato e del nuovo realizzato dagli ospiti della struttura (Per info: 06.5012670). L’Isola Solidale da oltre 40 anni ospita detenuti a fine pena inserendoli in percorsi di formazione e di riabilitazione sociale e lavorativa. "Abbiamo pensato - spiega Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale -di condividere il dono che ci è arrivato dalla Chinotto Neri con quanti stanno soffrendo il caldo e la siccità, soprattutto gli anziani del quadrante di Roma Sud". "Un’iniziativa la nostra - aggiunge Pinna - per impegnare i nostri ospiti in un’attività sociale e di solidarietà che ha nella sua semplicità una forte impatto formativo e riabilitativo". Cassino (Fr): nella Casa circondariale aperto il 23esimo "Ventotene Film Festival" di Adriana Letta diocesisora.it, 26 luglio 2017 "In carcere prima della prima". Con tale slogan accattivante ha avuto inizio stamani, 24 luglio, la 23ª edizione del "Ventotene Film Festival": una prestigiosa rassegna cinematografica ideata e diretta da Loredana Commonara, che porta a Ventotene film, incontri, concorsi e ospiti importanti. Ma il taglio del nastro quest’anno non è stato nell’isola pontina, bensì nella Casa Circondariale di Cassino. Sì, proprio così, ha preso il via nel salone del carcere cassinate, con la proiezione del film Fiore e un momento di riflessione e confronto sulla storia e sulla vita dei detenuti. Tutto questo, grazie al progetto dell’Associazione culturale Artmedia curato dalla dott.ssa Daniela Attili, che lo ha illustrato ai presenti, tra cui rappresentanti delle più alte istituzioni locali e provinciali, di associazioni e di detenuti. L’idea iniziale è stata di coniugare tre elementi: la storia, il cinema e la detenzione, perché "non ci può essere Democrazia né sicurezza in una società che cerca di eliminare i suoi mali chiudendoli a chiave da qualche parte", anzi occorre che tutti e ciascuno si sentano responsabili dell’intera società, tenendo ben presenti "gli ideali di unità e condivisione" con cui - a Ventotene - è nata l’Unione Europea. Il legame tra Cassino e Ventotene, in particolare con il carcere borbonico per ergastolani di Santo Stefano, è dato dal fatto che quando quest’ultimo venne chiuso nel 1965, tutto il prezioso archivio storico documentale venne portato e depositato nella Casa Circondariale di Cassino, che lo conserva tuttora. E lo conserva dopo aver fatto un grande lavoro - come ha dichiarato la Direttrice dott.ssa Irma Civitareale - di riordino "per ridare dignità" alle tante persone che lì erano morte dopo avervi vissuto in condizioni spesso terribili, tutte accomunate dal "fine pena mai". Ed ora si vuol rinnovare e arricchire tale legame con iniziative tese alla riabilitazione morale e sociale dei detenuti. Si è parlato molto della interessante storia del carcere, definito una "tomba dei vivi", rimasto in condizioni difficilissime fin dopo la seconda guerra mondiale, quando vi fu mandato come Direttore, all’inizio degli anni 50, Eugenio Perucatti, uomo illuminato che di quel luogo invivibile, ancora privo di acqua corrente, fogne, elettricità e in cui c’erano divisioni e lotte, attraverso una profonda ristrutturazione materiale e morale, fece un luogo di collaborazione fra tutti, di efficienza, di rispetto della dignità umana di tutte le persone. Era presente il figlio, Antonio, autore del libro "Quel criminale di mio padre - La riforma del carcere di S. Stefano, una storia di umana redenzione", Ed. Ultima Spiaggia, che ha mostrato come fossero d’avanguardia le idee di suo padre (aveva dotato il carcere di una cappella, di un campo di calcio e di un cinema!) e come siano tuttora attuali e richiedano ancora impegno e lavoro per realizzarle. È stato poi proiettato il film "Fiore", del regista Claudio Giovannesi, presente in sala, come presente era anche l’attrice protagonista, la giovane Daphne Scoccia. Un film avvincente, coinvolgente, duro, che mostra dal di dentro il profondo disagio giovanile, che genera cinismo, insofferenza per il mondo degli adulti e delle regole, delinquenza, violenza, errori, esperienze di carcere. Ma mostra anche come da quel mondo desolato e cupo emerge un grande bisogno di essere accolti e amati e che trovare anche un solo momento di attenzione degli altri genera finalmente qualche timido sorriso su quei visi acerbi ma induriti da esperienze di vita negative. Bravissima l’attrice, che ha saputo dare un forte spessore interpretativo e alla quale, a fine proiezione, sono state rivolte domande, anche dai detenuti presenti, che hanno creato un utile momento di riflessione critica sul film, sul finale "aperto", e sulle problematiche proposte. Le istituzioni presenti, la Direttrice del carcere Civitareale, il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Cinzia Calandrino, il Sindaco di Cassino Carlo Maria D’Alessandro, il Prefetto Emilia Zarrilli, tutti sono stati d’accordo sulla necessità di maggiore e costante collaborazione tra istituzioni, società e istituti penitenziari per promuovere, proprio attraverso percorsi e iniziative culturali come questa, una vera riabilitazione dei detenuti; e ancora, sulla necessità di considerare i detenuti come persone e sul necessario rispetto delle regole e della legalità. Sulla possibilità e volontà di incrementare i rapporti Cassino-Ventotene ha parlato il Sindaco dell’isola Santomauro. Ora il Ventotene Film Festival prosegue fino al prossimo 2 agosto a Ventotene, tra proiezioni e premiazioni come per esempio la consegna del "Premio Vento d’Europa" all’attrice Margherita Buy, e la Casa Circondariale di Cassino restituirà la visita mercoledì 26, quando una piccola delegazione, compresi alcuni detenuti, si recherà nell’isola pontina e assisterà alla premiazione del Concorso "Open Frontiers", sempre nell’ambito del Festival. Una iniziativa, insomma, davvero degna di nota, da proseguire nelle prossime edizioni. Ancona: "Monsano Folk Festival", nel carcere di Barcaglione anteprima de "La macina" ombudsman.marche.it, 26 luglio 2017 Oggi, 26 luglio, primo appuntamento con "Barcarok", iniziativa voluta dalla direzione dell’istituto penitenziario ed appoggiata dal Garante dei diritti. Nel complesso previsti tre diversi concerti che si terranno nei prossimi mesi. Primo appuntamento con "Barcarock - Canti dal carcere" il prossimo 26 luglio a Barcaglione. Prende il via l’iniziativa, voluta dalla direzione dell’istituto penitenziario, che coniuga le attività trattamentali con la musica rock e che, ancora una volta, incontra il sostegno del Garante dei diritti, Andrea Nobili. "Gli incontri di poesia, quelli con la musica, il progetto legato all’orto sociale realizzati nel penitenziario di Ancona - Barcaglione - sottolinea lo stesso Garante - contribuiscono a rendere più concreti i percorsi trattamentali. Sia pure tenendo presenti tutte le problematiche più volte evidenziate, è necessario continuare ad impegnarsi in questa direzione per attivare azioni finalizzate al miglioramento della qualità della vita dei detenuti, al loro recupero ed alla loro reintegrazione sociale". "Barcarock" prevede tre diversi concerti ed il primo vedrà come protagonista "La Macina", gruppo di canto popolare, nato nel 1968, che ha scelto di proporre proprio a Barcaglione l’anteprima del "Monsano Folk Festival 2017", voluto dal Comune, con il contributo ed il patrocinio della Provincia di Ancona, della Regione Marche, della Fondazione Pergolesi - Spontini, curato dallo stesso gruppo e dal Centro Tradizioni Popolari. Nel carcere anconetano sarà proposto uno dei programmi storici de "La Macina", caratterizzato dai canti e dalle musiche della tradizione marchigiana, anche in occasione del prossimo traguardo dei cinquanta anni di attività. "Barcarock" prevede altri due appuntamenti musicali che si terranno nei prossimi mesi. Libri. Alla ricerca della dignità perduta di Armida Paris Il Roma, 26 luglio 2017 In "E adesso la palla passa a me" Antonio Mattone racconta la sua esperienza di volontario nel carcere di Poggioreale. Tutti dentro. Non è un delirio giustizialista ma un appello accorato, quello che Antonio Mattone lancia con "E adesso la palla passa a me" (Guida): dieci anni di volontariato nel carcere di Poggioreale testimoniati da una cinquantina di articoli usciti sul quotidiano "Il Mattino" e raccolti nel volume che si presenta oggi alle 17,30 nella sala del refettorio di San Domenico Maggiore. Con l’autore ci saranno il giornalista Antonio Manzo, il sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore e Stefania Tallei, della Comunità di Sant’Egidio. L’assessore alla cultura Nino Daniele saluterà gli intervenuti che saranno moderati da Alessandro Milone, mentre le letture sono affidate a Maria Castro-nuovo e all’attore Gennaro Silvestro. In un paese come l’Italia, in cui i detenuti sono circa 60mila, parlare di carcere significa imbattersi in problematiche relative al sovraffollamento degli istituti, all’inadeguatezza delle strutture, agli effetti nefasti dell’inattività prolungata, alla presenza, sempre più numerosa di extracomunitari senza famiglia. Una realtà complessa e difficile nella quale Mattone si muove con delicatezza e rispetto, nella consapevolezza che se, come recita la Costituzione, le pene "non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato", allora la società non può non interessarsi a quello che avviene dietro le sbarre. Perché se il carcere non rieduca, inevitabilmente diventa un incubatoi di criminali, pronti nuovamente ad agire nell’illegalità, non appena le loro condanne sono state eseguite. Infatti, il carcere, così com’è oggi in Italia, "è carcerogeno", scrive Mattone con un’espressione molto efficace. Quali le proposte per spezzare il circolo vizioso che proprio nel carcere vede il suo catalizzatore? Non è l’autore a fornirle, ma il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che ha firmato la prefazione del libro: si tratta sia di favorire le misure alternative alla detenzione, sia di incoraggiare il lavoro e lo studio in carcere, ma anche di lavorare sulla sburocratizzazione e sullo svecchiamento del linguaggio che, per come viene praticato all’interno delle case circondariali, è infantile e mortificante. Invece, il compito che Mattone si pone è quello di accompagnare il lettore dentro la realtà carceraria, in modo da avvicinarlo a un mondo che, pur nella sua separatezza, gli è molto più vicino di quanto egli stesso non creda. Perché dietro quelle mura alte e spesse ci sono degli uomini: condannati molti, in attesa di giudizio tanti, in custodia cautelare troppi. Tutti accomunali da una colpevolezza accertata o da verificare, è vero, ma innanzitutto "uomini". Ed è verso questa "umanità dolente" che si dirige lo sguardo attento di Mattone. Che, non a caso, usa un’espressione dantesca. Solo che qui, "la città dolente", come il poeta chiamava l’Inferno, non si trova nell’altro mondo ma è la realtà, concreta e tangibile, del carcere. Mattone vi si avvicina, prima con circospezione da neofita e poi con sempre maggior confidenza, ogni volta con compassione e sollecitudine: non da giudice, ma da amico. È il senso evangelico delle opere di misericordia che Mattone mette in atto: membro storico della Comunità di Sant’Egidio, l’autore vive il suo cristianesimo con passione e determinazione. La sua non è una carità sdolcinata e umiliante: quello che gli interessa è aiutare i detenuti a non dimenticare di essere uomini. Non si tratta allora di offrir loro una spalla su cui piangere, ma soprattutto di regalare un momento di serenità: il pranzo di Natale, lo show di un cantante famoso, la visita di una personalità importante rappresentano una boccata d’aria luminosa nel grigiore stagnante della vita in cella. Forse il primo passo verso il recupero della dignità perduta. Si spiega così anche il titolo del libro: "E adesso la palla passa a me" l’ha detto a Mattone un detenuto sul punto di essere scarcerato. Un’esplicita ammissione di responsabilità nei confronti dell’unica partita che meriti di essere giocata fino in fondo, quella della vita. Un libro coraggioso perché punta l’obiettivo là dove gli altri girano gli occhi. Su coloro che dai più vengono guardati con disprezzo e considerati rifiuti sociali. Su coloro che, essendo privati dei diritti politici, non garantiscono voti e quindi non sono interessanti per chi aspira a consolidare il proprio potere. Su coloro verso i quali, risulta anzi più conveniente, da un punto di vista strettamente elettorale, dichiararsi spietati. Mite nei toni ma lucido nei contenuti, "E adesso la palla passa a me" fotografa un universo tragico davanti al quale l’autore non si sente, in quanto uomo, di rimanere indifferente. E così là una scelta di campo: si schiera dalla parte degli ultimi, dei miseri, dei reietti riconoscendo loro la dignità di uomini. E così indica la via per un riscatto possibile. Un riscatto per i detenuti, che solo partendo dalla dignità ritrovata possono pensare a ritornare nella società da cittadini liberi e disposti a vivere nel rispetto della legge. Un riscatto per la società intera che, lasciandosi inquietare dalla testimonianza di Mattone, deve darsi da fare a trovare, per arginare la delinquenza, soluzioni diverse dal "chiudiamoli dentro e buttiamo la chiave". Magari rispondendo a quella che rimane la più straordinaria provocazione di Cristo: "Chi è senza peccato, scagli la prima pietra". Migranti. Juncker scrive a Gentiloni: "pronta una task force con 500 esperti e 100 milioni" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 26 luglio 2017 La Commissione europea decide di appoggiare con un impegno straordinario la "legge Minniti" sui migranti. Mentre al Viminale arrivano i rappresentanti delle Ong che dovranno aderire al "codice di comportamento". Un "contributo di emergenza fino a 100 milioni", 500 esperti di controllo delle frontiere per accelerare i rimpatri degli irregolari, provvedimenti per completare il ricollocamento dei richiedenti asilo: la Commissione europea decide di appoggiare con un impegno straordinario la "legge Minniti" sui migranti. Mentre al Viminale arrivano i rappresentanti delle Ong che dovranno aderire al "codice di comportamento" pena il divieto di attraccare nei porti italiani, il presidente Jean-Claude Juncker invia una lettera al capo del governo Paolo Gentiloni per dichiarare la volontà di "intervenire a sostegno dell’Italia con misure concrete da attuare rapidamente su richiesta di Roma, già nelle prossime settimane". Passa dunque la linea del ministro dell’Interno Marco Minniti che sin dal suo insediamento aveva sottolineato la necessità di avere "una collaborazione costante con Bruxelles per raggiungere risultati concreti nella gestione dei flussi migratori". Il doppio binario - E adesso può con soddisfazione rivendicare il fatto che il nostro Paese "è al centro dell’agenda internazionale, visto che noi siamo la porta dell’Europa e dunque l’appoggio degli altri Stati diventa fondamentale proprio per governare il fenomeno anziché subirlo". È la strategia del doppio binario: da una parte la trattativa con Bruxelles, dall’altra il negoziato con la Libia. E il "segnale forte" che il governo lancia a livello internazionale è la visita di questa mattina del primo ministro di Tripoli Fayez al-Sarraj al premier Gentiloni, dopo l’accordo firmato a Parigi con il generale Khalifa Haftar. Perché, come viene ribadito dal governo italiano "le basi per l’intesa sono state gettate mesi fa proprio da Roma con un impegno costante nei confronti di entrambe le parti e soprattutto la consapevolezza che la Libia fosse il Paese nei confronti del quale indirizzare tutti gli sforzi per arrivare a una pacificazione e dunque alla possibilità di controllare il territorio". L’inversione di tendenza - In questi giorni per la prima volta c’è stata un’inversione di tendenza rispetto agli sbarchi che sono appena il 5 per cento in più di quelli registrati nello stesso periodo del 2016, ma soprattutto un impegno della guardia costiera libica che ieri ha riportato sulle proprie coste 280 persone, mentre 620 venivano trasportate in Italia, compresi undici morti. Anche di questo si è parlato nella riunione con i rappresentanti delle Ong presieduta dal prefetto Mario Morcone. Entro venerdì i rappresentanti delle Organizzazioni umanitarie impegnate nel Mediterraneo dovranno presentare le loro "osservazioni" sulle nuove regole imposte dall’Italia e condivise dall’Ue. I punti maggiormente criticati sono il divieto di trasbordo dalle navi che effettuano il salvataggio a quelle istituzionali, e soprattutto la possibilità che a bordo delle imbarcazioni Ong salgano gli agenti: "È impossibile accettare che siano armati", hanno evidenziato alcune associazioni. Ultimatum delle Ong - La trattativa è aperta, ma entro la prossima settimana la lista di chi aderisce dovrà essere stilata. La linea, ribadita anche ieri, rimane quella di fissare regole più rigide per impedire la "creazione di corridoi umanitari privati". Una posizione già evidenziata anche ai vertici di Frontex con i quali l’Italia sta rinegoziando la missione Triton perché "alle attuali condizioni non sarà più possibile concedere l’uso dei porti italiani. Per questo è stato chiesto l’impiego di altri mezzi navali e ponti aerei per i migranti salvati da navi battenti bandiere straniere. Migranti. Persone "dublinate" scaricate dalla Germania all’Italia come pacchi postali di Daniele Biella Vita, 26 luglio 2017 Oltre al dramma dei naufragi e agli sbarchi senza sosta lungo le coste italiane del mar Mediterraneo - poche ore fa l’arrivo di 419 persone a Pozzallo - emergono i racconti di quanto accade a chi viene trovato senza documenti in regola negli Stati Ue non di primo approdo e quindi respinto nel Paese in cui avrebbe dovuto chiedere asilo, quasi sempre l’Italia. Intanto poche news dal summit dei ministri europei e africani di Tunisi, in attesa dell’incontro tra Macron e i due leader libici domani a Parigi. Ci sono i naufragi, tanti e troppi: l’ultimo, con un numero ancora imprecisato di morti, è di questo stesso pomeriggio, al largo della Libia. Persone innocenti che rimarranno sul fondo del Mar Mediterraneo con i loro sogni di una vita migliore. Ci sono poi i salvataggi, tanti ma mai abbastanza. Poche ore fa è sbarcata a Pozzallo con 419 migranti la nave delle ong Sos Mediterranée e Msf, Medici senza frontiere. Che, come ogni volta, hanno condotto le operazioni di salvataggio in coordinamento con la Guardia costiera, con buona pace del mondo della politica che non l’ha ancora capito. Anzi, il personale dell’Acquarius ha fatto sapere che nei giorni scorsi a loro è stato chiesto di prendere a bordo persone salvate dalla Guardia costiera al limite delle acque territoriali libiche: proprio l’inverso di quello che viene loro additato come una colpa, quando invece rientra nella attività di Search & Rescue, ricerca e soccorso. Ecco qui sotto il tweet dell’Unhcr, Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, che dà notizia dello sbarco dell’Aquarius con un video. Altrove, a Tunisi, il ministro degli Interni Marco Minniti aveva indetto ieri 24 luglio 2017, un secondo tavolo di colloqui con gli omologhi di buone parte delle nazioni interessate ai flussi migratori perché Paese di passaggio o di arrivo: Algeria, Austria, Ciad, Egitto, Francia, Germania, Italia, Libia, Mali, Malta, Niger, Slovenia, Svizzera e Tunisia (più il responsabile Migrazioni della Commissione Ue, Dimitris Avramopoulos). Com’è andata? Dichiarazioni post incontro piuttosto stringate. "La Tunisia è pronta a cooperare, anche mettendo a punto un piano di disponibilità dei propri porti", ha comunicato il ministro dell’Interno locale. L’invito italiano è stato quello di "una forte collaborazione tra Unione europea e Stati africani nella gestione del fenomeno". Oltre al problema della gestione dei viaggi attraverso la Libia e poi con i barconi della morte, l’Europa è attraversata da altri drammi: da giorni, nell’hotspot (centro di identificazione) di Moria, sull’isola di Lesbo, sono in atto rivolte e le ultime notizie parlano di espulsioni di massa verso la Turchia anche di siriani e curdo-siriani. E verso l’Italia, da vari Paesi europei, giungono aerei aventi come passeggeri coatti dei "dublinati", ovvero persone sono arrivate in Italia ma poi si sono recate altrove ma che, che secondo il Regolamento di Dublino devono chiedere asilo nel primo luogo di arrivo in Ue e quindi non possono restare altrove. L’ultimo, traumatico atto di questi viaggi coercitivi - e faccia più visibile dell’assurda mancanza di volontà europea nel riformare un Regolamento che da anni ha perso di efficacia, essendo cambiati i flussi e i numeri - è avvenuto ieri con un volo Lufthansa dalla Germania all’Italia, come testimonia Lisa Bosia, parlamentare del Canton Ticino e attivista per i diritti umani con l’associazione Firdaus che ieri ha seguito il caso di una ragazza eritrea. Ecco in foto il documento con il quale le autorità tedesche certificano l’espulsione - usando proprio la parola deportazione, "deportation" - e le parole di Bosia che spiegano quello che ne è seguito. "Nella notte del 24, in un centro di accoglienza in Germania, alle 3:00 del mattino, 11 poliziotti si sono presentati per la deportazione di un giovane richiedente asilo eritreo. La stessa cosa accadeva in almeno altri due centri. Tra le persone arrestate, ammanettate mani e piedi anche una ragazza. Ognuno di loro è poi stato trasportato all’aeroporto più vicino e scortato da due poliziotti durante il volo verso Milano. Il ragazzo preso da 11 poliziotti non ha potuto portare con se nulla: non un solo abito, non i suoi documenti, le sue foto, soldi, nulla. È stato impacchettato e portato via così com’era e così lo abbiamo incontrato davanti alla stazione centrale a Milano dove sono stati portati - e abbandonati a se stessi - tutti e quattro dopo le formalità di entrata in Italia. Unico documento un foglio con obbligo, notificato in italiano, di presentarsi alla questura (tre di loro Milano, la ragazza Varese) entro tre giorni. Nient’altro. Grazie al pronto intervento di Asgi è stato possibile accompagnarli allo sportello di informativa legale della Diaconia Valdese e mettere a punto un piccolo piano di accoglienza ma il luogo in cui avrebbero dovuto dormire, il centro di accoglienza per transitanti dietro la stazione centrale, ha però chiuso loro le porte in faccia alle 19:50, vale a dire dieci minuti prima della chiusura ufficiale e nonostante avessimo telefonato per annunciare il loro arrivo. Oggi, 25 luglio, ciascuno di loro deve presentarsi alla questura per la formalizzazione della domanda di asilo. La ragazza che non parla nient’altro che tigrino ci deve andare da sola. Non so come andrà a finire". Nel frattempo, si è alla vigilia dell’incontro del 26 luglio a Parigi tra il neopresidente francese Macron e i due leader della Libia divisa, Serraj e Haftar, dalla cui intesa dipende buona parte dello scenario futuro in termini di controllo di quella che oggi è la centrale del traffico di esseri umani (il punto di maggior partenza dei barconi, particolare la costa nei pressi di Zuara, non lontano dalla Tunisia) e delle violenze perpetrate ai migranti di passaggio, soprattutto quelli dell’Africa Subsahariana verso i quali è in atto una vera e propria schiavitù inaudita e impunita, con trattamenti disumani in carceri illegali. Le poche speranze di un cambiamento a breve sono affidate all’incontro di Parigi, che però segna anche una svolta: l’influenza francese in Libia rischia di aumentare ai danni di quella italiana, e il ricordo dell’assalto culminato con la morte di Gheddafi, voluto soprattutto da Sarkozy, è ancora fresco, dato che ha posto le basi per l’attuale instabilità. Nel frattempo, in mare si continua a morire e a terra a soffrire, nelle prigioni libiche così come nel crudele gioco dei respingimenti europei. Quei migranti minori, da soli abbandonati e scomparsi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 luglio 2017 Nel 2016 su 17.323 oltre seimila sono spariti. Al 31 marzo sono circa 15.500 nelle strutture di accoglienza. Nel solo 2016, su 10 minori sbarcati in Italia, 9 non erano accompagnati da familiari. Quando si pensa ai migranti, raramente si considera che quasi il 15% del totale sono minorenni soli. L’anno scorso ne sono stati registrati in tutto 17.323, ma di oltre 6mila sono state perse le tracce, essendo fuggiti poco dopo lo sbarco dai centri di prima accoglienza, con evidenti rischi per la loro incolumità fisica e psichica. Il totale complessivo, da quando sono giunti con gli sbarchi, si aggira su 29mila minori stranieri scomparsi. Molti di loro finiscono nel giro della prostituzione e malavita. Appena giungono in Italia, vengono accolti nei centri di prima accoglienza per accertarsi dell’età del minore ed esaminare la possibilità di un’accoglienza in strutture adeguate. Dopodiché i minori stranieri non accompagnati - seguiti dal tribunale per i minorenni - vengono collocati in altre forme abitative idonee come le comunità alloggio, residenza assistita, comunità di tipo familiare/ casa famiglia e affidamento familiare. Ma perché il minorenne deve essere tutelato? A prescindere che sia italiano o straniero, l’Italia ha l’obbligo di non abbandonare i minori per via della normativa nazionale di tutela e di protezione dell’infanzia del 1983. La legge dispone che il minore straniero non accompagnato, come il minore italiano in stato di abbandono, dovrà essere segnalato al tribunale dei minorenni. La legge recentemente approvata, non fa altro che rafforzare gli strumenti di tutela garantiti dall’ordinamento in favore dei minori stranieri. L’obiettivo delle comunità alloggio o casa famiglia è quello di promuovere l’integrazione sociale dei ragazzi minorenni attraverso l’inserimento nel mondo della scuola o in quello lavorativo, al fine di consentire un primo passo verso una vita indipendente e autonoma. Molte case famiglia sono gestite dalle cooperative e per legge devono avere figure professionali come gli operatori socio sanitari, assistenti sociali, educatori, mediatori culturali. A volte, non sempre viene rispettato l’utilizzo delle figure professionali e non di rado vengono denunciati episodi di violenza e degrado generati dalle poche risorse uti- lizzate. Il compito primario della casa famiglia è quella di seguire i minorenni per tutto il loro percorso. Il problema è che non sempre ci si riesce e tanti immigrati minorenni prendono vie poco sicure. C’è il caso della stazione Termini di Roma, molto spesso frequentata di notte da egiziani minorenni che si prostituiscono. Attraverso i dati del ministero del Lavoro e delle politiche sociali è possibile sapere che al 31 marzo 2017 erano censiti circa 15.500 minori stranieri nelle strutture di accoglienza italiane Negli ultimi anni, nell’ambito dei flussi immigratori che interessano l’Europa e l’Italia in particolare, risulta sempre più rilevante la presenza di minori stranieri non accompagnati che fuggono da situazioni di guerra, di disagio o ristrettezze economiche e sono alla ricerca di una vita migliore, in termini di sicurezza, pace ma anche accesso a opportunità di studio e di lavoro. Per molti di questi, "in transito" o "irreperibili", il disagio e la sofferenza non cessano nel momento dell’arrivo in quanto, per cause diverse, si allontanano spontaneamente e alcuni di loro possono anche cadere nella rete di organizzazioni criminali che li sfruttano per lavoro nero, spaccio, prostituzione e mercato di organi. Nell’Unione Europea pur differenziandosi da Paese a Paese la tipologia d’accoglienza dei minorenni, la scomparsa di parte di loro si presenta come fenomeno trasversale, che avviene sia nel periodo di prima accoglienza, a poche ore dall’arrivo, sia inseguito al loro collocamento in un centro dedicato. Secondo i dati del ministero del Lavoro e delle politiche sociali elaborati dalla fondazione Ismu, risultano ancora tanti quelli che abbandonano le strutture di accoglienza italiane che li ospitano. La situazione al 31 marzo scorso, infatti, indica che sono 5.170 i minori che risultano irreperibili. Si tratta per lo più di giovani egiziani, eritrei, somali, afghani che vogliono soggiornare in Italia svincolati dall’accoglienza istituzionale o spesso aggiungere parenti e reti amicali nei paesi del nord Europa. Il numero dei minori scomparsi, secondo l’ultima relazione redatta dal ministero degli Interni, ha raggiunto un totale di 27.995 minorenni negli ultimi cinque anni. Il fenomeno interessa soprattutto giovani egiziani, somali ed eritrei. A questi si aggiungono i minori "in transito" in Italia, diretti verso altri Paesi europei, di cui non si hanno dati. Il percorso migratorio e la presenza più o meno radicata della comunità di origine in Italia sembrano influenzare la percentuale di "irreperibili" relativa ai diversi gruppi. I giovani albanesi, accompagnati in Italia spesso da un conoscente, entrano nei circuiti di accoglienza e quasi tutti terminano il percorso di regolarizzazione in una comunità. Molto più complessa invece è la situazione dei minori egiziani che, per la gran parte, sono venuti in Italia per volere dei genitori nella speranza di trovare un lavoro e di inviare soldi a casa; quasi tutti con l’aiuto della rete familiare e dei connazionali. Molti di loro rifiutano la proposta di un percorso formativo da parte dei Servizi di accoglienza a causa dei tempi lunghi prospettati e/ o della pressione familiare; cercano quindi un’occupazione e si affidano ai connazionali che spesso li impiegano in attività commerciali. Il lavoro minorile o in nero, a seconda dell’età, è uno dei principali ambiti di sfruttamento di questi bambini che rischiano tra l’altro anche l’ingresso nel mondo della micro- criminalità dove subiscono vari tipi di sfruttamento (sessuale, manodopera per attività illecite, accattonaggio, prelievo degli organi). Le organizzazioni criminali attirano questi minori nelle grandi città (principalmente Milano e Roma), dove le comunità egiziane sono numerose e radicate, sfruttando la normativa legata ai permessi di soggiorno per minore età (divieto di espulsione). A lungo andare questa condizione di sfruttamento ed emarginazione, anche relativa all’accesso ai percorsi sanitari, mina gradualmente le condizioni di salute di questi minori. Per cercare di arginare questo problema, a fine marzo l’Italia ha una legge che cerca di mettere a sistema le norme esistenti in materia. Si tratta della legge Zampa sui minori stranieri non accompagnati e prevede procedure specifiche per la loro identificazione, la permanenza in centri che aderiscono al Sistema per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) e regole più chiare per stabilire il loro tutore. Prevede anche due possibili permessi di soggiorno e screening medici obbligatori per tutti. Inoltre, in linea con quanto previsto dalla comunicazione della Commissione europea del 12 aprile 2017 "The protection of children in migration" nella quale si afferma l’importanza di promuovere protocolli e procedure per rispondere e affrontare in modo sistematico il fenomeno dei minori non accompagnati che si rendono irreperibili, è stato da poco firmato un protocollo d’intesa che prevede la condivisione delle informazioni e dei dati tra il dipartimento della Pubblica sicurezza e il ministero del Lavoro e delle politiche sociali con l’obiettivo di tutelare i minori stranieri non accompagnati, in particolare, dal traffico di esseri umani e dallo sfruttamento nel mondo del lavoro. Migranti. I medici che curano le ferite invisibili della tortura di Annalisa Camilli Internazionale, 26 luglio 2017 La prima cosa che fa quando si trova davanti un paziente che è stato torturato è cercare di capire il progetto che aveva in mente il suo torturatore. Lilian Pizzi, psicoterapeuta, ha una voce decisa mentre con un leggero accento toscano descrive le tecniche usate dall’équipe composta da medici, psicologi, fisioterapisti, operatori legali e assistenti sociali che dall’aprile del 2016 a Roma si occupa di curare decine di persone che hanno subìto violenze, abusi e torture nelle carceri di mezzo mondo. La stanza dove incontra i pazienti è semivuota: un tavolo bianco con due sedie grigie, un mobiletto che serve da schedario e, dietro al tavolo, una finestra che affaccia su una strada trafficata. Una luce fioca e qualche rumore di clacson filtrano attraverso una grata. "La tortura ha lo scopo di mettere a tacere persone che sono considerate scomode in un determinato sistema di potere e in un certo contesto storico", spiega Pizzi, che ha una lunga esperienza alle spalle. "Per questo bisogna chiedersi sempre a che serve la violenza, perché è stata praticata, perché lo stato l’ha tollerata o perché addirittura l’ha usata". La tortura ha un rapporto indissolubile con il potere. Per molto tempo si è pensato che venisse usata dai regimi dittatoriali e dai pubblici ufficiali per estorcere informazioni agli oppositori politici o ai terroristi, ma una lunga analisi politica della tortura, ricostruita dalla filosofa Donatella Di Cesare nel libro Tortura, ha mostrato che i gruppi di potere hanno sempre usato questa tecnica per imprimere nel corpo della vittima il loro messaggio: l’arbitrio assoluto del potere e la punizione contro il dissidente che ha osato metterlo in discussione. Secondo Amnesty International la tortura è ancora praticata in almeno 122 paesi e non mancano denunce del suo utilizzo nei penitenziari e nelle strutture d’internamento dei paesi dove è vietata. "Il torturatore non usa sempre le stesse tecniche: cerca di individuare i punti di forza della vittima per disattivarli. All’inizio della terapia si cerca di capire perché è stata usata una tecnica invece di un’altra", spiega Pizzi. La prima fase della terapia è come un corpo a corpo con il torturatore, una partita a scacchi. "Il torturatore interiorizzato continua a essere una voce che parla nella mente del torturato, anche dopo che la persona è stata liberata dal carcere", spiega Pizzi. A volte la dottoressa prende una sedia vuota e la mette vicino al paziente per evocare il carnefice. "Che gli diresti se fosse qui?", chiedo. "Il pensiero della vicinanza con l’aguzzino scatena delle reazioni fisiche di paura". Scoprire la logica del torturatore e stimolare la rabbia nella persona che ha subìto violenza è il compito della riabilitazione. La rabbia, quando arriva, è positiva: è il primo segnale che la persona sta per espellere la logica violenta che ha interiorizzato. Un progetto sperimentale - In poco più di un anno di attività sono stati assistiti nel Centro di riabilitazione specializzato per sopravvissuti a tortura e a trattamenti inumani e degradanti di Roma 135 pazienti da 25 paesi: Etiopia, Eritrea, Somalia, Gambia, Ghana, Costa d’Avorio, ma anche Iran, Iraq, Pakistan, Vietnam. Nel centro, un appartamento silenzioso al piano terra di un palazzo umbertino nel quartiere San Giovanni, lavorano fianco a fianco due équipe mediche: una fa capo all’organizzazione Medici contro la tortura (Mct), l’altra a Medici senza frontiere (Msf). "La nostra squadra è composta da medici, psicologi, assistenti sociali, mediatori culturali, operatori legali e fisioterapisti e non c’è la preponderanza di uno specialista sugli altri nelle decisioni che riguardano la riabilitazione", racconta Gianfranco De Maio, coordinatore del progetto. Le persone che arrivano nel centro sono segnalate dai centri di accoglienza per richiedenti asilo, oppure da altre organizzazioni, ma negli ultimi mesi - grazie al passaparola - sono sempre di più quelli che bussano alla porta dell’ambulatorio e chiedono di essere aiutati. "Molti pazienti hanno subìto torture nel paese d’origine, perché sono oppositori politici o appartengono a minoranze etniche, altri hanno subìto violenze e abusi in Libia, nelle carceri dove numerosi gruppi criminali sequestrano e torturano le persone per chiedere un riscatto ed estorcere soldi alle famiglie", spiega De Maio. Il centro non è un’esperienza unica nella capitale, dove sono presenti altri ambulatori che si occupano delle vittime di tortura, tuttavia il centro di San Giovanni sta sperimentando un metodo innovativo per la riabilitazione che fa riferimento all’esperienza trentennale di Medici contro la tortura, ma anche agli studi di etnopsichiatria di Roberto Beneduce e Simona Taliani del centro Frantz Fanon di Torino, al centro studi Sagara di Pisa e al centro Primo Levi di Parigi. La tortura è un’esperienza molto diffusa tra richiedenti asilo e rifugiati che vivono in Italia: non ci sono dati precisi, ma è stato stimato che un richiedente asilo su quattro ha subìto torture o trattamenti inumani e degradanti. "In Libia ci occupavamo già delle vittime di tortura quando è cominciata la guerra civile nel 2011. Poi nel 2014 abbiamo aperto un centro per il trattamento delle vittime di tortura ad Atene, in Grecia. Nel 2016 abbiamo deciso di aprire questo centro a Roma, in cooperazione con Medici contro la tortura e l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, perché ci trovavamo davanti sempre più casi di persone torturate", racconta De Maio. Dalla fine degli anni novanta Mct ha seguito circa tremila casi di persone torturate in un altro storico ambulatorio a via Catania, nel quartiere Nomentano. All’inizio si occupavano di poche decine di esuli fuggiti dalla dittature latinoamericane, poi hanno cominciato a prendere in carico migranti, richiedenti asilo e rifugiati arrivati in Italia da tutto il mondo. Il 60 per cento dei pazienti di Mct nel 2004 era costituito da eritrei ed etiopi, mentre nel 2015 il 55 per cento dei pazienti proveniva dai paesi dell’Africa occidentale (Costa d’Avorio, Nigeria, Mali, Gambia). L’ambiguità del medico - "Ti ricordi qual era l’incubo ricorrente di Primo Levi nel campo di concentramento?", chiede con un filo di voce Carlo Bracci, uno dei fondatori dell’associazione Medici contro la tortura, mentre con lo sguardo rimane come sospeso a cercare una reazione. "La paura di Levi e dei suoi compagni", continua Bracci, "era quella di non essere creduti dalla famiglia, una volta tornati a casa". Levi sognava spesso di mettersi a tavola con la famiglia che continuava a parlare senza prestare attenzione alle sue parole. Bracci è un medico legale specializzato nella certificazione della tortura e ha cominciato a occuparsi di questo tema in un ambulatorio per immigrati irregolari a piazza Vittorio, a Roma, verso la seconda metà degli anni novanta. Poi insieme ad altri colleghi legati ad Amnesty International, nel 1999 ha fondato Mct, l’organizzazione per cui ancora lavora come volontario. Spiega che uno degli elementi ricorrenti nelle persone che hanno subìto violenze estreme è la difficoltà di raccontare la propria esperienza, per la paura di non essere creduti, ma anche per la vergogna di quello che si è vissuto. Nel caso di alcuni gruppi molto politicizzati - come i curdi nelle carceri turche, i palestinesi nelle prigioni israeliane e i baschi nelle celle spagnole - questo elemento è meno presente, perché in qualche modo l’aver affrontato la tortura è la conferma della propria dedizione alla causa. Ma per il medico la prima difficoltà è quella di stabilire un rapporto di fiducia con il paziente. "Quando sei stato per una settimana in balìa di un altro essere umano che ha potuto farti tutto quello che voleva, a qualunque ora del giorno e della notte, perdi fiducia nell’umanità intera", racconta Bracci. Molte vittime di tortura infatti si autoinfliggono l’isolamento, in particolare dalla propria comunità di origine. "Uno degli obiettivi della tortura è spezzare il legame tra l’individuo e il gruppo". Il medico deve lasciarsi fare delle domande, dare il tempo al paziente di capire chi è il suo interlocutore e da quali motivazioni è mosso. "Una volta sono stato chiamato in un centro di accoglienza perché un ragazzo di origine iraniana non usciva mai dalla sua stanza, non mangiava e non parlava con nessuno e gli operatori si erano preoccupati", racconta Bracci, che ricorda di essersi fatto aiutare da una dottoressa iraniana che parlava in farsi. "Quando siamo arrivati il ragazzo ha cominciato a discutere per mezzora con la dottoressa nella sua lingua, fitto fitto, allora io ho chiesto: ‘Che vi state dicendo?’. E lei ha risposto: ‘Mi ha chiesto chi siamo’". Per il ragazzo iraniano era impossibile comprendere il motivo della visita del medico: "O è pagato dal governo italiano oppure è stato mandato dall’ambasciata iraniana per raccogliere informazioni su di me, disse il ragazzo alla dottoressa, e non volle più parlare". Nei sistemi oppressivi spesso i medici sono coinvolti nella tortura: indicano i punti deboli della vittima; stabiliscono i limiti da rispettare per non ucciderla, la rianimano in modo che la seduta possa continuare. In uno studio del 1990 di Ole Vedel Rasmussen dell’università di Copenaghen si legge che su 200 vittime provenienti da tutti i paesi del mondo, in più di 40 casi un medico avevano partecipato alle torture. Un’altra ricerca di Peter Vesti del Centro per la riabilitazione della vittime della tortura (Rct) di Copenaghen riporta che il 60 per cento dei pazienti denuncia la presenza di un medico nella stanza delle torture. Per questo motivo chi è stato torturato può essere diffidente nei confronti del medico. "Il medico fa domande, come anche il torturatore faceva domande, c’è una somiglianza simbolica tra quello che fa il medico e quello che ha fatto il torturatore. Inoltre nella storia molti medici purtroppo sono stati torturatori", racconta Andrea Taviani, un altro dei fondatori di Medici contro la tortura. Una malattia sociale - "Una volta sono stato contattato da un collega cardiologo, voleva il mio aiuto perché non capiva la reazione di un paio di suoi pazienti: cominciavano a urlare ogni volta che provava a fargli l’elettrocardiogramma", ricorda Taviani. "Mi raccontò che erano entrambi di origine curda e questo mi fece pensare che dovevano essere stati torturati con l’elettricità nelle carceri turche e per questo avevano reazioni isteriche quando vedevano gli elettrodi". Taviani ha cominciato a interessarsi di tortura all’inizio degli anni ottanta quando era un attivista di Amnesty International. "All’inizio il nostro lavoro era militante e di tipo intellettuale: partecipavamo agli appelli per la liberazione dei prigionieri politici in diversi paesi del mondo, cercavamo di attirare l’attenzione sulle violazioni dei diritti umani, poi nel 1982 si formò il primo gruppo di medici di Amnesty International. Lavoravamo sui casi di torturati, ma anche su quelli che erano stati internati negli ospedali psichiatrici oppure sui detenuti a cui non veniva data assistenza medica". Erano sorpresi dal fatto che negli ambienti medici non si parlasse affatto di tortura, non esistevano studi, né letteratura medica al riguardo tanto che se un medico si trovava davanti un torturato non sapeva riconoscerlo. Alla fine degli anni ottanta il primo gruppo di medici contro la tortura cominciò a organizzare convegni in Italia e a mettersi in contatto con realtà che si occupavano della questione da anni in altre parti del mondo, come il Centro di riabilitazione per le vittime della tortura (Rct) di Copenaghen guidato da Inge Kemp Genefke e il centro Cintras per la salute mentale e i diritti umani di Santiago del Cile, che era attivo nonostante il dittatore Augusto Pinochet fosse ancora al governo. Nel 1991 il gruppo di medici organizzò a Roma il primo convegno italiano sul tema intitolato "Sopravvivere-testimoniare: le conseguenze della tortura". "Conoscemmo personaggi come Mohamed Aden Sheikh, un medico e politico somalo che era stato in isolamento per sei anni perché era un oppositore di Siad Barre: era in una cella interrata nella sabbia e non aveva nessun contatto con l’esterno se non con i secondini che gli portavano da mangiare una volta al giorno", racconta Taviani. "Oppure l’oppositore cileno, anche lui medico, Ricardo Concha Vallejos e di sua moglie Gina Gatti, torturati dal 1973 al 1976 diverse volte dalla Dina, la polizia segreta di Augusto Pinochet, e in seguito scappati in Italia". È stato grazie al rapporto con queste persone che è nata nei medici l’esigenza di impegnarsi concretamente. "Volevano combattere la tortura, riabilitando le vittime", afferma Taviani. Dalle vittime impararono che la tortura non è una malattia dell’individuo, ma della società. Come scrive Hélène Jaffé dell’Associazione per le vittime della repressione in esilio di Parigi: "La tortura non esiste al di fuori della trama sociale tessuta dall’onnipresenza di un gruppo, sia esso governativo o derivante da un’organizzazione in cui un capo, investito di ogni potere, ha fatto regnare il terrore". Per questo, secondo i medici che se ne occupano da anni, gli effetti di questa violenza non possono essere curati con il trattamento dei sintomi psichici e fisici. "A volte viene un paziente e dice di avere male alla pancia o di avere male a un braccio, ma dopo averlo visitato ci si accorge che non ci sono cause evidenti del dolore. A volte il dolore avvertito è un retaggio della sofferenza subita nella tortura", spiega Andrea Taviani. "È come se il corpo si chiudesse in una corazza", spiega Enzo Ciccarini, un altro medico. "Per questo i pazienti avvertono dolore un po’ ovunque, spesso dicono di avere mal di testa e di sentire un dolore diffuso". Secondo Taviani, proprio perché la tortura non riguarda solo un individuo ma l’intera società, le sue conseguenze devono essere trattate con un percorso che metta al centro la relazione: "La relazione terapeutica cura molto di più della terapia stessa". La tortura è un marchio che viene impresso nella carne e nella psiche - Da quando si occupa di riabilitazione di vittime della tortura Francesco Rita, psicologo di Medici senza frontiere, non riesce a non guardare le braccia delle persone che incontra per strada. "Cerco i segni delle bruciature di sigaretta così diffuse tra le persone che sono passate dalla Libia", racconta. "La tortura è un marchio che viene impresso nella carne e nella psiche, per affermare un ordine attraverso la sottomissione della persona". Ha cominciato a occuparsi d’immigrazione da ragazzo, quando insegnava italiano nel cosiddetto hotel Africa, un edificio delle Ferrovie dello stato dietro alla stazione Tiburtina, a Roma, occupato da decine di immigrati che non avevano un posto nei centri di accoglienza. Oggi davanti all’ex hotel Africa vivono i migranti assistiti dai volontari della Baobab experience. Tecniche universali - Dopo il violento sgombero della struttura, voluto dall’amministrazione comunale guidata da Walter Veltroni nel 2004, Francesco Rita si trasferì in Spagna, dove ha vissuto per cinque anni. "In Spagna ho scoperto che la tortura era praticata anche nei paesi democratici, oggi sembra un’affermazione banale. In Spagna per la prima volta in vita mia ho visto le foto degli indipendentisti baschi torturati nelle carceri e sono venuto in contatto con questa realtà. Anche il padre della mia ragazza era stato torturato durante il franchismo", racconta. Le tecniche di tortura sono simili in tutto il mondo: è come se esistesse una scuola internazionale dei torturatori. Il generale francese Paul Aussaresses, che coordinava i servizi segreti francesi in Algeria durante la guerra, aveva imparato le tecniche di tortura in Indocina, e dopo l’Algeria si trasferì a Panamá dove avrebbe addestrato molti dei carnefici delle dittature latinoamericane. Classificate dal Protocollo di Istanbul nel 2007, le tecniche sono moltissime: dall’isolamento alla privazione del cibo, dalle esecuzioni sommarie alle violenze sessuali, dalle percosse sotto la pianta del piede al water-boarding fino alla sospensione per le braccia. Esiste una relazione tra le tecniche usate e i sintomi riportati dalla persona sopravvissuta alla tortura: ritiro sociale, difficoltà ad avere un equilibrio emotivo, emozioni iper-rappresentate, sintomi intrusivi, pensieri ossessivi, silenzio, confusione, dimenticanza, paura, ansia, insonnia, impotenza o ansia di castrazione, alcolismo, tossicodipendenza, depressione, iper-reatività agli stimoli, sindromi psicotiche con sintomi dissociativi, spersonalizzazione. "Secondo Medici per i diritti umani, l’80 per cento delle persone passate dalla Libia ha subìto violenze e torture", spiega Francesco Rita. "La violenza inferta per ragioni politiche produce effetti abbastanza diversi da quella praticata per motivi criminali", afferma. Ma in Libia c’è un elemento ulteriore che caratterizza i torturatori: il razzismo. "Il fine della tortura è creare una sorta di gerarchia tra esseri umani: soggetti di serie A e soggetti di serie B. In questo senso il passaggio in Libia di migliaia di persone dirette in Europa ha un valore storico e anche politico su cui dobbiamo riflettere", spiega Lilian Pizzi. Per la psicoterapeuta si deve ragionare sugli effetti del razzismo contro i neri nell’ex colonia italiana: "In Libia Muammar Gheddafi ha aperto per anni le porte ai lavoratori dell’Africa subsahariana, applicando politiche di apartheid verso i neri, che erano trattati da inferiori". Con la morte di Gheddafi nel 2011, in un paese dilaniato dalla guerra civile, i migranti sono stati trasformati in merce di scambio, in una fonte di guadagno. La Libia diventa allora un ulteriore passaggio violento all’interno di vite già devastate: "C’è un continuum di violenza: quella vissuta nel paese di origine, quella ordinaria in Libia e poi quella simbolica che praticata spesso nei centri di accoglienza europei che trattano i richiedenti asilo come esseri umani di serie B. L’Europa vuole la manodopera, ma non vuole la componente umana della manodopera", afferma Pizzi. La violenza del sistema di accoglienza - "Ci capita a volte di avere pazienti che entrano da noi e sembrano molto gentili, docili, sorridenti, poi dopo un po’ di tempo, mentre il percorso di riabilitazione va avanti, diventano sempre più arrabbiati: si lamentano del cibo avariato distribuito nel centro di accoglienza o della sospensione del pocket money, per noi è un segnale positivo, significa che le persone stanno piano piano ridiventando padrone delle proprie vite", spiega Gianfranco De Maio. Il sistema di accoglienza - quando tratta le persone come numeri, quando le infantilizza, quando gli impedisce di esprimersi o anche solo di badare al proprio sostentamento in maniera autonoma - ripropone la logica inumana della prigione. "Nella terapia cerchiamo di restituire alla persona la sua umanità, ma la maggior parte delle persone nei centri di accoglienza non è trattata con umanità", afferma Francesco Rita. I medici dell’ambulatorio di Roma sono preoccupati della diffusione della diagnosi di disturbo post-traumatico da stress (Dpts) tra i richiedenti asilo, anche per le vittime di tortura. "È una diagnosi sbagliata, perché associa la tortura, che è una violenza intenzionale di un uomo su un altro uomo, a traumi come quelli sviluppati in seguito a incidenti o terremoti", sostiene De Maio. "La terapia adottata dopo questa diagnosi si basa molto sui farmaci, ma in questo modo occulta tutto il contesto, la situazione politica, storica e sociale, nasconde una sofferenza che è il frutto di un sistema politico patogeno", aggiunge Rita. "Non possiamo fare una diagnosi di disturbo post-traumatico per una persona che ha avuto un incidente d’auto e fare la stessa diagnosi per una vittima di tortura, anche se i sintomi possono essere gli stessi". Una delle questioni più importanti per i medici, inoltre, è il difficile rapporto tra i tempi della cura e i tempi di riconoscimento dello status di rifugiato. "È difficile curare qualcuno che sta aspettando l’audizione con la commissione territoriale e che vive una situazione di precarietà esistenziale", afferma Rita. "Per questo figure come l’assistente sociale e il consulente legale sono fondamentali nel percorso di cura". Su questo punto insiste anche Carlo Bracci che spiega: "Si è costretti ad affrontare dei problemi non quando è utile per il paziente, ma quando vuole la commissione, e questo ha degli effetti devastanti". Bracci, che è stato consulente per il ministero della salute, mette in luce anche un aspetto critico del decreto Minniti-Orlando sull’immigrazione diventato legge nell’aprile del 2017: "La nuova legge abolisce il secondo grado di giudizio per i ricorsi presentati dai richiedenti asilo che ricevono una risposta negativa alla loro domanda d’asilo. La norma prevede inoltre che il giudice di primo grado non ascolti direttamente la persona, ma guardi la registrazione dell’intervista davanti alla commissione territoriale. Questo rischia di danneggiare le vittime di tortura". Le vittime di tortura, infatti, hanno bisogno di tempo per raccontare le loro storie e un sistema simile potrebbe produrre quelli che Bracci definisce "falsi negativi", cioè persone che avrebbero diritto alla protezione, ma non vengono individuati. "Si può fare un lavoro terapeutico ottimo, ma se poi arriva una risposta negativa da parte della commissione territoriale, il richiedente asilo crolla", aggiunge Francesco Rita. "Il torturatore attacca la credibilità della persona e il fatto di non essere ritenuto credibile dalle autorità riporta alla luce una delle ferite provocate dalla tortura". La tortura rende muti - "Avevo un paziente che non riusciva a parlare delle violenze che aveva subìto, ma mi diceva che la notte, quando chiudeva gli occhi e metteva la testa sul cuscino, sentiva un suono simile a un fischio che gli impediva di prendere sonno", racconta Pizzi. All’inizio della terapia per i pazienti non è facile parlare di quello che gli è successo, proprio perché "l’obiettivo del carnefice è ridurre al silenzio la sua vittima". La tortura, secondo la definizione della psicoterapeuta francese Françoise Sironi, è una violenza fisica e mentale compiuta da un essere umano su un altro essere umano per ridurlo alla sua mera corporeità. "Rimarrà in te solo l’animale", diceva un agente della Gestapo a Jean Améry, lo scrittore austriaco torturato a Breendonk, in Belgio, per aver partecipato alla resistenza contro il nazismo. "Spesso quando ci sono silenzi importanti io cerco di far parlare il corpo, interrogare il corpo affinché la parola riprenda il suo potere", spiega Lilian Pizzi. È un processo lento e tutt’altro che lineare quello che porta alla graduale verbalizzazione della violenza subita. "Ho chiesto al paziente che aveva allucinazioni uditive di associare il suono che lo tormentava a un’immagine e così lentamente questo suono ha cominciato a prendere una forma". Il paziente ricordava il silenzio assordante della cella in cui era stato confinato, ma anche il pianto della madre una volta tornato a casa. In questo modo il terapeuta lentamente riesce a farsi portare nella camera della tortura. "È come entrare in un labirinto", spiega Pizzi. "A volte succede che la persona parli in maniera molto fredda, perché è scissa, s’impedisce di provare rabbia o altri sentimenti e per questo li proietta sul terapeuta". Uno dei sintomi più diffusi nelle persone che sono state torturate è la dissociazione: "Nella camera della tortura la vittima cerca di astrarsi, di pensare ad altro", spiega Pizzi, per questo il paziente riporta spesso sintomi di spersonalizzazione. Il compito del terapeuta è rimettere in campo le emozioni, rendendole parte di un discorso. "Il lavoro del torturatore non si basa sull’empatia, ma sul pensiero, perché l’obiettivo della tortura è spezzare la capacità di costruire senso. Questo scopo si raggiunge attraverso la sofferenza, ma anche attraverso pratiche scandalose che rompono i tabù come mangiare gli escrementi o stuprare i familiari", afferma Pizzi. Il terapeuta non deve provare né orrore né pena verso l’esperienza del paziente, invece deve aiutarlo a elaborare le emozioni e a recuperare la capacità di spiegare, di parlare, di ragionare. Il 13 luglio le autorità italiane hanno presentato delle linee guida ministeriali per l’assistenza, la riabilitazione e il trattamento delle persone che hanno subìto violenze e torture, a pochi giorni dalla prima legge che introduce nel codice penale italiano il reato di tortura. "Le linee d’indirizzo sono il frutto del lavoro di molte realtà che dal basso si occupano di questo tema da anni e hanno stimolato un dibattito al livello ministeriale che ha portato a un decreto del governo nel 2014", spiega De Maio. "Non riguardano solo l’aspetto psichico, ma anche l’aspetto medico e sociosanitario", continua. "Presentano degli elementi positivi perché denotano una maggiore attenzione delle istituzioni al tema. Ma ci sono anche alcuni punti critici come il questionario per l’early individuation (individuazione precoce)", afferma De Maio. Le linee guida consigliano di usare un questionario predefinito per individuare le vittime della tortura il prima possibile. "Ma questo strumento è inefficace e per certi versi dannoso: nessun richiedente asilo vittima di tortura scriverà mai in una scheda il suo vissuto". Lilian Pizzi è più critica: "Il fine delle linee guida sembra essere rafforzare quello che qualcuno in antropologia medica chiama l’impero del trauma, cioè un’analisi del trauma come categoria che crea politiche sanitarie focalizzate sul corpo, senza tenere conto della sua dimensione sociale, storica, culturale e politica". Da sapere - Il 5 luglio, a quasi trent’anni dalla ratifica della Convenzione dell’Onu sulla tortura, la Camera ha approvato in via definitiva la legge che introduce il reato di tortura nell’ordinamento penale italiano. La nuova legge prevede una pena da quattro a dieci anni di reclusione per chi tortura, che salgono a un massimo di dodici se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. La norma è stata molto criticata dalle organizzazioni che si occupano di violazioni dei diritti umani e dallo stesso relatore della legge, il senatore del Partito democratico Luigi Manconi. I punti più criticati della legge riguardano il fatto che per sussistere il reato deve essere "reiterato" e "deve essere stato compiuto con crudeltà e mediante più condotte e deve provocare un verificabile trauma psichico". L’associazione Antigone ha commentato l’approvazione della legge dicendo: "Questa legge sarà difficilmente applicabile. Il limitare la tortura ai soli comportamenti ripetuti nel tempo e a circoscrivere in modo inaccettabile l’ipotesi della tortura mentale è assurdo per chiunque abbia un minimo di conoscenza del fenomeno della tortura nel mondo contemporaneo". Migranti. Caro de Magistris, parole chiare sul caso Ibrahim di Luigi Manconi Il Manifesto, 26 luglio 2017 Gentile Sindaco Luigi De Magistris, apprendo quanto accaduto nella sua città, Napoli, a Ibrahim Manneh, l’ivoriano di 24 anni morto il 10 luglio 2017. Secondo alcuni testimoni, quel tragico decesso sarebbe avvenuto tra l’indifferenza di sanitari, forze dell’ordine e operatori del 118. So bene che l’accertamento dei fatti e delle responsabilità è compito degli organi giudiziari, ma in qualità di primo cittadino, Lei ha la possibilità e il potere di informarsi per comprendere cosa sia realmente accaduto al di là delle responsabilità penali. Come Presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, sono interessato a capire la dinamica degli accadimenti e le loro diverse cause. Finora, dalle informazioni di cui si dispone, sembrano incontrovertibili i fatti che seguono e che denotano, se confermati, una grave negligenza da parte di più soggetti. In particolare, va verificato il ruolo svolta da: 1. La struttura sanitaria di Loreto Mare. In prima istanza, il giorno 9 luglio 2017, Ibrahim viene dimesso nonostante i forti dolori all’addome e il frequente vomito. Quando il giorno successivo il giovane ritorna in ospedale, nessun medico o infermiere informa i familiari circa il suo stato di salute e il successivo decesso viene comunicato loro con enorme ritardo. 2. Gli operatori del 118. Delle due ambulanze chiamate in soccorso di Ibrahim nelle ore serali del 9 luglio, nessuna accorre sul posto, in quanto, via telefono, si valuta che il suo stato di salute non richiederebbe l’intervento delle autolettighe. 3. Le pattuglie dei Carabinieri. Il giovane e i suoi amici si rivolgono a due gazzelle per ottenere aiuto (in uno dei due casi Ibrahim è a terra in preda ai dolori) ma nessuno presta soccorso; e ai presenti viene intimato di allontanarsi. A ciò si aggiunge il comportamento a dir poco incivile di un tassista stazionante in piazza Mancini, che si rifiuta di condurre Ibrahim in ospedale perché "non ha l’autorizzazione della polizia" (?). Tutte queste azioni e tutte queste omissioni non sono necessariamente da attribuirsi a pregiudizio etnico e ad atteggiamenti di intolleranza xenofoba. Ed è vero che - sentiamo già qualcuno sostenerlo, con un filo di giustificazionismo - potrebbe accadere a qualunque cittadino napoletano quanto accaduto ad Ibrahim. La malasanità e la maleducazione ci hanno abituati a questo e a ben altro. Ma è difficile non scorgere, in questo episodio, un’indifferenza che trascolora nel disprezzo, una trascuratezza che diventa discriminazione, in altre parole una sorda e cattiva ostilità verso gli stranieri. E questo rende una vicenda odiosa, se possibile, ancora più odiosa, qualora i fatti che ho segnalato venissero confermati. Per queste ragioni, pronunciare parole inequivocabili da parte della massima autorità cittadina e richiamare gli essenziali principi della convivenza, è davvero urgente e non eludibile. So che Lei di questa vicenda ha già parlato, e con chiarezza, ma forse altre parole ancora più severe sono indispensabili. La ringrazio dell’attenzione e la saluto cordialmente. Nomadi. A Torino ci vorrà un permesso per vivere nei campi rom di Andrea Rossi La Stampa, 26 luglio 2017 Tassa di 600 euro l’anno e obbligo di mandare a scuola i minorenni. Il piano prevede nella primavera del prossimo anno, di trasferire le famiglie Korakanè in via Germagnano da strada dell’Aeroporto dove si trovano ora in condizioni disumane, tra faide etniche e religiose. Il piano è articolato. Si basa su scadenze e regole che - è bene dirlo subito - non sarà per niente facile far rispettare. Eppure proprio su questi paletti Chiara Appendino e la sua giunta - che l’hanno presentato ieri sera in circoscrizione 6 - si giocano una fetta non irrilevante di credibilità, soprattutto con quei residenti che sul cambiamento targato Cinque Stelle hanno scommesso, credendo che alcuni problemi irrisolti da anni sarebbero stati affrontati. Nel prossimo anno il Comune proverà a risolvere - o quanto meno tamponare - l’emergenza rom, mettendo in regola le baraccopoli in cui vivono circa 1.500 persone, la metà irregolari. Lo farà attraverso un regolamento che come cardine ha un provvedimento inedito: chi vive nei campi dovrà essere autorizzato. Il permesso avrà validità di un anno e potrà essere rinnovato. Potrà anche essere revocato: in quel caso, entro tre giorni, la persona dovrà abbandonare il campo. Il tentativo è abnorme: riportare nei confini della legalità quel che si muove ai margini, spesso molto al di fuori. Eppure la scelta della sindaca e degli assessori che hanno lavorato al progetto - Unia, Finardi, Schellino - è questa. L’autorizzazione a stare nei campi potrà essere concessa solo a chi è in regola sul territorio, che sia italiano, comunitario o extra comunitario. I nomadi non dovranno avere provvedimenti di allontanamento da altre aree sosta della città, morosità, condanne per specifici reati. Dovranno pagare 600 euro l’anno e mandare i figli minorenni a scuola. Non potranno ospitare persone non autorizzate, accendere roghi, introdurre veicoli senza documenti di circolazione, realizzare opere abusive, allacciarsi abusivamente a luce e acqua. In parallelo la Città attiverà percorsi di inclusione. Lo farà tentando il confronto: ogni campo avrà tre rappresentanti. Individuarli sarà un’impresa. Ma questo è il progetto. Che prevede anche, nella primavera del prossimo anno, di spostare le famiglie Korakanè in via Germagnano da strada dell’Aeroporto dove si trovano ora in condizioni disumane, tra faide etniche e religiose. Nel frattempo, tra agosto e ottobre, partiranno la pulizia dei due insediamenti e gli abbattimenti. Nel piani di Appendino questi paletti servono a tracciare una linea di confine tra chi vuole essere partecipe di un percorso di inclusione e chi invece non intende rispettare le regole. Nella sua ottica le baraccopoli sono una situazione che da troppo tempo si trascina e non è più sostenibile, né per chi ci abita né per i residenti nelle zone circostanti. La vera sfida sarà fare in modo che queste regole non restino lettera morta. Perché non accada servirà un impegno straordinario da parte delle forze dell’ordine, a cominciare dai vigili. Non sarà agevole assicurare il rispetto delle nuove norme. Servirà rafforzare la sorveglianza, effettuare sopralluoghi costanti per controllare documenti, persone, eventuali ospiti, veicoli. Si dovrà intensificare il contrasto a chi brucia rifiuti. Tutto ciò richiede uomini e mezzi, e questa è la sfida che hanno davanti a sé la sindaca e il neo assessore alla Sicurezza Finardi. Negli ultimi tempi il Nucleo nomadi dei vigili ha vissuto una pesante emorragia: è passato da 45 a 28 addetti e potrebbe ulteriormente assottigliarsi visto che pendono altre domande di trasferimento. Una fuga che il comando non riesce ad arginare, non potendo trasferire d’imperio agenti in un nucleo di cui si fa parte su base volontaria. Egitto. Metodo al Sisi, le strane coincidenze di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 26 luglio 2017 Si ripete e si conferma la crudeltà del sistema di governo del generale-presidente, la repressione violenta di tutte le opposizioni, con il metodo delle sparizioni forzate. Altro che "caso isolato". Ma ora, nel silenzio di Gentiloni, crescono le iniziative per riallacciare con il Cairo. Un 25, anche se di luglio, questo mese dei luglio, un corpo massacrato con segni dappertutto di torture, ritrovato sulla Desert Road del Fayoum a 130 km dal Cairo; il cadavere, quello di un giovane sparito da quasi tre giorni dal suo quartiere alla periferia del Cairo come ha denunciato la sua famiglia; poi una voce anonima che avverte i parenti che il giovane sparito è stato "vittima di un incidente stradale" e che il corpo è nell’ospedale del Fayoum. Troppe le coincidenze, e subito dai portali egiziani gli attivisti dei diritti umani gridano forte e chiaro che Tharwat Sameh, questo il nome del giovane di 19 anni trovato senza vita e con il corpo irriconoscibile e massacrato, "è morto come Giulio Regeni". Sgomenta inoltre il fatto che il corpo di Tharwat Sameh senza vita sia stato ritrovato nella zona del Fayoum, dove il direttore della Sicurezza Nazionale è quel Khaled Shalabi già investigatore capo della polizia di Giza, lo stesso funzionario - ricorda su queste pagine Pino Dragoni - che cercò subito di depistare le indagini sulla morte di Giulio Regeni parlando proprio di "incidente stradale"; e che probabilmente ordinò perfino di seguire il ricercatore italiano e poi di sequestrarlo. Coincidenze? No, si ripete e si conferma la crudeltà del sistema di governo del generale-presidente Al Sisi al potere con un colpo di stato del luglio 2013. Un sistema basato sulla repressione violenta di tutte le opposizioni, con il metodo delle sparizioni forzate. A confermarlo non ci sono i dati del 2017 solo per la chiusura del centro per i diritti umani Nadeem Center e la repressione di molti attivisti. Ma vale la pena ricordare che tra l’agosto 2015 e l’agosto 2016 l’Egyptian Committee for Right and Freedom (Ecrf, consulente della famiglia Regeni) registrava almeno 912 casi di sparizioni forzate; e il Nadeem Center, documentava tra il gennaio e l’ottobre 2016 433 casi di torture in prigioni e caserme; sono decine di migliaia di prigionieri politici, e dal golpe del luglio 2013 a metà 2016 circa 2.978 omicidi extragiudiziali, 91 dei quali per tortura e 17 in attacchi ai campus universitari. Altro che "caso isolato", come si giustificò il governo egiziano per Giulio Regeni. È il modello Al Sisi, il "grande statista" interlocutore di Matteo Renzi che lo sdoganò due volte, in visita al Cairo e ricevendo il golpista in Italia come leader emergente "che ha ricostruito il Medio Oriente" e salutandolo enfaticamente: "La tua guerra à la nostra guerra, e la tua stabilità è la nostra stabilità" (a proposito, di questo rapporto sperticato e ammirato con Al Sisi su "Avanti", le premurose memorie dell’ex presidente del Consiglio, stranamente non c’è traccia e tutto sembra essere stato abilmente rimosso e censurato). Ora, nel silenzio diffuso della flemma di governo di Gentiloni, crescono le iniziative per riallacciare con il Cairo rapporti diplomatici sospesi proprio per l’uccisione di Giulio Regeni e l’omertà del Cairo sulla sua morte: dopo la visita del presidente della commissione difesa del Senato Nicola Latorre le agenzie indipendenti egiziane scrivono che "a settembre arriverà il nuovo ambasciatore italiano"; e proprio in questi giorni si è riunito il Consiglio di associazione Unione Europea-Egitto che, denuncia Amnesty International, davanti al miraggio delle vaste risorse petrolifere e del mercato delle armi, non menziona nemmeno nei documenti preparatori il nodo della violazione dei diritti umani. Sì, Tharwat Sameh è morto come Giulio Regeni. Del resto la famiglia Regeni ha sempre voluto insistere su una dolorosa verità: che Giulio Regeni, sparito il 25 gennaio del 2016 e ritrovato cadavere il 3 febbraio, è morto proprio come muoiono i giovani oppositori egiziani. Libia. Macron annuncia l’accordo tra Serraj e Haftar: cessate il fuoco ed elezioni di Pietro Del Re La Repubblica, 26 luglio 2017 L’intesa raggiunta nel pomeriggio al castello di La Celle-Saint-Cloud, alle porte di Parigi. Nella dichiarazione congiunta, l’impegno a fermare i combattimenti e ad avviare processo per voto nel 2018. Il presidente francese ringrazia l’Italia e Gentiloni. È con l’elogio del premier libico Fayez al Serraj e dell’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, che il presidente francese Emmanuel Macron ha aperto la conferenza congiunta dopo il vertice di Celle-Saint-Cloud alle porte di Parigi, che si è concluso alle 18.20 di oggi pomeriggio: "Il coraggio da voi dimostrato oggi, essendo presenti qui e concordando questa dichiarazione congiunta è un elemento storico, perché vi assumete il rischio di lavorare insieme per un processo di riconciliazione nazionale e per la costruzione di una pace durevole". Un processo di riconciliazione che porterà a elezioni nella primavera 2018 e che deve avere come obiettivo a breve "eliminare traffici d’armi che alimentano il terrorismo, ed il traffico di esseri umani che alimentano le vie migratorie". Dopo aver ringraziato il presidente del Consiglio italiano, Paolo Gentiloni, per il raggiungimento di questo risultato diplomatico, il presidente francese ha quindi ricordato che Serraj e Haftar si sono "impegnati a rinunciare alla lotta armata, tranne che contro i gruppi terroristici, e ad un processo di cessate il fuoco essenziale per qualsiasi progresso, con l’accordo poi per andare a un processo elettorale in primavera, naturalmente nel contesto dell’accordo (Onu) di Skyrat. Essenziale è il lavoro di riconciliazione politica inclusiva che dia spazio a tutti i gruppi politici che vorranno modificare l’intesa di Skyrat. Tramite questo cammino la pace e la riconciliazione nazionale potranno essere raggiunti. La posta in gioca è grandissima, sia per il popolo libico che per tutta la regione perché se fallisce la Libia fallisce tutta la regione soprattutto i Paesi vicini". Nella dichiarazione congiunta letta al termine dell’incontro, i due leader libici si sono dunque impegnati per un cessate il fuoco e per elezioni parlamentari e presidenziali da tenere in primavera. "Ci impegniamo per un cessate il fuoco e a evitare ogni ricorso alla forza armata per qualsiasi motivo che non sia di antiterrorismo", recita la dichiarazione, in cui si sollecita la smobilitazione dei combattenti delle milizie ancora attive nel Paese e la creazione di un esercito regolare. L’accordo siglato oggi è un grande successo per il nuovo presidente francese Macron. Nigeria. Baby-kamikaze contro i profughi interni di Aureliano Valli Maiduguri Il Manifesto, 26 luglio 2017 Sequenza di attacchi suicidi a Maiduguri. Lo strazio dei minori utilizzati da Boko Haram. Bersaglio i campi dei rifugiati e l’università della città. Ma non è solo "terrorismo". Nella notte tra domenica e lunedì tre tentativi di attacchi suicidi si sono susseguiti a Maiduguri, nel nord est della Nigeria. Tutti condotti da minori, secondo i servizi di sicurezza, forse persino al di sotto dei 13 anni di età, come riferiscono varie fonti locali. Il primo attacco poco prima della mezzanotte nel campo profughi (o meglio "sfollati interni") di Darole 2: un "attentatore" tenta di infiltrarsi nel campo ma viene ucciso prima che riesca a far detonare l’ordigno esplosivo che porta con sé. Il secondo tentativo, in parte riuscito, attorno alla mezzanotte, quando un ragazzo e una ragazza tentano di scavalcare la recinzione del campo di sfollati Darole 1. Lei muore mentre cerca di superare la barriera, lui riesce a percorrere qualche metro all’interno del campo prima di azionare l’ordigno. Nell’esplosione muoiono quattro persone persone. 19 i feriti, la maggior parte bambini. Lunedì mattina un altro attentato, anche in questo caso è una giovanissima ragazza a farsi esplodere all’ingresso dell’Università di Maiduguri (già bersaglio di tentati attacchi verificatisi negli ultimi mesi). Nello scoppio muore l’attentatrice e diverse persone risultano ferite. Nella giornata di martedì l’attenzione si era già spostata sulle prime notizie che arrivano dall’assedio del villaggio di Zai, nello stato di Yobe, da parte dei miliziani di Boko Haram. Nelle settimane precedenti la zona era stata già teatro di scontri armati. Notizie in controtendenza rispetto ai successi annunciati negli ultimi mesi dall’esercito nigeriano nell’ambito dell’offensiva contro l’organizzazione jihadista negli stati del nord est e nelle zone di confine con i paesi vicini. Un conflitto che anche in seguito ai sanguinosi sconfinamenti dei miliziani coinvolge a pieno titolo le forze armate di Camerun, Ciad e Niger, con il sostegno di Francia e Stati uniti in nome della "guerra al terrorismo internazionale". Ma in un contesto come quello della Nigeria di oggi risulta molto complicato, anche per le persone che in questo paese sono nate e cresciute, avere una lettura chiara delle dinamiche legate agli scontri o al ripetersi di atti di inaudita violenza. Le pratiche che negli ultimi tempi si stanno diffondendo vedono ragazzini e ragazzine sempre più giovani coinvolti nella realizzazione di attacchi suicidi spesso organizzati in contesti urbani e poveri. Gran parte delle persone coinvolte, molto spesso originarie delle aree rurali o da aree al momento inaccessibili per motivi di sicurezza, migrano negli aggregati urbani senza disporre di risorse per il proprio sostentamento. Si trovano a vivere di lavori informali e nell’impossibilità di accedere a qualsiasi tipo di struttura educativa o di supporto, andando ad ampliare il già grande bacino di persone che, strappate al loro contesto originario e quindi dalle relazioni di supporto comunitario, si trovano a vivere in gravi condizioni di disagio e di disgregazione sociale. Un’altra pratica sempre più diffusa riguarda gli obiettivi degli attentati: Università, campi profughi e luoghi di grande concentrazione come i mercati si sono aggiunti da tempo ai target militari o governativi. Sulla scuola l’interpretazione comune offre facili spiegazioni: è accusata di veicolare quella cultura "occidentale" contro la quale si batte Boko Haram. Molto più difficile risulta spiegare la scelta di colpire la popolazione in alcuni casi inerme, in altri organizzata - come nelle Cjtf (Civilian joint task forces). In questo caso si parla di conflitti interni a base individuale o collettiva (come per esempio l’aver abbandonato le file degli insorgenti). In ogni caso sulla strategia di Boko Haram tutte le interpretazioni che circolano sembrano lacunose, nel momento in cui cercano di ricondurre per semplificazione il fenomeno a una matrice singola, di tipo "terroristico". Urge un’analisi più ampia, che non si limiti ai singoli fenomeni. Camerun. Rapporto shock di Amnesty: crimini di guerra nella lotta a Boko haram di Sara Ficocelli La Repubblica, 26 luglio 2017 Il documento rivela il perpetrarsi di orribili torture ai danni di decine di persone accusate, spesso senza prove, di sostenere il gruppo terroristico: "I detenuti, pestati a sangue, vengono costretti in posizioni lancinanti, annegati e percossi per ore". Il Camerun continua a sanguinare e l’ultima ferita sarebbe stata inferta proprio dalle forze di sicurezza del Paese (B.I.R.) che, stando a un rapporto di Amnesty International, avrebbero perpetrato atti di tortura ai danni di presunti affiliati dell’organizzazione terroristica jihadista sunnita Boko haram. L’ultimo dettagliato rapporto dell’organizzazione umanitaria, "Stanze segrete di tortura in Camerun: violazioni dei diritti umani e crimini di guerra nella lotta contro Boko haram", documenta ben 101 casi di detenzione e tortura incommunicado tra il 2013 e il 2017 in oltre 20 siti diversi. Crimini di guerra. "Queste violenze orribili rappresentano crimini di guerra. Dato il peso delle prove che abbiamo scoperto, le autorità devono avviare indagini indipendenti su queste pratiche di detenzione e tortura incommunicado, inclusa la potenziale responsabilità individuale e di comando", spiega Alioune Tine, direttore regionale di Amnesty International per l’Africa occidentale e centrale. L’organizzazione umanitaria ha scritto alle autorità camerunensi nell’aprile 2017 per condividere i risultati del rapporto, ma non ha ricevuto alcuna risposta. Ogni successiva richiesta di incontro è stata rifiutata. "Mi hanno picchiato fin quasi a morte". Le vittime sentite finora hanno descritto almeno 24 metodi diversi di tortura abitualmente perpetrati. Samou (nome di fantasia), arrestato nel marzo 2016, ha raccontato ad Amnesty International il suo interrogatorio a Salak pochi giorni dopo il proprio arresto: "Mi hanno chiesto di dire se conoscevo membri di Boko haram. Fu allora che la guardia mi legò mani e piedi dietro la schiena e cominciò a colpirmi con un cavo elettrico, mentre contemporaneamente mi lanciava acqua. Mi hanno picchiato fin quasi a morte". Mohamed (altro nome di fantasia) ha trascorso sei mesi in detenzione incommunicado ed è stato interrogato e torturato più volte a Salak. "I soldati ci hanno chiesto di confessare, ci hanno detto che se non avessimo confessato, ci avrebbero portato a Yaoundé per ucciderci. Gli abbiamo risposto che preferivamo essere uccisi piuttosto che confessare qualcosa che non sapevamo. Ci hanno picchiati per quattro giorni". Le responsabilità di Stati Uniti e Europa. "Data la presenza frequente e probabilmente prolungata in loco, il governo degli Stati Uniti e altri partner internazionali devono indagare fino a che punto il personale era a conoscenza della detenzione illegale e della tortura commesse presso la base di Salak e se hanno adottato misure per segnalarlo ai loro superiori e alle autorità camerunensi", continua Alioune Tine. Una scuola come base per gli atti di tortura. Tra i luoghi utilizzati per gli interrogatori, in particolare, una scuola situata nella città settentrionale di Fotokol, usata come base militare da parte del BIR a partire da maggio 2014: l’utilizzo dello stabile frequentato da bambini vìola gli obblighi del Camerun in materia di diritto internazionale umanitario nella protezione dei civili nei conflitti armati. "I funzionari responsabili di queste strutture di detenzione devono essere indagati per la loro sospetta responsabilità di comando nelle accuse di detenzione, tortura, morte in custodia e sparizioni forzate", conclude Tine. Tunisia: Festa della Repubblica, il Presidente Essebsi concede la grazia a 1.583 detenuti Nova, 26 luglio 2017 Il presidente tunisino, Beji Caid Essebsi, ha concesso oggi la grazia a 1.583 detenuti in occasione del 60mo anniversario della Repubblica proclamata dall’Assemblea costituente il 25 luglio del 1957. Lo ha reso noto la presidenza al termine di un incontro tra il capo dello Stato e il ministro della Giustizia, Ghazi Jribi. Era il 25 luglio del 1957 quando il costruttore della moderna Tunisia, Habib Bourguiba, liberò il paese dall’ordine monarchico, ponendo le basi dello stato di diritto. Il paese nordafricano celebra nella giornata odierna anche il quarto anniversario dell’assassinio del deputato Mohamed Brahmi, che il 25 luglio del 2013 venne ucciso da due uomini a bordo di una motocicletta davanti alla sua abitazione di Tunisi. Brahmi era un politico dell’opposizione che nel 2011 aveva fondato il partito Movimento del popolo. L’omicidio di Brahmi è avvenuto cinque mesi dopo quello di un altro deputato tunisino, Chokri Belaid, assassinato il 6 febbraio del 2013. Entrambi gli omicidi, di cui tuttora non si conoscono i mandanti, hanno gettato il paese in una profonda crisi politica, culminata con la fine dei lavori dell’Assemblea costituente. Successivamente è stato inaugurato il quartetto per il dialogo nazionale, composto dall’Unione generale del lavoro (Ugtt), dall’Unione tunisina dell’industria, del commercio e dell’artigianato (Utica), dalla Lega tunisina dei diritti umani (Ltdh) e dall’ordine degli avvocati. Il processo di transizione politica tunisina ha portato alla stesura di una nuova costituzione il 27 gennaio del 2014. Il Quartetto è stato poi insignito nel 2015 con il Premio Nobel per la pace.