L’antimafia come il nylon: un marchio che dà il potere di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 25 luglio 2017 L’estensione della qualifica di mafiosità si risolve in una smisurata crescita di potere per tutti quei soggetti, che nel contrastarla trovano la legittimazione dei propri poteri. i fronte a condanne anche di 19 e 20 anni, come si può sostenere che la cosa non sia stata trattata come una cosa molto seria? Chi lo sostiene si allinea a quell’orientamento per il quale ogni vero "cattivo" è un mafioso. Così il termine mafia perde la sua idoneità. Gli studiosi di diritto industriale hanno dato al fenomeno il nome di volgarizzazione del marchio. Si verifica quando una determinata denominazione protetta da un marchio non sia più impiegata, nell’uso corrente, per individuare il prodotto di uno specifico produttore, ma l’intera categoria dei prodotti in cui il medesimo si colloca. L’esempio di scuola, generalmente citato per far comprendere di che si tratta, è il caso "nylon". Il termine, coniato nel 1940 dalla Dupont, ormai da tempo non indica più i prodotti di quella impresa. Ha avuto un tale successo che nell’uso corrente serve ad individuare tutte le poliammidi sintetiche, quale che sia il produttore. La volgarizzazione del marchio si traduce, perciò, in una perdita del valore distintivo e, di conseguenza, in una correlativa perdita del potere di mercato che corrispondeva a quella espressione. Con il termine mafia si sta verificando qualcosa di simile, ma con esiti diversi. La volgarizzazione del termine è sotto gli occhi di tutti. Basta leggere l’intervista data dal Capo della Polizia Gabrielli al Messaggero di domenica. Un certo tipo di corruzione va letta, secondo Gabrielli, come "una forma di incubazione delle mafie e quindi in qualche modo debba essere trattata alla stessa stregua del contrasto alle organizzazioni mafiose. Io credo che nel caso in questione distinguere tra corruzione e mafia sia un errore esiziale, quasi a voler dire che la mafia è una cosa seria e la corruzione è qualche cosa che può essere anche fisiologicamente tollerato". Gabrielli è persona troppo preparata e seria per non rendersi conto che le sue parole non hanno senso di fronte ad una sentenza che, sebbene abbia escluso la mafiosità, ha comminato 250 anni di reclusione, tra cui punte di 20 e 19 anni. Di fronte a condanne del genere, come si può sostenere che la vicenda non sia stata trattata come una cosa molto seria? E, evidentemente, una posizione che si allinea a quell’orientamento per il quale ogni vero "cattivo" è un mafioso. Con la conseguenza che il termine mafia perde la sua idoneità a individuare una specifica categoria di "cattivi", per ricomprendere il genere dei "cattivi" nella sua integrità. Esattamente quello che avviene con la volgarizzazione del marchio. Ma con esiti completamente diversi in ordine ai rapporti di potere. La volgarizzazione del marchio porta, come si è detto, a una perdita del potere di mercato da parte dei titolari di quel marchio. L’estensione della qualifica di mafiosità si risolve, viceversa, in una smisurata crescita di potere in capo a tutti quei soggetti, che nella lotta alla mafia trovano la legittimazione dei propri poteri. La Commissione antimafia finirebbe con l’essere competente per qualsiasi illecito riguardi la vita pubblica. I grandi profeti dell’antimafia sarebbero, a loro volta, legittimati a dispensare giudizi su tutto ciò che accade nel paese. Ma, soprattutto, una legislazione emergenziale, quale quella antimafia, diventata ordinaria sul piano temporale, diventerebbe ordinaria anche quanto alle materie trattate. E siccome è noto che per i processi alla mafia è stato più volte sollevata la questione della compatibilità delle regole relative con il rispetto dei diritti fondamentali, la estensione della categoria mafia porterebbe a rendere ordinaria quelle regole di dubbia legittimità. Basta citare, per comprendere l’aria che tira, la proposta di un parlamentare di istituire, per questa mafia allargata, dei tribunali speciali. Proprio quello che l’art. 102 della Costituzione più bella del mondo vieta. Di fronte a tutto questo si sente la mancanza di un lottatore strenuo a difesa della democrazia, senza paura del politicamente corretto, come è stato Marco Pannella. Legali perquisiti. Il Cnf: "grave attacco al diritto di difesa" di Giulia Merlo Il Dubbio, 25 luglio 2017 Due avvocati indagati per infedele patrocinio. I Pm accusano uno dei due difensori di aver suggerito a una cliente (accusata di favoreggiamento nei confronti del marito), di rimanere in silenzio durante un interrogatorio. Prosegue il botta e risposta tra l’avvocatura e la procura di Udine, dopo la notizia delle perquisizioni negli studi e nelle abitazioni private di due legali friulani, indagati di concorso in infedele patrocinio. Il fatto, stigmatizzato in una mozione approvata dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Udine, è avvenuto il 23 giugno scorso, quando i due difensori hanno subito le perquisizioni e il sequestro di oggetti personali perché, sulla base delle indagini del pm, uno dei due avvocati avrebbe suggerito ad una cliente (accusata di favoreggiamento nei confronti del marito), di rimanere in silenzio durante un interrogatorio. Il secondo, invece, difensore del marito dell’indagata, è stato indagato per di essersi scambiato informazioni con il collega. Dettaglio curioso, la richiesta di perquisizione è stata depositata dal pm, vistata dal Procuratore capo e accolta dal Gip, tutto nell’arco dello stesso giorno. Non solo, il procedimento contro i due legali ha avuto anche grande clamore nelle pagine di cronaca dei quotidiani locali. Un clamore che - come sottolineato dall’Ordine di Udine - "ha determinato pregiudizio e nocumento all’intera categoria professionale". L’Ordine friulano ha definito come "strano e incongruo" il fatto che il pm abbia ravvisato il reato di infedele patrocinio nell’invito al proprio assistito di esercitare un diritto garantito dall’ordinamento. Singolare, inoltre, anche il fatto che sia stato disposto un interrogatorio in relazione al reato di favoreggiamento commesso a vantaggio del marito, "laddove il codice prevede espressamente il vincolo di coniugio quale causa di non punibilità". Infine, l’Ordine ha sottolineato come il Codice Deontologico forense preveda che "l’avvocato, nell’interesse della parte assistita e nel rispetto della legge, collabora con i difensori delle altre parti anche scambiando informazioni, atti e documenti". Il Consiglio Nazionale Forense ha preso immediatamente posizione al fianco dell’Ordine di Udine, sottolineando come l’iniziativa del pm sia "a dir poco inquietante per l’inaccettabile invasività dell’esercizio del diritto di difesa, rilevato che la richiesta della autorizzazione alla perquisizione indica fra i possibili corpi di reato o cose pertinenti al reato gli atti e i documenti relativi al fascicolo di studio, computer, tablet, apparecchi telefonici, iniziativa questa certamente ed oggettivamente grave, atteso come il lavoro, la funzione, il valore della Difesa deve trovare riconoscimento prima di tutto ad opera di chi agisce all’interno della giurisdizione" e si è detto disponibile a "iniziative nelle opportune sedi istituzionali". Dura presa di posizione è arrivata anche da parte dell’Unione Camere penali, che ha espresso solidarietà ai due colleghi, "stigmatizzando con forza ogni compressione del diritto di difesa e ogni interferenza impropria nell’esercizio della funzione difensiva". E, a sostegno della Camera Penale Friulana, si è dichiarata "pronta a sostenere ogni iniziativa che essa intendesse intraprendere a tutela dell’inviolabilità del diritto di difesa". Alle reazioni compatte dell’avvocatura ha risposto il Procuratore capo di Udine, Antonio De Nicolo, che ha sostenuto che "l’esercizio della facoltà di non rispondere e il consiglio dell’avvocato di avvalersene sono, come ovvio, atti legittimi che mai potrebbero esporre qualcuno a responsabilità penale. La questione è più complessa e abbiamo cercato di affrontarla accuratamente nel ricorso per Cassazione depositato sabato scorso". Intanto, con ordinanza dello scorso 13 luglio, il Tribunale del Riesame di Udine ha disposto l’annullamento del provvedimento di perquisizione e di sequestro e la restituzione di quanto sequestrato, "non essendo ravvisabile il fumus del reato di patrocinio infedele contestato". Strage di Bologna, dopo 27 anni manca un pezzo di verità Di Anna Spena Donna Moderna, 25 luglio 2017 Erano le 10 e 25 del 2 agosto 1980. Nella sala d’attesa della stazione di Bologna un ordigno nascosto dentro una valigia esplodeva uccidendo 85 persone e ferendone 200. 37 anni dopo, quella strage resta l’atto terroristico più grave avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra. Anche quest’anno in città si marcerà per ricordare quel giorno maledetto e chiedere giustizia: "Solo quando si mantiene la memoria si può arrivare alla verità completa" afferma Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione familiari delle vittime. "Scoprire la verità non è un nostro sfizio. Se non comprendiamo davvero fino in fondo come sono andate le cose la nostra sarà sempre una Repubblica imperfetta". Ci sono gli esecutori. Su cosa accadde quel giorno esistono ancora troppe ombre. Sono serviti 15 anni, costellati da tanti depistaggi, per arrivare nel 1995 alla condanna dei neofascisti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro come esecutori dell’attentato. Nel 2007 alla condanna si è aggiunto anche Luigi Ciavardini, all’epoca minorenne. Ancora un mistero i mandanti. Sulla matrice neofascista dell’attentato, peraltro, non tutti concordano. Nel 2016 Rosario Priore, giudice in pensione, ha scritto con l’avvocato Valerio Cutonilli un libro "I Segreti di Bologna" (Chiarelettere), che ha fatto discutere perché racconta una verità diversa. Dove si suppone che la strage sia stata una ritorsione palestinese dovuta alla violazione di un accordo segreto, il "Lodo Moro" da parte dello Stato italiano: un patto di non belligeranza stretto nel 1973 fra il ministro degli Esteri Aldo Moro e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina. L’accordo prevedeva che nessun attentato palestinese avesse luogo in Italia, in cambio della libertà di movimento dei terroristi. Ma il punto interrogativo rimane. "Saremo il pungolo dello Stato" conclude Bolognesi. "La verità, prima o poi, la scopriremo". "Mafia Capitale", Orlando revoca il 41bis a Carminati Il Mattino, 25 luglio 2017 Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, prendendo atto della sentenza del 20 luglio scorso, ha revocato l’articolo 41bis a Massimo Carminati, su conforme parere della Direzione Nazionale Antimafia e della Direzione distrettuale antimafia di Roma. Per l’ex Nar, condannato a 20 anni nell’ambito del processo "Mafia Capitale", è caduta infatti l’accusa di associazione mafiosa. Carminati è stato condannato a venti anni; diciannove invece gli anni di reclusione inflitti a Salvatore Buzzi. L’ex terrorista nero, il cui ruolo è considerato centrale nell’inchiesta, è detenuto nel carcere di Parma. incompatibilità’ Per questa presunta ipotesi di rivelazione di segreto nel corso dell’inchiesta Consip, pende una inchiesta penale a carico di Woodcock. Ora che gli argomenti sono sul tavolo del Csm - tenendo conto che Woodcock avrebbe informato oralmente l’allora procuratore Giovanni Colangelo dell’iscrizione di D’Angiolella nel registro degli indagati - bisognerà aspettare a settembre. Altro punto da esplorare è legato al deposito delle intercettazioni tra Matteo Renzi e il generale della Finanza Michele Adinolfi, nell’inchiesta Cpl Concordia. Anche sul questo versante, il pm napoletano ha rivendicato la correttezza della propria condotta, al di là di presunte strumentalizzazioni giornalistiche che hanno spinto il consigliere Morosini a chiedere l’apertura di una pratica a tutela per Woodcock. Sullo sfondo, l’intervista a "Repubblica" di Woodcock, con commenti sul carabiniere Scafarto e sulle decisioni del procuratore di Roma, Pignatone. Qualche giorno dopo quella dichiarazione, Fragliasso aveva inviato a tutti i sostituti e gli aggiunti, oltre che al procuratore generale Riello, la celebre circolare molto dura che, in sintesi, era l’invito a tenere le bocche cucite con i giornalisti per evitare la "sovraesposizione" dell’ufficio. L’effetto è stato contrario. Per la custodia cautelare in carcere il termine è tassativo di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 25 luglio 2017 Per la conferma della misura i tempi sono di 30 giorni, non 45. Termine perentorio di 30 giorni per depositare le motivazioni della conferma del carcere preventivo, in attesa di giudizio. E il ritardo del giudice comporta l’immediata scarcerazione dell’imputato. Il magistrato, dunque, non può attendere, contando su interpretazioni estensive del Codice di procedura penale: per l’ordinanza che dispone una misura cautelare detentiva, vale una regola speciale a favore del reo, i tempi sono serrati e non si applica il termine, più lungo, di 45 giorni, previsto in via generale. Questo il principio desumibile dal dispositivo della sentenza 20 luglio 2017 della Corte di Cassazione, che ha deciso, a sezioni unite, un contrasto di giurisprudenza relativo ai termini applicabili al deposito delle motivazioni della pronuncia cautelare. Una cittadina rumena, assistita dallo studio Scartata di Reggio Calabria, è stata portata in carcere con un’ordinanza di custodia cautelare, annullata con rinvio dalla Cassazione. Nel successivo giudizio di rinvio, il tribunale ha confermato l’ordinanza, fissando in 45 giorni il termine per il deposito della motivazione. Il problema è se il codice di procedura penale pretenda un termine di 30 o ammetta una dilatazione di 15 giorni. L’articolo 311, comma 5-bis, del codice, infatti, individua alcuni termini nel caso di annullamento con rinvio, su ricorso dell’imputato, di un’ordinanza che ha disposto o confermato la custodia in carcere: il giudice decide entro dieci giorni dalla ricezione degli atti e l’ordinanza è depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione. Se la decisione oppure il deposito dell’ordinanza non intervengono entro i termini prescritti, l’ordinanza che ha disposto la misura coercitiva perde efficacia e, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate, non può essere rinnovata. La questione è, dunque, se il termine di 30 giorni sia o no perentorio. Si è pronunciata nel senso della perentorietà e, quindi, in modo più favorevole al reo la seconda sezione della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 20248 del 67572016. Secondo questa impostazione, anche per il procedimento conseguente a una decisione di annullamento con rinvio, si applica il principio della perentorietà dei termini e della conseguente perdita di efficacia della misura cautelare in caso di loro violazione (tradotto: l’imputato torna in libertà). Secondo un’altra impostazione, sempre della Cassazione (sezione V, sentenza 8/1/16-4/5716, n. 18572) c’è la possibilità di applicare anche nel giudizio di rinvio il termine di 45 giorni, previsto dall’articolo 309 comma 10 del codice di procedura penale. Nel caso specifico la difesa dell’imputata si è appoggiata alla lettera della norma (dopo 30 giorni la custodia in carcere decade) e ha sostento che non sarebbe possibile forzare il testo con una interpretazione sistematica. In campo penale non è possibile un’estensione analogica con effetti sfavorevoli per il reo. I termini di legge sono a tutela dell’imputato, assicurandogli così un termine certo entro il quale deve giungere la decisione del Tribunale del riesame. Le sezioni unite hanno accolto la tesi dell’imputata, evidentemente condividendo le ragioni giuridiche del ricorso. La conseguenza è che il giudice non può attendere oltre i trenta giorni, altrimenti gli imputati ritornano a piede libero. Tenuità del fatto per lo spacciatore di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2017 Corte di cassazione - Sentenza 36616/2017. La non punibilità per particolare tenuità del fatto non può essere esclusa per lo spacciatore di sostanze stupefacenti, solo sulla base di precedenti denunce per reati della stessa specie, in assenza di condanne. La Corte di cassazione, con la sentenza 36616, accoglie la tesi del ricorrente che riteneva di aver diritto all’applicazione dell’articolo 131-bis del Codice penale sulla particolare tenuità del fatto, mentre il giudice di merito si era limitato a dichiarare, in astratto, che l’istituto non era incompatibile con la fattispecie concreta. Il ricorrente era stato condannato a due mesi di reclusione e a 600 euro di multa per il reato previsto dall’ articolo 73, comma 5 del Dpr 309/90. Una norma sulla lieve entità, che scatta anche in caso di cessione, modificata dall’articolo 2 del Dl 146/2013 il cosiddetto "svuota carceri" da configurare non più come un’attenuante a effetto speciale ma come figura di reato autonoma rispetto a quella delineata dal comma primo dell’articolo 73 del Dpr. La Cassazione, nell’annullare con rinvio la sentenza impugnata limitatamente all’applicabilità dell’articolo 131-bis, ricorda che il "beneficio" della non punibilità è precluso in caso di comportamento abituale, quando si agisce per motivi futili o abietti, o con crudeltà, quando si approfitta della minorata difesa della vittima o quando le conseguenze dell’azione sono lesioni gravissime o la morte. Niente tenuità dunque se l’autore è stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza o ha commesso più reati della stessa indole, anche quando ciascuno di questi, considerato a sè, è di particolare tenuità, infine la punibilità non può essere esclusa in caso di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime o reiterate. Nessuna di queste ipotesi vale, precisano i giudici, nella vicenda esaminata, in cui la Corte d’Appello si è limitata a verificare l’esistenza di semplici denunce, risalenti nel tempo, sul cui destino nulla è stato aggiunto o chiarito. I giudici di merito non hanno neppure precisato se c’è stato un procedimento penale o un accertamento giudiziale, tanto più che - sottolinea la Cassazione - visto il tempo trascorso le vicende dovevano essere definite. Allo stato, non c’era dunque nessun ostacolo perché la Corte d’Appello potesse esprimersi sull’applicabilità della norma sulla particolare tenuità del fatto come richiesto dal ricorrente. Corruzione senza immunità di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2017 L’immunità non impedisce al giudice di perseguire il parlamentare per il reato di corruzione per l’esercizio della funzione. Un reato, previsto dall’articolo 318 del Codice penale (legge Severino) che non comporta un sindacato sull’esercizio della funzione se la "condotta" si traduce in accordo tra il corruttore e il parlamentare in cambio di una qualche utilità indebita promessa o concessa. La Corte di cassazione (sentenza 36769) accoglie il ricorso del Pubblico ministero contro la decisione del Gup di non procedere nei confronti dell’ex deputato dell’Udc, Luca Volontè, accusato di aver ricevuto da politici Azeri una tangente di 2 milioni e 390 mila euro per orientare il proprio voto come membro dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Il sostituto procuratore contestava la posizione del Gup che aveva ritenuto inutile andare in dibattimento, considerando insindacabili, le attività addebitate a Volontè, perché "coperte" da immunità. La Cassazione è d’accordo con il Pm. Per far scattare il reato previsto dall’articolo 318 del Codice penale, basta il "patto" con il quale la funzione pubblica diventa oggetto di un "negozio" dietro compenso "indebito", a prescindere dall’esecuzione di atti specifici. L’articolo 318, che "punisce" la corruzione nell’esercizio della funzione, si distingue dall’articolo 319 che sanziona la corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio: solo in quest’ultimo caso è infatti, richiesto un sindacato sul contenuto dell’atto. Il nuovo articolo 318, unifica la corruzione "prima" e "dopo" sanzionando allo stesso modo dazioni o promesse per l’esercizio delle funzioni, anche se arrivano dopo il compimento dell’atto d’ufficio. Chiarito che il reato è configurabile anche in virtù del semplice accordo, indipendentemente dall’esercizio della pubblica funzione, per i giudici resta da chiarire se l’attività svolta da un membro del Parlamento italiano che agisce come membro dell’Assemblea del Consiglio d’Europa può essere considerata pubblico servizio. La Cassazione, partendo dalla ripartizione dei poteri di Montesquieu, arriva a una risposta affermativa. In base agli articoli 357 e 358 del Codice penale l’attività del rappresentante italiano all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa è qualificabile come svolta da pubblico ufficiale, o quanto meno da incaricato di pubblico servizio, in quanto esercita anche le funzioni di membro del Parlamento italiano. Il passaggio successivo è capire se c’è l’immunità. E questa volta la risposta è no. La norma, posta dalla Carta a garanzia dell’autodeterminazione, assicura l’immunità ai componenti di una Camera per gli atti tipici o anche non tipici ma connessi alla funzione parlamentare. Altrimenti prevale la "grande regola" dello stato di diritto. La parola deve passare alla giurisdizione. La sentenza viene annullata e gli atti tornano al Gup. La Cassazione invita a valutare con attenzione il profilo dell’utilità ai fini della qualificazione come "indebita". Con l’avvertenza però che quando l’attività politica diventa costante composizione di interessi di parte "in tale ambito non può ritenersi rientrare la ricezione di utilità, anche estremamente rilevante, come ad esempio cospicue somme di denaro a titolo personale". In tal caso si è fuori dai compiti di rappresentanza e anche di "compromesso" politico ?e si entra nella logica di uno sfruttamento privato dell’altissimo ufficio ricoperto. Ammessa motivazione per relationem della sentenza d’appello in caso di "doppia conforme" Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2017 Impugnazioni penali - Appello - Conformità tra sentenze di primo e secondo grado - C.d. doppia conforme - Motivazione per relationem della sentenza di appello - Ammissibilità. Le motivazioni delle sentenze di primo e secondo grado vanno lette come un tutt’uno in caso di doppia conforme declaratoria di responsabilità a carico dell’imputato. Peraltro, nel caso di "doppia conformità" delle decisioni di merito, deve essere ritenuta pienamente ammissibile la motivazione della sentenza d’appello per relationem rispetto a quella contenuta nella sentenza di primo grado, a condizione che le censure formulate contro la decisione impugnata non contengano elementi e argomenti di novità, diversi da quelli già esaminati e disattesi. Il giudice del gravame, infatti, nell’effettuare il controllo in ordine alla fondatezza degli elementi su cui è fondata la sentenza impugnata, non è chiamato a un puntuale riesame di quelle questioni riportate nei motivi di gravame sulle quali si sia già soffermato il giudice a quo. In tali ipotesi le motivazioni delle due pronunce, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico e inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare la congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri analoghi a quelli usati nel primo grado e in base ai medesimi passaggi logico-giuridici della decisione. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 15 maggio 2017 n. 23767. Impugnazioni penali - Appello - Analisi limitata all’ossatura della sentenza impugnata - Deduzioni non considerate da ritenersi implicitamente disattese - Ammissibilità. Il giudice del gravame di merito (appello) non è tenuto a effettuare un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente, anche attraverso una loro valutazione globale, una spiegazione eseguita in modo logico e adeguato delle ragioni del suo convincimento così da dimostrare di aver tenuto presente ogni possibile fatto decisivo. Ne deriva che in tal caso vanno considerate implicitamente disattese le deduzioni difensive che, sebbene non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione. In altri termini, la motivazione della sentenza d’appello è sicuramente congrua se sono stati confutati gli argomenti che costituiscono "l’ossatura" dello schema difensivo presentato dell’imputato e non necessariamente tutte le singole deduzioni difensive della parte. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 15 maggio 2017 n. 23767. Impugnazioni penali - Appello - Genericità e aspecificità dei fatti riconosciuti - Travisamento della prova - Doppia conforme. Il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per Cassazione, nel caso di cosiddetta "doppia conforme", cioè di condanna in primo e secondo grado, sia nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 3 febbraio 2016 n. 4417. Appello - Doppia conforme - Reati contro il patrimonio - Furto. Il giudice di legittimità, ai fini del vaglio di congruità e completezza motivazionale del provvedimento impugnato, deve avere riguardo - ove si tratti di una sentenza pronunciata in grado di appello - sia alla sentenza di primo grado che alla sentenza di secondo grado, che si integrano vicendevolmente, dando origine a enunciati ed esiti assertivi organici e inseparabili. E il dato immanente nella diacronica dinamica del processo decisionale del giudice di merito, è ancor più significativo allorché la sentenza di appello abbia interamente confermato le statuizioni del giudice di primo grado (doppia conforme), con varianti valutative non incidenti sulla omologia delle statuizioni decisorie in punto di penale responsabilità dell’imputato. • Corte cassazione, sezione IV penale, sentenza 2 febbraio 2010 n. 4167. Alba (Cn): oltre 50 detenuti in un’area che prima ne ospitava trenta di Cristina Borgogno La Stampa, 25 luglio 2017 Oltre cinquanta detenuti in un’area che prima ne ospitava trenta e problemi di sovraffollamento nel carcere di Alba riaperto - solo parzialmente - un paio di mesi fa. Una situazione emersa dopo la visita della IV Commissione del Comune di Alba, che nell’ultima seduta di Consiglio ha sottoscritto un ordine del giorno presentato dal presidente William Revello, e ribadita dopo il sopralluogo fatto nel fine settimana dal nuovo provveditore di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, Liberato Guerriero (che in settimana incontrerà a Roma il presidente del Dipartimento Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo), insieme con i garanti dei diritti dei detenuti regionale, Bruno Mellano, e comunale, Alessandro Prandi, accompagnati dalla direttrice del "Montalto", Giuseppina Piscioneri. Dopo l’epidemia di legionella e la chiusura del carcere di località Toppino nel gennaio 2016, a riaprire le porte a fine maggio è stata, con un intervento relativamente poco oneroso, l’ex sezione dei collaboratori di giustizia. "Le condizioni attuali sono di grande difficoltà proprio in considerazione degli spazi ristretti a disposizione dei detenuti - spiega Prandi. La direzione del carcere sta pensando a una riorganizzazione e adeguamento degli spazi comuni che, se attuati, porterebbero degli effettivi benefici e, durante la visita, si sono individuati alcuni interventi realizzabili nel breve-medio periodo su cui i garanti si impegnano a vigilare. Anche il provveditore ha potuto verificare le criticità dell’istituto, ma anche le sue potenzialità, in attesa di una complessiva ristrutturazione". Incertezza sui lavori Proprio le incertezze sui lavori per riaprire l’intero carcere (che prima poteva ospitare fino a 122 detenuti) preoccupano il territorio. "Sono deluso e allibito che, dopo 60 giorni, il ministero della Giustizia non abbia ancora presentato il cronoprogramma che aveva promesso entro fine giugno - interviene il deputato albese Mariano Rabino. Credo che ci sia una manifesta mancanza di dialogo con il Dap. Ho provato più volte a sollecitare l’intervento del Governo in proposito, volevo presentare un question-time mercoledì (domani ndr) alla Camera, ma ho saputo che non ci sarebbe il ministro Orlando a rispondere. Pertanto procederò in altro modo per ottenere notizie certe". Secondo i tecnici del Ministero, il ripristino delle 4 sezioni comuni, per cui da Roma sono stati impegnati 2 milioni di euro nel programma triennale delle opere di ristrutturazione 2016- 2018, non potrà avvenire in meno di due anni. Napoli: da detenuti a operai della Whirlpool, la nuova vita dei baby camorristi usciti dal clan di Antonio Crispino Corriere della Sera, 25 luglio 2017 Oltre 100 ex detenuti impiegati negli stabilimenti della multinazionale che porta avanti un progetto avviato da Vittorio Merloni ai tempi dell’Indesit. La prima volta che Federico adocchiò la moglie fu dalla finestra di casa sua ai Quartieri spagnoli. Abitavano uno di fronte all’altra. La salutò ma lei abbassò lo sguardo e rigò dritto. Due mondi opposti. Lei giovane liceale, lui agli arresti già da minorenne. Quando annunciò ai genitori che si era fidanzata con Federico la famiglia di lei non ci pensò due volte: in meno di una settimana traslocò da un’altra parte, il più lontano possibile. Vide il pericolo di un rapporto con una famiglia a braccetto con il crimine ed andava evitato come la peste. Oggi vivono e lavorano a Gavirate, in provincia di Varese, hanno due figli. La principale preoccupazione di Federico è che il più grande stia lontano da un suo cugino, scheggia impazzita della paranza dei bambini, ora in carcere a Nisida per tentato omicidio e un’altra sfilza di reati. "Cambia vita, ce la puoi fare. Guarda che ammazzano anche te" disse al nipote nell’ultimo colloquio che hanno avuto in carcere. "E che fa? Non fa niente, quando è finita è finita", ha risposto lui guardano lo zio come si guarda un fallito. Federico per la camorra è questo, una mela marcia, un debole che non ha saputo resistere, che è scappato via. Invece nel profondo Nord Federico si è rifatto una vita o, come dice lui, "ho scoperto la vita". Ha cambiato atteggiamento, modo di vestire, di parlare, di ragionare. I suoi figli sono dei ragazzi tranquilli. Soprattutto ha un lavoro frutto di un progetto della Whirlpool che punta a reinserire nella società ragazzi con un passato difficile. Lo volle fortemente Vittorio Merloni nel 1998, prima che la Indesit fosse acquisita dalla Whirlpool corporation. E da allora i ragazzi che si sono "salvati" sono circa cento, ormai completamente integrati a Biandronno e dintorni (comune in provincia di Varese dove il 65% della popolazione è impiegato alla Whirlpool). "Partiamo dai rudimenti del lavoro in fabbrica - spiega Alessandro Magnoni, capo della Comunicazione. Siamo in contatto con le Comunità per minori sul territorio, come la Jonathan di Scisciano in provincia di Napoli e insieme cerchiamo di portare avanti un programma di inclusione. Lo facciamo con discrezione e riservatezza affinché capiscano gradualmente cosa devono cambiare". Tra i circa duemila dipendenti del sito industriale Cassinetta, Federico ha incontrato altri ragazzi che hanno fatto più o meno il suo stesso percorso: strada, carcere, comunità, lavoro, trasferimento al Nord. Un salto non facile per chi non ha mai messo il muso fuori dal rione. Hanno abbandonato il "Sistema", cambiato vita e abitudini ma la paura di quella vita è ancora viva. Chiedono di continuo di non citare quel fatto, quella parentela, quel luogo. Sono attentissimi a non commentare le cronache napoletane fatte di "paranza dei bambini" e omicidi. Non li vogliono nemmeno nominare. Come scottati dall’acqua bollente. Luigi è da due anni a Varese. Fa i turni di notte. Per tutti è un gran lavoratore, un impiegato modello, mai un lamento. Gli vengono le lacrime agli occhi al ricordo di quand’era ragazzo di strada. Ha una figlia di otto anni a cui non ha mai fatto cenno della sua vita precedente. E lo nasconde anche a noi. Va orgoglioso, invece, di come la figlia si rapporta alle compagne di classe, dei discorsi che fa. Lui che la scuola praticamente non l’ha mai vista. Arrivò in comunità che aveva 17 anni, nessuna istruzione, nessuna competenza e tanta aggressività. Poi gli proposero di entrare nel progetto, all’epoca dell’Indesit. Prima un periodo nel sito industriale di Carinaro, in provincia di Caserta. Quando è arrivata la crisi economica e il trasferimento della produzione al Nord ha accettato il trasloco. Così come ha fatto pure Biagio. Da Mugnano di Napoli a Coquio-Trevisago. Ci ha messo un po’ solo a imparare il nome della città. "A mia moglie parlai chiaro: se non ce ne andiamo da Napoli facciamo una brutta fine. Accettò di lasciare tutto e ricominciare da zero". Alle spalle si lasciò una brutta storia, "cose che solo uno di Napoli può capire. Come fai a spiegare alla gente in che modo cresciamo? Come spieghi che una parte malata della società influenza la mente dei ragazzi e gli fa credere che per essere un guappo devi picchiare? Come spieghi la paura di vivere in strada, dove anche una banale lite in strada la risolvono organizzando spedizioni punitive per ammazzare, picchiare o per far capire chi comanda?". Mantova: in carcere un laboratorio per il pane di Roberto Bo Gazzetta di Mantova, 25 luglio 2017 Decolla "Sapori di libertà": presto in via Poma prodotti da forno che saranno venduti a circoli, negozi e ristoranti. Le marmellate di Rebibbia, i biscotti di Verbania, i panettoni di Padova e il torrone di Ragusa. Tutto prodotto e confezionato nei penitenziari di alcune città italiane. E venduto all’esterno. Progetti che mirano al reinserimento dei detenuti e a portare nei loro portafogli anche qualche euro. E prendendo spunto da quelle iniziative, presto nel carcere di via Poma sarà allestito un laboratorio di panificazione all’interno dell’ex legatoria per sfornare prodotti da forno da vendere a clienti esterni. Il progetto, per il quale i lavori di predisposizione dei locali sono già iniziati con tanto di formazione dei detenuti, porta la firma dell’associazione Libra di Mantova, che ormai da tempo si occupa di legalità e sostegno delle persone in difficoltà. "Sapori di libertà" - questo il nome del laboratorio - ha diversi obiettivi: il miglioramento delle condizioni di vita all’interno della casa circondariale di Mantova trasformando un ampio spazio inutilizzato in una cucina (per la preparazione dei pasti) e in un laboratorio artigianale alimentare con possibilità di produzione e rivendita dei prodotti di panificazione, l’investimento sulla riqualificazione professionale e lavorativa di alcune delle persone detenute con reale possibilità di inserimento lavorativo già intra muros, il coinvolgimento in un percorso di giustizia riparativa che possa favorire il reinserimento sociale e la sensibilizzazione della rete formale e informale del territorio. L’associazione capofila è Libera Onlus, che si è avvalsa della collaborazione del carcere, dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Mantova e Cremona, dell’istituto Fde e del sostegno di Fondazione Cariverona, Fondazione Comunità Mantovana Onlus, Fondazione Banca del Monte di Lombardia e Banca D’Italia. Particolarmente soddisfatta la direttrice del carcere di Mantova Rossella Padula, che da subito ha appoggiato ed approvato le finalità dell’iniziativa di Libra guidata dal presidente Angelo Puccia. La presenza di un laboratorio artigianale di panificazione che preveda di vendere all’esterno i propri prodotti tramite commesse, spiegano da Libra, vuole significare l’importanza del lavoro come strumento di integrazione sociale. Dopo l’ok dell’amministrazione penitenziaria, per quanto riguarda i lavori, è arrivato anche il via libera del Comune (Sportello unico per le imprese e i cittadini) e della soprintendenza per i beni architettonici di Brescia. Al momento nel progetto, che contempla anche il rifacimento della cucina, sono coinvolti nove detenuti tra quelli che già lavorano ai fornelli. Stanno facendo un corso di formazione per la sicurezza che terminerà all’inizio del prossimo anno. Una volta ultimati i lavori si presume che nel laboratorio di panificazione troveranno lavoro 4-5 detenuti. Intanto, però, l’associazione sta già facendo girare la voce per trovare commesse e in futuro vendere i prodotti all’esterno come stanno già facendo altri penitenziari italiani. Presto anche frutta e verdura, il prossimo step sarà l’orto Non solo pane, ma in un futuro non troppo lontano anche l’orto, con la vendita di frutta e verdura. Carlo Alberto Aitini, insegnante della scuola carceraria di via Poma, svela i nuovi progetti che stanno vedendo avanti nel penitenziario mantovano oltre a "Sapori di libertà" che ruota attorno al laboratorio di panificazione. "Se riusciremo a trovare i fondi necessari - spiega - avvieremo anche, sempre con l’associazione Libra, "Sapori in libertà" che prevede la coltivazione con uno spazio verde a fianco del carcere da adibire ad orto. Oltre al pane, dunque, ben presto potremmo produrre e vendere all’esterno anche frutta e verdura". Ma non è tutto: dopo l’estate la scuola carceraria è pronta a far decollare anche il corso di teatro grazie alla collaborazione con l’associazione "Arte dell’assurdo". Tre nuovi progetti che vedranno la luce nel giro di poco tempo. Ma in passato nella struttura di via Poma hanno funzionato altri laboratori: quello di ceramica e legatoria, attività terminate alcuni anni fa, sia perché il progetto era concluso che per mancanza di nuovi fondi. Nel laboratorio di ceramica si producevano manufatti di vario tipo, contenitori, piastrelle e piatti decorate, vasi per le farmacie e altri oggetti. Partendo dalla creta grezza venivano costruiti i pezzi, poi successivamente decorati. Grazie al gruppo di volontari del Centro solidarietà carcere i prodotti ultimati venivano portati ai mercatini e venduti alla cittadinanza e il ricavato messo a disposizione dei detenuti. Al laboratorio di legatoria si accedeva dopo un corso e venivano prodotti faldoni d’archivio, commissionati sia dal ministero della giustizia che da alcuni enti locali. È stato chiuso tre anni fa, anche in questo caso per mancanza di fondi. Livorno: l’Osservatorio Carcere Ucpi e la Camera Penale sui gravi fatti di Gorgona camerepenali.it, 25 luglio 2017 L’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere penali e il Direttivo della Camera penale di Livorno esprimono profonda preoccupazione per la lite tra detenuti accaduta ieri 23/7/2017 presso l’Isola di Gorgona. Tale episodio che, a quanto appreso dagli organi di stampa, sembra piuttosto grave, non fa che confermare l’esistenza di una situazione di tensione che, da qualche tempo a questa parte, rischia di compromettere gli obiettivi di una realtà penitenziaria che, perlomeno fino a poco tempo fa, aveva dato ottima prova di sé. Purtroppo da quanto abbiamo appreso nel corso della nostra visita al penitenziario il giorno precedente, 22/7/2017, le criticità riscontrate sull’isola non sono poche. Accompagnati dal Garante comunale per i detenuti Marco Solimano, dal Comandante della Polizia Penitenziaria Gisberto Granucci e dal Capo dell’area educativa Stefano Turbati, abbiamo visitato i padiglioni del carcere, le aree dedicate ai colloqui con avvocati e familiari e quelle destinate al lavoro sull’isola (la cooperativa agricola e i vitigni Frescobaldi). Tale visita era stata sollecitata proprio dall’uscita di due articoli editi sulla stampa nazionale (Il Fatto quotidiano) e su quella locale (Il Tirreno) nei quali l’Isola di Gorgona veniva appellata come "una polveriera". Dunque come una realtà vicina ad esplodere. Ebbene nel corso della nostra visita ci siamo resi conto che i problemi maggiori sono per lo più conseguenti al diverso modello di selezione della popolazione detenuta rispetto al passato. Ultimamente, infatti, il penitenziario non è più una casa di reclusione ma una sezione distaccata della Casa circondariale "le Sughere" di Livorno. Per tale motivo si è assistito ad un diverso criterio di assegnazione dei detenuti sull’isola, non più selezionati in base al pregresso percorso penitenziario (andare in Gorgona doveva essere considerato il premio per coloro che avessero con successo affrontato il proprio percorso penitenziario) ma lì dirottati per tamponare il sovraffollamento del carcere di Livorno (complice la chiusura per ristrutturazione della sezione ex femminile). Questo aspetto, oltre ad aver alterato la filosofia dell’istituto di pena -ispirato al modello positivo della sorveglianza dinamica a custodia attenuata- ha di fatto incrementato una logica securitaria che finisce con il compromettere le prassi virtuose del passato: l’aumento della popolazione detenuta cui non ha fatto da contraltare il corrispondente impiego di un maggior numero di agenti di polizia penitenziaria, nonché l’accostamento tra detenuti con percorsi penitenziari estremamente differenziati ha fatto da detonatore ad una crisi che, come testimonia il recentissimo fatto, rischia di far naufragare un’esperienza unica nel panorama penitenziario italiano che dovrebbe, invece, essere un esempio per tutti gli istituti di pena del Paese. Aumentano, quindi, i divieti e le misure di contenimento, diminuiscono le occasioni di fruire di alternative al lavoro. In particolare abbiamo potuto constatare le seguenti criticità: 1. sono venute meno le risorse che consentivano a persone esterne di dimorare sull’isola per organizzare anche attività alternative al lavoro (in passato per esempio erano stati organizzati corsi di diving); 2. ciò amplifica quella che costituisce la difficoltà endemica dei collegamenti con l’isola: spesso infatti le condizioni metereologiche impediscono ai familiari di recarsi in loco alimentando il senso di solitudine dei detenuti che ben potrebbe essere ovviato ove comunque si consentisse di incrementare la disponibilità degli alloggi per personale esterno; 3. le comunicazioni postali sono intollerabilmente lente: alcuni detenuti attendono da più di 3 mesi pacchi postali provenienti da familiari; 4. sono molto scarsi i permessi premio perché vi sono notevoli ritardi nella stesura delle relazioni di sintesi. Riteniamo necessario, dunque, intervenire con la massima sollecitudine per conservare il patrimonio di esperienze dell’Isola di Gorgona, favorendo il miglioramento dei contatti con l’esterno e recuperando quei criteri selettivi che consentivano di lavorare su detenuti provenienti da percorsi penitenziari omogenei. L’Osservatorio Carcere Ucpi Il Direttivo della Camera Penale di Livorno Caserta: carenza idrica anche nel carcere di Santa Maria Capua Vetere di Raffaele Cardo La Repubblica, 25 luglio 2017 "Se continua così, a settembre si prevede un razionamento dell’acqua per tutti i 104 comuni della Provincia di Caserta". Antonio Mirra, il sindaco di Santa Maria Capua Vetere, coordinatore per l’area casertana dell’Ente Idrico Campano, è preoccupato per le conseguenze della mancanza d’acqua. E ne ha ben donde, se persino nel carcere di Santa Maria Capua Vetere si soffre per la carenza idrica. Anzi qui la vicenda è finita in Procura. A segnalare il caso è stata Adriana Tocco, "Garante dei detenuti" per la Regione. "L’acqua non arriva ai piani alti e perciò viene razionata ed erogata solo poche ore al giorno e più volte i detenuti ne hanno denunciato il colore torbido. A ciascun carcerato viene fornita una bottiglia d’acqua di due litri al giorno, totalmente insufficiente". "La disponibilità di acqua - spiega il sindaco Mirra - è calata del 30 per cento in tutta la Regione rispetto ai mesi precedenti. Le sorgenti stanno andando sotto la loro capacità. Se a questo si aggiunge che in molti dei comuni, a causa delle presenza di una rete idrica obsoleta, ci sono perdite di acqua che raggiungono percentuali del 60%, siamo messi male. Dobbiamo sperare nella pioggia. Con altri sindaci stiamo valutando la possibilità di emettere ordinanze per contenere gli sprechi, come quella di vietare l’uso di acqua potabile per l’irrigazione". Napoli: il Sindacato degli agenti Uspp "basta baby boss negli istituti penali minorili" di Antonio Pisani anteprima24.it, 25 luglio 2017 "Basta baby boss di camorra, anche maggiorenni, nelle normali carceri minorili. La loro presenza mette rischio la rieducazione degli altri detenuti che hanno commesso reati ordinari". È quanto denuncia il segretario regionale dell’Unione Sindacale di Polizia Penitenziaria Ciro Auricchio intervenendo sulla norma della Riforma Orlando che ha esteso la detenzione nelle carceri minorili fino al 25esimo anno di età per coloro che abbiano commesso reati, sia pur di matrice mafiosa, quando erano minorenni. È il caso per esempio dei due giovani - di 16 e 24 anni - responsabili dell’efferato omicidio di Afragola, dove le due vittime sono state fatte a pezzetti; per loro, come per tanti giovani boss dei quartieri napoletani, si aprono le porte degli istituti minorili, come quelli di Nisida (Napoli) e Airola (Benevento), dove però invece di rieducarsi, provano a trasmettere le violente dinamiche apprese in strada; sono così aumentate le aggressioni nelle carceri minorili e il personale è "terrorizzato" da questi ragazzi e dalle loro famiglie. Auricchio spiega che le "notizie che giungono dagli istituti minorili sulla leadership negativa che tali detenuti provano ad esercitare sul gruppo dei compagni di detenzione sono allarmanti, con effetti destabilizzanti sia per l’ordine e la sicurezza interni, sia per la rieducazione ed il trattamento stesso". "Nelle carceri campane, e ci risulta in alcuni casi persino nel circuito penale esterno, numerosi sono i giovani detenuti, di origine campana, alcuni di essi ancora minorenni, autori di reati, anche gravi come l’omicidio, facenti capo ai diversi clan protagonisti delle diverse faide che imperversano nella città di Napoli e provincia. Urgono soluzioni urgenti: chiediamo al Ministro Orlando di riconoscere che se si va avanti così, per lo Stato è una sconfitta, e chiediamo di considerare la possibilità di inviare questi giovani detenuti in circuiti di massima sicurezza o in istituti ad hoc fuori distretto, abbattendo così i rischi di contaminazione del territorio esterno e da parte delle stesse famiglie affiliate ai clan, e per creare i presupposti per tentare un approccio autentico alla rieducazione e al trattamento" conclude il sindacalista. Orvieto (Pg): il "tunisino pericoloso" ed espulso in realtà è una persona di Associazione Piano Terra umbrialeft.it, 25 luglio 2017 Ci ha fatto male leggere gli articoli pubblicati dalla stampa locale sul "tunisino pericoloso". Noi, lo conosciamo come Sabr, è stato un volontario e socio della Bottega del commercio equo e solidale Piano Terra, ed è un nostro amico che abbiamo conosciuto come una persona onesta, operosa, gentile, generosa. Una persona, dunque, che ha commesso un errore per il quale ha scontato la giusta pena, ma che ha anche molte qualità esageratamente coperte da una macchia che lo disegna ancora come persona pericolosa. Sabr ha fatto e donato molto, con piccoli gesti, ad una città spenta, senza spirito, senza un’anima, perduta, che ha bisogno di raccontare il presente solo guardando in superficie, senza il coraggio di spingersi oltre, scoprire i lati nascosti, svelare i lati più oscuri. Lo Stato ha speso molto per fare di Sabr un cittadino migliore, per permettergli di recuperare agli errori del passato e spendersi per se e per gli altri. Un merito che andrebbe riconosciuto anche all’Istituto Carcerario di Orvieto e a tutto il personale che ha lavorato e lavora ogni giorno per questo. Lo Stato però ha fin troppe contraddizioni. Proprio quando aveva raggiunto il suo obiettivo, recuperare e reintegrare un detenuto, lo ha preso ed allontanato, abbandonato, condannato ancora una volta; costretto a tornare da dove era venuto per emanciparsi dal bisogno, dalla povertà, da quel mondo verso il quale cinicamente ed egoisticamente vorremmo chiudere ogni porta, che è come chiudere noi stessi. Quella di Sabr è una vicenda che noi non derubricheremo a mero fatto di cronaca da raccontare spicciamente sui giornali, ma come un’altra sconfitta dello Stato che si distacca ancora una volta dai propri valori ispiratori. Trapani: il Vescovo Fragnelli e i seminaristi incontrano i detenuti a Favignana itacanotizie.it, 25 luglio 2017 "Quando calano silenzio e rassegnazione sulla città degli uomini, quando sembra inutile agire e perfino pensare, diventa prezioso l’incontro con chi non smette di avere un solo chiodo in testa: come riacquistare la libertà". Nasce così l’incontro che domani mattina il vescovo Pietro Maria Fragnelli insieme ad un gruppo di 25 giovani provenienti da tutt’Italia per un campo dell’associazione "Papa Giovanni XXIII" alcuni seminaristi e il cappellano padre Bruno Moras, avrà presso la Casa Circondariale di Favignana, isola conosciuta e frequentata d’estate per la sua straordinaria bellezza naturalistica ma anche luogo di detenzione: al momento il Carcere, che è anche "Casa Lavoro" ospita 85 ristretti provenienti da diverse città e perfino nazioni. Una realtà che la chiesa trapanese non vuole dimenticare, soprattutto d’estate, lanciando un appello. "Vado per sostenere la loro sete di libertà e anche il loro impegno a cambiare vita, mentalità, prospettive. Vado per chiedere loro di provocare tutti coloro che sono fuori dal carcere a promuovere nuovi stili di vita veramente degni di una convivenza civile, capaci di generare la voglia e la gioia di vivere insieme nel rispetto reciproco - continua Mons. Fragnelli. Vado per dire loro la parola di Gesù: la verità vi farà liberi! Gesù cambia il cuore, cambia le delusioni e le sconfitte in percorsi di rinascita. Vado per dire a noi e a loro che il Vangelo ci fa veramente ‘compagni di viaggio". Mercoledì il vescovo si farà ancora "compagno di viaggio "dei detenuti questa volta presso la Casa Circondariale di Trapani dove, grazie alla donazione di un benefattore, consegnerà la Bibbia ad alcuni detenuti ed operatori penitenziari. Roma: "Il diritto alla follia", trattamento psichiatrico involontario in ambito penale e civile superabile.it, 25 luglio 2017 Capano: "Occorre superare la realtà penalistica delle misure di sicurezza per i non imputabili, che impone la cura farmacologica come sanzione penale, e riformare profondamente il Tso introducendo diritti e garanzie oggi assenti". A Roma i Radicali Italiani hanno organizzato sabato scorso una giornata di confronto sul tema del "Diritto della follia". Al centro dell’incontro le misure psichiatriche "involontarie" in ambito civile e penale. Si è discusso quindi dell’istituto del Trattamento sanitario obbligatorio, con la proposta di riforma elaborata da Radicali Italiani, e delle misure di sicurezza. Tra gli altri, sono intervenuti il prof. Antonio Cavaliere, ordinario di diritto penale presso L’Università Federico II di Napoli, sul superamento delle misure di sicurezza; l’ avv. Michele Capano, tesoriere di Radicali Italiani, sulle ragioni e i contenuti della proposta di riforma del Tso elaborata da Radicali Italiani; Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni, morto nel 2009 a Vallo della Lucania durante un Tso dopo 87 ore di ininterrotta contenzione meccanica. "Radicali Italiani ha intrapreso un percorso di conoscenza e approfondimento sia rispetto alla logica "segregazionista" che la legge 180 non è riuscita a cancellare ma solo a rendere meno visibile, sia all’universo doloroso degli abusi subiti dai pazienti di psichiatria, dichiara Michele Capano. Occorre superare la realtà penalistica delle misure di sicurezza per i non imputabili, che impone la cura farmacologica come sanzione penale, e riformare profondamente il Tso introducendo diritti e garanzie oggi assenti. Purtroppo proprio come ai tempi di Franco Basaglia, isolato e vilipeso dai suoi colleghi, la "psichiatria organizzata" continua a porsi in una posizione difensiva e conservatrice. Da una parte il "Forum salute mentale", teoricamente più progressista, avanza una riforma del Tso che rifiuta di valorizzare la persona oggetto di trattamento e le sue prerogative e perpetua invece il potere incontrollato dei medici. Dall’altra la Sip (Società italiana di psichiatria) assume una posizione ultraconservatrice, pur aprendo - dopo 40 anni - quantomeno alla "notifica" del provvedimento di Tso all’interessato, oggi non prevista dalla legge. Più attenta la Siep (Società di epidemiologia psichiatrica), che con il presidente Fabrizio Starace ha manifestato interesse alla proposta di Radicali Italiani. Di tutt’altro segno la risposta del mondo del diritto, con l’adesione alla nostra proposta di riforma dell’Unione delle Camere Penali". L’incontro con le realtà associative impegnate su questo fronte è "un tentativo di fare rete per riformare un sistema - quello dei trattamenti psichiatrici involontari - che già oggi riteniamo in contrasto con la Carta costituzionale, con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, con convenzioni e risoluzioni stipulate nell’ambito delle Nazioni Unite", conclude Capano. Maurizia e le altre donne, le voci di dentro a Rebibbia di Valentina Stella Il Dubbio, 25 luglio 2017 Le testimonianze delle detenute raccolte nel libro "A mano libera. Donne tra prigioni e libertà". le curatrici del libro, Tiziana Bartolini e Paola Ortensi hanno tenuto degli incontri settimanali con le recluse dell’istituto femminile durante i quali hanno discusso e commentato le notizie del giorno. "Una bella giornata di sole. Tutto andava a meraviglia. All’improvviso quattro toc toc alla porta, mio figlio mi chiede "ma, chi sarà? " E io "boh, apri". Mi trovo davanti tre colossi e una donna che mi dicono signora, ci segua. È in arresto e io già ci sto con il bracciale e loro No, signò, è arrivato il definitivo. Prepari le sue cose e ci segua. Ha dieci minuti. Dieci!!", in pochi minuti la vita di Maurizia cambia; da due anni è reclusa nel carcere femminile di Rebibbia. "Dopo aver versato fiumi di lacrime, cazziatoni, litigate, amicizie vere e no, mi rendo conto mi servirà. Eccome!", così si racconta oggi nel libro ‘ A mano libera. Donne tra prigioni e libertà’, una raccolta di testi, frutto del lavoro fatto da novembre 2016 a maggio 2017, con il laboratorio " A mano libera" tenuto proprio nella Casa circondariale femminile romana. Le curatrici del libro, Tiziana Bartolini e Paola Ortensi, hanno tenuto degli incontri settimanali con le detenute partecipanti durante i quali hanno discusso di attualità e commentato i fatti, sollecitando riflessioni che, talvolta, sono "diventate parole fissate sul foglio bianco". Nello stesso modo si sono tenuti gli incontri nei due anni precedenti e i relativi scritti sono stati pubblicati nel sito noidonne.org, dove si trovano tutte le informazioni per acquistare il libro edito da Cooperativa Libera Stampa. A Rebibbia sono recluse circa 350 detenute, di cui il 50% è costituito da straniere, tra queste moltissime sono rom. Nella maggior parte dei casi le donne sono ristrette per spaccio di droga e, in misura minore, i reati che le riguardano sono legati allo sfruttamento della prostituzione, a furti e rapine e a delitti contro la persona. "Il dentro e fuori è lo scambio che volevamo stabilire e che in vario modo abbiamo sentito muovere", raccontano le curatrici nelle pagine del libro. "Questo scambio si materializza, e non solo simbolicamente, con le riflessioni di non detenute nell’intento di creare un unico e armonico flusso narrativo che abbiamo volutamente accentuato scegliendo di firmare ogni pezzo solo con il nome di battesimo. Siamo consapevoli delle differenze che ci sono tra chi ha avuto destini tanto diversi, ma pensiamo che l’essere donne ci accomuni molto più di quanto non sia visibile a "occhio nudo". All’interno del testo anche una intervista alla dottoressa Ida Del Grosso, direttrice dell’istituto di pena, che racconta del suo percorso umano e professionale che l’ha condotta a dirigere un carcere e traccia una sorta di identikit delle detenute: "Mi sembrano doppiamente vittime per una serie di ragioni: molte sono succubi di personaggi maschili (padri, fidanzati, fratelli) e i loro reati sono riconducibili a queste relazioni affettive o familiari. Rarissimamente sono state consapevoli che stavano compiendo scelte delinquenziali, spesso hanno agito per quello che ritenevano essere amore o pensando di aiutare la persona amata. Non riescono a dire dei no che talvolta sarebbero fondamentali per salvarsi". E a conferma arrivano le parole di Laura: "Per una donna che difende a ogni costo un uomo nonostante lui le abbia fatto del male, ritengo di poter dire che è la donna ad avere bisogno di un aiuto concreto, qualcuno che le faccia capire che il suo non è vero amore, è solo essere soggiogata da qualcuno che lei pensa che la ami, ma è una questione talmente complessa, che io personalmente non mi sento in grado di giudicare, posso solo dire che se ne parla molto ma in sostanza c’è ancora molto da fare". Nelle pagine, articolate in brevi capitoli con titoli evocativi (Del tempo, Della solitudine, Delle prigioni interiori e del buono in carcere, dell’amore, solo per citarne alcuni), si incontrano anche le storie di Patrizia e della sua infanzia con un padre adottivo violento: "C’erano schiaffi, cosa distruttiva, insulti e per di più, la cosa che mi fece davvero male era quando insultava i miei genitori veri". E di Silvia che era sempre stata "la principessa di casa" ma che poi molla il suo lavoro di vigilessa e scappa dalla famiglia per vivere la sua storia d’amore con un rom italiano: quattro figli stupendi da cui si è dovuta separare perché è da sette anni in carcere e sono tanti ancora quelli da scontare per reati contro il patrimonio. E poi alla fine ci sono loro "le divise blu" apostrofate in maniera poco carina come " guardie, divisine, senza cuore, infami" ma che "cercano di aiutare altre donne senza porsi il problema di che reato abbiano commesso, che cercano in tutti i modi di prestare loro assistenza". Da Rebibbia un "corto" antiviolenza al femminile Il Messaggero, 25 luglio 2017 Ultimi giorni di riprese all’interno del carcere di Rebibbia nella Casa Circondariale femminile per il cortometraggio "Salviamo la faccia" realizzato dalla film-maker e docente di scuola carceraria, Giulia Merenda. La pellicola ha per protagoniste donne diverse per età e provenienza geografica, tutte "marchiate" da violenze subite. E sono loro stesse a raccontare come in passato non si sono "salvate la faccia" subendo soprusi e di come invece "se la salvano oggi - dice la regista - conquistando consapevolezza, solidarietà e forza". Le donne sono riprese all’interno e all’esterno del loro laboratorio di erboristeria; qui lavorano e curano le proprie ferite proprio attraverso la passione per le piante ed i fiori. In alcuni "frame" le vediamo fissare la macchina da presa in silenzio, i loro volti coperti da maschere di colore prima che inizino a farci partecipi delle loro storie. Sono donne che vengono dall’Africa, dall’Europa dell’Est, dall’America Latina ma ance da Ostia "e parlano di una vita vissuta duramente per risvegliare le donne normali, che stanno fuori: lo fanno come se fossero in una fiaba, con le mani in pasta a mescolare intrugli colorati per creare maschere di bellezza, riparandosi dal sole sotto cappelloni di carta di giornale, vicino ad uno stagno dove galleggiano fiori di loto". Le protagoniste del "corto" di Giulia Merenda (le riprese sono di Giovanni Piperno, il montaggio di Simona Paggi, le musiche a cura di Alessandra Castellano) hanno seguito per alcuni mesi un progetto sostenuto dal dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio; sono partite dal riconoscimento del loro problema fino alla comprensione della "spirale della violenza" attraverso il lavoro combinato delle docenti del Cpia 1 di Roma con le formatrici di "Ossigeno per l’informazione", operatrici esperte di antiviolenza coadiuvate da un sociologo del lavoro. Stesso iter anche per le transessuali recluse in una sezione speciale con le quali il fotografo Carlo Gianferro sta realizzando una campagna contro la violenza. Gli appuntamenti con i due lavori, cortometraggio e campagna fotografica, sono per la prossima Festa del Cinema di Roma dove si potrà assistere anche a due letture e ad una messinscena in streaming dalla nuova sala del cinema allestita nella Casa Circondariale. Per il cortometraggio di Giulia Merenda è stato anche inciso un brano di Wilheim Friedmann Bach che verrà eseguito dal vivo da due flautisti sia all’interno del carcere che alla Festa del Cinema. Le detenute, ferite dai loro vissuti degradati, deviati e per la loro pena che devono affrontare, parlano alle donne libere, più fortunate dal punto di vista socio-economico, eppure anche loro ad alto rischio di violenze e di femminicidio. "Può sembrare paradossale - continua la regista - ma queste donne hanno conquistato da "dentro", in carcere, la forza e la consapevolezza collettiva per entrare in empatia e scuotere un mondo femminile che sta fuori, sempre più martoriato e mortificato". They call us monsters": tre giovani criminali americani raccontati senza filtri di Vittorio De Agrò paroleacolori.com, 25 luglio 2017 Dilemmi etici e racconto della realtà nel documentario di Ben Lear, presentato in concorso al Giffoni Film Festival. La pena detentiva, oltre che punitiva, è rieducativa e permettere al detenuto, una volta scontatala, di reinserirsi nella società. Questo in linea di massima è il credo giuridico di molti Paesi occidentali. Ma come comportarsi quando a compiere un crimine violento è un minorenne? Occorre essere ancora più inflessibili, data la giovane età, ed esigere che la pena venga scontata interamente oppure accordare gli sconti previsti per i criminali adulti? Quello che può apparire solo come un cavillo giuridico nasconde risvolti umani, morali e sociali importanti, non solo per chi si trova in carcere ma anche per le famiglie delle vittime. Gli Stati uniti, negli ultimi trent’anni, hanno cambiato approccio e norme diverse volte. Dal 1974 al 2000 i minorenni autori di crimini violenti erano considerati ragazzi, dal 2000 adulti ma senza possibilità di accedere a sconti di pena. Nel 2014, lo Stato della California ha approvato una riforma della legge, concedendo anche ai minori la possibilità di uscire dal carcere per buona condotta. "They call us monsters" di Ben Lear presentato in concorso nella sezione Gex Dox del Giffoni Film Festival, porta lo spettatore all’interno del Barry J. Nidorf, un carcere minorile di Los Angeles in cui sono ospitati i criminali più violenti. Per gli avvocati sono dei ragazzini. Per il sistema degli adulti. Per le loro vittime dei mostri. Un giovane sceneggiatore decide di organizzare un corso per i detenuti, e la telecamera segue le trenta lezioni, dove emergono soprattutto le storie e le personalità di tre criminali, entusiasti di raccontarsi, inserendo parti della loro vita nel film, in attesa del processo. Jarad è stato arrestato a 16 anni e condannato a 200 per 4 tentati omicidi. Juan è stato arrestato a 16 e condannato a 90 per omicidio di primo grado. Antonio è stato arrestato a 14 e condannato a 90 per due tentati omicidi. Ciascuno di loro ha perso l’innocenza a 12 anni circa. A quell’età Jarad ha visto il padre tentare di togliersi la vita, il fratello di Juan lo ha assoldato per la sua banda a El Salvador, e Antonio ha sviluppato la dipendenza da metanfetamine. Ben Lear firma un documentario potente e profondo, che lascia in dono a ogni spettatore il dubbio amletico di quale sia la posizione giusta da assumere nei confronti di quelli che sono a tutti gli effetti dei criminali. La carta d’identità dice che sono giovani, ma le loro mani grondano sangue e le loro azioni hanno originato dolore e morte. L’età può almeno in parte giustificarli? E possono essere salvati? Il regista compie l’errore di far trasparire in modo chiaro il suo parere e la sua simpatia umana per i detenuti, visti come vittime di un ambiente familiare e sociale difficile, perdendo quindi l’auspicabile neutralità artistica. Antonio, Jarad e Juan fanno indubbiamente tenerezza, per come vengono mostrati, ma non possiamo dimenticare che dietro a quei visi sorridenti si nascondono tre feroci, e precoci, assassini. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, insegnano le Sacre Scritture. Concettualmente parlando ci verrebbe da dire che la giustizia deve punire ma anche concedere una seconda chance - e 200 anni di carcere senza possibilità di sconti difficilmente offrono possibilità di reinserimento sociale. Ma per fortuna per prendere simili decisioni esistono i tribunali, e le nostre sono solo parole. "They call us monsters", per quanto un po’ troppo lungo e a tratti ripetitivo, è un documentario che merita di essere visto. Offre una prospettiva nuova con cui guardare i detenuti, e chissà, forse adesso prima di dare loro un’etichetta rifletteremo un secondo. "Cane mangia cane", un film di Paul Schrader recensione di Daniel Montigiani cultframe.com, 25 luglio 2017 Mad Dog, Troy e Diesel sono tre ex detenuti con un passato di violenza e soprusi che, dopo aver inutilmente tentato di rifarsi una vita normale, pur di sopravvivere tornano alle loro vecchie, pericolose abitudini. Un giorno decidono di accettare un delicato incarico da parte di un boss della mafia, una scelta questa che aprirà loro scenari a dir poco rischiosi. Paul Schrader occupa un posto di tutto rispetto nel cinema americano degli ultimi quarant’anni: oltre ad aver scritto le sceneggiature di capolavori come Obsession - Complesso di colpa (1976) di De Palma, Taxi Driver (1976) e Toro Scatenato (1980) di Scorsese, Schrader è un influente critico cinematografico e autore di saggi - da ricordare almeno Notes on Film Noir, del 1972 -, nonché regista di pellicole cult quali Hardcore (1978), American Gigolò (1980) e Il bacio della pantera (1982), libero - e ardito - remake dell’omonimo, splendido horror di Jacques Tourneur del 1942. Dopo gli ammalianti eccessi di The Canyons (2013) e la disavventura produttiva di Il nemico invisibile del 2014 (Schrader, infatti, ha disconosciuto l’opera a causa di un montaggio realizzato dai produttori senza la sua supervisione), il cineasta torna con "Cane mangia cane", film tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore e sceneggiatore americano Edward Bunker, presentato nel 2016 al Festival di Cannes nella Quinzaine des Réalisateurs. La pellicola, che narra la storia del fallimentare tentativo di tre ex detenuti di rifarsi una vita normale, vanta un incipit così folgorante da poter essere considerato uno dei momenti più alti della filmografia del regista americano: in un appartamento color rosa confetto di apparente ospitalità, l’ex galeotto Mad Dog (Willem Dafoe), irritato dal comportamento ostile della fidanzata e della figlia di quest’ultima, le uccide a coltellate. Una sequenza non molto originale dal punto di vista narrativo, ma che il talento di Schrader riesce a rendere magistrale. Notevole, in primis, il personaggio interpretato da Defoe, la cui mescolanza di volgarità e crudeltà non è disgiunta da una vistosa goffaggine, peculiarità questa che ci fa capire come Mad Dog, per quanto spietato, sia alla fine un disadattato senza possibilità di redenzione, costretto da certi feroci, irreversibili meccanismi della società ad andare contro la legge pur di sopravvivere. E, a ben vedere, nonostante la sua violenza, finiamo per empatizzare con lui e i suoi "metodi" poco ortodossi non appena ci rendiamo conto dell’irritante, grottesca ordinarietà intrisa di perbenismo delle due vittime femminili. La sorprendente bellezza di questa sequenza iniziale risiede in parte proprio nella capacità di Schrader di evocare tramite il décor alquanto kitsch della casa ? pareti rosa, santini, disegni di pony, piccoli oggetti di ridicola inutilità ? la carica sinistramente demenziale che si cela dietro l’ipocrisia di un quotidiano fatto di stucchevoli, risibili apparenze. Un ambiente che, per i suoi toni disgustosamente accesi, potrebbe ricordare certe atmosfere irriverenti al limite del trash dei film di John Waters. La violenza stilizzata dell’incipit, resa memorabile da sinuosi e improvvisi movimenti di macchina, frame nel frame e bizzarri dettagli (uno su tutti l’inquietante occhio disegnato sotto il mento di Mad Dog) fa pensare invece alle opere di alcuni protagonisti del glorioso periodo della New Hollywood come De Palma e Scorsese. In Cane mangia cane, del resto, Schrader gioca con gli stereotipi del gangster movie e del noir, agendo sotto il segno della psichedelia, riempiendo alcune sequenze di colori saturi, di split screen, di ralenti che rendono la violenza ancora più grottesca, dando vita a momenti in cui l’imperterrito scorrere del sangue può andare di pari passo con atmosfere dal sapore quasi metafisico, persino spirituale. Con questo approccio dai tratti allucinati, Schrader ci conduce in un viaggio in cui, talvolta, non sembra contare tanto ciò che fanno i tre ex carcerati, bensì l’indomabile caos (spesso intriso di black humour) che costoro producono, e nel quale non possono fare a meno di annegare. Accanto alle scene memorabili, non mancano però diversi momenti di stanchezza, privi di quei sani preziosismi che rendevano gli episodi di violenza più banali e atroci esteticamente notevoli. E così, il regista ci consegna alla fine un film senza dubbio interessante, ma, a causa delle non poche sequenze tutt’altro che incisive, scarsamente coeso e mal strutturato. Ad ogni modo, con "Cane mangia cane", Schrader, seppur soltanto a momenti, conferma ancora una volta il proprio talento, e, soprattutto, dimostra di non voler rinunciare a quella spregiudicatezza dai tratti sperimentali con cui ha sempre affrontato generi cinematografici ormai più che esplorati. Legge Minniti: Daspo per trans. La polizia diventa "buoncostume" di Adriana Pollice Il Manifesto, 25 luglio 2017 "La scorsa settimana due trans che chiacchieravano di pomeriggio davanti a un tabaccaio, nei pressi della stazione di piazza Garibaldi a Napoli, sono state fermate dalla polizia, accusate di adescamento e colpite da daspo urbano". A rendere nota la vicenda ieri è stata Loredana Rossi, vicepresidente dell’associazione Transessuale Napoli. In base alla legge Minniti, hanno avuto il divieto di avvicinarsi alla zona per 48 ore e una multa di 100 euro. Non è la prima volta, un’altra trans mentre era al bar, ancora a piazza Garibaldi, è stata prelevata dalla Polizia Municipale e identificata, le volevano comminare una multa molto salata ma ha chiamato l’avvocato e si è rifiutata di firmare il verbale, adesso è in attesa che le arrivi la notifica a casa. "Noi raccomandiamo a tutte di non firmare e non pagare ma molte pensano che sia meglio tirare fuori 100 euro che passare alle vie legali - spiega Loredana Rossi - ma è evidente che è un sopruso. È come fare l’equazione trans uguale puttana, uguale adescamento anche senza alcuna evidenza di reato. È come se la nostra stessa esistenza fosse considerata un’offesa al decoro urbano. Come durante il fascismo". Non è però una novità assoluta, piuttosto sono provvedimenti che ritornano ciclicamente: "Durante il governo Berlusconi - prosegue -, con il pacchetto sicurezza del ministro Roberto Maroni, avevano tirato fuori dal cassetto il reato di travestimento: facevano retate nelle zone di prostituzione e ti portavano in questura. Lì cominciavano a stilare il verbale: unghie smaltate, rossetto sulle labbra, trucco sugli occhi, un elenco dettagliato fatto apposta per umiliarti e, naturalmente, l’immancabile multa. Stiamo tornando alle politiche di destra ma peggiorate". Le retate stanno diventando frequenti, nella zona alle spalle della Stazione centrale ci sono almeno un paio di volte a settimana: vengono identificate, trattenute per quattro, cinque ore e poi rilasciate. Si crea un clima di insicurezza, peggiorato dal fatto che può arrivare il daspo anche se sei semplicemente in giro con un’amica. "Le trans raccontano di avere paura a uscire per strada ora, poiché non vogliono essere fermate di nuovo dalle forze dell’ordine - conclude Loredana Rossi -. Anche durante il Ventennio era così: dovevi chiuderti in casa, non eri libera di muoverti come tutti gli altri. Il prossimo passo sarà allontanarci dalle città, mandarci al confino. Hanno tolto la libertà a dei cittadini italiani, devono vergognarsi". Ad aprile a piazza Dante una coppia di ragazze lesbiche sono state fermate dai militari, che presidiavano la zona nell’ambito dell’operazione Strade Sicure: "Uno dei militari si è avvicinato alla coppia che si stava baciando - ha spiegato Antonello Sannino, presidente di Arcigay cittadina - invitandole ad allontanarsi. Dopo una breve discussione, ha chiesto le generalità alle due ragazze che, per evitare problemi, hanno lasciato la piazza. I militari dovrebbero occuparsi della sicurezza non assumere le funzioni di "buoncostume"". Migranti. Il monito di Mattarella: serve fermezza come per le banche di Mariolina Iossa Corriere della Sera, 25 luglio 2017 Il presidente invita l’Ue alla serietà: occorre una gestione comunitaria del problema. Non c’è spazio per "battute estemporanee al limite della facezia". Non c’è spazio per "battute estemporanee al limite della facezia" quando si parla di migranti, dice il presidente della Repubblica alla 12esima Conferenza degli ambasciatori d’Italia. Quello che ci vuole è serietà, continua Sergio Mattarella, "una discussione collegiale, seria e responsabile", un "confronto internazionale", "fermezza negoziale" e "gestione comunitaria". Si aspetta ben altro dall’Ue che slogan a fini elettorali, il capo dello Stato. "Europa e Africa sono divenute sempre più vicine - sottolinea, la frontiera meridionale dell’Unione travalica il Mediterraneo e si estende verso quello che è stato definito il continente del futuro". Che l’Italia subisca una pressione insostenibile lo ha ammesso anche il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, presente alla Farnesina. "La Francia lo sa, voi siete in prima linea, in questa sfida epocale. La risposta alle persone che rischiano di morire attraversando il Mediterraneo deve essere politica, collettiva ed europea". Mentre a Roma Mattarella riceveva ministri e ambasciatori, a Tunisi il titolare del Viminale Marco Minniti ribadiva la posizione dell’Italia alla seconda riunione del Gruppo di contatto Europa-Africa (il primo incontro si è tenuto a Roma il 20 marzo). "Nessun Paese può farcela da solo, nessun Paese può essere lasciato solo", è la sintesi del discorso di Minniti. Ministri di mezza Europa - C’erano i ministri di mezza Europa e di molti Paesi nordafricani, e c’era il commissario europeo per l’immigrazione Dimitris Avramopoulos. Importante anche la presenza dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni e dell’Unhcr, quindi delle Nazioni Unite. Gli accordi presi sono una conferma della linea italiana, che vuole strategie comuni a lungo termine. E questa volta, oltre a Libia e Tunisia, sono stati coinvolti anche altri Paesi africani, Algeria, Niger, Mali, Ciad. Un "passo in avanti - ha commentato Minniti -. Non era semplice, questi sono Paesi chiave per il controllo della rotta del Mediterraneo centrale. Dall’incontro è scaturita un’idea "abbastanza convincente - ha proseguito il ministro -. Governare i flussi migratori in Africa, farlo con progetti di sviluppo di lungo periodo e di medio periodo e con interventi immediati che consentano di avere dei centri di accoglienza che governino i flussi migratori ma nel rispetto dei diritti umani". La Guardia costiera libica sta cominciando a muoversi, è una struttura ancora giovane ma può avere un importante ruolo di controllo delle acque territoriali libiche, ha concluso Minniti, che ha fatto riferimento anche a un altro punto importante di cui si è discusso ieri: la necessità di mettere in piedi un piano serio per i rimpatri volontari assistiti. Migranti. L’Europa spinge per aprire campi profughi in Ciad e Niger di Carlo Lania Il Manifesto, 25 luglio 2017 Vertice Ue-Africa a Tunisi. Minniti: "La frontiera sud libica è la frontiera sud dell’Europa". Quella legata all’immigrazione è un’emergenza che l’Unione europea deve affrontare con la stessa "fermezza" con cui ha affrontato la crisi legata alle banche e al termine di una discussione "collegiale, seria e responsabile" che non lasci spazio a "battute estemporanee e al limite della facezia". Parlando alla Farnesina alla Conferenza degli ambasciatori, nel sollecitare un intervento della Ue il presidente della Repubblica Sergio Mattarella non nomina mai Austria e Ungheria ma è chiaro il riferimento alle recenti esternazioni fatte da alcuni leader politici dei due Paesi. Il problema è che più che a Bruxelles, da dove difficilmente potranno arrivare soluzioni utili per l’Italia, quella sull’immigrazione è una partita che si gioca sempre più sul continente africano. Non a caso ieri il ministro degli Interni Marco Minniti, a Tunisi per la seconda riunione del Gruppo di contatto per la rotta del Mediterraneo centrale, ha sottolineato come "controllare il confine sud della Libia" dove oggi passano i migranti "significa controllare i confini meridionali dell’Africa settentrionale e dell’intera Europa". Alla riunione, la seconda da quando il Gruppo di contatto è stato creato a Roma a marzo scorso, hanno partecipato i ministri degli Interni di otto paesi europei, Italia, Francia, Austria, Germania, Slovenia, Svizzera, Malta ed Estonia insieme ai colleghi di Tunisia, Algeria, Ciad, Egitto, Libia, Mali e Niger. Presente anche il commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos. Ancora una volta, come ormai si prova a fare da quasi due anni, scopo del summit era quello di provare a esternalizzare le frontiere dell’Unione europea convincendo i leader dei paesi africani a collaborare nel fermare i flussi di migranti diretti in Europa. Per questo la partecipazione dei ministri di Ciad e Niger è ritenuta dal Viminale particolarmente importante. È in questi due paesi del Sahel, che con cinquemila chilometri di frontiera in comune con la Libia rappresentano i principali punti di passaggio delle carovane di migranti, che l’Unione europea vorrebbe istituire dei campi gestiti da Oim e Unhcr dove fermare i migranti fornendo loro informazioni e assistenza, ma soprattutto per convincerli a rimpatriare volontariamente. Per questo scopo ieri sarebbero stati stanziati anche nuovi finanziamenti da destinare alle due organizzazioni. Intanto per oggi pomeriggio al Viminale è previsto l’incontro tra il ministro Minniti e le Ong impegnate nel Mediterraneo. Sul tavolo c’è il Codice di comportamento che le organizzazioni umanitarie, alle quali va il merito di una gran fetta dei salvataggi, dovranno attenersi in futuro. L’incontro sarà solo l’avvio della discussione, ma sembra ormai chiaro che solo alcune Ong, probabilmente le più grandi, accetteranno di sottoscrivere le nuove regole che, tra l’altro, impongono la presenza di agente di polizia giudiziaria a bordo e il divieto di trasbordo su altre imbarcazioni dei migranti tratti in salvo. "Il rischio è che in questo modo si crei una divisione tra Ong buone e quelle che invece si rifiutano di firmare il nuovo codice, rallentando così le operazioni di soccorso dei migranti!", spiega l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo, presidente dell’associazione Diritti e frontiere, preoccupato soprattutto dal fatto che in futuro possa essere impedito il trasferimento dei migranti salvati a bordo di navi più grandi. "Il trasbordo è essenziale", prosegue Paleologo. "Ci sono imbarcazioni più piccole che hanno maggiore facilità nell’avvicinare i barconi in difficoltà, ma minore capacità di accoglienza a bordo. Bisogna considerare poi che tutte le operazioni vengono concordate con la Guardia costiera italiana, che adesso potrebbe vedere messa in discussione la sua autonomia dalla decisone del ministero degli Interni". Difficile capire oggi cosa potrebbe accadere alle Ong che rifiuteranno di sottoscrivere il Codice. Le nuove regole consentono di effettuare i salvataggi anche in acque libiche solo in presenza di un’emergenza, ma è possibile che una volta in porto la Ong che ha effettuato il soccorso si veda contestare dalla polizia - a cui spetta il compito di effettuare i controlli - il carattere di urgenza. Se così fosse non è escluso che si possa verificare un nuovo caso Cap Anamur, la nave dell’omonima Ong tedesca con a bordo 37 profughi sudanesi alla quale nel 2004 il Viminale negò l’attracco a Porto Empedocle per 21 giorni. Alle fine i migranti vennero fatti sbarcare e assistiti, ma il comandante Stefan Schmitd fu accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e la nave sequestrata. Cinque anni dopo Schmit venne assolto dall’accusa dal tribunale di Agrigento. L’esodo dei migranti dal Niger all’Italia. E i militari francesi fanno finta di nulla di Gianluca Di Feo La Repubblica, 25 luglio 2017 La guarnigione che sorveglia l’ultimo avamposto del ‘corridoio libico’ lascia passare le carovane sulla rotta più battuta dai trafficanti: da lì sono transitati quasi in 300 mila destinati ai barconi nel Mediterraneo. No, Macron non intende accogliere i "migranti economici" che varcano il Mediterraneo. Parigi non aprirà i porti alle navi cariche di disperati: non è un problema loro, che se la sbrighi l’Italia. Già, ma da oltre due anni l’esodo dall’Africa verso l’Europa passa sotto gli occhi delle truppe francesi, che nulla fanno per ostacolare gli affari dei trafficanti d’uomini. La rotta fondamentale per la Libia ormai è una sola: attraversa il Niger, passando dal crocevia di Agadez per poi raggiungere Séguédine. E il terminale di questa carovaniera è sorvegliato da un vecchio fortino coloniale chiamato Madama, accanto al quale nel 2014 i francesi hanno costruito una potente base militare. È l’ultimo avamposto prima della Libia. Lì sotto gli occhi dei legionari nel 2016 sono transitati 291 mila migranti - dati ufficiali dello Iom - tutti diretti verso Nord e in gran parte destinati a salire sui barconi. Si muovono in lunghe colonne di camion e pickup, colmi all’inverosimile di merci e persone. Difficile non notarli nella vastità del Sahara, soprattutto per il contingente francese che schiera squadriglie di Mirage da ricognizione, di droni da sorveglianza e di elicotteri. Ma la guarnigione dell’Armée non si cura di questa moltitudine in movimento nel deserto. Ci sono foto che mostrano l’equipaggio dei blindati francesi mentre saluta i migranti stipati in cima a un camion, gli stessi che settimane dopo verranno soccorsi dalle navi nel Canale di Sicilia. O immagini dei fuoristrada zeppi di persone che arrancano vicino ai bimotori Transall parcheggiati sull’aeroporto della base militare. I mercanti di uomini si mostrano tranquilli, anzi rassicurati dalla presenza dei soldati occidentali che tiene lontani i predoni. In questi anni i muscolosi parà della Legione, eredi del reparto protagonista della Battaglia di Algeri, si sono occupati d’altro. La loro missione principale è dare la caccia ai jihadisti. Pattugliano il Sahara alla ricerca di trafficanti, sì, ma solo quelli che trasportano armi. In un paio di occasioni si sono paracadutati di notte proprio a ridosso dei valichi sulla frontiera libica, soltanto però per tendere agguati ai terroristi islamici. La guarnigione di Madama non è numerosa, in genere si tratta di 250 soldati che vengono raddoppiati in vista di rastrellamenti importanti, ma è incardinata nell’operazione Barkhane che in Niger conta più di mille uomini. Nella capitale Niamey è stata allestita una centrale dell’intelligence che analizza 24 ore su 24 le informazioni raccolte da aerei, droni, satelliti, posti d’osservazione e confidenti sul terreno: quando individuano un bersaglio sospetto, fanno partire i raid dal fortino di Madama. Ma quelli che Macron chiama "migranti economici" non sono un problema loro: tanto non gli verrà permesso di superare la soglia di Ventimiglia. Nel Sahel la Francia ha un unico obiettivo: tutelare i suoi interessi. Come le miniere nigerine di uranio, che alimentano tutti gli impianti nucleari d’Oltralpe. Certo, la stabilità della regione è decisiva per impedire il dilagare del fondamentalismo jihadista. E per questo la Germania sostiene totalmente le decisioni di Parigi, con finanziamenti e truppe. Eppure la chiave della questione migranti è proprio in quei Paesi, solo lì si può tentare di rallentare l’esodo. Per l’Italia è una priorità, il cuore della strategia messa in campo dal ministro Marco Minniti: "Controllare quel confine - ha ripetuto ieri - significa controllare i confini dell’Europa". A Roma si è riusciti a negoziare la tregua nel Fezzan libico, la tappa successiva al Niger nel viaggio verso il Mediterraneo. La pace tra i tebù e i tuareg ha fermato il conflitto che veniva finanziato proprio incrementando il traffico di uomini. I dati dello Iom, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, segnalano che dalla fine delle ostilità sono diminuite pure le partenze: nei primi quattro mesi di quest’anno "solo" 22 mila persone si sono mosse dal Niger verso la Libia. Ma non basta. Serve un passo in più: bisogna ricostruire una guardia di frontiera libica, poiché i valichi non vengono più presidiati dalla fine del regime di Gheddafi. Ed è necessario potenziare le capacità delle autorità nigerine nel contrasto al business delle migrazioni, che seppur cresciuto a dismisura negli ultimi tre anni è comunque da sempre parte della vita di quel paese. Per questo bisogna unire il bastone alla carota, le attività di polizia agli aiuti economici, con una politica di lungo respiro e tanti investimenti. Il governo Gentiloni ha cercato di fare da apripista, ipotizzando fondi per lo sviluppo e una missione militare italiana da dislocare in Niger per addestrare le nuove guardie libiche e collaborare con la polizia locale. Una squadra si è recata sul campo per studiare concretamente lo schieramento: proprio la base di Madama, con tanto di aeroporto, sembrava la posizione ideale. Poi i piani si sono insabbiati nel deserto rosso. Perché Parigi non gradisce interferenze. Ufficialmente in Niger c’è già un’operazione della Ue che si occupa di formare gendarmi specializzati nella lotta ai trafficanti. Finora non ha combinato granché. Ma lo scorso 13 luglio è stato sottoscritto un accordo per rilanciare l’impegno dell’Unione nel Sahel: è stato firmato all’Eliseo, sotto le bandiere di Germania e Francia. Le foto della firma mostrano Federica Mogherini con alle spalle Macron e Merkel. Anche il fortino di Madama verrà potenziato: quando i francesi lo costruirono, nel 1930, aveva il compito di bloccare l’espansione italiana. Corsi e ricorsi storici di un’Europa che non sa imparare dal suo passato. Migranti. Una luce fioca balla nel mare di Gianluca Solla Il Manifesto, 25 luglio 2017 Sulla Iuventa, una imbarcazione della Ong tedesca "Jugend rettet". Il diario di bordo dal cuore del Mediterraneo, nel tratto difficile che si estende tra la Sicilia e la Libia. Sapete a cosa assomiglia un gommone rovesciato in mezzo al mare? Ricorda un capodoglio spiaggiato o una balena bianca, come lo era Moby Dick, l’ossessione del capitano Achab nel romanzo di Melville. Che si sia capovolto disperdendo il suo carico di umani o che sia stato abbandonato, mezzo affondato, dopo che i suoi passeggeri sono stati tratti in salvo su un’altra imbarcazione, la prima impressione che fa resta indimenticabile. Un tuffo al cuore vi avvisa che avete appena incontrato una traccia di vita alla deriva in mezzo al mare. Là dove l’acqua sembra non avere più confini. È la traccia di una vita che in un modo o nell’altro già non è più qui. Balla il relitto. Il mare lo fa sobbalzare. Scompare e ricompare davanti ai nostri occhi. Si confonde con il bianco delle onde. Così non siete mai certi di averlo visto davvero. Soprattutto non siete mai certi di cosa avete visto. Mi sono imbarcato per due settimane sulla nave Iuventa della ONG tedesca Jugend rettet. Li ho conosciuti pochi mesi prima a Venezia, nel cantiere dove la nave riceveva le cure necessarie per il secondo anno di missioni. È un peschereccio degli anni ‘60, riadattato a questa situazione singolare: pescano uomini e donne nel Mediterraneo, in quel tratto di mare che si estende tra la Sicilia e la Libia. Li ripescano dal mare, da barconi che fanno acqua da tutte le parti, se solo riescono a uscire dalla frontiera invisibile delle 12 miglia dalla costa. E naturalmente se riescono a farsi avvistare. Diventa la mia ossessione: a dispetto di un persistente astigmatismo ereditario e del fatto che sono qui in primo luogo per scrivere di questa esperienza, accade che la posizione di osservatore mi si addica. Così siedo sin dalle primissime ore di luce in prua con i binocoli e ci resto spesso tutto il giorno, segnalando al ponte di comando eventuali imbarcazioni avvistate e tenendo la posizione di quelli che ancora aspettano soccorsi. Quando sapete che su quel gommone anonimo, avvistato ore prima come un punto bianco sulla linea dell’orizzonte solo grazie alle lenti del binocolo, viaggiano uomini e donne in gruppi di cento, centocinquanta, qualcosa vi dice che non potete permettervi di perderlo di vista, con tutto il suo singolare carico di viaggiatori. Benvenuti nella zona Sar (Search & Rescue) attraversata ogni giorno, appena il tempo lo permetta, da migliaia di migranti in fuga da guerre, carestie, povertà, assenza di prospettive. Sono enormi gommoni bianchi o neri. Sono navi di un legnaccio vecchio e incerto, messe in acqua in qualche modo. Riempiono quotidianamente l’orizzonte. Sono imbarcazioni che stanno per collassare quando ne portiamo gli occupanti a bordo della Iuventa. Hanno i volti smarriti. Non portano scarpe, né sanno cosa li aspetta, le loro vite già segnate da catastrofi che a malapena si riescono a raccontare con le poche parole di una lingua in comune. Dopo qualche ora alcuni volti si sciolgono in un sorriso, in un ringraziamento farfugliato, in una benedizione per averli tirati fuori dall’acqua e da più giù ancora. Sono stati in paziente attesa sulle sponde di un gommone, incastrati l’uno sull’altro. Sono corpi che camminano a passi incerti, una volta saliti in nave. Sono piedi nudi, volti sfiniti. Sono corpi piegati, al tempo stesso attraversati dall’esperienza inaudita che vivono e che li trasporta in un’altra dimensione. Li travolge, li trasfigura. Non è solo stanchezza o la spossatezza del viaggio. Il mare, la notte, l’incertezza assoluta… per chi ha visto la morte avvicinarsi sull’acqua tutto diventa parte di un’esperienza dello Sconfinato: li lascia "senza parola e senza dimora", come dice una bellissima pagina di Moby Dick. Che vite sono queste dei migranti? Occorrerà dirlo: a questo stadio del disimpegno europeo sono vite tecnicamente morte. Non hanno nessuna chance di sopravvivere, a meno che non abbiano la buona stella di incontrare una delle navi che come la Iuventa intervengono in questo tratto di mare. Sono i soli interventi che, al momento, provino a toglierli da questo triangolo delle Bermuda nostrano nel quale sono precipitati. Rispetto a coloro che sino a qualche anno fa sbarcavano a Lampedusa, le loro chance di sopravvivenza sono drasticamente ridotte. Le navi militari delle varie iniziative europee, da ultimo l’operazione Sophia, restano lontane dal luogo della catastrofe. Incontriamo spesso la Guardia costiera italiana che fa un ottimo lavoro, benché esposto alle fluttuazioni della miseria politica del paese. Le altre navi presenti sono quelle ONG, da mesi sotto attacco con accuse infamanti, anche a opera di inchieste giudiziarie di dubbia qualità, non foss’altro per il fatto di essere annunciate alla nazione a reti unificate. Il risultato di questa incredibile escalation è quello di produrre un enorme vuoto: un vuoto di legittimità politica che riguarda innanzitutto il diritto dei migranti di dare una possibilità alle loro esistenze. Più oltre, l’immenso vuoto materiale tende a fare del Mediterraneo un luogo inospitale. Non una regione di passaggio e di comunicazione tra le sue diverse sponde, ma un muro invalicabile e una tomba di massa. Al di là dei suoi tecnicismi il dibattito sulle "regole d’ingaggio" delle ONG finisce per produrre questo effetto. Tutto questo può essere accettabile unicamente per un’Europa che dimentichi come la Shoah abbia avuto luogo particolarmente nel suo cuore. E come la Shoah sia una questione europea e non solo tedesca o ancor meno ebraica. Come è già successo durante la guerra nella ex-Jugoslavia, l’Europa continua a disimpegnarsi in tutto quanto considera posto al di là dei suoi confini. Questa Europa sembra cancellare il fatto che gli apolidi sono la figura della politica che si è inaugurata proprio qui nel Novecento. È la politica dei senza: dei senza patria, dei senza diritti, dei senza nome. In barba alle leggi che la stessa cultura europea ha reso possibile ideare, pensano di poterli rispedire a casa, anche quando non c’è più una casa a cui fare ritorno. Indubbiamente ogni immagine chiede il suo testimone. Eppure di tutte quelle che questo viaggio ci consegna, e sono tantissime, ce n’è una che resta per me indimenticabile. È quasi mezzanotte. La Iuventa naviga verso nord, incontro a una nave mercantile che il coordinamento di Roma ha dirottato verso di noi per prelevare i 151 profughi che nel pomeriggio abbiamo tratto a bordo da un gommone pieno d’acqua. A un certo punto della navigazione - sto distribuendo vestiti asciutti insieme alle due dottoresse e all’infermiera di bordo - avvistiamo un barcone. Spunta dal nulla. Lo vediamo unicamente perché i suoi occupanti fanno segni con la luce dei loro telefonini e di qualche piccola pila che hanno appresso. Sono luci fioche, grigiastre, nel buio profondissimo della notte del mare. Ma loro che ci hanno visti non smettono di farci segno. Devo pensare alla poesia di Hölderlin in cui gli dei passando rapidamente fanno cenno agli uomini. Quanti cenni restano certamente non visti in ognuna di queste notti. Molto più tardi colpirà l’equipaggio della Iuventa la constatazione improvvisa e fulminante di cosa sarebbe stato se la barca, giunta al colmo della notte, avesse incrociato, invece della Iuventa, una di quelle immense petroliere che solcano questa parte di mondo e che dalla loro altezza difficilmente avvistano un’imbarcazione così insignificante. Questa barca con i suoi occupanti è stata qualcosa come una visione: un’apparizione dal nulla e preparata da nulla, al limite della notte, a un equipaggio stremato dalla più difficile delle giornate che ci siamo trovati a vivere. E ora apparivano queste donne e questi uomini, dal mezzo al nulla. Con i loro telefonini. Come una lingua segreta, un’estrema risorsa rimasta agli umani per parlare tra di loro in tempi bui. E per portare come saluto quella luce che oscilla nella notte. Senza parlarci e con i corpi estenuati, loro salutavano. Portavano un saluto a noi che li avremmo più tardi tratti dal mare. Germania. Maria scrive dal carcere di Amburgo: "umiliata, chi mi ridà la vita persa?" Corriere Veneto, 25 luglio 2017 Pronto il ricorso per la scarcerazione: "Arrestata al G20 mentre aiutava un’amica". Maria scrive con una "montagna di umiliazione addosso, che non ti levi più". Scrive dal carcere dove vive e dorme ogni giorno dal 7 luglio scorso, da quando era stata fermata e arrestata durante gli scontri tra manifestanti e polizia lungo le strade di Amburgo. Mentre nei palazzi, la diplomazia mondiale discuteva le sorti del mondo attorno ad un tavolo, nel rito laico del G20. È con una lettera dal carcere Billwerder di Amburgo, in Germania, che Maria Rocco, 23 anni di Cesiomaggiore, racconta la sua sopravvivenza, dopo che la vita le si era rovesciata nel tempo di un "amen", quel pomeriggio di inizio luglio. Arrestata - assieme al diciottenne feltrino Fabio Vettorel, in cella in un carcere minorile - con l’accusa di aver disturbato l’ordine pubblico durante lo scorso G20. E affidando le sue parole ad una lettera fatta arrivare agli amici qui nell’entroterra di Belluno, Maria li ringrazia. Poi descrive le sue condizioni: "Sono qui in dieci metri quadrati chiusi da sbarre. Non so come fare ad avere tutta questa fiducia nella giustizia, qui la parola giustizia c’è solo nelle uniformi delle persone che hanno scelto, come scopo di vita, di chiudere a chiave queste porte dove sono rinchiusa". Una sua amica ha pagato 10 mila euro per tornare libera perché cittadina tedesca, "ma le mie settimane di vita, chi me le ridà indietro? - si chiede la ragazza -. Scusate lo sfogo. Solo il pensiero che state cercando di tirarmi fuori mi tiene un po’ su. Non avrei mai dovuto cacciarmi in questa situazione, tanto meno con Fabio". Maria Rocco a Feltre stava facendo un periodo di formazione nello studio dell’avvocato Paolo Serrangeli. Ed è (anche) a lui che si è rivolta. "Sono deluso dai rappresentati delle amministrazioni che ho contattato in questi giorni, da molti non ho avuto alcun riscontro. I sindaci di Belluno e Feltre, Jacopo Massaro e Paolo Perenzin mi hanno almeno ascoltato - ha continuato il legale - ma non è sufficiente". Nel frattempo il legale di Maria, Domenico Carponi Schittar, dopo l’udienza che ha convalidato l’arresto della giovane, ha già depositato il ricorso per tentare, in tempi brevi, la scarcerazione. I particolari della linea difensiva li anticipa la petizione nata quasi spontaneamente sulla pagina Facebook "Maria e Fabio liberi subito". Nel documento si legge che "il 7 luglio scorso i due ragazzi sono stati arrestati con l’accusa di non essersi allontanati da una frangia di manifestanti violenti distaccatasi da una manifestazione autorizzata di contestazione del G20". I due però non si sarebbero allontanati dai manifestanti più facinorosi "per prestare soccorso ad una ragazza che, nella fuga, si era procurata una frattura esposta ad una gamba". Per "proteggerla dal rischio di essere travolta, si sono fermati. Sono stati così arrestati". Insomma, combattuti tra il fuggire e proteggere la ragazza, Maria e Fabio hanno scelto di soccorrere la compagna. Una battaglia legale che ha visto il coinvolgimento delle più alte autorità venete, su tutte il governatore Luca Zaia, che si è riservato di valutare il contenuto della petizione. Polonia. Sorpresa a Varsavia via la controversa riforma anti-giudici di Valerio Sofia Il Dubbio, 25 luglio 2017 Proteste di piazza, il Presidente Duda ritira la legge. Anche l’Unione Europea aveva criticato la Polonia per "un provvedimento che metterebbe la giustizia sotto il totale controllo del governo". Colpo di scena in Polonia. Il Presidente della Repubblica Andrzej Duda ha annunciato che interverrà direttamente anche col potere di veto se sarà necessario per fermare e riformulare la contestatissima riforma dei poteri giudiziari. Cosa che è politicamente ancor più rilevante in quanto Duda è espressione di quello stesso partito conservatore Diritto e Giustizia (PiS) che quella riforma ha voluto ad ogni costo. Fra i punti più contestati del disegno di legge quello che prevede il pensionamento anticipato dei giudici della Corte suprema e la nomina dei loro sostituti direttamente da parte del ministero della Giustizia. Contro la legge si sono susseguite numerose proteste di piazza da parte dei polacchi, nonché le ferme rimostranze dell’Unione europea che è arrivata a minacciare di trarre le conseguenze dall’eventuale approvazione di una riforma che sottometterebbe la magistratura al governo. La Ue infatti ha lanciato un monito al governo polacco, con cui è ai ferri corti anche per la questione dei migranti, minacciando sanzioni senza precedenti. La riforma "abolirebbe la restante indipen- denza giudiziaria e metterebbe la giustizia sotto il totale controllo del governo", ha detto il vicepresidente della Commissione, Frans Timmermans. L’Unione europea si è detta anche delusa perché Varsavia non ha risposto alla sua offerta di lavorare insieme per trovare una soluzione al tema della riforma della giustizia. Anche gli Stati Uniti di Trump - accolto da trionfatore poche settimane fa - hanno protestato insistentemente con la Polonia per questa legge. Ultima imponente manifestazione di protesta quella di domenica sera, che potrebbe aver influito sulla decisione di ieri del presidente: migliaia di manifestanti ciascuno con una candela hanno sfilato davanti alla Corte suprema al grido di "Costituzione, Costituzione". Oltre che a Varsavia le proteste si sono svolte anche in altre 160 città polacche e anche il 26 all’estero. L’ex presidente Lech Walesa, parlando dal palco della manifestazione di Danzica, ha detto ai giovani dimostranti di lottare per difendere le conquiste che il suo movimento Solidarnosc aveva iniziato ad ottenere con le sue lotte negli anni ‘ 80 contro il regime comunista. I manifestanti hanno fatto appello al Capo dello Stato affinché bloccasse il testo approvato sabato, e ora il presidente sembra inaspettatamente aver voluto dare loro ascolto. Il presidente ha chiesto al governo di modificare le norme perché siano condivise dalla maggioranza della popolazione. "Questa legge - ha detto Duda in tv sulla riforma della Corte suprema - non rafforzerà il sentimento di giustizia nella società. Queste leggi vanno riviste". "Il sistema giudiziario polacco non ha bisogno di una riorganizzazione profonda, deve prima di tutto garantire un senso di sicurezza. E nessun cambiamento del sistema legale dovrebbe aprire una frattura tra la società e lo Stato. Ho dovuto prendere questa decisione immediatamente dopo che le modifiche proposte hanno suscitato queste reazioni così sentite", ha dichiarato. Il partito di governo guidato da Jaroslaw Kaczynski e dalla premier Beata Szydlo si è detto sorpreso e deluso dalla decisione del presidente, e ha fatto capire di non essere molto disposto a cambiare strada. D’altro canto bisogna dire che nonostante le manifestazioni di protesta, secondo i sondaggi il Pis rimane ampiamente il primo partito con il 37 per cento dei consensi, in aumento di tre punti rispetto al mese scorso. Turchia. Il sultano non si ferma, pestaggi e manette contro gli avvocati di Barbara Spinelli Il Dubbio, 25 luglio 2017 Prosegue l’ondata di arresti e di violenze in Turchia. Domenica è stato il turno di quattro avvocati dell’associazione Chd, selvaggiamente picchiati ed arrestati nell’ambito di una manifestazione indetta ad Ankara per denunciare le condizioni critiche di Nuriye e Semih, due accademici vittime delle purghe seguenti al tentativo di Colpo di stato, in sciopero della fame da 137 giorni per chiedere il reintegro nel proprio lavoro. Nuriye Gülmen e Semih Özakça sono solo due dei 5mila accademici e dei 50mila insegnanti e cento cinquanta mila ufficiali pubblici che dopo il colpo di stato sono stati colpiti dai decreti emergenziali: indagati per terrorismo, alcuni di loro sono stati arrestati, tutti sono stati licenziati, senza possibilità di ricorso interno e con l’interdizione perpetua dalla possibilità di ricoprire pubblici incarichi. La manifestazione è stata indetta ad Ankara da una piattaforma di associazioni democratiche che già aveva lanciato una petizione (è ancora possibile aderire: nuriyesemihyasasin@ gmail.com), che ha registrato adesioni a livello internazionale, per denunciare le gravi condizioni di salute di Nuriye e Semih per dimostrare solidarietà contro le accuse del Ministro dell’interno turco Süleyman Soylu, il quale ha accusato i firmatari della petizione di "affidarsi ai terroristi invece dello Stato". Molti autobus di manifestanti che volevano raggiungere la manifestazione sono stati bloccati. La polizia turca ha interrotto con brutalità la dimostrazione pacifica, caricando con violenza i partecipanti. Sono state arrestate 61 persone, dei quali 4 avvocati, tutti appartenenti all’associazione di avvocati progressisti Chd il cui presidente, Selcuk Kozagacli, come già riportato da questo giornale è stato oggetto di gravi intimidazioni in quanto accusato da due quotidiani turchi di "manipolare" lo sciopero della fame delle sue clienti, Nuriye e Semih. Gli avvocati arrestati sono Barkin Timtik, Ebru Timtik, Dervis Emre Aydin, Aysegül Cagatay. La collega Barkin Timtik aveva già scontato due mesi di carcere, imputata per apologia di reato e tradimento per aver partecipato il 15 dicembre 2016 al banchetto post-funerario di un suo assistito, alevita, nel corso del quale la polizia circondò il locale (Una casa di culto alevita) e fece irruzione con l’utilizzo all’interno dell’abitazione di gas lacrimogeni ed urticanti e violenza nei confronti dei presenti, dei quali 23 furono arrestati e rinviati a giudizio. Il collega avv. Giacomo Gianolla di Padova, che segue il processo come osservatore internazionale su mandato dei Giuristi Democratici e dell’Ordine degli avvocati di Padova, riferisce che nel corso dell’ultima udienza il giudice istruttore, acquisiti tutti gli atti di indagine della Procura, ha respinto la richiesta della difesa di procedere a dibattimento alla rinnovazione delle prove in contraddittorio, per cui nella prossima udienza del 2 novembre 2017 ci sarà la requisitoria del pubblico ministero, e la collega verrà giudicata sulla base dei soli atti di indagine della Procura, insieme agli altri 26 imputati. In questo contesto di così grave compressione del diritto alla difesa, di persecuzione degli avvocati in un più ampio contesto di conclamata repressione delle libertà democratiche, il Presidente nazionale dell’unione degli ordini degli avvocati turchi, nel più assoluto silenzio su questi episodi, ha lanciato una campagna per la tutela degli animali di strada. La solidarietà internazionale nei confronti di chi continua strenuamente a difendere in Turchia l’esercizio dei diritti fondamentali e delle libertà democratiche, e la denuncia di questi ormai quotidiani episodi di violenza e di persecuzione nei confronti delle voci critiche e degli attivisti per i diritti umani da parte delle forze di sicurezza, resta l’unico strumento per sollecitare le Istituzioni e gli investitori italiani a non essere complici delle sistematiche violazioni dei diritti umani di quella che oggi, all’esito positivo del referendum per la riforma costituzionale e dell’abuso della legislazione di emergenza, non può definirsi altrimenti se non una dittatura. Pakistan. Morte Lo Porto, inchiesta da archiviare. I pm: "Impossibile indagare sui droni Usa" di Stefania Maurizi La Repubblica, 25 luglio 2017 La procura di Roma considera le operazioni della Cia in Pakistan in cui fu ucciso il cooperante rapito dai terroristi alla stregua di azioni di guerra. Gli avvocati della famiglia: faremo ricorso. E una Ong si rivolge al Tar. Si allontana la possibilità di arrivare alla verità su una delle operazioni antiterrorismo che hanno fatto il giro del mondo: l’uccisione di Giovanni Lo Porto, il cooperante italiano rapito in Pakistan nel 2012 da una formazione jihadista e poi colpito da un drone statunitense nel gennaio del 2015. Una vicenda dai contorni mai chiariti e che spinse la Casa Bianca a chiedere scusa pubblicamente alla famiglia - una cosa mai accaduta prima con centinaia di vittime innocenti uccise dai droni - a promettere un risarcimento e l’accertamento della verità. E invece due anni e mezzo dopo queste dichiarazioni ufficiali, dagli Stati Uniti è arrivato sì un pagamento, come rivelato da Repubblica, ma non è mai giunta alcuna informazione sulle circostanze che portarono all’uccisione di Lo Porto. E ora, sembra saltare anche l’ultima chance di scoprire la verità: la procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta penale sul caso. Aperta inizialmente come sequestro di persona a scopo di terrorismo, l’indagine si è poi allargata fino a comprendere l’ipotesi di reato di omicidio a carico di ignoti. Il pm Erminio Amelio della procura capitolina ha ordinato una rogatoria in Germania per interrogare il cooperante tedesco rapito insieme a Lo Porto e poi, però, a differenza di Giovanni, liberato nell’ottobre del 2014. Amelio, però, non ha fatto alcuna rogatoria negli Stati Uniti, l’unico paese che ha in mano la verità. È possibile che il magistrato, dopo l’esperienza del caso di Nicola Calipari, in cui si era scontrato con la completa assenza di collaborazione da parte delle autorità americane, abbia deciso di rinunciarvi in partenza. Di certo scavare nella morte di Lo Porto potrebbe portare a scoprire i massimi sistemi delle operazioni antiterrorismo basate sui droni: l’attacco del gennaio 2015 in cui perse la vita il cooperante italiano e il cittadino americano Warren Weistein, infatti, sarebbe all’origine della rimozione del capo dell’antiterrorismo della Cia, Michael D’Andrea, che dal 2006 al marzo 2015, ha guidato la caccia a Bin Laden e diretto gli attacchi teleguidati che hanno portato a un’escalation di centinaia di raid e all’introduzione dei cosiddetti signature strike, in cui gli obiettivi vengono colpiti alla cieca, senza certezze sulle loro identità, proprio come accaduto nell’attacco in cui è morto Giovanni. Temutissimo, tanto che, come ha rivelato il Washington Post, era soprannominato "il becchino", D’Andrea ha ispirato il tenebroso personaggio di The Wolf, nel film Zero Dark Thirty. Con l’elezione di Trump, "Il Lupo" è stato ripescato: oggi Michael D’Andrea è a capo delle operazioni Cia per l’Iran, secondo quanto ha rivelato un mese fa il New York Times, ricordando il caso Lo Porto. Ma la procura romana non sembra credere più di tanto nella possibilità di individuare i responsabili dell’uccisione di Giovanni e considera l’attacco alla stregua di un’azione bellica di antiterrorismo, un’interpretazione questa destinata a far discutere se si considera che le incursioni dei droni in Pakistan sono gestite dalla Cia, che non è un’organizzazione militare, né il Pakistan, a differenza dell’Afghanistan, è un teatro di guerra. Non a caso, come chiariscono i report dello Special Rapporteur dell’Onu che indaga sulle azioni dei Predatori, Ben Emmerson (pdf), nel 2013 il Pakistan ha informato le Nazioni Unite che "gli strike sono controproducenti, contrari alla legge internazionale, violano la sovranità e l’integrità territoriale del Pakistan e devono cessare immediatamente". La famiglia Lo Porto, rappresentata dallo studio legale internazionale Saccucci&Partners di Roma, si oppone alla richiesta di archiviazione del caso, rigettando l’interpretazione che l’attacco sia avvenuto in un contesto bellico, mettendone in discussione la legittimità ai sensi del diritto internazionale e chiedendo al procuratore di procedere con una rogatoria al governo americano per cercare di ottenere la documentazione. La decisione ora passa al Giudice per le indagini preliminari. La supervisione della comunità internazionale su questi assalti e le azioni legali delle famiglie delle vittime innocenti dei droni sono pesantemente ostacolate dalla totale segretezza che circonda queste operazioni. Non solo quelli che riguardano territori lontani. A cercare di penetrare la fitta coltre di riservatezza che circonda il ruolo della base italiana di Sigonella negli attacchi è stato lo European Center for Constitutional and Human Rights di Berlino: nel marzo scorso la consulente legale dell’Ecchr, Chantal Meloni, professore associato di diritto penale all’Università di Milano, ha presentato una richiesta di accesso ai sensi del Freedom of Information Act italiano per ottenere dal ministero della Difesa copia delle autorizzazioni e delle regole che regolano lo stazionamento e l’impiego dei droni Usa nella base di Sigonella. Il ministero della Difesa, però, ha opposto il segreto di Stato, tanto che la professoressa Meloni ha appena fatto ricorso al Tar per cercare di ottenere questi documenti. Dalla Somalia al Pakistan, dove ha trovato la morte Giovanni Lo Porto, tutte le operazioni dei droni Usa fanno affidamento sul sostegno di una rete globale di basi - come quella di Sigonella o quella tedesca di Ramstein - satelliti e stazioni. "Senza l’assistenza di questi paesi europei, queste operazioni non sarebbero possibili e nonostante questo ruolo cruciale, l’opinione pubblica europea sa poco o niente di questo fatto", dichiara a Repubblica Wolfgang Kaleck, cofondatore e segretario generale dell’Ecchr, che aggiunge: "Il nostro centro punta a fare accertare l’illegalità del programma dal punto di vista del diritto internazionale e degli standard sui diritti umani. Fare ricorso presso i tribunali nazionali contro l’uso dei droni, sebbene sia una via irta di ostacoli - dalla mancanza di trasparenza al segreto di stato preservato dalle corti - rappresenta comunque la migliore chance di porre fine alle tacite complicità in questi programmi illegali". Egitto. Unione europea avanti nelle "priorità comuni": i diritti umani non lo sono di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 luglio 2017 La data scelta per la settima riunione del Consiglio di associazione Unione europea-Egitto è davvero infelice: oggi, 25 luglio, diciottesimo mese dalla sparizione al Cairo di Giulio Regeni. Dai documenti ufficiali preparatori della riunione arriva la conferma che dei diritti umani in Egitto all’Unione europea interessa ben poco. Nel rapporto sul paese non si fa menzione di Giulio né di Ibrahim Halawa, il ragazzo irlandese agli arresti dall’agosto 2013 e nel frattempo diventato maggiorenne (proprio oggi è fissata l’ennesima udienza). Non c’è traccia del peggiore massacro della storia moderna egiziana, quello di Rabaa al-Adawiya (sempre dell’agosto di quattro anni fa) né si accenna alle esecuzioni extragiudiziali e alle uccisioni illegali. La piaga della tortura viene derubricata come "denunce di presunte torture in carcere, di morti a causa della tortura o di negligenza medica". L’ultimo caso risale a soli 10 giorni fa. Dell’altra piaga delle sparizioni forzate, secondo Amnesty International tre o quattro al giorno, ci si limita a segnalare che la Commissione nazionale sui diritti umani ha prodotto un rapporto. Non si parla delle detenzioni arbitrarie, seppure si accenni ai processi di imputati civili in corte marziale e a sentenze di massa al termine di processi irregolari. Il paragrafo sulla libertà di stampa è un capolavoro di understatement: "Preoccupazioni sono state espresse su azioni apparentemente destinate ad accrescere la pressione su alcuni giornalisti e organismi della società civile". Il rapporto dà conto dell’inchiesta n. 173 avviata nel giugno 2011 contro le Ong che ricevono fondi dall’estero (peraltro facendo espressa menzione solo della chiusura del Centro el-Nadeem per la riabilitazione delle vittime della violenza) ed esprime preoccupazione sulla nuova legge sulle Ong firmata dal presidente al-Sisi nel maggio di quest’anno. Lo scarso peso dato alla situazione dei diritti umani si riverbera anche analizzando l’ammontare dei finanziamenti dati dall’Unione europea. Per il periodo gennaio 2015 - maggio 2017 l’assistenza finanziaria dell’Unione europea verso l’Egitto è stata di oltre un miliardo e 300 milioni di euro: di questi, solo il 10 per cento è stato destinato a "migliorare la governance, i diritti umani, la giustizia e la pubblica amministrazione". Complessivamente, in quel periodo la somma dell’assistenza finanziaria dell’Unione europea, dei suoi stati membri e delle istituzioni finanziarie europee ha superato gli 11 miliardi di euro. "Impegnarsi nelle priorità comuni" è lo slogan della riunione di oggi. I diritti umani sono i grandi assenti. Quanto suona ipocrita, anche e soprattutto oggi, l’espressione tante volte ascoltata a Bruxelles e Strasburgo: "Giulio era un cittadino europeo".