Il Due Palazzi di Padova è un patrimonio comune: un appello e tante adesioni Il Mattino di Padova, 24 luglio 2017 In queste settimane tutte le realtà attive nella Casa di reclusione di Padova hanno deciso di lanciare un appello per denunciare l’attacco mediatico e il rischio di tornare a un carcere chiuso all’innovazione, alla società civile, alla speranza. Tra i promotori ci sono associazioni di volontariato, cooperative, sigle sindacali della Polizia Penitenziaria, la scuola e la sanità penitenziaria. Le adesioni sono numerose, da tutta Italia ma anche dal Brasile, dagli Stati Uniti…: associazioni, avvocati, insegnanti, imprenditori che hanno conosciuto la realtà del Due Palazzi. Appello alla società civile, alle associazioni e agli enti pubblici e privati del territorio, alle singole persone che da tantissimi anni hanno avuto modo di conoscere il buon funzionamento della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova Senza il contributo di tutti la Casa di Reclusione di Padova non sarebbe quella che oggi siamo ormai abituati a conoscere. È grazie a persone responsabili e di buona volontà presenti in tutte le realtà, pubbliche e private, che oggi il carcere "Due Palazzi" è noto in tutto il mondo. Quello di un carcere è un mondo tanto complesso quanto ricco di esperienze, di diversità, basti pensare al personale di Polizia penitenziaria, alle varie direzioni che dal 1989 ad oggi si sono succedute, alla magistratura di sorveglianza, all’area educativa, all’area socio sanitaria, all’area scolastica (Padova ha visto nascere in carcere uno dei primi poli universitari d’Italia), alle associazioni di volontariato pioniere a livello nazionale, alle cooperative sociali, alle realtà culturali, sportive, formative. Ognuna di queste con la propria specificità ha dato vita, in questi lunghi e faticosi ma anche begli anni, a un autentico laboratorio di sperimentazione di un carcere rispettoso della Costituzione. Tutto questo, che è un patrimonio di tutti, oggi vediamo messo fortemente a rischio… Quello in atto è un grave tentativo di tornare al passato, a un carcere chiuso alla società civile e alla speranza. La nostra preoccupazione è dettata anche dal fatto che il "Sistema carcere Padova" è nato realmente dal basso, dall’impegno e dalla risposta positiva data negli anni dall’Amministrazione… Ci rivolgiamo a tutti quelli che conoscono bene che cosa prevede la nostra Costituzione. Ci rivolgiamo a chi conosce bene tutte le attività che da decenni sono presenti presso la Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova… Una città intera, e non solo, ha conosciuto in questi 25 anni questa esperienza: ogni anno migliaia di studenti, scuole, aziende, istituzioni italiane e di ogni parte del mondo…. sono entrati a contatto con tutte le attività di questo istituto… Quello del carcere di Padova non è patrimonio di qualcuno in particolare, è patrimonio di tutti, è un patrimonio pubblico di cui tutti noi, e Padova, andiamo fieri. Vi chiediamo una firma e, se volete, una frase che esprimano la vostra solidarietà e la vostra simpatia. Firmatari appello Gruppo Operatori Carcerari Volontari (OCV), Sappe Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria-Resp. Veneto e Trentino, FeDerSerD (Federazione operatori servizi dipendenze), Polo Universitario Carcere Università di Padova, CISL-FNS Veneto Segr. Reg., CISL-FP Padova Segr. Gen., CISL Padova Segr. Gen., FP-CGIL Penitenziari Padova, FP-CGIL Veneto, Associazione Incontrarci, Ristretti Orizzonti/Granello di Senape, Work Crossing Coop. Soc. P. A. Pasticceria "I dolci di Giotto", Insegnanti CPIA Padova sez. carceraria adesioni personali, Giotto Coop. Soc., Teatrocarcere Due Palazzi, Ass. Coristi per Caso, Coro Due Palazzi, docenti scuola superiore Einaudi/Gramsci sez. carceraria, ASD Polisportiva Pallalpiede, Antigone Triveneto, Cooperativa sociale AltraCittà Adesioni (alcune tra le centinaia che continuano ad arrivare) Avvocato Riccardo Polidoro Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane Firmiamo l’appello per salvare e promuovere il lavoro svolto nella Casa di reclusione di Padova. Sono pochissime le cattedrali nel deserto dell’esecuzione penale in Italia. Tra queste certamente e da tempo quella della Casa di Reclusione di Padova. Un’eccellenza nell’ambito della "rieducazione" e nel recupero delle persone detenute … Ci uniamo all’allarme lanciato dagli operatori di tale meravigliosa realtà, preoccupati che si voglia tornare ad un carcere "chiuso"…Il lavoro svolto in questi 25 anni a Padova ha rappresentato un’attività di supplenza che lo Stato non può ignorare e soprattutto non può cancellare. Invitiamo, pertanto, tutti gli iscritti all’Unione Camere Penali Italiane a firmare l’appello. Angiola Gui, insegnante Liceo Marchesi-Fusinato Padova Ho firmato perché in 12 anni di frequentazione, come docente partecipante al progetto per le scuole, posso testimoniare che la collaborazione con Ristretti Orizzonti è stata per me ed i miei studenti un dono prezioso, altamente formativo ed arricchente! Un messaggio efficace, perché testimoniato con coerenza, di educazione civica alla legalità. Un aiuto esemplare alla comprensione della complessità carceraria, ignota ai più … così comunemente travisata dal nostro sentire comune, fortemente condizionato dai tanti stereotipi di cui siamo, spesso inconsapevolmente, sia vittime che artefici. Stefano Carnoli Io ho compiuto al Due Palazzi quel percorso, da detenuto a uomo libero, aiutato da chi quotidianamente si adopera per far sì che dal dentro al fuori si trovi la concreta possibilità di una vita sociale normale. Oggi ho un buon lavoro e uno sguardo ottimista verso il futuro. Non fate che dal dentro al fuori ci sia solo un sacco nero pieno del nulla più assoluto. Luigi Pagano, Provveditore amministrazione penitenziaria Lombardia Ritengo che un carcere impermeabile all’esterno sia contrario all’Ordinamento penitenziario (art. 17) che, giustamente, secondo logica, ritiene la partecipazione dei cittadini, delle istituzioni, delle associazioni pubbliche e private all’azione rieducativa un elemento fondamentale se si vuole percorrere la difficile, impervia strada che porta al reinserimento sociale del detenuto (e quindi a un investimento in termini di reale sicurezza sociale). Un carcere chiuso al confronto si pone in netta antitesi con un percorso del genere e lo porta a divenire, per paradosso, esso stesso uno dei più potenti fattori criminogenetici. Di certo un sistema "aperto" non è esente da rischi… ma i risultati che determina una scelta del genere alla fine, secondo la mia esperienza, li compensa abbondantemente. E, poi, come disse qualcuno molto più autorevole di me "..come uomini il rischio ci appartiene, non ci è dato di escluderlo dalla nostra vita... forse non dovremmo farlo anche se potessimo, perché l’unico rischio che non possiamo correre è quello di non correre mai rischi..". Per questi motivi ritengo coerente con i valori a cui mi sono sempre ispirato sottoscrivere il vostro appello. Maria Di Fusco, Napoli Mio figlio detenuto da 16 anni in diverse carceri italiane, con esperienze devastanti… Un giorno arriva a Padova e tutto cambia, c’è Nicola Boscoletto con le officine Giotto che dà lavoro a mio figlio, ci sono metodi umani di perquisizioni da parte della Polizia Penitenziaria, c’è Ristretti Orizzonti con a capo Ornella Favero che ci hanno tirato fuori da un baratro buio dove ogni forma di dignità non era più neanche nei sogni…. Firmo e aderisco mille volte perché tutto questo non finisca perché Nicola Boscoletto con Ornella Favero non diventino un ricordo di persone incontrate in un carcere dove la Dignità umana di un detenuto conta. Valentino Di Bartolomeo. Commissario di Polizia Penitenziaria in congedo. Ho conosciuto la serietà dell’impegno che le persone di Giotto pongono nella loro attività: produrre qualità, rispettare l’uomo, rispettare il lavoro dell’uomo: un metodo che dovrebbe essere d’esempio non solo per le carceri ma per tutta la società libera. Fosse questo il motivo che mette paura ai burocrati? Forse che temono il diffondersi del virus? Vi sono vicino per quanto possa servire. Manlio Milani - Associazione familiari vittime strage di Piazza della Loggia - Brescia Aderisco con piena convinzione al vostro appello, non solo per aver partecipato e sostenuto in forme varie la vostra attività, sempre orientata a stabilire un rapporto tra carcere e società esterna evidenziando così come sia possibile un "carcere in cui il valore della persona è sempre al primo posto". Bruno Abate, Chicago, President and Founder recipeforchangeproject.org Il crimine più grande che si possa commettere è quello di non dare la possibilità ad uomini che hanno dimostrato in tutti questi anni un cambiamento sociale e personale, Giotto è un esempio per tutto il mondo, Personalmente sono stato inspirato da Giotto, ed oggi ho portato quello che ho imparato dai detenuti di Padova in Chicago, nel carcere del Cook County. Chicago è con voi e aderiamo al prezioso esempio e lavoro che avete fatto in tutti questi anni. Con rispetto. Il Garante nazionale dei detenuti: "basta gettare fango sul Due Palazzi" di Donatella Vetuli Il Gazzettino, 24 luglio 2017 Mauro Palma: "C’è chi ha sbagliato, ma tante iniziative d’eccellenza". Basta gettare fango sul Due Palazzi. Se qualcuno ha sbagliato non può rappresentare tutto il carcere, tanto meno le mille esperienze positive che lo hanno eletto istituto modello in Italia. A parlare è Mauro Palma, garante nazionale per i detenuti e fondatore della associazione Antigone. Presto sarà a Padova a portare solidarietà a chi si impegna ogni giorno per una detenzione che sia vera rieducazione. Di inchieste se ne sono viste passare diverse: droga e telefoni cellulari ai detenuti, agenti deviati, regime morbido concesso anche a chi è legato alla criminalità organizzata, pure un ergastolano che rinsalda dalla sua cella i rapporti con i pusher. Ma le conquiste sono state davvero tante. Lo sottolinea Palma: "Giusti i provvedimenti contro chi ha sbagliato - afferma - ma per questo non va fermato un cammino importante, non vanno taciuti gli aspetti positivi del carcere di Padova. Penso ai detenuti che si incontrano con gli studenti, al lavoro della Giotto, con attività interne e esterne alla casa di reclusione, penso alla rivista di Ristretti Orizzonti. L’impegno delle cooperative è eccellente". In ambito nazionale il Due Palazzi è tra i pochi dove si lavora e si studia a contatto con la realtà cittadina (recentemente un romeno si è laureato in Ingegneria informatica), è il carcere dove si producono panettoni da inviare a Papa Francesco, dove medici e psicologi seguono i tossicodipendenti, e non va certo dimenticata l’attività dei tanti agenti della polizia penitenziaria, in cronico sottorganico, impegnati a fronteggiare un lavoro da trincea. "Formazione lavoro, - sintetizza Palma - responsabilizzazione dei soggetti, impegno culturale per fare conoscere il carcere fuori delle sue mura". Sulla declassificazione dei detenuti, dal regime duro a quello "ordinario", provvedimento per il quale è stato coinvolto in un’inchiesta l’ex direttore Salvatore Pirruccio, il Garante nazionale ricorda: "Non spetta al direttore, ma al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E comunque è un percorso positivo, di reinserimento, secondo la finalità rieducativa della pena. È legata a una ragione superiore a quella amministrativa e organizzativa, pur legittime". Quanto ai detenuti finiti sotto inchiesta, Palma continua: "Provo rabbia contro chi ha gettato discreto su chi lavora, sull’ex direttore Pirruccio, sul presidente della Giotto Nicola Boscoletto, su Ornella Favero, direttore di Ristretti Orizzonti. Tre figure di impegno totale per un carcere diverso. Quei detenuti hanno tradito, e certo non rappresentano tutta l’immagine del carcere". Riforma del processo penale: novità immediate, differite e da attuare di Enrico Marzaduri Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2017 Non sempre a una lunga gestazione consegue un parto felice. Così pare sia avvenuto per la cosiddetta "riforma Orlando" che, dopo due anni e mezzo di lavori parlamentari e di passaggi tra Camera e Senato, è stata approvata, sia pure con l’ennesimo e preoccupante ricorso alla fiducia, preoccupante in quanto evidenti ragioni politiche si sono sovrapposte a esigenze di verifica di non pochi dei contenuti della novella che richiedevano una rilettura soprattutto nella prospettiva di una ricerca del rispetto sistematico. La struttura dell’intervento - Così, riflesso evidente di queste opzioni parlamentari, ci troviamo dinanzi a un articolo unico, costituito da novantacinque commi, alcuni di considerevole lunghezza, che viene a incidere sul codice penale, sul codice di procedura penale e sull’ordinamento penitenziario, sia con disposizioni immediatamente applicabili, sia con previsioni differite nella loro operatività, sia attraverso deleghe da attuarsi secondo diverse tempistiche, per le quali non sempre risulta individuabile in modo univoco il termine per il relativo esercizio da parte legislatore delegato a causa del ricorso alla tecnica dello scorrimento. Larga parte delle innovazioni attiene a problematiche processuali (commi 21-84), ma, forse, le modifiche che hanno ricevuto la maggiore attenzione a livello di opinione pubblica sono quelle in tema di prescrizione (commi 10-15), istituto che il nostro legislatore, nonostante le letture fornite dalla giurisprudenza europea e alcuni suggerimenti dottrinali, mantiene, a mio avviso correttamente, nell’ambito del diritto penale sostanziale. Le novità a livello di diritto penale sostanziale - Le novità al livello di codice penale, peraltro, prima ancora prevedono l’introduzione di una inedita causa di estinzione del reato per condotte riparatorie (commi 1-4), nella quale si valorizza per i casi di procedibilità a querela soggetta a remissione la riparazione integrale del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e l’eliminazione, quando possibile, delle conseguenze dannose o pericolose del reato. E ciò anche a seguito di un’offerta reale non accettata dalla persona offesa, sempre che il giudice riconosca la congruità della somma. Estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie - Sono evidenti le analogie con l’istituto disciplinato nell’articolo 35 del Dlgs 274/2000, dove si ipotizza un’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie nel procedimento dinanzi al giudice di pace. Tuttavia, in quest’ultima disposizione appare più correttamente delineato il percorso valutativo che deve compiere il giudice per pronunciare la declaratoria estintiva, in quanto tale esito potrà aversi solo se le attività risarcitorie e riparatorie risultano idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione. Probabilmente, la riproposizione di questa previsione avrebbe quantomeno attenuato gli eccessivi allarmi sollevati in questi ultimi giorni sul rischio di una sostanziale depenalizzazione del delitto di atti persecutori a causa dell’introduzione della causa estintiva di cui all’articolo 162-ter del Cp.Comunque, non si può ritenere che il giudice, sentite le parti e la persona offesa, non possa far altro che dichiarare l’estinzione del reato una volta verificata la condotta riparatoria, dal momento che, anche al di fuori dei casi di non accettazione da parte della persona offesa, dovrà essere accertata una riparazione del danno cagionato dal reato che possa considerarsi integrale. Aumentano le pene per furto in abitazione e voto di scambio - Nei commi successivi (commi 5-9), il legislatore ha inasprito il trattamento sanzionatorio di alcuni delitti - lo scambio elettorale politico mafioso, il furto in abitazione, il furto con strappo, il furto aggravato, la rapina, l’estorsione - intervenendo non solo sulla pena edittale, ma talora anche sul regime delle circostanze. Difficile non riconoscere nell’intervento una finalità, quella di dare risposta a un’esigenza di rigore repressivo avvertita a livello irrazionale da certi strati sociali, spesso a ciò fortemente indotti anche da propagande politiche decisamente discutibili. E la decisa sottolineatura più volte data dal Governo a questi contenuti nelle occasioni di presentazione della riforma, purtroppo, sembra legittimare l’impressione che, invece di contrastare certe tendenze giustizialiste, si voglia ricercare un consenso elettorale su tali terreni. Le conseguenze più significative di queste previsioni si avranno sul piano esecutivo: l’innalzamento dei minimi edittali ridurrà gli accessi alla sospensione condizionale della pena e alle misure alternative alla detenzione, con significativi riflessi sull’entità della popolazione carceraria e problematici rapporti con la delega per la riforma penitenziaria, dove si ipotizza una riduzione delle esecuzioni carcerarie. Le modifiche all’istituto della prescrizione - Le modifiche apportate all’istituto della prescrizione (commi 10-15) risultano di estrema complessità e non possono essere trattate nemmeno in parte in una semplice premessa. Tuttavia, qualche rapido accenno dovrà essere egualmente riferito alle cause di sospensione che vanno nella direzione di una tendenziale neutralizzazione dei tempi processuali dal computo dei termini entro i quali il fatto di reato conserva rilievo ai fini della sua punibilità. Il generalizzato allungamento dei tempi prescrizionali provocato dalla nuova disciplina dell’istituto nella fase delle impugnazioni, per cui la prescrizione rimarrà sospesa fino a tre anni in caso di impugnazione di una sentenza di condanna se il giudice dell’appello o del ricorso confermano l’accertamento della responsabilità penale, non può non suscitare perplessità. Invero, come è stato già segnalato, vi è una palese disomogeneità tra le ipotesi tradizionali di sospensione e questa nuova: le prime si giustificano per la forzata inattività cui è costretta l’autorità giudiziaria al verificarsi di determinati eventi, mentre le impugnazioni costituiscono situazioni di carattere attivo e del tutto ordinario nel procedimento penale (Micheletti). E l’unica risposta che potrebbe quindi essere azzardata per legittimare questa assimilazione sembra postulare una pregiudiziale considerazione di pretestuosità degli appelli e dei ricorsi, considerazione immediatamente smentita da una sia pur ridotta consapevolezza della nostra realtà giudiziaria. Riforma del processo penale. Dibattimento a distanza, da eccezione a regola di Carmelo Minnella Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2017 Le modifiche adottate nella materia della partecipazione a distanza nel processo sono contenute nei commi 77, 78, 79 80 e 81 dell’articolo unico della legge 23 giugno 2017 n. 103 di modifica dell’ordinamento penale, sia sostanziale che processuale, nonché dell’ordinamento penitenziario. Dibattimento a distanza - Si novella innanzitutto l’articolo 146-bis delle disposizioni di attuazione al Cpp, prevedendo il comma 77 che "la partecipazione al dibattimento della persona che si trova in stato di detenzione per taluno dei delitti indicati nell’articolo 51, comma 3-bis, nonché e dell’articolo 407, comma 2, lettera a) n. 4 del codice, partecipa a distanza alle udienze dibattimentali dei processi nei quali è imputata, anche relativi a reati per i quali sia in libertà". Tale disciplina si applica anche alle udienze penali e civili nelle quali il detenuto deve essere sentito come teste. La scelta dell’obbligatorietà della partecipazione a distanza (che fino a oggi investe solo i soggetti sottoposti al carcere duro ex articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario) viene estesa anche alla persona ammessa a programmi o a misure di protezione partecipa a distanza alle udienza dibattimentali dei processi nei quali è imputata (articolo 146-bis, comma 1-bis) Le profonde modifiche operate all’articolo 146-bis delle norme attuative del codice di rito si estendono anche al rito camerale, avendo il comma 78 cambiato in tal senso l’articolo 45-bis delle disposizioni di attuazione. Anche per il giudizio abbreviato che si svolge in udienza pubblica, l’articolo 134-bis delle disposizioni di attuazione viene modificato dal comma 79 nella medesima direzione, equiparandolo in toto al giudizio dibattimentale. Stesso discorso per il procedimento di prevenzione, ove il comma 80 sancisce la regola dell’esame a distanza dei testimoni per effetto della modifica nell’articolo 7, comma 8, del Codice antimafia (decreto legislativo n. 159 del 2011), e l’inserimento del riferimento agli articoli 146-bise 147-bis delle norme di attuazione. Il comma 81 prevede, infine, che le modifiche alla nuova disciplina della partecipazione a distanza appena indicate acquistano efficacia decorso un anno dalla pubblicazione della legge nella Gazzetta ufficiale. Una deroga è introdotta - e quindi la relativa disciplina sarà immediatamente efficace - in relazione all’esame a distanza nel dibattimento (comma 77) quando la persona sia detenuta in quanto ritenuta al vertice di associazioni mafiose, terroristiche o dedite al traffico di droga. Da eccezione a regola - Il primo dato di profonda innovazione che emerge dalla lettura delle modifiche introdotte, è che la partecipazione a distanza da eccezione legata alla sussistenza di certi parametri, diviene la regola per tutti i processi cui è sottoposta la persona che sia detenuta per uno dei gravi reati ivi indicati. Non è più necessario un provvedimento del giudice (né una richiesta in tal senso) che verifichi la sussistenza di gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico o la particolare complessità del dibattimento, quando la partecipazione a distanza risulti necessaria a evitare ritardi nel suo svolgimento. Anche se si trattava di una scelta discrezionale del giudice che aveva un margine di manovra molto ampio in considerazione della scarsa determinatezza dei presupposti applicativi, occorreva pur sempre, a seconda dei casi, un decreto o un’ordinanza per motivare la propria decisione (vincolando, in qualche misura, la discrezionalità). Adesso è invece previsto un automatismo in presenza di uno status detentionis per le fattispecie di reato indicate nell’articolo 51, comma 3-bis, e nell’articolo 407, comma 2, lettera a) n. 4 del Cpp. Automatismo, come vedremo infra, che crea una forte tensione con alcuni principi costituzionali. Rafforzamento del doppio binario o presunzione di pericolosità? - Le modifiche della partecipazione a distanza vengono ricondotte nell’ottica del rafforzamento del cosiddetto doppio binario, ove la partecipazione al contraddittorio per questi reati è già fortemente pregiudicata dall’articolo 190-bis del Cpp, secondo il quale nei procedimenti sempre per i reati di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del Cpp, quando è richiesto l’esame di un testimone o di una persona indicata nell’articolo 210 del Cpp e queste hanno già reso delle dichiarazioni in sede di incidente probatorio o in dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate ovvero dichiarazioni i cui verbali sono stati acquisiti a norma dell’articolo 238 del Cpp, l’esame è ammesso se riguarda nuove circostanze ovvero se ritenuto necessario. Tuttavia, sembra si sia andati oltre alla logica del doppio binario processuale in quanto il processo in corso in cui si effettua la videoconferenza non deve essere più necessariamente in materia di criminalità organizzata. Ciò che rileva è lo stato detentivo per una dei reati di grave allarme sociale: è questo presupposto che fa scattare l’obbligo dei collegamenti audio visivi. Peraltro, la partecipazione a distanza viene estesa finanche al caso in cui il detenuto "speciale" deve essere sentito come testimone nelle udienze penali e civili. Ne consegue che si procede a distanza, non solo laddove (come già previsto) il detenuto debba essere sentito come testimone (la novità in questo caso riguarda piuttosto l’estensione dell’istituto alle testimonianze nell’ambito delle udienze civili), ma anche quando il detenuto sia imputato in altro procedimento per il quale lo stesso sia "in libertà", prescindendo dunque dalla natura e dalla rilevanza del processo. Com’è stato ben affermato, "l’estensione della partecipazione obbligatoria a distanza in situazioni differenti da quelle in cui il soggetto ha un ruolo di imputato e che contribuiscono a delineare quello che potremmo definire uno statuto processuale del detenuto - anche in attesa di giudizio o condannato, non necessariamente in via definitiva - per reati di criminalità organizzata, spostando l’accento dall’oggetto del procedimento in corso alla causa di detenzione. Una sorta di diritto processuale penale d’autore, quasi una presunzione (assoluta) di pericolosità (di dubbia costituzionalità) che fa ricadere una stigma pesantissimo sulla persona detenuta per reati di criminalità organizzata, destinato a divenire permanente dopo la condanna definitiva. Con un chiaro vulnus, nel caso di testimonianza, del principio del contraddittorio nella sua dimensione oggettiva, quale metodo di accertamento nel processo penale" (Lorusso). L’eccezione (e la contro-eccezione) alla "nuova" regola del processo a distanza - Il comma 1-ter dell’articolo 146-bis delle disposizioni di attuazione consente di derogare al principio della obbligatorietà della partecipazione al distanza per alcuni reati (a esclusione dei sottoposti al 41-bis), attribuendo al giudice il potere di disporre, con decreto motivato, anche su istanza di parte, la presenza alle udienza "qualora lo ritenga necessario". In verità, proprio in forza di quanto previsto dal comma 1 ter, le presunzioni di necessarietà della partecipazione a distanza per determinate categorie di soggetti e di piena surrogabilità della presenza fisica in aula si tramuterebbero in presunzioni "relative", che, in quanto tali, potrebbero in linea di massima essere in grado di reggere a eventuali vagli di legittimità; un uso sapiente di tale clausola potrebbe infatti impedire che il dibattimento assuma, in talune ipotesi, "una dimensione quasi surreale" (Spangher). Il presupposto applicativo è, tuttavia, troppo generico e non riesce a veicolare entro parametri definiti il potere discrezionale del giudice, rendendo evanescente il successivo controllo motivazionale. A ristabilire, in ogni caso, che il dibattimento a distanza rappresenterà la "normalità" dei detenuti speciali (qualunque sia la natura del procedimento che ha originato lo status detentionis), ci pensa il successivo comma 1-quater, che, quale norma di chiusura, riferibile in generale a qualunque processo, attribuisce al giudice la possibilità di disporre la partecipazione a distanza "qualora sussistano ragioni di sicurezza, qualora il dibattimento sia di particolare complessità e sia necessario evitare ritardi nel suo svolgimento, ovvero quando si deve assumere la testimonianza di persona a qualunque titolo in stato di detenzione presso un istituto penitenziario". Dibattimento a distanza. I dubbi costituzionali sull’estensione dell’istituto di Carmelo Minnella Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2017 L’estensione dell’istituto fuori dal perimetro dei casi di eccezionale gravità del doppio binario, ha da più parti fatto ritenere la nuova normativa in contrasto con gli articoli 3, 24, 27, comma 2, 111 della Costituzione e l’articolo 6 della Cedu (attraverso l’interposizione dell’articolo 117 della Costituzione). L’obbligatoria partecipazione a distanza è compatibile con la Costituzione? - In particolare l’automatismo della partecipazione a distanza - come più volte sostenuto dall’Unione delle Camere penali italiane - risulta suscettibile di un forte dubbio di costituzionalità, in quanto la severa limitazione del diritto di difesa e di esplicazione piena del contraddittorio viene dalla norma fondata su una "presunzione assoluta", collegata esclusivamente alla natura del reato in sé, prescindendo del tutto dalla effettiva esistenza di ragioni oggettive atte a giustificare il sacrificio delle garanzie processuali. Sotto tale profilo l’adozione del "processo a distanza" - che finisce per provocare una "distanza dal processo" - si risolve in pratica in una serie di gravi lesioni del diritto di difesa, dislocando in luoghi diversi l’imputato e il difensore che dovrebbero stare, per evidenti ragioni intrinseche al apporto alla "difesa tecnica", sedere uno accanto all’altro, nonché impedendo all’imputato o al difensore di avere con il testimone quella necessaria "prossimità" visiva, percettiva e situazionale in genere, che consente il pieno esercizio del contraddittorio, ivi compresa la ben nota difficoltà di porre in essere tutti quei controlli e quelle verifiche che sono essenziali ai fini della formazione di una prova dichiarativa genuina nell’ambito del processo penale (assenza di possibili suggerimenti, presenza e identificazione di ulteriori soggetti presenti assieme al detenuto imputato/testimone, controllo della provenienza di eventuali appunti cui il dichiarante eventualmente ricorra, ecc.). È innegabile, infatti, che la partecipazione virtuale al dibattimento non sia equiparabile alla presenza fisica dell’imputato che comporta una deminutio del diritto di difesa materiale e una conseguente smaterializzazione del processo. L’espansione (arbitraria) della partecipazione a distanza, applicato a situazioni processuali non caratterizzate da alcuna delle condizioni e circostanze riconducibili a "reati di eccezionale gravità", appare contraria alle garanzie costituzionali e convenzionali, in quanto rende in ogni momento comprimibili i più essenziali diritti processuali dell’imputato al di fuori di ogni necessaria indicazione normativa che renda ragionevole una compressione dotata di ambiti così ampi e incontrollabili. Pertanto, l’estensione illimitata e la stabilizzazione generalizzata di un istituto che si era ritenuto fosse dotato di una "efficacia temporanea" (la scadenza della norma, introdotta dalla legge n. 11 del 1998, era originariamente fissata il 30 dicembre 2000) e che fosse rivolto ad agire in determinate ipotesi sembra porsi in conflitto con le esigenze partecipative che il dibattimento ontologicamente postula. Non viene assicurata la tutela del principio di immediatezza, inteso come garanzia dell’imputato di poter svolgere il contraddittorio "davanti al giudice", in particolare nel caso in cui la prova sia una testimonianza da valutarsi ai sensi dell’articolo 192, comma 3, del Cpp e il testimone detenuto sia "delocatizzato" rispetto allo spazio processuale. La giurisprudenza costituzionale sul dibattimento a distanza - In verità, dopo l’introduzione della norma sulla partecipazione a distanza, la Consulta si pronunciò sui dubbi di legittimità costituzionale dell’articolo 146-bis delle disposizioni di attuazione, ritenendo la norma compatibile con l’ipotizzata violazione del diritto di difesa in quanto "ciò che occorre, sul piano costituzionale, è che sia garantita l’effettiva partecipazione personale e consapevole dell’imputato al dibattimento, e dunque che i mezzi tecnici, nel caso della partecipazione a distanza, siano del tutto idonei a realizzare la partecipazione" (sentenza n. 342 del 1999). I giudici delle leggi ritennero che gli strumenti predisposti dal legislatore dotati di incisività e completezza tali da rendere la normativa in questione aderente al principio sancito dall’articolo 24 della Costituzione. All’uopo, in un ottica di bilanciamento di interessi contrapposti si ricorda che la partecipazione al dibattimento a distanza è invece sorretta dalle preminenti esigenze: a) di fronteggiare le "gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico" connesse alla posizione di imputati detenuti capaci di esercitare intimidazioni nei confronti degli altri partecipanti al processo e di inquinare le fonti di prova; b) di evitare che la traduzione dagli stabilimenti carcerari alle sedi giudiziarie in cui si celebrano i relativi dibattimenti consenta collegamenti con le associazioni criminali di provenienza, così vanificando l’efficacia dei provvedimenti di sospensione delle ordinarie regole di trattamento ex articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario; c) di accelerare la celebrazione di dibattimenti di particolare complessità e durata, sovente in corso contemporaneamente in diverse sedi giudiziarie. Pertanto, mediante la partecipazione al dibattimento a distanza viene assicurato il livello minimo di garanzie necessario per tutelare il diritto di difesa di imputati detenuti per reati di eccezionale gravità, nei cui confronti il diritto di partecipare, e quindi difendersi, per tutto l’arco del dibattimento va contemperato con le esigenze di sicurezza della collettività e dell’ordinato svolgimento dei processi (sentenza Corte costituzionale n. 483 del 2002). Assenza di bilanciamento tra diritto di difesa e sicurezza pubblica - Ecco il cuore della quaestio: il problema è che nella nuova formulazione dell’articolo 146-bismanca del tutto un bilanciamento tra i contrapposti interessi in quanto la smaterializzazione obbligatoria del processo sacrifica, a monte, il vulnus qualitativo al diritto di difesa, senza che il giudice possa verificare in concreto (com’era prevista nella pregressa formulazione se vi siano queste) la ricorrenza delle ragioni di sicurezza per il ricorso ai collegamenti audiovisivi. Né tale automatismo risulta attenuato dalla clausola indicata nel comma 1-ter che conferisce al giudice, al di fuori di qualsivoglia "discrezionalità pilotata", il potere di derogare a quanto imposto dalla norma "qualora lo ritenga necessario" con conseguenti scarsissime possibilità di controllo esterno di tali provvedimenti. Quindi, la Corte costituzionale dovrà valutare - a differenza delle precedenti pronunce riguardanti il "vecchio" articolo - se le nuove ipotesi di automatismo applicativo siano (come sembrano) irragionevoli, configurando una disparità di trattamento censurabile ex articolo 3 della Costituzione e non altrimenti giustificabile, legata sic et simpliciter allo status detentionis per i più gravi reati di criminalità organizzata; e se vi sia una violazione della presunzione di non colpevolezza, di cui all’articolo 27, comma 2, della Costituzione, nei casi in cui la persona detenuta sia in attesa di giudizio, derivando la menomazione del diritto di difesa proprio dall’imputazione che deve essere ancora accertata. L’equivoco sulla ragionevole durata e il dubbio sul comma 1-quater - Si potrebbe sostenere che la nuova disciplina sul processo a distanza sacrifica il diritto di difesa materiale, all’interno del quale rientra il diritto al contraddittorio nella formazione della prova, per tutelare un altro principio di rango costituzionale: il principio della ragionevole durata del processo, consacrato anch’esso nell’articolo 111 della Costituzione che richiama esigenze di celerità processo stesso. Tuttavia, tale bilanciamento tra i due principi è stato escluso dalla Corte costituzionale che ha ammonito che il diritto di difesa e il principio di ragionevole durata del processo non possono entrare in comparazione, pena una contraddizione logica e giuridica all’interno dell’articolo 111 Cost., che da una parte imporrebbe una piena tutela del principio del contraddittorio e dall’altro autorizzerebbe tutte le deroghe ritenute utili ai fini di abbreviare la durata dei procedimenti (sentenza n. 317 del 2009). Tale aspetto pone un ombra sulla compatibilità costituzionale del nuovo comma 1-quater dell’articolo 146-bische consente al giudice di procedere a distanza, anche fuori dai casi di detenuti per certi reati, tutte le volte in cui sussistano ragioni di sicurezza (per questi casi occorre una valutazione in concreto del giudice) qualora ciò sia necessario per evitare ritardi nel suo svolgimento. Occorre insomma sfatare il mito che per rendere il processo penale più rapido ed efficace occorre necessariamente rinunciare alle garanzie difensive. Qualunque vulnus all’irrinunciabile e fondamentale diritto di difesa va controbilanciato con un interesse di rango costituzionale almeno della stessa portata, senza automatismi di sorta. Dibattimento a distanza. La Cedu e le minori garanzie in tema di difesa di Carmelo Minnella Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2017 La Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Viola contro Italia del 5 ottobre 2006 ha ritenuto lo strumento della videoconferenza non ledere il diritto di difesa, in quanto l’imputato può seguire adeguatamente il dibattimento, salvo eventuali problemi tecnici che ne rendono difficoltoso il collegamento. Processo a distanza e Cedu - Proprio perché la Corte europea opera sempre un giudizio di bilanciamento tra contrapposti interessi in gioco, essa potrebbe comunque intervenire, sia pure indirettamente, a censurare la nuova disciplina sull’obbligatorietà del processo a distanza. Si pensi al caso in cui il giudice italiano applica il nuovo articolo 146-bis delle disposizioni di attuazione al Cpp, con conseguente obbligatoria partecipazione virtuale del detenuto "speciale". Si ricorre alla Corte di Strasburgo sostenendo che nel caso di specie non erano presenti esigenze di sicurezza pubblica. Se i giudici europei accolgono il ricorso finirebbero, in sostanza, nel ritenere la novella sul dibattimento a distanza in contrasto con la Cedu. Vero è che la Corte europea giudica su casi concreti e non su norme, quindi non verifica la compatibilità della normativa italiana con la Cedu ma si limiti eventualmente a dichiarare la violazione dell’articolo 6 Cedu legata alla singola vicenda processuale sottopostale. Quindi, per verificare gli effetti della pronuncia europea oltre il singolo caso concreto occorre compiere un secondo salto ermeneutico: dal caso deciso alla norma interna per verificare se la violazione della Cedu sia dipesa dal comportamento contra legem dell’amministrazione della giustizia o se invece la norma interna sia stata correttamente applicata. Solo in quest’ultimo caso la reiterata violazione della Cedu potrebbe portare a una sentenza pilota o a un orientamento consolidato tale da porre in discussione la novella e costringere il legislatore ad intervenire. Tra l’altro, si consideri che l’idea di fondo della Cedu e della sua interpretazione da parte della Corte di Strasburgo è la lettura in chiave garantistica delle sue disposizione, ossia è quella di aumentare le garanzie della persona. Mentre, invece, le norme sulla video conferenza comportano certamente un arretramento del diritto di difesa dell’imputato. I costi della videoconferenza e l’impossibilità di collegamento per i non abbienti. A fondamento dell’interpolazione normativa sul processo a distanza sembrano ci sia l’esigenza di limitare i costi. Ma anche tale vantaggio in termini economici è più ipoteco che reale considerato che l’estensione delle necessarie strutture tecnologiche a tutti i luoghi di detenzione e a tutti i Tribunali avrà costi non indifferenti. Al contrario, è prevedibile che la introduzione del processo a distanza, lungi dal garantire gli ipotizzati guadagni, provocherà un aumento dei costi e delle inefficienze. Proprio nell’ottica di limitare i costi della macchina giustizia, è stato aggiunto all’articolo 146-bis delle disposizioni di attuazione al Cpp il comma 4-bische impone alle parti l’onere dei costi del collegamento a distanza, a prescindere dal titolo del reato. In particolare, la norma prevede che "in tutti i processi nei quali si procede con il collegamento audio visivo, ai sensi dei commi precedenti, il giudice, su istanza, può consentire alle altre parti e ai loro difensore di intervenire a distanza assumendosi l’onere dei costi del collegamento". Il legislatore non ha voluto contemperare l’ennesimo carico di spese sulle parti private, neppure con gli articoli 100 e 107 del Testo unico sulle spese di giustizia (Dpr n. 115 del 2002), in materia di patrocinio a spese dello Stato, rendendo, di fatto, il processo penale un processo per soli imputati abbienti (Rizzo). Ruoli di udienza e priorità ai delitti contro la pubblica amministrazione - Tra le interpolazioni delle disposizioni di attuazione del codice di rito, si segnala quella apportata dal comma 74, che all’interno dell’articolo 132 delle norme attuative - in tema di formazione dei ruoli di udienza e trattazione dei processi - si sono aggiunti, tra quelli a cui deve essere assicurata una priorità assoluta, i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione di concussione, corruzione, corruzione in atti giudiziari, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio e di peculato, concussione, induzione indebita dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri. Tale modifica è la logica conseguenza dell’inasprimento della risposta sanzionatoria, dapprima con la legge n. 190 del 2012 e successivamente con la n. 69 del 2015 dei reati contro l’amministrazione pubblica e con il notevole allarme sociale che essi negli ultimi anni hanno assunto nella collettività. Riforma del processo penale. Ricorsi per cassazione, l’intento è scoraggiare quelli "inutili" di Renato Bricchetti Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2017 Tra le novità in materia di sentenza di applicazione concordata della pena c’è il ricorso per cassazione che diventa più mirato ed esclusivo. Ricorso per cassazione - La nuova legge (articolo 1, comma 50) inserisce nell’articolo 448 il comma 2-bis. Pubblico ministero e imputato - si legge nel nuovo comma - possono ricorrere per cassazione solo per i) vizi dell’espressione della volontà, ii) difetto di correlazione tra accordo e sentenza, iii) erronea qualificazione del fatto, iv) illegalità della pena o della misura di sicurezza. La nuova disposizione - afferma l’articolo 1, comma 51 - non si applica nei procedimenti nei quali la richiesta di patteggiamento è stata presentata anteriormente alla data di entrata in vigore della legge, vale a dire al 3 agosto 2017. Il legislatore ha ritenuto che il modulo consensuale di definizione del processo non meritasse l’attuale, troppo ampia, ricorribilità per cassazione, constatato, tra l’altro, l’esito largamente prevalente di inammissibilità dei relativi ricorsi, con inutile dispendio di tempi e costi organizzativi. Ha così ritenuto di limitare la ricorribilità ai soli casi in cui l’accordo non si sia formato legittimamente o non si sia tradotto fedelmente nella sentenza, ovvero il suo contenuto presenti profili di illegalità per la qualificazione giuridica del fatto, per la pena o per la misura di sicurezza, applicata od omessa. La proposta di riforma è, nelle intenzioni, diretta a scoraggiare i ricorsi meramente defatigatori. Il legislatore, anche in tal caso, altro non ha fatto che codificare i pochi casi in cui il ricorso per cassazione contro la sentenza di patteggiamento veniva accolto. Casi in cui la Corte pronuncia l’annullamento senza rinvio della sentenza, con trasmissione degli atti al giudice di merito per un nuovo giudizio, nel quale le parti devono, se lo ritengono, rivalutare i termini dell’accordo e l’interesse a un nuovo patteggiamento determinativo di una pena conforme alle prescrizioni di legge. Tipici annullamenti senza rinvio sono quelli determinati da un accordo che esprime una pena illegale (Cassazione, sezioni Unite, 27 maggio 2010 n. 35738, Calibé, in motivazione) ovvero un errore nella qualificazione giuridica del fatto (Cassazione, sezioni Unite, 28 marzo 2001 n. 22902, Tiezzi, RV 218874) o ancora una misura di sicurezza "al di fuori dei presupposti di legge" (in tal caso l’annullamento senza rinvio è limitato a tale erronea statuizione: Cassazione V, 16 febbraio 2016 n. 11934, Barbetta. RV 266429). È disposto invece con rinvio l’annullamento della sentenza di patteggiamento nella parte relativa alla condanna alla rifusione delle spese di parte civile in questo caso con rinvio al giudice competente per valore in grado d’appello, dovendosi discutere in detta sede solo sul quantum (Cassazione, sezioni Unite 14 luglio 2011 n. 40288, Tizzi, RV 250680); analogamente, non inficia l’accordo ma la sentenza - e quindi determina annullamento con rinvio - la mancata applicazione di sanzioni amministrative che conseguono di diritto al reato (v. ex plurimis Cassazione II, 26 novembre 2013 n. 49461, Carguello, RV 257871). L’annullamento è, inoltre, disposto con rinvio nel caso in cui il giudice abbia adottato un provvedimento di contenuto diverso dall’accordo: in questo caso resta salvo l’accordo intervenuto tra le parti. L’illegalità della pena - Il caso più ricorrente è sempre stato quello della illegalità della pena. Nel procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti, l’accordo si forma non tanto sulle operazioni con le quali essa viene determinata, bensì sul risultato finale delle operazioni stesse. Ne deriva che gli eventuali errori commessi nel determinare la sanzione concordata e applicata dal giudice non assumono - come si ribadirà tra breve - alcuna rilevanza, purché il risultato finale non si traduca in una pena illegale. E il principio di legalità della pena è rispettato quando a determinare la pena concorre non solo la norma che contiene la comminatoria tra un minimo e un massimo determinati per la fattispecie base o circostanziata, ma anche quando concorrono le norme, previste nel Libro I del Codice penale, che contengono meccanismi speciali per il computo della pena, come, ad esempio, il cumulo giuridico. Tipo, contenuto e misura della pena devono trovare la loro fonte nella legge - La riserva di legge in materia di pene ha a oggetto, per quanto interessa in questa sede, anche le pene accessorie, le sanzioni sostitutive delle pene detentive (v. articoli 55, 56 e 57, secondo comma, della legge 24 novembre 1981 n. 689, articolo 16 del Dlgs 25 luglio 1998 n. 286, ecc.). e gli effetti penali della condanna. Qualche esempio: è illegale la pena dell’arresto che sia stata determinata in misura inferiore al minimo assoluto di cinque giorni contemplato dall’articolo 25, primo comma, del Cp, pena che non può essere rettificata dalla Corte di cassazione ai sensi dell’articolo 619 del Cpp, atteso che l’accordo si è formato con riguardo a una specifica quantità di pena e non può presumersi un analogo consenso delle parti in riferimento a una pena di diversa entità. Pena illegale si ha, poi, ad esempio, quando il Tribunale applica la pena dell’arresto a un reato che la legge configura come delitto o viceversa. Così come si ha pena illegale quando la pena-base sia fissata in misura inferiore al minimo edittale previsto dalla norma incriminatrice. Ancora: è illegale la pena quando per un reato appartenente alla competenza del Giudice di pace si applichino pene diverse da quella previste dall’articolo 52 del Dlgs n. 274 del 2000. Erronea qualificazione giuridica del fatto - Altro caso ricorrente, ora codificato, è quello concernente l’erronea qualificazione giuridica del fatto. Quando con il ricorso per cassazione sia contestata la correttezza della qualificazione giuridica del fatto, la Corte è tenuta a verificare se il fatto, così come accertato e valutato dal giudice di merito e dalla sentenza che ha recepito l’accordo delle parti, sia riconducibile al paradigma della fattispecie incriminatrice ritenuta nella sentenza (Cassazione I, 18 dicembre 1991, Van Deuren, RV 189892, che precisa che il giudice di legittimità non può, peraltro, rivalutare o valutare diversamente il fatto storico, risultante dagli atti e dall’accordo delle parti). Se così non è, la decisione impugnata va annullata senza rinvio, con trasmissione degli atti per il corso ulteriore al giudice che l’ha pronunciata. È necessario, naturalmente, che l’errore emerga ictu oculi dalla sentenza impugnata dovendo escludersi l’ipotesi in cui esso sia individuabile soltanto per mezzo di una specifica attività di verifica nel merito degli atti del procedimento. In altre parole, rilevano soltanto i casi di errore manifesto, di manifesta incongruenza, ossia i casi in cui sussiste l’eventualità che l’accordo sulla pena si trasformi in un accordo sui reati (Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 19 gennaio 2000 n. 5, Neri, RV 215825 e, tra le altre, Cassazione VII, 10 settembre 2015 n. 39600, Casarin, RV 264766, chiara nell’affermare che la possibilità di ricorrere per cassazione deducendo l’erronea qualificazione del fatto contenuto in sentenza è limitata ai casi in cui tale qualificazione risulti, con indiscussa immediatezza, palesemente eccentrica rispetto al contenuto del capo di imputazione, dovendo in particolare escludersi l’ammissibilità dell’impugnazione che richiami, quale necessario passaggio logico del motivo di ricorso, aspetti in fatto e probatori che non risultino con immediatezza dalla contestazione). Nell’ambito della verifica della corretta qualificazione del fatto rientra anche il controllo sulle circostanze utilizzate nel calcolo della pena e nel giudizio di comparazione (Corte di cassazione, sezione II, sentenza 15 dicembre 2010 n. 36/11, Viola, RV 249488, fattispecie nella quale era stata riconosciuta, su richiesta delle parti, l’equivalenza tra le attenuanti generiche e la "contestata recidiva", pur se quest’ultima non era stata, in realtà, contestata, risultando l’imputato incensurato), purché non attenga a profili meramente valutativi sulla loro sussistenza ovvero sulla misura dell’aumento o della diminuzione di pena, che riguardano invece l’intangibilità dell’accordo. Difetto di correlazione tra richiesta e sentenza - Altro caso di ricorso, non nuovo nell’esperienza pratica, è quello relativo al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, caso che ricorre, ad esempio, quando la sentenza di patteggiamento applichi la pena per un’imputazione sostanzialmente diversa, con riguardo alla condotta o alle circostanze, da quella originariamente formulata dal pubblico ministero. Espressione della volontà dell’imputato - Vi è poi il vizio relativo alla "espressione della volontà dell’imputato". Caso paradigmatico quello in cui, contumace o assente l’imputato, la richiesta di patteggiamento venga presentata dal sostituto processuale del difensore, a ciò non legittimato perché la procura speciale non è stato conferita a lui ma al difensore sostituito (conseguenza l’illegittimità dell’accordo intercorso con il pubblico ministero e della sentenza che lo ha ratificato: cfr., ex plurimis, Cassazione I, 4 novembre 2009 n. 43240, Barbini, RV 245081). È opportuno ricordare, infine, che l’articolo 446, comma 5, del Cpp prevede l’opportunità per il giudice di disporre la comparizione dell’imputato per verificare la volontarietà della richiesta o del consenso. L’illegalità della misura di sicurezza - Resta il caso della illegalità della misura di sicurezza. Caso, in verità, piuttosto raro nella pratica. È la legge che deve prevedere i casi in cui il giudice, previo accertamento della pericolosità sociale dell’agente, può applicare misure di sicurezza. Con riguardo alla tipologia, la legge deve precisare a quale tra le misure di sicurezza personali indicate nell’articolo 215 del Cp può essere sottoposta la persona socialmente pericolosa. Il giudice non può applicare misure di sicurezza non previste dalla legge, né può applicare misure previste dalla legge, ma diverse nel contenuto rispetto a quanto disciplinato dal legislatore in ordine a ogni specie di misura. Il principio di legalità è, ad esempio, violato se si applica la misura di sicurezza della libertà vigilata - in sede di unificazione ex articolo 209, primo comma, del Cp- aggiungendovi il divieto di soggiorno che, quale diversa e autonoma figura disciplinata dall’articolo 233, non può rientrare tra le prescrizioni, tese a evitare le occasioni di nuovi reati, imposte a chi è in stato di libertà vigilata secondo l’articolo 228. Qualche altro esempio: l’omessa applicazione di misure di sicurezza personali nel patteggiamento "allargato" o, per contro, l’applicazione delle stesse nel patteggiamento ordinario; l’applicazione della confisca "allargata" in relazione a un reato non previsto dall’articolo 12-sexies del Dl 8 giugno 1992 n. 306, convertito, con modifiche, dalla legge 7 agosto 1992 n. 356. Un errore cambiare il reato di mafia di Cesare Mirabelli Il Messaggero, 24 luglio 2017 La sentenza del Tribunale di Roma, che ha giudicato 46 imputati, 19 dei quali accusati di associazione mafiosa, ha condannato i principali imputati, Carminati e Buzzi, rispettivamente a 20 e 19 anni di reclusione; a pene decrescenti ma egualmente pesanti gli altri imputati. Se da una parte si è mostrata l’efficacia dell’intervento penale nel colpire reati accertati da un giudice imparziale, dall’altra ne è sorto un inutile strascico polemico, quasi che il processo sia una partita tra accusa e difesa, che vede vincitori e vinti. Nel valutare le prove raccolte nel dibattimento, il Tribunale ha ritenuto dimostrata la esistenza di una associazione a delinquere. Ha però escluso che fosse, come avrebbe voluto l’accusa, "di tipo mafioso", che è tale se si avvale "della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazione, appalti e servizi pubblici", secondo la definizione dell’art. 416 bis del codice penale, introdotto ne11982 dalla legge Rognoni La Torre. La Procura non ha visto accolta la sua tesi sulla qualificazione della associazione come mafiosa, ma ha visto riconosciuta la esistenza di una pericolosa associazione a delinquere ed ha ottenuto condanne pesanti ed esemplari. La difesa, vedendo cadere questo capo dell’accusa, ha ottenuto che non si applichi il carcere duro, previsto per i mafiosi, a chi ha avuto le condanne più gravi. Il dibattito che è sorto sulla interpretazione dell’art. 416 bis del codice penale entusiasmerà i giuristi, sarà motivo dei ricorsi in appello già preannunciati, ed in definitiva della valutazione della Cassazione, che ha come compito istituzionale la uniforme interpretazione del diritto oggettivo. La sostanza delle cose accertata dalla sentenza, che comprende sia il reato associativo sia quelli corruttivi, rimane. Le pesanti pene detentive irrogate colpiscono adeguatamente la infiltrazione criminale e l’intreccio tra malaffare, amministratori e rappresentanti eletti nelle istituzioni. Non sembra carente la definizione della associazione di tipo mafioso, quanto piuttosto la prova che gli elementi che in astratto la caratterizzano sussistano nel caso concreto. E questo sarà oggetto di nuova valutazione nel giudizio di appello. D’altra parte è del tutto inappropriato sollecitare l’intervento del legislatore ogni volta che una vicenda processuale lascia insoddisfatti, sollecitando la introduzione di nuove ipotesi o definizioni di reato e aggravamenti di pena, oppure, secondo l’impulso del momento, percorsi di segno opposto. In questo caso, inoltre, sarebbe del tutto inutile l’intervento del legislatore per "appesantire" la definizione normativa dell’associazione di tipo mafioso, tanto più che non si potrebbe attribuire efficacia retroattiva ad una legge penale che ne aggravi i contorni, per applicarla al processo in corso. D’altra parte escludere che si sia trattato di "mafia capitale", come si voleva per rappresentare un degrado complessivo della città, non lascia tranquilli. Non significa che organizzazioni mafiose radicate nel Paese ed all’estero, di ben altro spessore organizzativo e criminale, non siano presenti ed operino nella capitale, e siano ben introdotte anche in settori economici adatti al riciclaggio del denaro sporco, come testimoniano i ricorrenti sequestri di pubblici esercizi nei quali risulterebbero investite somme provenienti da attività criminali. L’azione della Procura si è dimostrata efficace, come pure efficace e tempestiva, compatibilmente con la complessità e il numero degli imputati, la definizione del processo da parte del Tribunale. Questo risultato positivo può tuttavia determinare un effetto inappropriato, se facesse ritenere che siamo al sicuro, che la giustizia penale vigila e interviene, perciò la corruzione è adeguatamente combattuta con gli strumenti penali. Ne risulterebbe una impropria e poco efficace delega all’autorità giudiziaria della verifica del buon andamento della pubblica amministrazione e del controllo della sua correttezza, ben oltre la sfera penale. La corruzione va repressa e perseguita penalmente, scoprendo e sanzionando i reati che vengono commessi. Ma va anzitutto prevenuta eliminando gli elementi che costituiscono terreno di coltura della corruzione. Conoscere la patologia per passare alla profilassi, diffondendo vaccini anti-corruttivi ed eliminando i fattori di rischio nei quali la corruzione si annida e può allignare. Recenti esperienze mostrano che l’attività corruttiva trova buon terreno quando gli appalti per le forniture di beni o servizi seguono procedure previste come eccezionali e in situazioni di reale o costruita urgenza; come pure quando le forniture di servizi vengono aggregate in appalti di straordinario rilievo economico, con requisiti che riducono a pochi e prevedibili concorrenti la idoneità a concorre. Sarebbe utile una indagine amministrativa, non penale, sulle situazioni di rischio, condotta a freddo e non sull’onda di singoli casi. Le vicende che attraversiamo possono sollecitare una alleanza tra l’amministrazione pubblica e l’imprenditoria seria e corretta che non confida di trarre profitto dalle pieghe dei bandi di gara e non attenda di spartirsi come un bottino i profitti che rendono possibili le forniture pubbliche. È da auspicare che non mancherebbe il sostegno delle espressioni rappresentative delle categorie. Trasparenza e semplificazione delle procedure, effettiva apertura alla concorrenza, pubblicità e accesso diffuso alla conoscibilità in rete degli atti, identificabilità dei responsabili di ciascuna fase del procedimento, tempi brevi per ogni passaggio ed eliminazione di tutti quelli non necessari. Operare in questa direzione richiede una impegnativa analisi e ingegnerizzazione dei singoli processi, avvalendosi non solamente di competenze giuridiche, necessarie ma non adeguate o sufficienti, portate piuttosto a dettare regole e talvolta ad introdurre ulteriori appesantimenti, e non piuttosto orientate ad organizzare processi. Giustizia, arriva legge con aggravante per truffe agli anziani La Repubblica, 24 luglio 2017 Per i maggiori di 65 anni scatta d’ufficio, sottratta a decisione giudice. Previste pene da 1 a 5 anni. Quattro articoli per tutelare gli anziani che subiscono truffe. Prevedendo un’aggravante del reato, già previsto dall’art. 640 c.p., consistente nella circostanza che vittima dell’illecito sia persona maggiore di 65 anni (la proposta utilizza la locuzione "persona ultrasessantacinquenne"). Lo prevede il primo articolo della norma 4130, che la Camera discute la prossima settimana. La pena del reato di truffa con vittime over 65 rimane quella vigente per le ipotesi aggravate del reato, cioè "la reclusione da uno a 5 anni e la multa da 309 a 1.549 euro". Ma vede l’introduzione di una autonoma aggravante speciale, quindi, ove la vittima sia maggiore di 65 di età è sottratta alla valutazione del giudice la verifica della concreta sussistenza degli altri requisiti previsti nel caso di minorata difesa. Analogamente - stante il limite massimo di pena di 5 anni - è confermata la possibile applicazione della custodia cautelare in carcere. Analoga aggravante speciale è stata introdotta per il reato di rapina: ferma restando la sanzione edittale per il reato-base (punito con la reclusione da 3 a 10 anni e con la multa da 516 a 2.065 euro) costituisce rapina aggravata (punita con la reclusione da 4 anni e 6 mesi a 20 anni e con la multa da 1.032 a 3.098 euro) sia il reato commesso in luoghi tali da ostacolare la pubblica e privata difesa sia quello commesso in danno di persona maggiore di 65 anni. L’articolo 2 introduce nel codice penale l’art. 643-bis, finalizzato a limitare i casi di applicazione della sospensione condizionale della pena ai condannati per circonvenzione di incapaci e truffa aggravata in danno di ultrasessantacinquenni. La disposizione stabilisce, infatti, che la concessione del beneficio sia subordinata "all’obbligo delle restituzioni e al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento (o provvisoriamente assegnata); all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato". L’articolo 3 della legge integra il contenuto del terzo comma dell’art. 275 c.p.p. prevedendo che, in relazione al reato di truffa aggravata ai (vittima maggiore di 65 anni), possa applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere anche se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Infine, l’articolo 4 della stessa proposta, prevede l’arresto obbligatorio in flagranza dei delitti di truffa aggravata in danno di ultrasessantacinquenne e di circonvenzione di incapace. Indagini europee, difesa tutelata di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2017 Decreto legislativo 108 del 21 giugno 2017. Debutta venerdì prossimo, 28 luglio, la nuova disciplina di matrice europea che mira a semplificare le indagini e l’acquisizione della prova nell’ambito dell’Ue. La introduce il decreto legislativo 108/2017, che recepisce la direttiva 2014/41. In particolare, le nuove regole riguardano l’ordine europeo di indagine penale, vale a dire il provvedimento, emesso da un’autorità giudiziaria o amministrativa di uno Stato Ue, che viene ricevuto, convalidato ed eseguito dall’autorità giudiziaria di un altro Stato Ue per la ricerca o l’acquisizione delle prove all’estero. Le procedure stabilite dal Decreto legislativo 108 tutelano anche i diritti dell’indagato, riconoscendo alcuni poteri di intervento al difensore. Vediamo come. Se l’ordine proviene dall’estero, competente a decidere è il procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto nel quale devono essere compiuti gli atti richiesti, che provvede al riconoscimento dell’ordine con decreto motivato. Il decreto di riconoscimento è comunicato dal Pm al difensore dell’indagato nel termine stabilito dalla legge italiana per l’avviso per il compimento dell’atto. Se la legge italiana prevede solo il diritto del difensore di assistere al compimento dell’atto senza previo avviso, il decreto è comunicato al momento in cui l’atto è compiuto o immediatamente dopo. I verbali degli atti compiuti sono depositati presso la segreteria del Pm. Entro cinque giorni dalla comunicazione, l’indagato e il suo difensore possono proporre, contro il decreto di riconoscimento, opposizione al Gip, che decide con ordinanza, sentito il Pm. Se l’opposizione è accolta, il decreto di riconoscimento è annullato. Ma l’opposizione non ha effetto sospensivo dell’esecuzione dell’ordine di indagine e della trasmissione dei risultati all’estero, salvo che il Pm disponga altrimenti. Le parti possono anche chiedere al Gip, nei casi in cui è richiesto di eseguire l’ordine (perché l’autorità estera chiede che l’atto sia compiuto dal giudice o perché la legge italiana prevede che quel tipo di atto sia compiuto dal giudice), di annullare il decreto di riconoscimento se ricorre un motivo di rifiuto previsto dal decreto 108(ad esempio, l’ordine è incompleto o la persona contro cui si procede gode di immunità). Contro il decreto di riconoscimento dell’ordine di indagine che riguarda il sequestro probatorio possono opporsi l’indagato o l’imputato, il suo difensore, la persona alla quale la prova o il bene sono stati sequestrati e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione. Il giudice provvede in camera di consiglio. Contro la decisione il Pm e gli interessati possono ricorrere in Cassazione (ma il ricorso non ha effetto sospensivo) per violazione di legge entro dieci giorni dalla comunicazione o notificazione. La Cassazione provvede, in camera di consiglio, entro 30 giorni. Il decreto legislativo 108 disciplina poi la procedura "attiva": quella, cioè, in cui l’ordine di indagine parta dall’Italia e sia diretto verso un altro Paese Ue. A emetterlo - nell’ambito di un procedimento penale o di un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale - sono il Pm o il giudice che procede, sentite le parti. L’ordine di indagine va trasmesso direttamente all’autorità estera di esecuzione. Contro l’ordine che riguarda il sequestro a fini di prova, l’indagato o l’imputato, il suo difensore, la persona alla quale la prova o il bene sono stati sequestrati e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione possono proporre richiesta di riesame in base all’articolo 324 del Codice di procedura penale. Ma non c’è solo la possibilità di opporsi: il difensore dell’indagato, dell’imputato o del proposto per l’applicazione di una misura di prevenzione può chiedere al Pm o al giudice che procede l’emissione di un ordine d’indagine. La richiesta contiene, a pena di inammissibilità, l’indicazione dell’atto di indagine o di prova e i motivi che ne giustificano il compimento o l’assunzione. Se respinge la richiesta, il Pm emette decreto motivato. Dopo l’esecuzione dell’ordine, l’autorità giudiziaria italiana, ricevuta la documentazione delle attività effettuate, provvede nei casi e nei modi previsti dalla legge processuale a darne conoscenza alle parti e ai loro difensori. Automobilisti indisciplinati arriva la tolleranza zero di Mariolina Iossa Corriere della Sera, 24 luglio 2017 La circolare del Viminale: allarme per i troppi incidenti mortali Più controlli per chi guida con il cellulare o in stato di ebbrezza. Più controlli e sanzioni per contrastare i cattivi comportamenti degli automobilisti. E l’ammonimento a non usare l’autovelox per fare cassa. È il provvedimento del ministro Minniti. Tolleranza zero per i comportamenti pericolosi alla guida. Più controlli, più sanzioni e maggiore coordinamento di tutti gli organi di polizia per prevenire gli incidenti. utilizzare la tecnologia, pr esempio gli autovelox, non per fare cassa ma per garantire maggiore sicurezza sulle strade. È questo il succo del provvedimento emesso dal ministro dell’Interno Marco Minniti per rendere più efficace l’azione di Polizia di stato, Polizia locale, Guardia di finanza, Carabinieri contro la guida scorretta: uso del telefonino e dello smartphone, soprattutto, ma anche mancato uso di caschi e di cinture di sicurezza, guida sotto l’effetto di droghe o di alcol. I numeri - Il "segnale allarmante", dicono al Dipartimento di pubblica sicurezza del ministero, è l’aumento dei morti sulle strade italiane a causa di queste cattive "abitudini". Staccare gli occhi dalla strada per connettersi ai social sullo smartphone è tra le "distrazioni" che più hanno influito sull’aumento degli incidenti mortali nei primi sei mesi e mezzo di quest’anno. Questi i dati: dal 1 gennaio al 16 luglio ci sono stati 39.049 incidenti, il 3,5% in meno del 2016, quando nelle stesso periodo furono 40.466. Ma il numero dei morti è in crescita. Al 16 luglio siamo a un più 2,9% che diventa 7,4 se consideriamo solo i primi sei mesi dell’anno. Nel 2016 le vittime sono state 745, quest’anno sono 800, il peggior periodo dal 2001. Solo nel mese di giugno, il numero degli incidenti mortali è passato dai 695 del 2016 a 727. Ma il dato più importante è quello delle infrazioni: diminuiscono del 10,5%, per la diminuzione complessiva delle multe per eccesso di velocità, ma aumentano del 15,1% quelle per l’uso del cellulare. La circolare - Il provvedimento, emanato due giorni fa, impone un’azione coordinata di tutte le forze di polizia sotto la guida dei prefetti. E lo fa puntando a favorire e rendere più efficace e più diffuso l’uso della tecnologia, come nel caso degli autovelox che devono essere posizionati e usati per scoraggiare la guida scorretta su quelle strade dove più spesso accadono incidenti. Questi i punti: costante monitoraggio, da parte dei prefetti, sulla collocazione dei sistemi di rilevazione della velocità affinché risultino motivati esclusivamente da condivise esigenze di sicurezza stradale; riclassificazione e più efficiente definizione dei sistemi di rilevamento della velocità in tre grandi categorie: fissi (Tutor e Vergilius), temporanei (Autovelox) e mobili (apparecchiatura utilizzata da veicolo in movimento); taratura e verifica della funzionalità delle apparecchiature, che avverrà ogni anno; possibilità di effettuare riprese frontali da remoto purché si proceda all’oscuramento automatico dell’abitacolo e quindi al non riconoscimento delle persone a bordo; cartelli ben visibili per segnalare le postazioni di controllo della velocità, che potranno funzionare anche su entrambi i sensi di marcia. Inoltre, le spese di accertamento, che dovranno essere ben circostanziate e documentate, saranno a carico del trasgressore. Il governo - "In questi anni il governo ha introdotto il reato di omicidio stradale e sta lavorando a modifiche importanti al codice della strada, prevedendo il ritiro della patente per chi guida usando il cellulare - commenta Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia. La strada da seguire ora è quella di investire in risorse, prevenzione, organizzazione e coordinamento. Chi guida deve comprendere che la sicurezza delle strade dipende anche dal proprio comportamento". Bene la direttiva, dice Daniele Tissone, segretario generale del Silp Cgil ma non bisogna dimenticare che "per fare più controlli e rendere più efficace l’azione di coordinamento sul territorio è prioritario investire nell’organico. Mancano 100 uomini alla stradale. Più personale sulle strade aumenta l’efficacia delle prevenzione, in aggiunta alla tecnologia". Risarcimenti per il G8 di Genova, scattano i pignoramenti sui conti dei ministeri di Giuseppe Filetto La Repubblica, 24 luglio 2017 Scattano i pignoramenti, anche per il G8. E la storia si ripete: come per i risarcimenti dell’alluvione del Fereggiano, peri quali il Tribunale Civile ha autorizzato prima il sequestro dei depositi bancari dei condannati (tra cui l’ex sindaco Marta Vincenzi), poi i sigilli ai conti correnti del Comune di Genova, condannato a pagare in solido. La sentenza - meglio dire il dispositivo sulle vittime della Diaz e di Bolzaneto porta la data del 20 giugno scorso ed "assegna a Tanja Weisse la somma di 142mila euro, oltre gli interessi sulla somma capitale di 70mila euro, più altri 55mila di interessi legali, per complessivi 260mila euro. Ancora, 11mila euro all’avvocato Carlo Malossi, del foro di Modena e suo difensore insieme a Antonluca Crovetto. Rappresenta il più alto risarcimento finora stabilito in sede civile per le violenze commesse dagli agenti. La tedesca Weisse è una delle vittime dei pestaggi e delle umiliazioni durante il G8 del 2001, perpetrati dalla polizia all’interno della scuola Diaz, il luogo in cui decine di no-global erano state sorprese nel sonno e pestate senza motivo; e poi nella caserma del Reparto Mobile di Bolzaneto, dove i poliziotti e gli agenti penitenziari li avevano seviziati, umiliati e torturati. Weisse all’epoca aveva 22 anni, e in merito il giudice genovese Paola Luisa Bozzo ha scritto che subì "condotte di vera e propria tortura" nonché la "lesione di diritti della persona a protezione costituzionale che non sono oggetto di tutela della norma penale sanzionatrice in questione". Non basta. Precisa il magistrato: "Il collegio dei periti ha potuto accertare che Tanja ha riportato postumi permanenti. E che gli stessi sono derivati non tanto dalle percosse di cui la parte ha riferito nel dibattimento del processo Diaz, quanto soprattutto dalle gravi violenze alle quali ha direttamente assistito, rimanendo sconvolta". Soprattutto, "quando si trova a contatto con persone in divisa e quando qualcuno le si avvicina troppo...". Ciò nonostante, da allora i ministri Angelino Alfano e il suo successore Marco Minniti hanno rifiutato di pagare il conto, aspettando la pronuncia dei giudici della Corte di Appello, ai quali il Governo si è rivolto appunto per bloccare i pagamenti. Se la procedura fosse regolare dal punto di vista giuridico, appare quantomeno poco elegante dal punto di vista politico e morale. Soprattutto perché la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, sulla Diaz e su Bolzaneto, ha già condannato l’Italia per l’assenza di una legge sulla tortura. Anche se con l’ultima intervista rilasciata a Repubblica dal capo della polizia Franco Gabrielli, si ammetta che al G8 fu tortura e furono violate le libertà individuali. Fu una violenza studiata e sistemica, se ancora ci fosse bisogno di chiarirlo. Anche se il Dipartimento di Polizia si accinge a reintegrare in servizio alcuni funzionari condannati fino al terzo grado. Tant’è. E però di fronte a tutto ciò, il ministro della Giustizia, il suo collega agli Interni, ed ancora Roberta Pinotti alla Difesa, non hanno ancora voluto saldare il debito con le vittime. Nonostante l’ormai ultradecennale sentenza penale di primo grado per il lager di Bolzaneto fissò delle provvisionali per le oltre duecento vittime di violenze, abusi, umiliazioni. Nonostante siano passati 16 anni. "Cold case". Non è mai troppo tardi per trovare l’assassino di Chiara Ingrosso Il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2017 La recente condanna del presunto killer del giudice Caccia, ucciso a Torino nel giugno 1983, è solo un esempio di caso irrisolto giunto a una svolta dopo decenni. Yara Gambirasio e Bruno Caccia. Sono loro le vittime dei due omicidi su cui la magistratura si è espressa la scorsa settimana, emettendo due condanne all’ergastolo per gli imputati. Il 18 luglio da Brescia è giunta la sentenza del processo di secondo grado per la morte della tredicenne di Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo. Al termine di una maratona in camera di consiglio, lunga oltre 15 ore, giudici togati e popolari hanno confermato la condanna al carcere a vita per Massimo Bossetti, il muratore accusato di aver seviziato e ucciso Yara nel 2010. A Milano, invece, solo un giorno prima, il 17 luglio, la Corte d’Assise ha condannato all’ergastolo, dopo oltre trent’anni dal delitto, Rocco Schirripa, un ex panettiere oggi 64enne, ritenuto uno degli esecutori materiali dell’omicidio del procuratore capo di Torino Bruno Caccia, ucciso su disposizioni della ‘ndrangheta il 26 giugno 1983. Due cronache di delitti differenti per luoghi, tempi e protagonisti ma che, allo stesso modo, dimostrano la ricorrente difficoltà di individuare un colpevole certo di un omicidio. L’ergastolo in appello a Bossetti è solo l’ultimo atto di un processo che dal 2015 è proseguito in un crescendo di attenzione mediatica, quasi al pari del delitto di Avetrana. Un processo che fin dal principio si è mosso sul filo dell’ammissibilità dell’unica vera prova regina dell’accusa, il Dna del muratore rinvenuto sugli slip della giovane atleta. Una prova che è più un atto di fede, in quanto esaurita e non più disponibile per nessuna controperizia. La vicenda è destinata a fare giurisprudenza, al limite dell’interpretazione del diritto di innocenza, in virtù dell’insindacabile verdetto della prova scientifica. La condanna all’ergastolo per Schirripa, esecutore materiale dell’omicidio del magistrato Caccia, poi, stravolge quello che ormai era un classico cold case. Appena un anno fa, un errore procedurale della Procura aveva portato addirittura all’annullamento delle indagini e alla scarcerazione di Schirripa (la cui condanna si basa su alcune conversazioni tra ‘ndranghetisti intercettate in carcere) lo scorso novembre. Otto mesi dopo è arrivata la sentenza che le figlie del magistrato attendevano da troppo tempo. E sono le storie dai risvolti inaspettati come queste che mantengono alta l’attenzione sui crimini per cui ancora, a distanza di anni, si cerca un colpevole. E, soprattutto, danno speranza di soluzione a quelle storie su cui si è smesso di indagare. A volte sono drammi umani così al di fuori dai riflettori che finiamo per dimenticarli. Altre volte, invece, è la cronaca che trasforma certe tragedie in eventi mediatici. Una vittima senza giustizia del passato è Daniele Gravili, morto a soli 3 anni, sulle rive della spiaggia di Torre Chianca in Salento. Sul corpo, abbandonato sulla sabbia in un pomeriggio di settembre, gli inquirenti hanno isolato tracce di liquido seminale. Proprio come Yara Gambirasio, Daniele Gravili era scomparso all’improvviso, nel percorso a trecento metri da casa che si snoda tra le villette a schiera. Ma, a differenza di Yara, nonostante le meticolose indagini dell’epoca, senza un match nelle analisi del dna attraverso le tracce biologiche sul corpo, l’omicidio Gravili è rimasto impunito. Per trovare l’assassino di Daniele furono comparati 19 profili genetici con fatica e precisione, senza alcun risultato. Per Yara, invece, 20 anni più tardi sono stati più di 18 mila i dna analizzati per raggiungere l’identità di "Ignoto 1". Ed è stato ancora il Dna a ribaltare l’epilogo di un altro grande cold case italiano. A distanza di due decenni, l’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre, detto anche delitto dell’Olgiata, ha un colpevole. Un mistero iniziato la mattina del 10 luglio del 1991 con il ritrovamento del corpo della contessa nella sua villa di Roma e durato fino al 2007, quando - su insistenza del vedovo Pietro Mattei - la procura ha disposto nuove analisi sui campioni di Dna, alla luce delle più avanzate tecniche di laboratorio. Nel 2011 il test genetico consegna alla giustizia un nome e un cognome: Manuel Winston, ex cameriere flippino della nobildonna, licenziato pochi giorni prima del delitto, ha soffocato la contessa. La verità sull’omicidio dell’Olgiata arriva tardi, ma è uno di quei casi che incoraggiano ad approfondire le indagini su altri gialli contemporanei. Come l’omicidio di Lidia Macchi, ventenne massacrata con 29 coltellate in un bosco della provincia di Varese nel 1987. È un caso pioniere nella storia degli strumenti di indagine, perché è in occasione del delitto Macchi che per la prima volta si svolge l’analisi genetica dei profili dei Dna in un crimine in Italia, senza però portare a piste concrete. Nel 2016, dopo anni di buio la svolta: una perizia calligrafica sul testo di una poesia, dal titolo "In morte di un’amica", inviata alla famiglia Macchi nel giorno del funerale di Lidia, consente di aprire il processo, tuttora in corso, in cui è imputato Stefano Binda, ex compagno di liceo di Lidia, legato ad ambienti di Comunione e Liberazione. La lettera che lo incrimina, scritta a stampatello su foglio bianco, era stata per anni un enigma, una filastrocca di versi macabri, in cui Livia veniva definita come "un agnello sacrificale" destinato ad essere vittima di "un’orrenda cesura" e dello "strazio di carni". Ergastolo. Il "diritto alla speranza" è l’ultimo a morire? di Silvia Filippi diritticomparati.it, 24 luglio 2017 L’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nella giurisprudenza della Grande Chambre, da Vinter and others v. United Kingdom a Hutchinson v. United Kingdom. Il 17 gennaio 2017 la Grande Chambre ha rigettato il ricorso n. 57592/08, Hutchinson v. United Kingdom, proposto da un condannato all’ergastolo, che lamentava, in relazione alla pena comminatagli, la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Pur con tre dissenting opinions, i giudici di Strasburgo dichiaravano l’insussistenza dell’inosservanza del divieto di trattamenti degradanti e inumani, ribaltando così i principi stabiliti nel caso Vinter and others v. United Kingdom (ricorso n. 66069/09). Con la sentenza del 9 luglio 2013, la Grande Chambre aveva infatti affermato che il carcere a vita senza alcuna possibilità di rilascio (life imprisonment without parole), costituiva di per sé una violazione dell’art. 3 della Convenzione. Chiarificatrice in questo senso, era stata la concurring opinion del giudice Ann Power - Forde: "Article 3 encompasses what might be described as the right to hope […] Those who commit the most abhorrent and egregious of acts and who inflict untold sufferings upon others nevertheless retain their fundamental humanity and carry within themselves the capacity to change. Long and deserved though their prison sentences may be, they retain the right to hope that, someday, they may have atoned for the wrongs which they have committed. They ought not to be deprived entirely of such hope. To deny them the experience of hope would be to deny a fundamental aspect of their humanity and to do that would be degrading". La Corte aveva riscontrato la violazione convenzionale perché la legge vigente nel Regno Unito non era in grado di garantire una reale opportunità di modificare le condizioni degli ergastolani. In realtà il Secretary of State aveva il potere di far rilasciare il detenuto in circostanze particolari, riferite a chi si fosse trovato in condizioni di malattia terminale o totale incapacità, come indicato nel c. d. Lifer Manual (Prison Service Order 4700 2010, 12.2.1). Secondo la Corte, questa forma di compassionate release non si poteva considerare una liberazione a tutti gli effetti. Nella sentenza, i giudici di Strasburgo non chiedevano l’immediato rilascio dei ricorrenti, ma affermavano che un sistema legale che non fosse stato in grado di offrire un’effettiva e chiara definizione delle opportunità di ritornare liberi, infrangesse il principio insito nell’art. 3 della Convenzione. Se è vero che la decisione Vinter non si dimostrava di immediato favore per i ricorrenti, aveva tuttavia avuto riverberi in casi successivi, primo fra tutti Trabelsi v. Belgium (ricorso 140/10). La Corte aveva evidenziato l’infrazione del divieto di cui all’art.3 della Convenzione, nell’ipotesi di estradizione del ricorrente in uno Stato in cui si sarebbe probabilmente visto infliggere la pena del carcere a vita. La logica della decisione va rintracciata nel fatto che non solo il carcere a vita, ma anche il rischio di esservi sottoposti, ricade nella definizione di trattamento degradante e inumano. La sentenza Vinter ha avuto implicazioni ad un livello profondo: in questa occasione la Corte ha enfatizzato la sua adesione agli ideali di riabilitazione e reintegrazione dei criminali pericolosi. È difficile comprendere come il carcere a vita, rimuovendo irreversibilmente l’individuo dal contesto civile e condannandolo di fatto alla morte sociale, sia in grado di concorrere a determinare l’attitudine al cambiamento dell’internato. Sulla scia di questo orientamento, gli Stati venivano obbligati a introdurre programmi di reinserimento anche per i condannati all’ergastolo, in modo da rendere comunque possibile, anche se remota, l’eventualità della loro reintegrazione nella società. Si può dire che con tale decisione la Corte superava quel retaggio di derivazione contrattualistica stando al quale il carcere a vita sarebbe stato una sorta di surrogato della pena di morte. Il 3 febbraio 2015, la Corte, decidendo su una vicenda simile a quella trattata in Vinter, Hutchinson v. United Kingdom, affermava però la non sussistenza della violazione dell’art.3 della Convenzione. I giudici si soffermavano su come la English Court of Appeal avesse sufficientemente chiarito i criteri per individuare i casi in cui può sopravvenire la liberazione ad opera del Secretary of State dei carcerati a vita. Nonostante non fosse intervenuta alcuna modifica del Lifer Manual, la Court of Appeal aveva spiegato come il Secretary of State fosse direttamente vincolato dalle decisioni dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Dopo questa sentenza, la situazione poteva però dirsi tutto fuorché chiarita: la Corte non aveva esplicitamente overruled la precedente statuizione della Grande Chambre sulla questione, ma nemmeno la aveva accolta e rimaneva l’interrogativo se il Lifer Manual potesse essere considerato "good law". Con la decisione della Grande Chambre del 17 gennaio 2017, relativa al caso Hutchinson, siamo di fronte ad un’interpretazione evolutiva che abbassa, anziché innalzare, il livello di protezione dei diritti dell’individuo. La Corte richiamava la decisione McLoughlin della Court of Appeal of England and Wales (2014), che aveva spiegato quale dovesse essere la legge applicabile nelle condizioni verificatesi. Grazie all’indicazione di tale parametro, a differenza di quanto avveniva nel 2013, la Corte non poteva ora riscontrare una violazione dell’art. 3 della Convenzione: "The Court considers that the McLoughlin decision has dispelled the lack of clarity identified in Vinter arising out of the discrepancy within the domestic system between the applicable law and the published official policy. In addition, the Court of Appeal has brought clarification as regards the scope and grounds of the review by the Secretary of State, the manner in which it should be conducted, as well as the duty of the Secretary of State to release a whole life prisoner where continued detention can no longer be justified on legitimate penological grounds. In this way, the domestic system, based on statute (the 1997 Act and the Human Rights Act), case-law (of the domestic courts and this Court) and published official policy (the Lifer Manual) no longer displays the contrast that the Court identified in Vinter […] The statutory obligation on national courts to take into account the Article 3 case-law as it may develop in future provides an additional important safeguard". Prima della sentenza Vinter, il Secretary of State poteva rivedere una condanna a vita solo in un ristretto numero di casi, ma in realtà anche dopo non si erano verificate applicazioni in senso estensivo delle condizioni determinanti la liberazione, in quanto il Lifer Manual era ancora in vigore e non aveva subito modifiche. In secondo luogo, la Court of Appeal in McLoughlin suggeriva che "The Manual cannot restrict the duty of the Secretary of State to consider all circumstances relevant to release on compassionate grounds. He cannot fetter his discretion by taking into account only the matters set on in the Lifer Manual". Prima di questo disposto, successivo alla sentenza Vinter, la Corte Europea considerava la più risalente statuizione della Court of Appeal sul caso R. v. Bieber (2008): "At present it is the practice of the Secretary of State to use this power (to release) sparingly, in circumstances where, for instance, a prisoner is suffering from a terminal illness or is bedridden or similarly incapacitated. If, however, the position is reached where the continued imprisonment of a prisoner is held to amount to inhuman or degrading treatment, we can see no reason why, having particular regard to the requirement to comply with the Convention, the Secretary of State should not use his statutory power to release the prisoner". Emerge come il giudice inglese fosse dell’idea che il Secretary of State potesse andare oltre quanto previsto dal Lifer Manual (anche se nella pratica non c’era stata alcuna applicazione in termini più ampi dei poteri suddetti). In terzo luogo, la Corte richiamava lo Human Rights Act del 1998 (entrato in vigore nel 2000), affermando che il Secretary of State, decidendo sul possibile rilascio dei detenuti, avrebbe dovuto riferirsi agli orientamenti giurisprudenziali della Corte. Già nel 2013, anno della sentenza Vinter, lo Human Rights Act avrebbe potuto essere tenuto in considerazione dal Secretary of State. Da ultimo, la Corte lamentava in Vinter la mancanza di chiarezza in relazione all’esistenza di un termine entro il quale potesse aversi una modificazione delle condizioni del carcere a vita, mentre in Hutchinson statuiva che ciò non era un problema, perché il detenuto poteva rivolgersi al Secretary of State in ogni momento dell’espiazione della pena comminatagli. Nella sua dissenting opinion, il giudice Pinto de Albuquerque sottolineava come con la decisione della Grande Chambre di ritornare indietro rispetto al dictum Vinter, si stesse assistendo ad una "existential crisis" della Corte, in cui "the pre-catastrophic scenario is now aggravated by the unfortunate spill-over effect of Hirst on the Russian courts". Il giudice faceva risalire l’origine di questa crisi all’argomentazione riguardante le "rare occasions" contenuta in R. v. Horncastle [2009] UKSC 14, [2010] 2 A.C. 373, in cui la House of Lords osservava come la Convenzione non vincolasse le Corti inglesi alle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, limitandosi ad affermare che queste ultime dovessero essere prese in considerazione. Così, continua Pinto de Albuquerque, oltre a presentarsi un rischio per la tutela di uno standard uniforme di diritti umani, si presenta anche il rischio che la Corte "will end up as a non-judicial commissiono f highly qualified and politically legitimised 47 experts, which does not deliver binding judgments, at least with regard to certain Contracting Parties, but pronounces mere recommendations on "what it would be desirable" for domestic authorities to do, acting in an mere auxiliary capacity, in order to "aid" them in fulfilling their statutory and international obligations". Si può dire che la sentenza Hutchinson non sia un overruling, semmai una lettura di Vinter. Il right to hope rimane quindi ancora uno standard, ma è cambiato il modo in cui la Corte ne definisce i confini. Di certo la sua chiarezza ne risulta scalfita. Se ne possono dare due letture: da una parte, si potrebbe argomentare che quello che emerge dalla Grande Chambre del 17 gennaio 2017 sia un parametro applicabile al solo Regno Unito, mentre per gli altri Stati continuerebbe ad essere valido il principio stabilito in Vinter, con l’infausto risultato però di creare un "doppio binario" nella protezione dei diritti umani. D’altra parte, si potrebbe dire che Hutchinson giustifichi un più ampio margine di apprezzamento per le Parti Contraenti in questa determinata materia, causando quindi un allentamento dell’applicazione dei principi faticosamente affermatisi attraverso la giurisprudenza di Strasburgo. È comunque possibile che la Corte riveda il suo ultimo statement e ritorni sul sentiero tracciato da Vinter, qualora il Secretary of State dovesse continuare a far uso dei suoi poteri in maniera restrittiva e quindi rendendo ineffective il right to hope. Immigrazione. Sì all’espulsione del futuro padre se la moglie è minorenne di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2017 Cassazione, ordinanza 18113 del 21 luglio 2017. Niente ricongiungimento per motivi familiari al cittadino senegalese se la moglie è minorenne. La Corte di cassazione, con la sentenza 18113 del 21 luglio, fa scattare il semaforo verde per l’espulsione di un cittadino del Senegal regolarmente sposato, in base alla legge del suo paese, con una connazionale non ancora diciottenne, che si trovava in Italia e con la quale conviveva. Inutilmente l’uomo, la cui moglie era incinta, chiede l’applicazione in suo favore della sentenza con la quale la Corte costituzionale (376/2000) ha esteso il divieto di espulsione "al marito convivente della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio". L’uomo riteneva di avere dalla sua parte anche l’articolo 31 della Costituzione secondo il quale "La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo". Ma i giudici non fanno che applicare quanto previsto dalla legge italiana che vieta il matrimonio con minori, salvo prevederlo con un via libera del tribunale dei minorenni, una volta accertata la maturità psico-fisica e per gravi motivi, se i "promessi sposi" hanno compiuto almeno 16 anni. La conseguenza del divieto dettato in via generale, in caso di stranieri, è tratta dall’articolo 29 (lettera a) del Testo unico sull’immigrazione, che nega la possibilità di ottenere il ricongiungimento se il rapporto coniugale è con una persona che ha meno di 18 anni. Un "ostacolo" del tutto legittimo secondo la Suprema corte che considera inesistenti in Italia le nozze efficaci in Senegal. Rapina. Responsabilità pesante per la banca di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2017 Corte d’appello di Napoli, sentenza 2109 del 18 aprile 2017. La banca è responsabile per la rapina in cassette di sicurezza se non prova di aver adottato ogni possibile cautela per evitarla. Non vale a liberare l’istituto il fatto che i rapinatori si siano introdotti nel caveau di una filiale attraverso un foro praticato nel muro dell’edificio adiacente. L’obbligo di dimostrare l’adozione di adeguati sistemi di sicurezza non riguarda infatti solo i locali in cui si trovano le cassette, ma l’intera struttura attraverso la quale è possibile accedervi. Lo precisa la Corte d’appello di Napoli con la sentenza 2109 del 18 aprile scorso (presidente Sensale, relatore Marinaro). La vicenda - Apre il caso la domanda di risarcimento del danno fatta da due clienti nei confronti di una banca per il furto di valori contenuti in una cassetta di sicurezza sita in una filiale, forzatamente aperta nel corso di una rapina. La banca, affermava il legale, era senz’altro responsabile della sottrazione dei beni custoditi. L’istituto si difende sostenendo che il reato - nonostante le cautele e le misure predisposte - non era un evento evitabile. Il tribunale boccia la tesi della banca e la condanna a risarcire i clienti. L’istituto di credito impugna allora la pronuncia, affermando, tra l’altro, che si era dotata di misure di sicurezza adeguate e che non poteva essere ritenuta responsabile perché i rapinatori si erano introdotti nei locali della filiale praticando un foro nel muro dell’immobile adiacente. Ma le sorti del processo non mutano: la Corte d’appello conferma la decisione del primo giudice. La decisione - I giudici spiegano che la banca, in base all’articolo 1839 del Codice civile, è responsabile dell’evento, considerato che, nel servizio delle cassette di sicurezza risponde verso l’utente "per l’idoneità e la custodia dei locali e per l’integrità della cassetta, salvo il caso fortuito". D’altronde, si legge in sentenza, la funzione tipica del servizio bancario delle cassette di sicurezza consiste nel mettere a disposizione una struttura (materiale, tecnica e organizzativa) che realizzi "condizioni di sicurezza superiori a quelle raggiungibili dal cliente nella sua sfera privata". Così, presumendosi la massima protezione dei beni custoditi, la banca può liberarsi dall’addebito solo provando che l’inadempimento agli obblighi di sorveglianza sia dipeso da caso fortuito. Ma la rapina non si può dire evento imprevedibile, vista la natura della prestazione (Cassazione, 28835/2011). Inoltre, in caso di sottrazione di beni dalle cassette, l’obbligo di dimostrare l’adozione di adeguati sistemi di sicurezza non riguarda solo i locali in cui si trovano, ma l’intera struttura attraverso la quale vi si può accedere (Cassazione, 23412/2009). E la prova spettante alla banca, aggiungono i giudici, non può essere limitata a una generica dimostrazione dell’ordinaria diligenza; va invece dimostrata l’assenza di qualsiasi colpa, trattandosi di prestazione che "ricade unicamente nella sua sfera di controllo (Cassazione, 7081/2005)". I giudici spiegano che nel caso esaminato è emerso che le stanze della filiale erano dotate di muri divisori uguali a quelli delle normali abitazioni, inidonei a ospitare con sicurezza l’esercizio dell’attività creditizia. La vulnerabilità della sede era suffragata, poi, sia dal fatto che gli armadi che ospitavano le cassette erano privi del sistema time-lock, che dall’assenza di una vigilanza continua, tanto che i malviventi si erano introdotti negli ambienti attraverso il foro praticato nei giorni precedenti. La rapina, perciò, non era affatto imprevedibile, viste le condizioni di estrema insicurezza in cui venivano custodite le cassette. Peraltro, secondo i giudici, se anche si prescindesse dalla responsabilità specifica prevista dall’articolo 1839 del Codice civile, la banca sarebbe comunque responsabile per difetto di diligenza, che va valutata (in base all’articolo 1176, comma 2, del Codice civile) con riguardo alla natura dell’attività esercitata. Esercizio abusivo della professione. La norma contiene un precetto penale in bianco Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2017 Delitti - Delitti dei privati contro la pubblica amministrazione - Professioni - Titolo abilitativo e iscrizione all’albo - Art. 348 c.p. - Norma penale in bianco - Norme integrative del precetto penale. L’articolo 348 cod. pen. è norma penale in bianco poiché presuppone l’esistenza di altre disposizioni, integrative del precetto penale, volte a determinare le professioni per le quali è richiesta la speciale abilitazione dello Stato e l’iscrizione in un apposito albo: l’errore sulle norme da esso richiamate è quindi parificabile a errore sulla legge penale e non ha valore scriminante ex articolo art. 47 cod. pen. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 21 giugno 2017 n. 30827. Delitti - Delitti dei privati contro la pubblica amministrazione - Esercizio abusivo di una professione - Reato istantaneo - Unico atto tipico della professione - Sufficienza. La fattispecie disciplinata dall’articolo 348 c.p. integra un reato istantaneo che si consuma con il compimento anche di un solo atto "tipico" della professione, essendo questo sufficiente a ledere l’interesse protetto e, quindi, a realizzare l’evento del reato. Nondimeno, quando plurimi siano gli atti abusivi della professione posti in essere dall’agente, la condotta criminosa assume le connotazioni del reato eventualmente abituale, di guisa che i singoli segmenti della condotta (più atti abusivi) si unificano in un unico reato, la cui consumazione va individuata nell’ultimo episodio (atto) compiuto, cui segua la cessazione del comportamento antigiuridico complessivamente considerato. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 21 aprile 2017 n. 19218. Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti - Dei privati - Abusivo esercizio di una professione - Art. 348 cod. pen. - Norma penale in bianco - Fattispecie relativa alla professione di psicologo - psicoterapeuta. Integra il reato di esercizio abusivo della professione lo svolgimento, da parte di soggetto privo della specifica abilitazione, di atti di competenza del professionista abilitato con modalità tali, per continuità, onerosità e organizzazione, da creare l’oggettiva apparenza di un’attività professionale posta in essere da persona con competenze specifiche e regolarmente abilitata. (Nella fattispecie lo svolgimento dell’attività di psicoterapeuta è subordinato a una specifica formazione professionale e all’inserimento negli albi degli psicologi o dei medici, previa acquisizione dei necessari titoli). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 3 aprile 2017 n. 16566. Esercizio abusivo della professione di medico dentista - Sufficienza del compimento anche di un’isolata prestazione professionale - Esclusione di rapporti diretti tra paziente e odontotecnico - Configurabilità del reato in caso di intervento diretto sul paziente. Commette il reato di abusivo esercizio della professione di dentista l’odontotecnico che svolga attività, riservata al medico, di visita e diretto intervento sul paziente. Infatti, in virtù del Regio Decreto 31 maggio 1928, n. 1334, articolo 11 - norma extra penale integratrice del precetto penale che punisce l’abusivo esercizio di una professione - è escluso ogni rapporto diretto fra paziente e odontotecnico, essendo quest’ultimo autorizzato unicamente a costruire apparecchi di protesi dentaria su modelli tratti dalle impronte fornite da medici chirurghi con le indicazioni del tipo di protesi da eseguire. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 17 novembre 2016 n. 48693. Esercizio abusivo di una professione - Professionista che consenta o agevoli l’esercizio dell’attività professionale a soggetto non abilitato - Concorso nel reato di cui all’art. 348 c.p. Risponde a titolo di concorso nel delitto di esercizio abusivo di una professione il professionista abilitato che consenta o agevoli lo svolgimento di attività professionale da parte di soggetto non autorizzato. In particolare, il direttore di uno studio medico che non accerti che un soggetto operante nella struttura da lui diretta sia in possesso del titolo abilitante risponde non solo di concorso nel reato previsto dall’articolo 348 c.p. con la persona non titolata, ma anche di cooperazione, ex articolo 113 c.p., negli eventuali fatti colposi da quest’ultima persona commessi, se derivanti dalla mancanza di professionalità del collaboratore e prevedibili secondo l’id quod plerumque accidit. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 1° dicembre 2016 n. 51340. Lombardia: agosto nelle carceri per il Partito Radicale Agenpress, 24 luglio 2017 Il Partito Radicale non va in vacanza, anche se potrebbe essere l’ultima perché senza 3000 iscritti a fine anno chiuderà. In particolare in Lombardia dopo la cena con gli iscritti, che si tiene domani sera a Milano con Sergio D’Elia, sono previste visite e raccolte di firme per la separazione delle carriere nelle carceri. Il 29 luglio si tiene una visita alla casa circondariale di San Vittore organizzata insieme al Partito Liberale con Diego di Pierro, vicesegretario regionale del PLI e gli iscritti al Partito Radicale Gianni Rubagotti, Daniele Iglina, Silvia Molè e Lukas Dvorak. Il 4 agosto in collaborazione con il Partito Radicale e il Partito Socialista grazie alla disponibilità come autenticatrice della Presidente del Consiglio Comunale di Bergamo Marzia Marchesi (Partito Democratico) verranno raccolte firme per la proposta di legge sulla separazione delle carriere dei magistrati nel carcere della città orobica. Il 7 agosto grazie alla disponibilità del consigliere comunale e garante dei detenuti di Matteo Tosi (Lista Civica Busto Grande) verranno raccolte nel carcere di Busto Arsizio. Il 9 agosto una visita alla Casa Circondariale Nerio Fischione organizzata insieme al Partito Socialista con il segretario regionale PSI Lombardia Lorenzo Cinquepalmi, iscritto al Partito Radicale, Gianni Rubagotti, Matilde Scazzero segretario provinciale della Uil-Pa e i membri della segreteria del Psi di Brescia Laura Chiarelli e Roberto Bianchi. Altre iniziative agostane sono in preparazione come risposta lombarda alla carovana per la giustizia che il Partito Radicale terrà il prossimo mese in Sicilia e in preparazione della grande iniziative nonviolenta che partirà per chiedere l’emissione dei decreti attuativi della riforma dell’esecuzione penale. Napoli: allarme caldo, situazione ad alta tensione a Poggioreale e Secondigliano Il Roma, 24 luglio 2017 Emergenza caldo nelle carceri napoletane di Poggioreale e Secondigliano è emergenza perché sono quasi duecento in più i soggetti detenuti e questa la dice lunga sul modo di vivere che le persone che stanno scontando pene o in fase cautelare o per condanne. La situazione del sovraffollamento è un problema atavico che avvolge e travolge l’intero sistema da decenni anche se occorre dire che il problema è ampiamente migliorato nel corso degli ultimi anni. Ma in carcere come quelli napoletani anche poche unità in più creano problemi, figurarsi con il caldo. L’associazione Antigone, ad un anno dalla condanna all’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, fa il punto sulla situazione degli istituti di pena italiani. Ad oggi, i detenuti sono 59.683, seimila in meno rispetto al 2013. I detenuti presenti al 28 febbraio 2015 sono 53.982. Il 31 dicembre 2014 erano 53.623. I detenuti nelle carceri europee sono 1 milione 737 mila. In calo di circa 100 mila unità rispetto all’anno precedente. Il 31 dicembre 2013, ovvero a sette mesi dalla sentenza pilota della Corte europea dei diritti umani nel caso Torreggiani, i detenuti erano invece 62.536. Dunque a oggi sono 8.554 in meno rispetto a fine 2013. I detenuti erano 66.897 alla fine del 2011, anno nel quale sono stati assunti i primi interventi di carattere deflattivo. Pertanto in tre anni i detenuti sono diminuiti di 12.915 unità. Va ricordato che dieci anni fa ovvero il 31 dicembre 2004 i detenuti erano 56.068, ossia 2.445 in più rispetto a oggi. I posti letto regolamentari secondo il Dap sono 49.943. Il tasso di affollamento sarebbe dunque del 108%, ovvero 108 detenuti ogni 100 posti letto. Lecce: apertura del Polo psichiatrico nel carcere, protesta la Polizia penitenziaria di Stefano Lopetrone Gazzetta del Mezzogiorno, 24 luglio 2017 "È l’esempio dell’incapacità degli amministratori pubblici di calarsi nella realtà". Aprirà a metà settembre, all’interno del carcere di Borgo San Nicola. La Asl è pronta; la Regione pure e il Ministero della Giustizia sembra contento. Tutti vogliono offrire un servizio innovativo ai detenuti bisognosi di attenzioni particolari. Sembra tutto pronto, dunque, per l’apertura del Polo di osservazione psichiatrica nella Casa circondariale leccese. Il guaio è che il personale che può davvero permettere tutto ciò, ossia gli agenti penitenziari, praticamente non ci sono. Ne servirebbero almeno 40 per una capienza di 20 posti-letto, forse ne saranno assegnati 30, ma non si capisce da dove saranno presi. Il timore è che saranno spostati dai reparti, dove già sono 90 in meno. Una delle principali organizzazioni sindacali del Corpo, l’Osapp, è pronta a manifestazioni clamorose. Perché a Borgo San Nicola la polizia penitenziaria è sull’orlo di una crisi di nervi. Il segretario generale nazionale dell’Osapp, Leo Beneduci, è in questi giorni in vacanza a Otranto. Ed è rimasto basito quando mercoledì ha letto sulla stampa l’entusiasmo con il quale Regione e Asl hanno salutato l’apertura del Reparto psichiatrico. "Sembra di vivere un salto all’indietro nel tempo", dice il sindacalista. Segretario, che cosa non la convince? "Al tavolo tenuto martedì a Bari non si è parlato dell’impiego di poliziotti penitenziari. A tutti gli effetti mancano gli agenti per far funzionare la struttura. E sembra che di tutto ciò poco importi al governatore e agli amministratori pubblici. Vorrei capire se il Polo psichiatrico è una retromarcia sulla tanto decantata chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (gli Opg aboliti nel 2013, ndr). Le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ndr) purtroppo sono poche e contraddittorie e per questo non funzionano. Se però chiudiamo gli Opg e diciamo che quella legge è avanguardia della civiltà e poi apriamo altre strutture in tutto simili, allora è giusto che i cittadini sappiano come stanno le cose". Nelle Rems gli agenti svolgono un ruolo marginale... "Nel Polo psichiatrico invece siamo coinvolti. Stiamo tornando indietro negli anni e non lo facciamo "gratis". Il costo, soprattutto sociale, di questa clamorosa operazione è elevatissimo. Quello leccese sarà il Polo psichiatrico più grande del Meridione. Resto basito dal giubilo con cui è stata accolta la notizia: il fatto che manchi del tutto la polizia penitenziaria, e con essa gli standard minimi di sicurezza, sembra secondario". Quanti agenti servirebbero? "La logica e i regolamenti dicono 40, ma non meno di 30. Il personale di Borgo San Nicola, però, è già sottodimensionato a fronte di una popolazione carceraria destinata a salire. Bisogna capire come funzionerà la struttura". Lei che idea si è fatto? "Forse si opterà per la soluzione più facile: trasferire il personale dai reparti e diminuire la sicurezza tra le celle. Così però si peggiora la vivibilità interna. Nel carcere tutto ruota intorno alle condizioni di sicurezza e legalità garantite dal nostro Corpo. Il polo psichiatrico di Lecce è l’esempio concreto dell’incapacità degli amministratori pubblici di calarsi nelle pieghe della realtà". Eppure si dice che la nuova struttura offrirà condizioni di salute migliori ai detenuti, in linea con l’articolo 27 della Costituzione? "La Costituzione punta alla rieducazione del condannato. Se però il detenuto si trova a vivere un certo periodo della sua vita in un ambiente peggiorativo, non sarà possibile dare seguito alla norma costituzionale". Come sta peggiorando la vita interna alle carceri italiane? "Non è un mistero che in Italia, gli istituti penitenziari si stiano trasformando in piazze di spaccio. Poi noi siamo il Paese dei rimedi: la sentenza Torregiani ha condannato l’Italia per trattamento inumano, ma invece di aumentare i posti-letto si è scelto di aprire le celle per conteggiare anche il corridoio nello spazio vitale. Siamo giunti così alla vigilanza dinamica (a celle aperte, ndr) in cui la polizia penitenziaria è impossibilitata ad intervenire". Ciò ha diminuito la sicurezza interna alle carceri? "Sì. E non solo quella. Se la vita in carcere peggiora a farne le spese, in tutti i sensi, è anche la cittadinanza: quando un detenuto uscirà dal carcere peggiorato, aumenterà il tasso di recidiva. E lo stesso capiterà se diminuiremo il livello di sicurezza tra i reparti". Ha in programma incontri istituzionali con Regione, amministrazione penitenziaria e Asl su questo argomento? "Ci proveremo, ma quando si arriva a questi livelli di indifferenza istituzionale non so a che cosa serva incontrarsi. Come fa a non saltare agli occhi che un discorso di questo tipo non sta in piedi? Che stiamo tornando a spese del cittadino? Peraltro il Polo si apre in un carcere come Borgo San Nicola che non è proprio di facile gestione". Verona: trasferito il detenuto attenzionato per "ideologie jihadiste e reclutamento" di Angiola Petronio Corriere di Verona, 24 luglio 2017 È stato trasferito in un altro carcere il detenuto marocchino che ha aggredito due agenti della Polizia penitenziaria a Montorio urlando "Allah akbar". Da tempo è attenzionato per il suo radicalismo. Secondo livello. Quello dei carcerati "vicini alle ideologie jihadiste e attivi a livello di proselitismo e reclutamento". Così è stato inquadrato anche lui, dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E per quelle "idee" non solo era stato segnalato più volte, ma era anche attenzionato. È stato trasferito venerdì pomeriggio in un altro carcere, il detenuto marocchino che martedì pomeriggio aveva aggredito due agenti della polizia penitenziaria a Montorio urlando "Alla akbar". Quello che ha una sfilza di precedenti e che si sarebbe radicalizzato proprio in uno dei suoi tanti passaggi in carcere. Lo stesso che quell’aggressione l’avrebbe premeditata, tanto da essere andato ai due baschi azzurri con un coltello rudimentale che si era costruito in cella. Uno degli agenti ha riportato una frattura al braccio, l’altro contusioni guaribili in 15 giorni. Si erano alzate le barricate dei sindacati della polizia penitenziaria, su quell’attacco che poco prima era stato preceduto da un altro, con altri tre agenti feriti. La procura ha aperto un’inchiesta per lesioni e il Sappe aveva parlato chiaramente di volontà di "uccidere". Il giorno dopo, a smontare la ricostruzione era stata però la stessa direttrice del carcere, Maria Grazia Bregoli che aveva negato quelle frasi inneggianti al Profeta. Un dettaglio non da poco, il fatto che quelle due parole siano state pronunciate o meno. E l’"Allah akbar" che il marocchino avrebbe urlato, è stato riportato anche nei verbali delle guardie aggredite. Quella che è a dir poco una "discrasia" tra le due versioni adesso è diventata l’oggetto di un’interrogazione parlamentare a firma dell’onorevole del Pd Vincenzo D’Arienzo, che il giorno dopo l’aggressione aveva chiesto l’allontanamento da Montorio del detenuto con simpatie estremiste. Un’interrogazione che è una sciabolata alla direttrice di Montorio. Rivolgendosi al ministro della Giustizia "per chiarire l’accadimento", D’Arienzo si chiede se "il grave episodio del detenuto che ha tentato di uccidere alcuni agenti penitenziari inneggiando ad Allah è avvenuto o meno?". D’Arienzo, tra le righe dell’interrogazione in realtà si risponde già da solo. "Le affermazioni della direttrice rischiano di delegittimare agli occhi dei detenuti tutti la credibilità e la professionalità degli agenti interessati e di tutta la categoria. Ritengo doveroso fare chiarezza, non fosse altro perché certe situazioni mettono in pericolo, anche di vita, gli agenti"". D’Arienzo ha incontrato i rappresentanti sindacali. "Risulterebbe - dice - che il detenuto in questione sia stato oggetto nel tempo di alcune verbalizzazioni per le sue espressioni, tipiche del radicalismo di stampo islamico. Su carta sono stati verbalizzati anche i fatti di mercoledì ed in particolare l’aggressione al grido "Allah akbar". Possibile che questo non abbia significato, come dice la direttrice". Non resta altro che aspettare la risposta del ministro. E forse il "giallo" del detenuto integralista a Montorio si chiarirà. Verona: la nota della Conferenza Regionale Volontariato Giustizia del Veneto Ristretti Orizzonti, 24 luglio 2017 Esprimiamo solidarietà agli agenti di Polizia penitenziaria feriti nel tentativo di sedare una rissa tra detenuti nel carcere di Motorio mercoledì 19 luglio scorso. Condividiamo l’analisi del direttore Maria Grazia Bregoli, espressa nell’intervista sull’Arena di oggi, sulla complessità della vita detentiva nella Casa Circondariale di Verona e le difficoltà della convivenza tra detenuti di molteplici provenienze aggravate dal caldo, dalla inedia e dalla ripresa del sovraffollamento che affligge significativamente anche il carcere di Montorio. Crediamo fermamente nell’efficacia dei recenti provvedimenti adottati per migliorare la vita in carcere che, assieme a misure specifiche da adottarsi a seguito di eventi particolari, a strategie di contenimento del disagio e alla flessibilità ed adattamento alle diverse situazioni, concorrono alla sicurezza degli agenti e del personale dell’amministrazione e alla umanizzazione e responsabilizzazione dei detenuti, salvo episodi di intolleranza e violenza che condanniamo decisamente. La giustizia penale sta affrontando momenti difficili e contraddittori e tutti ne stanno soffrendo le conseguenze ma speriamo, mantenendo tutti coerentemente saldi gli obiettivi del recupero dei detenuti e della giustizia di comunità da costruire assieme. Le associazioni della CRVG sono sempre disponibili a concorrere e collaborare al miglioramento della vita dei detenuti e dei loro familiari e alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica per una giustizia a misura d’uomo/donna. Maurizio Mazzi, Presidente della CRVG Modena: "per noi carcerati fare spesa al Sant’Anna è davvero un furto" di Stefano Totaro La Gazzetta di Modena, 24 luglio 2017 Vengono contestati prezzi troppo alti su ogni genere. Frutta, pasta, carne e prodotti vari in linea coi supermercati. "Sì certo, io sono un ladro e per questo sono qui in carcere... però non mi va, proprio dentro a queste quattro mura, di essere "derubato". Chi si lamenta è un detenuto del carcere di Sant’Anna che, a nome di un nutrito gruppetto di colleghi italiani ha preso carta (un quaderno costa 1 euro) e penna (una Bic nera da 0,50) e ha scritto al nostro giornale lamentando che la spesa dei carcerati costa troppo. Prezzi salati, troppo alti quando, dicono "alcuni prodotti in commercio si possono acquistare a meno, a molto meno" e come esempio del "ladrocinio" a cui devono sottostare citano un fornellino da campeggio dal costo di 17 euro. Ma non solo, in pratica, con questa lettera, il gruppo di detenuti ci ha invitato a fare la spesa con loro, seguendo le regole ferree del penitenziario che prevedono una lista della spesa da consegnare in un giorno stabilito (il venerdì) e non oltre, con richieste che devono esaudire un fabbisogno personale di sette giorni e, soprattutto, che non devono sforare un tetto massimo di 150 euro. E si scopre che, come il supermercati hanno i loro volantini in cui indicano i prodotti più in voga, anche il Sant’Anna ha il suo "menù": ma non ci sono offerte speciali, non ci sono promozioni e "lanci" di questo o quel prodotto. Si tratta piuttosto di un anonimo listone, suddiviso per generi: alimentari, acqua, bevande, casalinghi, tabacchi, igiene personale, pasta, pulizia, bolli, cartoleria, sale, scatolame, fresco e latticini, surgelati, ortofrutta fresca, ortofrutta secca e legumi, macelleria e salumi, surgelati, gelati e quotidiani (che arrivano tutti i giorni tranne i festivi). Ogni prodotto ha il suo codice, ad esempio lo zucchero (1 chilo, costo 0,99) ha il 10, la Gazzetta di Modena il 403, i biscotti Ringo (165 grammi, costo 1,30) il 350. e come recita il regolamento "la richiesta di spesa va scritta sul quaderno di stanza o personale indicando in modo preciso il codice, il prodotto e la quantità. In mancanza o inesattezza del codice, l’articolo potrà essere annullato. Consegnare la richiesta di spesa entro la mattinata di ogni venerdì, il limite di spesa è di 150 euro, eventuali integrazioni che non siano scritte sul quaderno non saranno prese in considerazione. L’estratto conto viene consegnato ogni 15 giorni". Andiamo dunque a fare la spesa, tenendo conto che gli alimentari (pancarrè, olio, the, zucchero caffè) ci saranno consegnati al martedì così’ come i bolli e i tabacchi, al giovedì arrivano i prodotti di cartoleria, igiene personale e casalinghi vari mentre al mercoledì la carne, i salumi, la frutta e la verdura. E la pasta? Non c’è l’indicazione del giorno di consegna, per cui, come i giornali, è "quotidiana". E allora giusto iniziare con le tagliatelle Agnesi (1,23 euro, confezione 250 grammi) oppure i mitici tortellini Albert (1.20), un po’ di scorta di spaghetti sempre Agnesi (500 grammi, 0,95). L’olio extravergine ci vuole: 4, 85 euro, due etti di aglio ci costano 1,40 euro. Vogliamo farci un ragù? Allora mezzo chilo di macinato suino viene 2,75, quello di manzo 3,50, la cipolla rossa 0,70 (500 grammi) oppure dorata, un chilo, costa 0,85 euro. Le carote viaggiano a 0,45 per mezzo chilo così come il sedano. Poi volendo essere splendidi compriamo un arrosto di maiale da mezzo chilo con 3 euro e non ci facciamo mancare le patate: un chilo da 1,20 euro. Un po’ di frutta: mele stark (mezzo chilo, 0,80) o pere abate (1,45), un cornetto baby Sammontana da 1,50 euro e il caffè è Lavazza, 3,49 euro la confezione da 250 grammi. E da bere? Le bollicine vengono dalla Coca Cola, bottiglia un litro e mezzo da 1,55 euro o dalla minerale gassata San Benedetto, 0,42 euro il litro e mezzo. Ci laveremo i denti col Colgate da 2,04 euro, ci laviamo con la saponetta Dove da 1 euro, mentre per in piatti usiamo il Nelsen da 1,79. Poi una fumatina, le Malboro box rosse vengono 5.40, la carta igienica Lucart, otto rotoli, la compiamo a 4,85 euro. Insomma come si può vedere i prezzi sono più o meno in linea con quelli di un qualsiasi supermercato o ipermercato. Al Sant’Anna dunque si tengono questi standard. Un po’ troppo alti, ritengono alcuni detenuti. Volterra (Pi): detenuti psichiatrici, allarme spinelli. L’Asl fa denuncia e si apre il giallo di Ilenia Pistolesi La Nazione, 24 luglio 2017 Si indaga per capire come la droga sia entrata nella Rems. Quel che è certo è che la Asl Nord Ovest, di fronte alla pesante segnalazione presentata da un medico di turno, non ha potuto fare altro che rivolgersi alla Procura per sporgere denuncia. Ed ora saranno gli inquirenti a dover svelare l’arcano. Ovvero quando, ed in quale modo quelle canne siano riuscite tranquillamente ad oltrepassare quella muraglia di sbarre che stringe i reparti della Rems. Sì, proprio così: sulla residenza per le esecuzione delle misure di sicurezza cala il sospetto che qualcuno possa aver fatto entrare un po’ di fumo. Tanto che un medico di guardia si è insospettito nel momento in cui ha notato che uno dei pazienti (ricordiamo che la Rems non ospita certo "agnellini", ma persone che si sono macchiate di gravissimi delitti e reati) era in uno stato alterato e confusionale. Ed ha subito allertato la Asl. "Ovvio, a noi è venuto un grosso dubbio - ci spiega l’azienda sanitaria - ora sarà la Procura a far luce su questa vicenda ed a chiarire cosa sia realmente successo, e se davvero sia successo. Non siamo noi gli investigatori". Ovvero: ci sarà da capire se le canne se le siano procurate all’esterno gli stessi pazienti (sì, alcuni di loro godono di permessi di uscita), oppure, altro dubbio amletico, se il fumo sia arrivato nella struttura attraverso il personale sanitario. Che, con tanta incoscienza, si sarebbe acceso la canna durante il turno di lavoro per poi passarla al paziente, che dopo ha avuto un piccolo malore. Un vero e proprio giallo. Come è capitata quella canna nelle mani del ricoverato? Ed un fatto (che se verrà appurato, e solamente se verrà accertato, sia chiaro) da tacciare come gravissimo. Al momento siamo ancora, come ripete la Asl "nel campo di un sospetto". Certo. Ma un episodio (che, da quanto appreso, sarebbe capitato in piena notte), sul quale aleggiano diversi punti interrogativi. La Rems, lo ricordiamo, ospita attualmente una trentina di persone. A differenza dei superati ospedali psichiatrici giudiziari o delle patrie galere, nella struttura non esistono fili spinati, manette e via dicendo. Ci sono robuste inferriate all’esterno. Esiste un servizio di vigilanza e di telesorveglianza collegato direttamente ai centralini delle forze dell’ordine. E le telecamere che vigilano sul padiglione volterrano potrebbero dare una bella mano per capire cosa davvero sia successo. Santa Maria Capua Vetere Carcere (Ce): "troppe uscite per ricoveri in strutture sanitarie" di Marilù Musto Il Mattino, 24 luglio 2017 Picchiato, insultato e spedito in ospedale. Lui, la vittima, l’agente di polizia penitenziaria aggredito in carcere da un detenuto, si dice che svolgesse il lavoro di due unità e che fosse il responsabile di due reparti. Per forza. Perché in estate l’organico degli agenti è ridotto all’osso e la situazione precaria in cui si trova il carcere di Santa Maria Capua Vetere, senz’acqua e con energia elettrica a singhiozzi, è esplosiva. In queste condizioni era inevitabile che la goccia facesse traboccare il vaso: così, un detenuto non ha retto. Inevitabilmente. L’aggressione si è verificata nel reparto "Nilo", uno dei più rischiosi e delicati settori del carcere; il "Nilo" accoglie detenuti che sono stati condannati in primo grado e che arrivano per la prima volta dietro le sbarre. Custodisce, quindi, coloro che non sono ancora abituati a sottostare alle regole rigide del carcere. Ed è accaduto il "prevedibile". L’agente, giunto in cella per evitare una lite fra due occupanti, è rimasto ferito. Solo due giorni fa, nel carcere di Verona diversi poliziotti erano rimasti coinvolti in una rissa dopo le intemperanze di alcuni detenuti nordafricani con delle aggressioni nel nome di Allah. Non è dunque la prima volta che si registrano aggressioni nelle case circondariali in Italia. In ogni caso, Santa Maria subisce una serie di disfunzioni che pesano sulla comunità carceraria: da anni, in estate, i detenuti vivono senz’acqua per alcune ore del giorno e questa condizione va avanti senza che il Ministero della Giustizia s’interessi a tutto questo. Sono stati sbloccati i fondi per due milioni di euro dalla Regione Campania, ma i lavori sono fermi al palo. In realtà, il blocco deriva da lungaggini burocratiche; il procedimento si è infatti inceppato al Comune di Santa Maria Capua Vetere. Entro ottobre, stando alle dichiarazioni del sindaco Antonio Mirra, dovrebbe essere pronto il progetto per la creazione di una condotta che porti direttamente al carcere senza utilizzare la rete idrica comunale. E pensare che l’agibilità della struttura, oltre 30 anni fa, venne concessa senza che probabilmente ci fossero i parametri per rilasciarla. "Nonostante gli enti territoriali abbiano provveduto a finanziare l’opera, non si riesce ad assicurare un puntuale assolvimento delle attività di competenza comunale". Questa l’accusa dei consiglieri comunali del Pd Umberto Pappadia e Francesco Di Nardo che, con un’interrogazione consiliare, venti giorni fa puntarono il dito contro il Comune a cui addossarono l’intera responsabilità dei ritardi nell’affidamento del progetto di creazione della condotta idrica con accesso all’acqua corrente. "Il Comune avrebbe dovuto, in tempi brevi, assicurare tutti gli adempimenti per l’avvio dei lavori ‘ sono le parole dei consiglieri - ebbene, dopo aver impiegato ben 4 mesi per approvare il bando di gara per la progettazione, non è riuscita, nei successivi 6 mesi, nemmeno ad aggiudicare la progettazione". Troppi detenuti inviati d’urgenza negli ospedali e altri luoghi di cura e che poi fanno rientro nell’istituto di pena dopo breve tempo, molto spesso nella stessa giornata, mettendo così in grave difficoltà la polizia penitenziaria che deve affrontare nel periodo estivo il problema di ridimensionamento degli organici. A denunciare una delle numerose criticità legate alla carenza di personale nel distretto penitenziario napoletano e nelle carceri casertane di Santa Maria Capua Vetere e Carinola, è l’Unione Sindacale di Polizia Penitenziaria (Uspp) con una nota del segretario regionale Ciro Auricchio. "È doveroso spiega Auricchio - che il commissario straordinario della Sanità in Campania (Vincenzo De Luca), nonché l’Asl, prendano a cuore la problematica per scongiurare l’ipotesi che siano messi in uscita detenuti, anche pericolosi, senza una fondata urgenza. Uno o più ricoveri urgenti giornalieri determinano la necessità di organizzare a vista due, tre o più scorte di Polizia Penitenziaria". "Per quanto rappresentato conclude Auricchio chiediamo di acquisire i dati degli invii con rito d’urgenza". Sala Consilina (Sa); sulla chiusura del carcere il Sindaco Pd attacca Orlando di Pasquale Sorrentino Il Mattino, 24 luglio 2017 Il sindaco Francesco Cavallone chiede la testa del ministro alla Giustizia, Andrea Orlando. "Si deve dimettere, danneggia il nostro territorio e non solo", ha tuonato il primo cittadino di Sala Consilina. L’ultima scintilla dopo la notizia che il Ministero sceglierà come carcere nell’area del Tribunale di Lagonegro una struttura tra quella della stessa cittadina lucana o Chiaromonte. Una notizia emersa in seguito alla risposta da parte del Ministero alla richiesta del presidente del Tribunale, Zarrella, sulla istituzione di un carcere nella zona di pertinenza del Tribunale. La messa a disposizione di un carcere è necessario nell’area del Tribunale e proprio su questo buco il Comune di Sala Consilina al momento della chiusura del carcere aveva pressato. "Abbiamo - aveva detto all’epoca lo stesso Cavallone - una struttura in buone condizioni e che necessita solo di alcuni interventi già progettati per rispondere alle esigenze richieste". Una spesa di circa centomila euro. Ma nei giorni scorsi la risposta del Ministero e le due opzioni presentate al presidente Zarrella ha mandato su tutte le furie il sindaco Cavallone. "Finora - ha urlato ai microfoni - il nostro Ministro, nostro si fa per dire non ne ha fatta una giusta. È evidente che non sa gestire il suo ministero e di non conoscere il territorio". Un derby all’interno del Pd, considerata l’area di pertinenza anche del sindaco di Sala Consilina, che già in passato aveva polemizzato contro i vertici del partito per la mancanza di sostegno verso il Vallo di Diano depauperato più volte da servizi e strutture. Basti ricordare che il trasferimento del Tribunale di Sala Consilina a Lagonegro è stato l’unico caso in Italia di annessione extraregionale. Occorre anche dire che in diversi tra sindaci e politici hanno protestato, ma mai si è potuto vedere, nel Vallo di Diano, un’azione di forza coesa tra amministratori e anche cittadini (poco presenti durante i vari scippi). Medesimi episodi, poi, sono avvenuti per l’ospedale di Polla-Sant’Arsenio. Un esempio recente su tutti: il reparto di Psichiatria è stato trasferito dalla struttura di Sant’Arsenio a quella di Vallo della Lucania con la promessa - scritta - che a Polla si sarebbe attivato un servizio per i casi più estremi e urgenti (Tso). che è stato descritto dallo psichiatra Eugenio Borgna nel libro "Le passioni fragili", che fa riferimento ad una società autistica, in cui le famiglie non hanno più spazio per la comunicazione e vivono all’interno di "cellule chiuse", come i nostri cellulari. Come contraltare di questo modello chiuso, appunto, il desiderio di fare tutto alla luce del sole o, almeno, davanti alla fotocamera di un cellulare, davanti ai propri followers, in un gioco di sovraesposizione mediatica che riflette, come davanti ad altrettanti specchi, le immagini, che rimbalzano fra Instagram, Facebook, Twitter e i centomila altri famigerati social. Anche a Salerno impera il protagonismo giovanile in quella che solo apparentemente sembra una contraddizione, fra chiusure domestiche e incapacità di comunicare le emozioni da un lato e la spettacolarizzazione di ogni più piccola azione dall’altro. Forse, molto semplicemente, visto che stiamo comunque parlando di ragazzi e ragazze di circa trent’anni e non di adolescenti, ci ritroviamo a raccontare l’ennesima fragilità della nostra società, che ha visto dilatarsi all’infinito il tempo della giovinezza. Ci ritroviamo, cioè, a mettere il dito nella piaga della mancanza di quel protagonismo giovanile che solo una vita pienamente realizzata può evidenziare. Alba (Cn): la situazione del carcere torna sui banchi del Consiglio comunale di Alessandro Prandi targatocn.it, 24 luglio 2017 Quali sono le conseguenze? Come si intende procedere? A queste domande, hanno provato a rispondere i consiglieri della quarta commissione, tutti d’accordo senza divisioni di partito, attraverso un ordine del giorno presentato nello scorso consiglio comunale. Sono trascorsi 17 mesi dalla chiusura del Carcere Montalto di Alba, era il mese di gennaio 2016. Ad oggi è stata esclusivamente riaperta la sezione destinata ai collaboratori di giustizia e non l’ala principale. Quali sono le conseguenze? Come si intende procedere? A queste domande, hanno provato a rispondere i consiglieri della quarta commissione, tutti d’accordo senza divisioni di partito, attraverso un ordine del giorno presentato nello scorso consiglio comunale. "I fondi sono stati stanziati dal dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, secondo il piano 2016-2018, e pertanto vanno utilizzati; il numero di reclusi per la sezione collaboratori di giustizia è troppo alto per lo spazio; l’ala principale rischia di deteriorarsi; il costo pro-capite per ristretto aumenta; nonostante le numerose sollecitazioni non si hanno avuto risposte concrete sulle tempistiche e non sono state rispettate quella annunciate", hanno indicato i consiglieri. Per cui è stato richiesto al sindaco e alla giunta di farsi promotrice al Ministero della Giustizia e nella figura dell’Onorevole Andrea Orlando affinché venga ricevuto, nel minor tempo possibile, il cronoprogramma dei lavori. Ma non è tutto. Nella mattina di ieri, sabato 22 luglio, Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti, e Alessandro Prandi, garante comunale del detenuti, hanno visitato la casa di reclusione accompagnati dalla direttrice Giuseppina Piscioneri. Si conferma lo stato di difficoltà in cui versano i 50 reclusi a causa della ristrettezza degli spazi. "Parrebbe essere intenzione della direzione del Carcere di operare una riorganizzazione ed un adeguamento degli spazi comuni che se attuati porterebbero degli effettivi benefici", ha dichiarato Prandi. La visita dei Garanti era stata preannunciata in vista dell’incontro fissato a Roma, per la prossima settimana, con il Presidente del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo. Verso le ore 11 ha raggiunto la delegazione il nuovo Provveditore Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta Liberato Guerriero alla sua prima visita ad carcere piemontese. "Tra l’altro, in settimana, è probabile che le questioni relative al carcere di Alba ritornino in Parlamento, su iniziativa dell’onorevole Mariano Rabino, durante il question time alla Camera. La visita ha consentito di mettere a fuoco alcuni interventi realizzabili nel breve-medio periodo su cui i garanti si impegnano a vigilare", ha concluso Prandi. Cassino (Fr): "In carcere prima della Prima", incontro tra cinema e detenzione temporeale.info, 24 luglio 2017 Si intitola "In carcere prima della Prima" l’interessante progetto che unisce storia, cinema e la detenzione curato dalla psicologa Daniela Attili che ha coinvolto il Ventotene Film Festival per la proiezione di una pellicola all’interno della Casa circondariale di Cassino. Domani, lunedì 24 luglio, alle ore 10,30 si terrà la proiezione del film "Fiore" con la partecipazione del regista Claudio Giovannesi e dell’attrice Daphne Scoccia. Un incontro ravvicinato con i detenuti del Carcere di Cassino con i protagonisti dell’ultima stagione cinematografica aperto anche al dibattito dei presenti. Seguirà un secondo appuntamento il prossimo 26 luglio, alle ore 22, ma sull’isola di Ventotene presso il Giardino Archeologico con la premiazione del concorso Open Frontiers, al quale parteciperà una piccola delegazione di detenuti del Carcere di Cassino che si sono particolarmente distinti per legalità, integrazione razziale rispetto della diversità in tutte le declinazioni. "Tre sono gli elementi - si legge nel progetto - che si coniugano in questo progetto: la storia, il cinema e la detenzione, sorretti dall’idea che non ci può essere Democrazia né sicurezza in una società che cerca di eliminare i suoi mali chiudendoli a chiave da qualche parte. Così è stato ed è per la malattia mentale e così è stato ed è per il crimine. Ri-assumersi la responsabilità collettiva di ciò che non va è il passo indispensabile per porvi rimedio. Per questo l’apertura a quei mondi che storicamente abbiamo tenuto "separati" assume una vitale importanza. Eugenio Perucatti fece costruire un cinema nel carcere di Santo Stefano negli anni 50 del secolo scorso aprendolo a tutti i cittadini non detenuti; negli anni ‘90 Loredana Commonara riporta il Cinema a Ventotene con il "Ventotene Film Festival"; nel 2017 potremmo portare il Ventotene Film Festival all’interno del Carcere di Cassino, almeno per un giorno, aprendo di nuovo ai detenuti e ai non detenuti questo spazio di cultura ed integrazione che il cinema sa offrire. Il giorno dell’inizio del Ventotene Film Festival, la pellicola e i protagonisti della prima giornata (critici, attori, registi) faranno sosta nel Carcere di Cassino, proiettando il film in programma e discutendone con i detenuti e gli ospiti presenti. Sarà presente il Dr. Antonio Perucatti, autore del libro Quel "criminale" di mio padre, figlio appunto di Eugenio famoso ed illuminato direttore del Carcere di Santo Stefano. Sarà poi invitata una piccola delegazione di detenuti del Carcere di Cassino che si sono particolarmente distinti per legalità, integrazione razziale rispetto della diversità in tutte le declinazioni, alla serata di premiazione "Open frontiers" del Festival a Ventotene. La storia - Quando all’inizio degli anni 50 Eugenio Perucatti approdò sul piccolo ed impervio isolotto di S. Stefano per dirigere lo "stabilimento penitenziario" per ergastolani trovò una situazione disastrosa; sull’isolotto mancava tutto, dall’elettricità alle fogne all’acqua corrente, e l’edificio, gioiello architettonico unico al mondo, costruito in epoca borbonica, cadeva letteralmente in pezzi. Tutto era sudicio ed in abbandono. Ma ciò che colpì sopra ogni cosa l’illuminato funzionario dello Stato era che centinaia di uomini trascorrevano i loro interminabili giorni rinchiusi in anguste celle in totale inattività, ed ognuno di loro aveva lo stesso fine pena: mai! Il suo impegno da quel momento in poi fu uno solo: trasformare quel lugubre luogo senza prospettive in un luogo di riabilitazione morale dando finalmente agli ergastolani la dignità di uomini. Iniziò un’opera di ristrutturazione profonda in tutti i sensi, animato da una passione incrollabile e fondandosi sul principio del rispetto della dignità umana e su quelli della Costituzione. Insieme ai suoi collaboratori e soprattutto ai detenuti rese Santo Stefano un esempio di efficienza ed armonia tra persone. In meno di due anni il carcere fu dotato dei servizi ed attività impensabili per quei tempi tra cui l’infermeria, la centrale elettrica, passando per la foresteria atta ad accogliere i familiari dei detenuti. Tutti lavoravano, e tutti avevano il diritto di riposare adeguatamente, di nutrire il corpo, la mente e l’anima. C’era naturalmente una cappella così come un campo di calcio ed una sala cinema, il mitico Cinema Alcor che proiettava film storici e comici. Fu un incredibile, grande successo riconosciuto da accademici nazionali ed internazionali, da politici, giornalisti e dalla Chiesa. Ma al Direttore ancora non bastava, voleva aprire il penitenziario non solo alle famiglie dei detenuti ma a quella che ora noi chiamiamo la Società Civile. E lo fece. La popolazione di Ventotene, che dista da S.Stefano meno di un miglio, naturalmente diffidente e spaventata dalla massa di terribili galeotti che risiedeva nel carcere iniziò ad essere sempre più coinvolta negli eventi che sapientemente il Direttore Perucatti sapeva organizzare, e tra una partita di calcio commentata a bordo campo addirittura da Nicolò Carosio, uno sposalizio e la proiezione di un film al Cinema Alcor realizzò quella vicinanza tra le due Isole, tra loro ed il continente, tra Noi e Loro, tra "dentro" e "fuori", che rimane tuttora una meta lontana nei nostri Penitenziari nonostante il moltiplicarsi delle iniziative negli ultimi anni in questa direzione. È dalla lettura di Quel "criminale" di mio padre la riforma del carcere di S. Stefano, una storia di umana redenzione di Antonio Perucatti (figlio minore di Eugenio che ha trascorso in quel penitenziario gran parte della sua infanzia) Ed. Ultima Spiaggia, che vengono le informazioni sopra riportate ma anche una rinnovata energia a spingere un’antica idea di un gemellaggio Cassino - Ventotene - S. Stefano. Il carcere borbonico è stato chiuso nel 1965 ma i valori ed i metodi di Eugenio Perucatti sono ancora di grandissima attualità. Dopo la sua chiusura è la Casa Circondariale di Cassino che in qualche modo ne ha ricevuta l’eredità sia per contiguità territoriale che per essere custode del preziosissimo archivio storico documentale del Carcere di S. Stefano. Il cinema - Da oltre vent’anni c’è un altro autorevole personaggio, Loredana Commonara, anche lei mossa dai valori di rispetto della dignità della persona che è impegnata a promuovere, con autentica passione, l’amore per questi scogli e per il cinema attraverso il Ventotene Film Festival, un evento culturale che rappresenta un importante momento di aggregazione e di approfondimento e che vede la presenza di ospiti nazionali, europei ed internazionali durante le proiezioni. Il Festival si arricchisce ogni anno di più e Il Premio Vento d’Europa, istituito nel 2013 in occasione dei 70 anni dalla nascita del Movimento Federalista Europeo fondato da Altiero Spinelli, uno dei padri fondatori dell’Unità d’Europa in confino a Ventotene, si inserisce nella rassegna cinematografica, proprio in virtù del grande valore europeo e culturale della piccola isola del Tirreno. Nel 2014 il Premio ha celebrato anche i 70 anni dalla nascita del Manifesto di Ventotene redatto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Ursula Hirschmann ed altri durante il periodo di confino trascorso sull’isola. Dal 2016 è attivo il Concorso Internazionale #Open Frontiers# riservato a docu-film legati all’Europa, alla legalità, alla cittadinanza attiva, alla democrazia, alla integrazione razziale con una giuria di studenti presieduta da Giulio Scarpati (per il 2016). Il sito del Ventotene Film Festival: www.ventotenefilmfestival.com La Detenzione - Quando Perucatti mise in pratica i suoi principi riabilitativi e rieducativi dei condannati alla reclusione non era tutelato da nessuna legge, anzi per essere fedele alle sue convinzioni spesso era costretto a derogare alcune regole sovradeterminate. Evidentemente i tempi non erano maturi e la sua era la sola voce fuori dal coro, ed infatti il suo operato venne affossato nel 1960 con il suo trasferimento e con il ripristino del più oscurantista dei regolamenti, amministrato in modo repressivo e vessatorio. Tutto ricadde nell’abbandono, le antiche splendide strutture ma soprattutto si perse irrimediabilmente quel rapporto basato sul rispetto e la fiducia tra esseri umani, seppur nel rispetto dei loro ruoli, che tanto aveva saputo generare di buono in quegli anni. Dopo 60 anni quei principi sono diventati legge, e la legge recita chiaramente che l’obiettivo della privazione della libertà è il recupero ed il reinserimento del reo nella società civile e nella legalità. È con estrema lentezza che si cerca di procedere in questa direzione ed ancora oggi siamo lontani dal poter garantire ad ogni recluso nel nostro Paese un reale percorso riabilitativo fatto prima di tutto di istruzione e di lavoro e di aperture verso l’esterno. Cionondimeno in molti penitenziari nazionali è ormai prassi consolidata la realizzazione di eventi e l’approvazione di progetti culturali, certi che solo l’arte e la cultura possano gettare le fondamenta su cui costruire un percorso di recupero e ricostruzione di se stessi. La Casa Circondariale di Cassino diretta dalla Dott.ssa Irma Civitareale si è saputa aprire al territorio e cerca da tempo di promuovere eventi culturali aperti al pubblico e di partecipare alla vita del territorio grazie, ad esempio, all’istituto dei permessi premio. Da alcuni anni è attivo un interessante Laboratorio Teatrale che ha portato in scena con notevole successo alcuni lavori come "Le città invisibili" di Italo Calvino condotto dalla regista Paola Iacobone e l’Istituto è sempre disponibile ad accogliere tutto quanto di valore può aiutare il percorso di recupero e reinserimento dei detenuti. L’ultima occasione è arrivata dal regista Fabio Cavalli che ha realizzato un cortometraggio "Naufragio con spettatore" sulla condizione dei migranti di cultura islamica approdati nelle nostre carceri, che ha vinto alcuni prestigiosi premi tra cui la menzione speciale della Giuria del Festival del Cinema di Venezia. L’opera è stata realizzata per la sua parte musicale con il contributo di due detenuti del carcere di Cassino dove sono state registrate le tracce audio poi utilizzate per il cortometraggio. Il 19 dicembre scorso l’opera è stata presentata ai detenuti in Istituto alla presenza dell’autore e di numerose autorità. È stato un incontro commovente e arricchente che ha certamente fatto riflettere tutti i presenti. Ed è in virtù di questa dimostrata apertura e di quanto sopra affermato che questo Istituto si conferma quanto mai adeguato ad accogliere la prima giornata del Ventotene Film Festival nell’auspicio che possa nascere una collaborazione nel tempo più ampia". Migranti. Gli errori sullo ius soli: le leggi non sono uno slogan di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 24 luglio 2017 La cittadinanza automatica a chi nasce qui non era prevista. Ma nessuno lo ha detto. "La buona merce bisogna anche saperla vendere", raccomandava Silvius Magnago. Ma come potrebbe mai uno come Matteo Renzi seguire i consigli lasciati dal mitico leader sudtirolese? E insiste sullo "ius soli", "ius soli", "ius soli". Un’insistenza suicida. Che sventola il drappo rosso sul muso del toro razzista e fa danni a una battaglia sulla cittadinanza sacrosanta e condivisa, con le parole giuste, da milioni di italiani. Certo, il segretario pd sa bene che la legge arenatasi al Senato è semmai uno "ius soli temperato", mediato con lo "ius culturae", e ogni tanto si ricorda perfino di sottolinearlo. Ma in un mondo in cui Twitter, gli slogan lampo e la sintesi estrema del digitale faticano a tollerare le parole un po’ lunghette, uno come lui finisce fatalmente per serrare idee complesse in formule così sincopate da rischiare lo stravolgimento. Dirà: non sono io ma gli altri a sintetizzar tutto nelle tre sillabe "ius soli". Non è così. Lo dicono i suoi tweet. Lo dicono i suoi video. Tre giorni fa al Mattino di Napoli: "Lo ius soli è un dovere sacrosanto…". Testuale. Senza precisare che la legge non darebbe affatto la cittadinanza automatica a chi nasce qui in Italia e che sarebbero comunque previsti vari paletti come l’obbligo per i genitori dei bambini che chiedono la cittadinanza di avere in tasca il permesso di soggiorno di lungo periodo o il requisito che il minore abbia completato un ciclo scolastico e così via. Condizioni alle quali sarebbe opportuno aggiungere ritocchi come quelli suggeriti da Ernesto Galli della Loggia per correggere certe storture, come l’assenza di ogni "accertamento preliminare circa la conoscenza né della nostra lingua, né dei costumi, né delle regole, né di niente della società italiana". Una concessione, insomma. Priva del "forte rilievo simbolico che invece sarebbe stato giusto conferirle". E priva soprattutto di qualunque impegno dell’aspirante cittadino italiano nei confronti dell’Italia. A farla corta: buttar lì la frase "lo ius soli è un dovere sacrosanto…" senza il minimo distinguo è un errore. Grossolano. Perché dà per scontato che tutti gli italiani (ma quando mai!) conoscano quei distinguo. Perché rafforza le tesi di chi, per motivi di bottega, cavalca la tigre xenofoba con toni belluini: "Loro stessi chiamano la legge per quella che è: l’imposizione dello ius soli!". Ma più ancora semina dubbi, in un momento di massima tensione per gli sbarchi (vallo a spiegare che le due cose sono distinte) tra milioni di cittadini che erano largamente a favore a una apertura. Rileggiamo il comunicato dell’11 luglio 2012: "Il 72,1% degli italiani è favorevole al riconoscimento alla nascita della cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati nel nostro Paese. Il91,4% ritiene giusto che gli immigrati, che ne facciano richiesta, ottengano la cittadinanza italiana dopo un certo numero di anni di residenza regolare nel nostro Paese". Eppure c’erano già allora gli sbarchi (meno, ma c’erano: oltre 60mila nel 2011), già allora le polemiche sui soldi dati a cooperative e albergatori, non di rado squali affamati, che si offrivano di ospitare i profughi, già allora i seminatori di odio razzista dediti a cavalcare elettoralmente le paure. Dice oggi Matteo Renzi, dopo il sondaggio Ipsos di Nando Pagnoncelli che ha visto il crollo dei favorevoli al 44%: "Non rinuncio a un’idea per un sondaggio". Ma il punto è: come è stato buttato via quel patrimonio di buon senso degli italiani che sapevano distinguere benissimo tra il tema dei bambini nati in Italia e quello delle ondate di sbarchi? Non sarà anche per i toni muscolari con cui si è cercato di far passare pure questa legge (la minaccia della fiducia!) e per l’incapacità di usare le parole giuste? Anche chi è assolutamente favorevole a una legge sulla cittadinanza, sacrosanta, può legittimamente essere contrario allo ius soli così come storicamente inteso: è cittadino di un paese chiunque nasca in quel paese. Non ora, non qui, non alle prese con fenomeni demografici che preoccupano anche gli studiosi meno ansiosi e spaventano larghissima parte degli italiani. Da rassicurare e convincere. La storia del resto, come spiegano Graziella Bertocchi e Chiara Strozzi nel saggio "L’evoluzione delle leggi sulla cittadinanza: una prospettiva globale", dimostra che non esiste un sistema perfetto. In vari paesi africani dopo l’indipendenza, compreso il Congo di Cécile Kyenge che per prima seminò sconcerto parlando del passaggio dallo "ius sanguinis" allo "ius soli" senza spiegare "come", chi aveva lo ius soli l’abolì all’istante per passare allo ius sanguinis prevedendo in vari casi l’"obbligo" di pelle nera. Una ripicca razzista al razzismo dei colonizzatori. I numeri dicono che nel 1948 lo ius soli, scrivono le due studiose, era "applicato nel 47% circa dei paesi (76 paesi su 162), lo ius sanguinis nel 41% (67 paesi)" e il misto nel 12% rimanente. Tra i paesi dove il neonato nel territorio patrio era automaticamente un cittadino c’erano allora "gli Stati Uniti, il Canada, tutti i paesi dell’Oceania, la maggior parte dei paesi dell’America Latina, le colonie inglesi e portoghesi in Africa e Asia e, in Europa, Regno Unito, Irlanda e Portogallo". Da allora però solo gli States hanno conservato lo ius soli puro. Gli altri, spiegano ancora Bertocchi e Strozzi, davanti alle paure per le ondate migratorie che rischiavano di scatenare reazioni xenofobe destinate a nuocere agli stessi immigrati, hanno cambiato via via le regole. Meglio il sistema misto. Un percorso di buon senso imboccato sul fronte opposto da tanti paesi dove vigeva lo ius sanguinis. Fatto sta che dopo l’abbandono dello ius soli puro in Irlanda, la maggioranza dei paesi europei vede oggi un sistema misto. Più o meno aperto, ma misto. Un punto però appare chiarissimo a chi abbia a cuore il diritto alla cittadinanza, con regole sagge e certe, di chi già è di fatto e si sente italiano. Lo scrive su lavoce.info di tre anni fa, profetica, la stessa Graziella Bertocchi: "Non starò qui a ripetere i tanti buoni motivi per introdurre elementi di ius soli. Una raccomandazione che però mi sentirei di fare è di introdurre innovazioni solo se largamente condivise". "Solo se". Così che possano "sopravvivere agli sviluppi politici per anni e anni a venire". In tutta onestà: se lo sono posti davvero tutti, questo obiettivo. Terrorismo. Legge anti-radicalizzazione, cosa prevede il nuovo testo di Lorenzo Bodrero lettera43.it, 24 luglio 2017 La Camera dà il via libera al ddl. Che punta a introdurre misure di prevenzione ad ampio raggio, anche nelle carceri. Ma cita solo il jihad. Tralasciando derive xenofobe e insurrezionaliste. È arrivato l’ok della Camera alla proposta di legge sulle "misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento di matrice jihadista" (251 favorevoli, con il "no" di Forza Italia, M5S e Lega). Il voto del 18 luglio ha dato così il via libera alla realizzazione di un programma nazionale che favorisca la prevenzione, ma anche la deradicalizzazione, sotto gli aspetti culturale, educativo e lavorativo dei soggetti coinvolti, italiani e non. Contrastare solo lo jihadismo. Il provvedimento approvato va a integrare e completare il dispositivo di contrasto al radicalismo integralista lanciato con il decreto antiterrorismo del 2015. In altre parole, non più solo repressione fatta di inchieste, arresti, espulsioni e azioni di intelligence. A breve, una volta ricevuto il benestare del Senato, l’Italia si doterà di strumenti capaci di andare a contrastare il germe del jihad prima ancora che attecchisca. Per farlo, verranno coinvolti attori pubblici (la scuola, anzitutto) e soggetti della società civile: educatori, rappresentanti del mondo islamico, dell’accoglienza, operatori socio-sanitari e dei servizi sociali. Ma vediamo più nel dettaglio i principali punti all’interno del provvedimento. Regia nazionale, pratica locale. Verrà istituito il Centro Nazionale sulla Radicalizzazione (Crad). Gestito dal Dipartimento delle libertà civili e dell’immigrazione del Ministero dell’Interno, il Crad fungerà da cabina di regia nazionale e dovrà stilare un piano strategico approvato dal Consiglio dei ministri. L’operatività sarà invece in mano ai Centri di coordinamento regionali sulla radicalizzazione (Ccr) che saranno in capo alle prefetture dei capoluoghi di regione. Sono previste attività volte a formare il personale delle forze di polizia, della magistratura, delle scuole e delle università. Non solo corsi di lingua ma anche nozioni in ambito storico e culturale. All’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’intercultura spetterà l’elaborazione di linee guida sul dialogo interculturale e interreligioso, ispirandosi a quanto prevede il piano strategico nazionale del Crad. La Rai provvederà alla creazione di una piattaforma multimediale su cui trasmettere prodotti informativi e formativi in italiano e in arabo, nonché il lancio e la diffusione di campagne di informazione. Monitorare e rieducare i detenuti. Una marcata attenzione è dedicata agli internati. Sentito il Garante dei detenuti, verrà stilato un piano nazionale di intervento per prevenire la radicalizzazione all’interno delle carceri e rieducare coloro che già hanno dato segni di estremismo. Secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al momento nelle carceri italiane sono rinchiuse 45 persone condannate per terrorismo internazionale. Nella cosiddetta "relazione Vidino", da cui la proposta di legge ha trovato forte ispirazione, si afferma che dei 56.436 detenuti presenti nelle carceri italiane, 345 (lo 0,6%) sono attualmente sotto osservazione per legami con il terrorismo, 153 quelli classificati ad alto rischio di radicalizzazione. Sette foreign fighter in Italia. Secondo i dati del ministero dell’Interno, gli arresti per terrorismo nel 2016 sono stati 34. Con l’espulsione di un cittadino marocchino lo scorso 14 luglio, le espulsioni dal gennaio 2015 a oggi per persone gravitanti in ambienti di estremismo religioso sarebbero 196 (64 dall’inizio dell’anno). I foreign fighter collegati con l’Italia sono invece 110 (contro i 1.500 della Francia, i 1.000 della Germania e i 500 del Belgio) di cui solo sette sarebbero tornati (i cosiddetti returnee) e si troverebbero sul nostro territorio. Il terrorismo islamico in Italia è evidentemente contenuto. La tendenza è però in crescita sia nelle carceri (dove fonti interne registrano un aumento di attività di proselitismo) sia all’esterno. È questo uno dei punti su cui batte la commissione, guidata da Vidino, che in quattro mesi ha stilato una relazione destinata al Ministero dell’Interno: "Un insieme di elementi - da tensioni sociali interne dovute anche al massiccio influsso di rifugiati, agli sviluppi sullo scacchiere geopolitico globale, dalla presenza di nuovi carismatici leader islamisti, all’introduzione da parte di alcuni stati di propaganda di stampo islamista nel nostro Paese - potrebbe far mutare gli equilibri finora visti". Elementi che si aggiungono a due incroci storici fondamentali: nei prossimi anni infatti "vedremo un aumento della popolazione islamica nella fascia di età critica, sia per la più folta presenza di una generazione di musulmani nati e/o cresciuti in Italia sia tramite i nuovi arrivi dovuti al flusso migratorio". Una risposta alternativa. La relativa quiete che il nostro Paese attraversa rappresenta dunque il momento migliore per intervenire "con misure volte a favorire l’integrazione e prevenire la radicalizzazione di questo gruppo", scrive la commissione. Cosa fare con un soggetto che non compie alcuna attività penalmente rilevante ma che, comunque, è evidentemente radicalizzato? Con il provvedimento approvato alla Camera, l’Italia ha finalmente una risposta a questa domanda. Che è poi ciò che stanno facendo la maggior parte dei Paesi membri da diversi anni (l’Italia era tra le sole quattro nazioni europee a non avere ancora un programma di prevenzione alla radicalizzazione violenta), con esempi virtuosi in Gran Bretagna, Danimarca, Olanda e Norvegia. Riferimento a un solo estremismo. Non erano in pochi ad augurarsi che prima dell’approvazione alla Camera venisse rimosso il riferimento al solo estremismo di matrice jihadista, così da allargare il contesto di azione della legge e includere il contrasto a tutti gli estremismi violenti (si pensi a quello anarchico-insurrezionalista e a quelli di estrema destra). La porta rimane però aperta. "Il disegno di legge, anche in conseguenza degli emendamenti accolti, contiene l’esplicita previsione di un impegno per promuovere il dialogo interreligioso e interculturale e per contrastare ogni forma di discriminazione, tra cui l’islamofobia", ha affermato a Lettera43.it Andrea Giorgis, deputato Pd e membro della Commissione per gli affari costituzionali. Cyberbullismo. Su Instagram la campagna degli YouTuber: "Ragazzi, parlatene" La Repubblica, 24 luglio 2017 Gli YouTuber vanno su Instagram. Per una buona causa: dire no al cyberbullismo. "Ragazzi, parlatene", è l’invito della campagna dedicata ai più giovani. Un seguito del video #cyberesistance, che ha ottenuto grande successo: 3milioni di visualizzazioni in pochi giorni. Così Web Stars Channel, il direttore della Casa Pediatrica dell’Ospedale Fatebenefratelli Luca Bernardo, il papà di Carolina Picchio (la ragazza suicidatasi dopo essere stata bullizzata), e l’avvocato Marisa Marraffino, confermano il loro impegno per dare continuità all’iniziativa di sensibilizzazione sul cyberbullismo. Dopo LaSabriGamer, Giulia Penna, Jack Nobile, Cesca e Klaus (protagonisti del video pubblicato sul canale di LaSabriGamer il 18 giugno) sono i MATES a comunicare ai ragazzi che possono finalmente parlare senza paura né vergogna. Su Instagram, ognuno di loro, sta pubblicando, una foto mostrando il proprio volto o la mano o un pezzo di carta con su scritte tutte quelle parole che possono ferire e uccidere. I fan hanno raccolto l’invito a fare altrettanto. E stanno postando le loro foto o video raccogliendo "le parole che fanno più male delle botte", dichiarando che "Non siamo le parole di altri", "possiamo parlare", "dobbiamo parlare". "Dopo la pubblicazione del video abbiamo ricevuto e letto tantissimi messaggi di ragazzini che raccontavano la loro esperienza di vittime e che ringraziavano i creator per averli aiutati a vivere, senza paura e vergogna l’essere vittima o l’esserlo stato", dichiara Luca Casadei, responsabile di Web Stars Channel. "Non solo, molti hanno scritto di aver scoperto grazie al video di essere stati "bulli". Un outing collettivo. "Siamo felici di non esserci fermati", continua Casadei, "Speriamo e ci auguriamo che continui questa ondata di condivisione di paure e disagio, unica via per sconfiggere il cyberbullismo. L’incontro con Paolo, il papà di Carolina, che ha fortemente voluto la legge contro il cyberbullismo e ha lottato per averla, è stato emozionante. Le parole possono davvero fare più male delle botte ma portandole alla luce, togliendole dal silenzio, speriamo perdano quella forza". I Mates sono il gruppo di Creators più seguito sul web. Nascono nel 2015 dall’incontro di quattro ragazzi noti già al grande pubblico con i loro nickname: Anima, St3pNy, Surreal Power e Vegas. La loro unione li porta in pochi anni a superare 12milioni di fan. La loro popolarità li vede protagonisti di serie televisive di successo. Pubblicano il loro primo libro "Veri Amici" e superano le 100mila copie. Droghe. La cannabis terapeutica, legale, introvabile e costosa di Paolo Dimalio Il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2017 È un’emergenza sanitaria, la cannabis terapeutica sta sparendo dalle farmacie". Elisabetta Biavati scandisce lenta e con fatica. Soffre di epilessia, tremore senziente, cefalee e dolori cronici. "Tremo forte, per me è difficile mangiare e deglutire senza le medicine". Elisabetta può curarsi, ma ha scelto lo sciopero della terapia perché la cannabis medica, in Italia, è una roulette: "Oggi la trovo, domani no. Serve un gesto forte, a costo della salute". Su change.org, il 10 luglio, ha lanciato la petizione per una cannabis gratuita e accessibile. Ha raccolto oltre 4.500 firme. Elisabetta gestisce la pagina Facebook Dolore e cannabis terapeutica, 3.400 iscritti: "Mi cercano persone disperate, mamme che non trovano i farmaci per il figlio". Vittorio Ferraresi (M5S) ha depositato un’interrogazione alla Camera il 18 luglio; se va bene, si discuterà ad agosto. Intanto, la "carestia" prosegue. Eppure, da quest’anno, per i pazienti c’è la Fm2, la cannabis di Stato. Ma da quando il ministero della Salute, a giugno, ha fissato il prezzo a 9 euro al grammo, molte farmacie hanno smesso di venderla. Per loro costa 8,4 euro più 20 euro di spedizione: se si assume in gocce o resina, è grazie al lavoro del farmacista. Ma a 9 euro, non c’è guadagno. Oltretutto, vendere cannabis è un rischio. Diverse farmacie hanno ricevuto multe da quasi 9 mila di euro per essere apparse su una mappa del sito Let’s Weed: un servizio per localizzare medici e luoghi dove acquistare cannabis medica. Tanto basta, per l’Ufficio stupefacenti (organo del ministero della Salute), a infrangere il divieto di propaganda di sostanze illecite. "È una legge del 1990 e vale per la marijuana da strada. Applicarla ai farmaci legali è demenziale - spiega l’avvocato Carlo Alberto Zaina. Lo scopo è mettere il bavaglio al dibattito sulla foglia verde". Vendere cannabis terapeutica si può, ma non si dice. Molte farmacie sono ricorse al Tar. "È inquietante e pericoloso", sostiene l’avvocato Luigi Sciacovelli. Che aggiunge: "Se un punto su una mappa è pubblicità di stupefacenti, allora è vietato parlare di cannabis in rete". Secondo Germana Apuzzo, direttrice dell’Ufficio stupefacenti, "i medicinali nelle tabelle", inclusa la cannabis, "non possono essere nominati". Lo ha dichiarato al convegno Sirca (Società Italiana Ricerca Cannabis Terapeutica) del 20 maggio. È compito del Ministero informare sulla cannabis. Discuterne su Facebook, o postare il logo della pianta, è pubblicità illegale. Le sanzioni hanno colpito le farmacie con gli ordini più grandi di Fm2. Come quella del dottor Marco Ternelli, a Bibiana, in Provincia di Torino: "Abbiamo chiesto tra i 300 e i 500 grammi gli altri tra i 5 e i 20 grammi". All’Ufficio stupefacenti sospettano che gonfi la domanda col sito farmagalenica.it: "È informazioni sanitaria - risponde Ternelli - servo più di mille pazienti e aumentano ogni anno. Del resto, nessuno multa le farmacie sui siti dedicati agli oppioidi". Se la cannabis italiana, a 9 euro, è merce rara, quella olandese è un miraggio. "Scarseggia da maggio - dice Elisabetta Biavat. Tra i pazienti sta arrivando il panico". Ternelli conferma: "Su 100 grammi, ne arrivano 20". L’Acef, un’azienda privata, importa cannabis medica olandese grazie a una licenza del ministero della Salute. Giovanni Braccioli, responsabile della Divisione farmacia, non ha dubbi: "Oggi la domanda supera l’offerta". È l’Ufficio stupefacenti diretto da Germana Apuzzo a decidere quanta cannabis importare, in un anno, dall’Olanda. Il Fatto ha chiesto di esaminare i dati, senza ottenere risposte. Il sospetto è che un quintale fosse ritenuto sufficiente, come nel 2016. Il timore è che sia finito a giugno, e solo nel 2018 l’Olanda riaprirà i rubinetti. Secondo addetti ai lavori, per il 2017 gli importatori hanno chiesto di raddoppiare a 2 quintali. Ma il ministero avrebbe risposto picche: se non bastano 100 chili, c’è la Fm2. Risultato: scovare i farmaci è una caccia al tesoro. Domanda: la richiesta dei pazienti è stata sottovalutata? L’Olanda offre 400 chili l’anno a 18 milioni di abitanti. L’Italia, nel 2017, meno della metà per 60 milioni di persone: 100 chili dal paese dei Tulipani, 40 chili di Fm2. Ecco perché la cannabis si cerca col lumicino. Serve ai malati di cancro, dolore cronico, Parkinson, sclerosi multipla, Sla, epilessia, morbo di Crohn, fibromialgia: milioni di pazienti. In pochi si curano col fiore verde. Ma se ciascuno ne consumasse, in media, un chilo l’anno, la scorta basterebbe per 140 persone. "È una stima credibile", dice Luigi Romano, dell’Associazione internazionale cannabis medica. Dimezzando il consumo a 500 grammi, le riserve soddisferebbero 280 pazienti. Il Canada ha autorizzato circa 50 strutture: nel 2016 hanno raccolto 4 tonnellate di cannabis medica. Una parte è finita in Germania, dove si discute sul l’auto-coltivazione dei pazienti; in Canada è già legale. In Italia è fantascienza. Nel 2010, col proibizionista Carlo Giovanardi a capo della lotta alle tossicodipendenze, Germana Apuzzo ha collaborato alla stesura del Piano nazionale antidroga. Nel 2014 ha firmato un testo collettivo dal titolo: "Varianti delle piante di cannabis e danni alla salute". Il curatore è Giovanni Serpelloni, ex capo dell’Antidroga e braccio destro di Giovanardi. La cannabis, si legge nel volume, è "un vero problema di sanità pubblica e soprattutto mentale (...). I risultati hanno evidenziato una forte associazione tra il consumo in età adolescenziale e il successivo coinvolgimento in attività criminali (…). Non si comprende come vi siano ancora opinioni secondo cui tali sostanze non sarebbero pericolose o addirittura dotate di effetti positivi per l’organismo". La differenza tra droghe leggere e pesanti sparisce. Se la cannabis ludica è pericolosa come l’eroina, quanta fiducia si può nutrire nell’uso terapeutico? "Direi nessuna! - taglia corto Luigi Romano. Se non si distingue tra droghe pesanti e leggere, malgrado l’immensa letteratura scientifica, non bisognerebbe occuparsi di cannabis". Il testo raccomanda "un uso medico limitato e attento". Tanto limitato che i farmaci non si trovano. Così attento da paventare multe per chi parla di cannabis sul web. Al convegno dello scorso 20 maggio, la Apuzzo ha redarguito chi scrive "che la cannabis cura il cancro. È gravissimo e senza fondamento scientifico". Luigi Romano pensa di no: "Manuel Guzmán, nel 2006, ha somministrato THC a pazienti terminali con tumore al cervello: risultati incoraggianti. Studi in vitro e su animali da laboratorio dimostrano l’efficacia della cannabis insieme a chemio e radioterapia". Secondo Apuzzo, la verità è sui siti del ministero. Si consiglia il decotto (la tisana alla cannabis) e si bocciano gli estratti, da assumere in gocce: "Il decotto è il metodo peggiore - spiega Romano - perché i cannabinoidi non sono solubili in acqua. La via migliore è l’estratto". Qualcuno avanza un sospetto: a 9 euro, pochissime farmacie vendono cannabis, così il ministero le controlla meglio. Stati Uniti. Dramma dell’immigrazione: 9 corpi trovati in un camion, 30 feriti gravissimi La Repubblica, 24 luglio 2017 I cadaveri, tutti di uomini, scoperti nel rimorchio fermo nel parcheggio del grande magazzino Walmart. Delle altre 30 persone, 20 sono in pericolo di vita. Nove morti, tutti uomini, e trenta feriti, 20 dei quali in pericolo in vita. È il primo bilancio di un nuovo dramma dell’immigrazione clandestina negli Stati Uniti: i corpi sono stati trovati nel rimorchio di un camion fermo nel parcheggio di un grande magazzino Walmart a San Antonio, nel Texas. Secondo FoxNews, nel camion c’erano altre 30 persone, tra cui 20 in giudicate in pericolo di vita a causa di una gravissima disidratazione. L’autista è stato arrestato. L’allarme è stato dato da un dipendente del grande magazzino che ha chiamato la polizia affermando di aver sentito qualcuno dall’interno del camion che chiedeva dell’acqua. La provenienza del camion è ancora sconosciuta. "Si tratta certamente di un caso di traffico di esseri umani", ha dichiarato il capo della polizia locale, William McManus, parlando della scena dell’orrore che si era trovato di fronte. Le telecamere di sicurezza del parcheggio mostrano inoltre che altri veicoli erano andati poco prima a prendere delle persone nascoste nel rimorchio. È impossibile sapere quante persone si trovassero inizialmente all’interno del camion. "Succede continuamente, questa volta siamo riusciti a trovare sei sopravvissuti" ha aggiunto spiegando che solitamente i veicoli con a bordo i migranti rinchiusi vengono lasciati di notte. Riguardo al destino dei migranti che sono stati ricoverati, alcuni in condizioni molto gravi, la polizia locale ha fatto sapere che, una volta dimessi, saranno consegnate alle autorità dell’immigrazione. Afghanistan. Madri con neonati, anziani e topi: nella Kabul sotterranea dell’oppio di Laura Secci La Stampa, 24 luglio 2017 Tra i cunicoli della capitale afghana dove si rifugiano i disperati. Boom della droga dopo il ritiro della Nato: dal 2014 raccolti record. Il muezzin chiama alla preghiera ma qui sotto nessuno l’ascolta. Dalla piatta lingua d’asfalto che attraversa il cuore di Kabul sbucano come file di formiche, sguardi assenti su gambe incerte. La discesa è veloce, la salita ripidissima. Qui abita l’esercito dei drogati d’oppio. Centinaia di visi scavati su mandibole sdentate, scheletri di abiti un tempo beige vanno e vengono dal ventre della città. Un flusso incessante che rallenta solo quando sul marciapiede c’è un corpo sdraiato, lo si nota appena sotto il tondo del pakol (berretto afghano) per via dell’erba alta. Scavalcare i cadaveri rallenta il via vai, ma nessuno si lamenta. Dai bordi della strada, nei punti in cui le corsie si allargano, basta buttare l’occhio verso il basso per scoprire che c’è una Kabul parallela. Gli uomini accovacciati preparano la dose per loro stessi e per i bambini incollati addosso. Allungano le mani, si spingono come a contendersi una merenda troppo ghiotta. Dei due milioni di afghani sotto la soglia di povertà, 1,3 sono bambini. In un Paese in cui la produzione di oppio raggiunge l’80% del totale mondiale, non può stupire se 1,6 milioni di abitanti ne è dipendente. In questa miseria umana non mancano le donne. Una di loro stringe un neonato, fuma oppio, contrae i muscoli del viso e poi espira svuotando i polmoni sulle labbra del piccolo che risponde con un misto di tosse e lacrime. Poi d’improvviso s’addormenta di un sonno profondo. L’oppio allenta i morsi allo stomaco trasmettendo per qualche minuto un fittizio senso di sazietà. Gruppetti di fortunati si fanno la loro dose sdraiati, sotto l’asse di un wc che regala un’ombra. L’aria pesa di discarica. Residui di frutta sono piatto prelibato per i topi. Si fatica a trattenere la nausea, anche a distanza, in questo luglio in cui il caldo amplifica odori e rumori. Un anziano ripiegato sulla sua barba si accarezza le ginocchia e poi fa perno con le mani, per alzarsi. Incurva la schiena per trovare la stabilità, si aggiusta il kurta e affronta la salita, masticando palline d’oppio. Non fa caso agli sguardi estranei. Non vede. O non gli importa. C’è invece chi non gradisce la curiosità occidentale. Un giovane urla, gesticola e le sue scarpe lucide si avvicinano a passo svelto. "È uno spacciatore. È meglio andarcene" sentenzia Asif, aprendo velocemente lo sportello dell’auto. Lo sguardo patinato di Massud, il "leone dei Panjshir" assiste da un cartellone pubblicitario allo sciame di mendicanti che avvolge l’auto. Non sono più solo i bambini con occhi grandi a bussare contro i vetri. Dieci anni fa erano loro i soli protagonisti di questa infinita questua. Oggi gli angoli delle strade sono colorati di burqa azzurri: donne, senza uomini. Ci sono soprattutto loro a chiedere qualcosa, qualsiasi cosa, con il viso e il corpo nascosti e una mano sempre tesa in avanti. "C’è molta più fame di qualche anno fa. La situazione sta precipitando e le famiglie non sanno più come sopravvivere - spiega Asif, 40 anni, impiegato con tre figli - Sono fortunato ma so guardarmi attorno. E quello che vedo non mi fa dormire". Dopo il ritiro delle truppe Nato nel 2014 la situazione è precipitata. Mentre il resto del Paese, soprattutto la provincia di Helmand, ha "festeggiato" la notizia con un raccolto di oppio da record (18 chili per ettaro, proprio nel 2014), nella capitale le ricadute sono state disastrose. "L’indotto che lavorava con i militari - spiega Quhar, commerciante nato e cresciuto a Kabul - si è ritrovato a fare i conti con la mancanza dell’unica fonte di reddito. E il futuro si presenta peggiore del presente. L’Isis sta già straziando la regione di Kunar e quelle al confine con il Pakistan, ci metterà ko". Le prime vittime hanno già pagato. Faridon ha 36 anni, due figli e una casa accogliente in una via centrale. "Un mese fa, prima di quel 31 maggio, ero un altro uomo - guarda verso quella gamba che non c’è più - Erano le 8. Ero in macchina davanti all’ambasciata americana e pensavo a mio figlio, il maggiore. Studia inglese e la mattina recita una poesia. Mi rende allegro anche se non capisco il significato" sorride scuotendo la testa, poi si rifà serio. "D’un tratto ho sentito un gridare "Allahu Akbar". Poi il botto". Nel bilancio di 90 morti e 300 feriti dell’attentato rivendicato dall’Isis, Faridon si sente "vivo a metà. Un po’ sono morto anch’io". I figli gli arricciano i capelli e poi continuano a giocare con le stampelle mimando gli spadaccini. Quelle gambe di legno chiaro non sono oggetti misteriosi. Le vedono spesso sotto le esili ascelle dei coetanei. Nel 2016 sono saltati su una mina 1636 afghani, quasi la metà bambini. Fuori la città inghiotte i pensieri in una nuvola di smog. Un carretto taglia la strada, carico di meloni ed energy drink. Un posto di blocco, l’ennesimo. Esercizio "obbligato" con cui polizia ed esercito afghani mostrano i muscoli e un presunto controllo del territorio. Poi dritti verso la guest house. "È quasi buio. Kabul di notte non è sicura". "La notte" ripete a se stesso, con tono poco convinto.