Appello alla società civile, alle associazioni e agli enti pubblici e privati del territorio, alle singole persone che da tantissimi anni hanno avuto modo di conoscere il buon funzionamento della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. Ristretti Orizzonti, 23 luglio 2017 Senza il contributo di tutti la Casa di Reclusione di Padova non sarebbe quella che oggi tutti siamo ormai abituati a conoscere. E’ grazie a persone responsabili e di buona volontà presenti in tutte le realtà, pubbliche e private, che oggi il carcere “Due Palazzi” è noto in tutto il mondo. Quello di un carcere è un mondo tanto complesso quanto ricco di esperienze, ricco di diversità, basti pensare al personale di Polizia penitenziaria, alle varie direzioni che dal 1989 ad oggi si sono succedute, alla magistratura di sorveglianza, all’area trattamentale educativa, all’area socio sanitaria, all’area scolastica (Padova ha visto nascere in carcere uno dei primi poli universitari d’Italia), alle associazioni di volontariato pioniere a livello nazionale, alle cooperative sociali, alle realtà culturali, sportive, formative. Ognuna di queste con la propria specificità ha dato vita, in questi lunghi e faticosi ma anche begli anni, a quell’autentico laboratorio di sperimentazione di un carcere rispettoso fino in fondo della Costituzione. Tutto questo, che è un patrimonio di tutti, oggi lo vediamo messo fortemente a rischio. Il lavoro di anni, svolto da tutti sempre attraverso un confronto aperto e serrato con le istituzioni, ha avuto una caratteristica sopra ogni altra: la trasparenza. Padova ha una ricchezza di esperienze nell’ambito della rieducazione e del recupero delle persone detenute davvero straordinaria, attività mai dismessa anche quando ha cominciato a pesare il sottodimensionamento del personale di polizia penitenziaria e dell’area trattamentale educativa e dirigenziale. Grazie a una straordinaria collaborazione tra istituzioni e società civile anche negli anni del sovraffollamento più bestiale si è riusciti a fare davvero miracoli. In queste settimane, più o meno tutti, stiamo subendo un attacco sia mediatico che concreto nel vivere quotidiano. Ogni fatto anche teso a mettere ordine al proprio interno (vedi ad esempio il ritrovamento vari di cellulari) è usato da qualcuno sempre in modo strumentale. Quello in atto è un grave tentativo di tornare al passato (ante 1990), a un carcere chiuso alla società civile e chiuso alla speranza. La nostra preoccupazione è dettata anche dal fatto che il “Sistema carcere Padova” è nato realmente dal basso, dall’impegno e dalla risposta positiva data negli anni dall’Amministrazione, in particolare quella locale. Ora temiamo che il lavoro di tutti non venga sufficientemente tutelato; questo chiaramente non è solo a danno di Padova, in quanto in questi anni Padova ha rappresentato un monito, ricordando a tutti che con un unico ordinamento penitenziario si può gestire un carcere, progettando davvero il cambiamento o invece arroccandosi nella difesa di un passato che ha invece fruttato il 70% di recidiva. Ci rivolgiamo a tutti quelli che conoscono bene che cosa prevedono la nostra Costituzione, le leggi, l’Ordinamento ed il Regolamento penitenziario e non da ultimo le direttive europee che impongono l'umanizzazione della pena per quanto riguarda le persone private della libertà a causa dei reati commessi. Ci rivolgiamo a chi conosce bene tutte le attività che da decenni sono presenti presso la Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. La mancanza di rispetto, di aiuto, di difesa ci preoccupano moltissimo. Quello che ci preoccupa è dunque che ad essere attaccato sia il sistema ‘carcere Padova’ nella sua totalità, e per di più in maniera poco chiara e incomprensibile. Ne va della credibilità delle istituzioni e della dignità delle persone. Una città intera, e non solo, ha conosciuto in questi 25 anni questa esperienza: ogni anno migliaia di studenti, scuole, aziende, istituzioni italiane e di ogni parte del mondo, enti di ogni ordine e grado, università italiane ed estere, etc. etc. sono entrati a contatto con tutte le attività di questo istituto, attività in molti casi fiore all’occhiello a livello nazionale ed internazionale. Quello del carcere di Padova non è patrimonio di qualcuno in particolare, è patrimonio di tutti, è un patrimonio pubblico di cui tutti noi e Padova ne andiamo fieri. Vi chiediamo una firma e, se volete, una frase che esprimano la vostra solidarietà e la vostra simpatia. Comunicato stampa delle realtà promotrici l’appello per la Casa di Reclusione di Padova Ristretti Orizzonti, 23 luglio 2017 A sostegno e difesa della realtà della Casa di Reclusione di Padova. Il carcere Due Palazzi di Padova, dopo veleni e attacchi, può ricominciare a credere e operare per il cambiamento? Il dottor Piscitello del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria a Padova ascolta i promotori dell’appello. "La Casa di reclusione di Padova è un avamposto culturale dove da decenni si 'disegna il futuro' rispetto all’art. 27 della Costituzione". Lo ha detto mercoledì 19 luglio Roberto Piscitello, Direttore generale detenuti e trattamento del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) nel corso dei due incontri che si sono svolti nell’istituto penale di Padova: il primo con la redazione di Ristretti Orizzonti, il secondo con tutte le realtà attive al Due Palazzi: associazioni di volontariato (di ascolto, aiuto e accoglienza, sportive, teatrali…), scuole di ogni ordine e grado compresa l’Università di Padova, cooperative sociali di inserimento lavorativo, diocesi. Da loro, a cui si sono via via uniti anche il settore sanitario, alcuni sindacati rappresentativi del personale penitenziario, le camere penali, era partito un accorato appello al Dipartimento per fare chiarezza sulle numerose falsità e imprecisioni e veleni che hanno nutrito le cronache locali in questi mesi, in particolare circa il rapporto della Casa di reclusione con i detenuti dell’Alta Sicurezza, il circuito dove sono situati gli autori dei reati più gravi di tipo associativo. Durante l’incontro con Ristretti Roberto Piscitello, dopo aver rassicurato sul fatto che "il treno che è partito a Padova non verrà fermato", ha richiamato l’attenzione sull’importanza delle regole nella gestione di un carcere, che non è assolutamente alternativa alla necessità di cambiamento. Con emozione Piscitello ha esordito invitando i presenti a un minuto di silenzio in onore di Paolo Borsellino: e il momento si è caricato di significati forti, vista la presenza nell’aula di rappresentanti delle istituzioni (direttore, comandante e agenti di Polizia Penitenziaria), volontari e operatori delle cooperative, e soprattutto detenuti di Alta Sicurezza, alcuni ex 41 bis, alcuni che stanno scontando condanne all’ergastolo per omicidio, alcuni nomi noti delle mafie italiane: tutti accomunati dal fatto che stanno seguendo un percorso di recupero e reinserimento che passa attraverso la presa di distanza dalle organizzazioni criminali. Il dialogo con Ristretti Orizzonti, reso incalzante e puntuale dagli stimoli di Ornella Favero, è stato come in altre occasioni serrato e pieno di spunti utili a continuare un confronto importante sul significato storico di questi circuiti speciali, creati negli anni dell’emergenza nella lotta alla mafia, ma che in realtà oggi non aiutano le persone nel confronto con se stessi sull’orrore dei propri reati. Nell’incontro con tutte le realtà associative, scolastiche, cooperative, unitamente a tutti i promotori dell’appello, Piscitello ha insistito nell’affermare che la sua presenza a Padova vuole essere una testimonianza e uno stimolo a continuare nelle azioni intraprese, rivolto sia al privato sociale, che agli operatori penitenziari (agenti, educatori...). Una risposta che arriva, finalmente, dai vertici del Dipartimento all’accorato appello a considerare l’esperienza di Padova un patrimonio comune, appello che sta raccogliendo adesioni e incoraggiamenti in tutt’Italia e dall’estero, dalle associazioni e dalle cooperative, dagli osservatori delle Camere Penali, dai singoli estimatori di una realtà importante nel panorama nazionale e internazionale. Il Due Palazzi, dopo veleni, polemiche, attacchi...può ricominciare a credere e operare per il cambiamento? Ce lo auguriamo tutti. Il deputato dem Alessandro Zan: "Nessuno tocchi il Due Palazzi" Il Mattino di Padova, 23 luglio 2017 "Tutelare le cooperative e le associazioni che operano nel carcere Due Palazzi, un prezioso supporto allo Stato per abbassare il tasso di recidiva". È l’interpellanza urgente che venerdì ha visto protagonista alla Camera il deputato dem Alessandro Zan. Il parlamentare padovano ha preso spunto dalla "campagna mediatica e politica che si è sviluppata contro il carcere Due Palazzi e in particolare contro la cooperativa Giotto e l’associazione "Granello di Senape" che pubblica "Ristretti Orizzonti" per spingere il governo a tutelare queste realtà. "Gli attacchi delle scorse settimane erano politicamente strumentali per attaccare la riforma del processo penale. Sono arrivati persino ad associare le cooperative alla criminalità organizzata", ha affermato Zan. Il focus dell’interpellanza è stato sul tasso di recidiva (cioè il numero di detenuti che tornano a delinquere) che a livello nazionale è del 68% e costa alle casse dello Stato tra i 3 e i 4 miliardi di euro l’anno: "Quando le persone lavorano durante la detenzione, come al Due Palazzi, la recidiva scende al 3%. Ogni punto di recidiva in meno fa risparmiare 40 milioni l’anno. Quando i detenuti imparano un lavoro in carcere poi non commettono più reati", ha concluso Zan. Netta la risposta del sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore: "La procedura di declassificazione dei detenuti è di esclusiva competenza del Dap, dipartimento di amministrazione penitenziaria. Per Padova è stato necessario valutare 117 posizioni - ha spiegato. L’offerta di attività in carcere è di alto livello, sia per i corsi di alfabetizzazione che per le attività lavorative che occupano 115 detenuti. L’importanza di tali esperienza è evidente. Queste attività devono essere coordinate al meglio". Soddisfatto anche il presidente della cooperativa Giotto Nicola Boscoletto: "Un intervento quello di Zan qualificato, leale e rispettoso della realtà dei fatti. Ha permesso di fare un po’ di chiarezza". Carceri: 27 suicidi da gennaio. Il Garante nazionale dei detenuti si dichiara parte offesa di Teresa Valiani Redattore Sociale, 23 luglio 2017 Preoccupante ascesa dei casi, con una media di una persona a settimana. Da qui l’azione del garante nazionale, Mauro Palma, che non ha precedenti. "Interverrò nelle indagini per fornire il mio contributo di conoscenza e per seguire gli accertamenti. È tutto il sistema che deve mandare segnali di maggiore attenzione". In media una morte a settimana, con 27 persone che dall’inizio dell’anno si sono tolte la vita dietro le sbarre. Un dato preoccupante e in crescita che ha spinto il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, ad avviare un’azione che non ha precedenti: intervenire come parte offesa nelle indagini relative a tutti i casi di suicidio, a cominciare dall’anno in corso. "Pur considerando la difficoltà di ricondurre eventi del genere a un’unica matrice e di fermarli completamente - spiega Mauro Palma, ritengo che la situazione meriti tutti gli approfondimenti necessari per perfezionare il sistema di prevenzione elaborato dal ministero della Giustizia con la Direttiva del 3 maggio 2016. Per questo, come titolare della tutela dei diritti delle persone detenute e, di conseguenza, di persona danneggiata dalle violazioni dei diritti protetti, interverrò come parte offesa nelle indagini relative a tutti i casi di suicidio, a cominciare dall’anno in corso, per fornire il mio eventuale contributo di conoscenza e per seguire gli accertamenti che saranno condotti. Nei prossimi giorni invierò le relative richieste di informazioni sullo stato dei procedimenti alle diverse Procure della Repubblica competenti per i vari casi". Un provvedimento che non ha precedenti: in che modo pensa di contribuire alle indagini? Sì, non ha precedenti anche se nei casi di denuncia di maltrattamento alcune procure hanno già considerato il Garante nazionale come parte offesa. Questo porta, per esempio, a informare l’Ufficio della chiusura degli atti, dando, quindi, la possibilità di presentare opposizione o meno. Sia chiaro: ho piena fiducia in tutte le procure che indagano sui suicidi e non ho alcuna velleità di mettere in dubbio le varie ricostruzioni. I suicidi sono situazioni molto spesso imperscrutabili. Ma c’è un problema: quello di averne avuti solo quest’anno 27 in carcere e 1 in una Rems e sono numeri che fanno pensare. Tanto più che lo scorso anno il ministro stesso aveva emanato una direttiva sulla prevenzione ponendo l’attenzione su molti elementi: per esempio sui trasferimenti ‘passivi’, cioè non richiesti dalla persona, sull’accoglienza o sul momento del rilascio. Chi ha il compito, come il Garante nazionale, di tutelare i diritti, ha anche il compito e il dovere di guardare come sono avvenute le cose e aiutare le procure. Anche per contribuire a togliere un po’ i sospetti che vengono rimbalzati, come leggo spesso sui social. Insomma, una figura di garanzia che tiene sott’occhio la questione secondo me è di aiuto ed è un segnale della gravità del problema. I numeri del sovraffollamento tornano a salire. Quanto incide questa situazione sul fenomeno dei suicidi? Non credo ci sia una relazione diretta. In generale tutte le interpretazioni, parlo anche per i fatti che avvengono fuori dal carcere, rispetto a questo gesto estremo sono, tra virgolette, illazioni sempre, perché possono essere tanti i fattori. È chiaro che le situazioni sovraffollate e sotto organico rendono difficile un rapporto di prossimità più continuo. Né si può scaricare la responsabilità su chi in carcere lavora: penso alla polizia penitenziaria che già fa molto, anche calcolando quanti sono i tentati suicidi, quante sono le persone salvate. È tutto il sistema che deve mandare segnali di maggiore attenzione. E mi auguro che le commissioni (nominate dal ministro per la riforma dell’Ordinamento penitenziario ndr) riescano a fare anche questo lavoro che non è solo tecnico ma anche di comunicazione. Ho visto in carcere una certa delusione rispetto alle speranze nate lo scorso anno con gli Stati generali. Noi, dall’esterno, capiamo che ci sono i tempi della politica, ma dentro c’è una sensazione di abbandono. Mi auguro, proprio sul piano della comunicazione, che si inverta questa sensazione. E mi sembra un buon segno che siano state nominate le commissioni, un gran bel segno di continuità che le coordini Glauco Giostra. Io distinguo 3 piani e questo è quello della cultura, della costruzione di una fiducia che aiuta a diminuire il rischio della depressione e del suicidio. Poi c’è il piano organizzativo, con le risorse e una gestione quotidiana sufficiente perché le strutture riescano a dare attenzioni ai soggetti. Infine il terzo piano, quello delle procure, in primo luogo, ma anche del garante, attraverso il quale capire perché certi fatti avvengono. Perché solo comprendendo le ragioni di un fatto si può diminuire il rischio che avvenga di nuovo. Trattamento, misure alternative, affettività: nello studio delle commissioni e nella ricerca che arriva dagli Stati generali ci sono le indicazioni per rendere la detenzione meno afflittiva. Seguendo queste proposte si potrebbe rendere migliore la qualità della vita interna? Sicuramente sì, se riusciamo a tradurle in norme immediatamente applicabili, e sono convinto che le commissioni ci riusciranno. Perché un conto è l’indicazione culturale e un conto sono le norme. Un esempio: discutiamo di affettività e diamo le indicazioni in merito, ma se poi non è scritto da nessuna parte che dev’esserci un ambiente idoneo e un impegno da parte dell’Amministrazione a realizzarlo, rischiamo di tornare al punto di partenza. Non mi vorrei trovare nella situazione in cui dopo tutto il discorso, passa la norma ma non ci sono gli spazi né il personale per applicarla. Non dimentichiamo che abbiamo un buon regolamento di esecuzione, datato 2000, siamo nel 2017 e ancora non siamo riusciti a portare gli istituti ad essere come indicato nel testo. Le norme saranno ben scritte non solo se saranno coerenti, ma anche se saranno ben applicabili. Io mi chiamo Pittella Angelino e sto a San Vittore dall’83 di Giampiero Rossi La Lettura del Corriere, 23 luglio 2017 Duecento anni fa nasceva il corpo degli Agenti di custodia, oggi Polizia penitenziaria. Abbiamo seguito la giornata di uno di loro, un sovrintendente, prima nel carcere cittadino milanese, dal 2002 a Bollate, dove l’abbiamo incontrato. È l’esatto opposto. Il brigadiere Pasquale Cafiero - quello di Fabrizio De André - ha iniziato a lavorare a Poggioreale nel ‘53. Verosimilmente è andato in pensione nei primi anni Novanta. Il brigadiere Angelo Pittella, invece, è entrato a San Vittore nell’83 e dovrà lavorare ancora per un paio d’anni. I due sono stati colleghi soltanto per un breve intervallo, dunque. Ma anche se basta nominarlo per ritrovarsi con la canzone Don Raffaè inchiodata nella mente, dimentichiamo Pasquale Cafiero e il suo "centesimo catenaccio". Il suo erede - Angelo Pittella - è tutt’altro. Anche il grado è cambiato: non più brigadiere ma sovrintendente, sebbene i detenuti lo chiamino ancora "briga". Certo, anche lui varca ogni santo giorno molti cancelli del carcere per ritrovarsi circondato da persone che hanno rubato, spacciato, truffato, ferito, violentato, ammazzato. Ma sebbene l’anagrafe e il curriculum lo sospingano verso un’epoca in cui la galera era solo galera, Pittella potrebbe essere considerato un simbolo vivente del nuovo carcere. Che non sarà come quello favoleggiato in certe cronache scandinave, ma comunque non tratta e non considera più i detenuti soltanto come "briganti, papponi, cornuti e lacché". Per rendersene conto basta seguirlo per una giornata dietro le sbarre. Dal 2002 Pittella non lavora più a San Vittore ma a Bollate, che a sua volta è tutt’altro carcere. Il turno comincia alle 8, ma lui, per telefono, ha già risolto la grana di un detenuto in ritardo sull’orario di rientro. "Abbiamo verificato, non era colpa sua, c’è stato un problema con il treno, ma aveva il cellulare spento e questo poteva costargli caro", racconta sorridendo con i suoi piccoli occhi scuri alla Walter Matthau. Basta un minuto per capire che quella smorfia di sorriso è un elemento costante del suo volto olivastro di calabrese. "Benvenuti nel mio mondo", dice un po’ compiaciuto mentre si varca la prima soglia. Una volta dentro bisogna scarpinare un bel po’ prima di ritrovarsi oltre l’ulteriore muro che separa gli uffici e la caserma dai reparti di detenzione. Eppure l’atmosfera non cambia molto. Lungo gli interminabili corridoi si muovono decine di persone: qualcuno sta facendo le pulizie, qualcuno imbianca, la maggior parte si sposta da qualche parte verso qualche altra parte. Pittella sembra una calamita. Come appare gli vanno incontro tutti. E tutti sembrano avere qualcosa da dirgli: "Uè briga, giusto te", lo blocca un ragazzone dall’accento lombardo. Lui si mostra interessato ma lo interrompe: "Dimmi solo che cosa ti serve". "Ho fatto la domandina per una telefonata, me l’hanno data per venerdì, ma a me serve giovedì". Pittella annuisce, promette senza enfasi, l’altro insiste. Sembra una discussione tra colleghi, e invece uno è il detenuto, l’altro la guardia. Il tempo di percorrere venti metri e gli si fa incontro un piccoletto in canottiera e ciabatte che porta a tracolla l’occorrente per la dialisi: "Briga, e dai trovami un frigorifero, un piacere t’ho chiesto, eccheccazzo…". Lui si dà uno schiaffetto sulla fronte: si era dimenticato. Dice che ci proverà e si allontana. Ma lo intercetta un altro detenuto: "Briga, facciamola subito la mia domanda, se no poi il magistrato mi va in ferie...". "Queste sono le mie giornate - commenta Pittella roteando gli occhietti furbi -. A volte allungo il percorso, vado all’esterno, lungo le mura, per evitare di essere fermato continuamente. Oggi, per esempio, c’è ‘sta grana di Kilil, un marocchino che vuole che io gli trovi un lavoro. E quello se ti si mette addosso non te lo cacci più... Ieri minacciava di tagliarsi con una lametta". Attenzione, però: questo sovrintendente di 56 anni non è soltanto il Mister Wolf che risolve problemi. Colleghi e detenuti lo chiamano anche "Pitbull", perché come investigatore è temibile: ogni volta che decide una perquisizione o un controllo all’esterno trova quello che sospettava di trovare. Un mese fa un detenuto, per niente contento, gli ha spaccato un malleolo con un calcio. Oggi, però, il Pitbull ha avuto una soffiata: pare che un cingalese che lavora alla distribuzione dei pasti abbia creato un commercio di scatolette di tonno. A metà mattinata sale a controllare con un giovane collega. La cella è piccola ma piena di oggetti e di spazi inventati dal nulla. Prima salta fuori una decina di confezioni di tonno, poi un’altra ventina, poi ancora e ancora. Il turno comincia alle 8 - "Queste sono le mie giornate. Tutti hanno una richiesta, una domanda. A volte allungo il percorso, vado all’esterno, evito i corridoi, per non essere fermato continuamente. Oggi per esempio c’è ‘sta grana del marocchino Kilil, vuole un lavoro e minaccia di tagliarsi..." Per capire quanta strada sia stata percorsa per trasformare Cafiero in Pittella, però, conviene ricostruire alcuni passaggi. Tanto per cominciare, ai tempi di Don Raffaè i penitenziari erano affidati agli agenti di custodia. Nel 1990 - casualmente anche l’anno della canzone di De André - il corpo (che proprio quest’anno festeggia il bicentenario) cambia nome e diventa Polizia penitenziaria. Ecco perché il brigadiere di allora oggi si chiama sovrintendente. Non è un abbellimento lessicale, è proprio un altro lavoro: dalla semplice "custodia" dei detenuti si passa a un ruolo nuovo, un po’ investigatore e un po’ operatore sociale. È stato come passare dalla marcatura a uomo a quella a zona, controllo del territorio più che sorveglianza. Certo, il terreno era già stato seminato quattro anni prima dalla legge Gozzini, che tra misure alternative alla detenzione e percorsi riabilitativi ha trasformato il carcere in un luogo meno ermetico e agli agenti chiede di conoscere bene il loro territorio e chi lo abita, come se fossero vigili di quartiere. E allora ecco che, mentre Pasquale Cafiero si gode la pensione - e ci piace immaginarlo in una sonnacchiosa e assolata località a ridosso della Costiera -, Angelo Pittella e i suoi colleghi devono giocoforza trasformarsi, cambiare pelle, fare un salto di qualità professionale. Nel frattempo lungo i corridoi di Bollate la vita continua. Quasi tutti, quando incrociano lo sguardo sconosciuto fanno un cenno di saluto, come turisti in un Club Med. Sono detenuti, psicologi, educatori, operatori della cosiddetta "Area trattamentale", una sorta di torre di controllo della rete di attività e opportunità per rieducazione e reinserimento sociale. Da questo punto di vista Bollate è molto avanti. Il terzo penitenziario milanese, oltre San Vittore e Opera, è nato nel 2000 ed è stato forgiato sin dall’origine - dai due direttori che si sono succeduti, Lucia Castel l a no e Massimo Parisi - come un laboratorio di politiche carcerarie. Con risultati già evidenti dalle statistiche sulla recidiva. Celle aperte, libertà di movimento da un piano all’altro e - con qualche limitazione - anche da un reparto all’altro. E soprattutto molte occasioni per lavorare, studiare, fare volontariato. Dentro e fuori. I poliziotti penitenziari, dunque, devono cercare di conoscere la loro popolazione, captare ogni segnale, margini di recupero, attitudini, aspirazioni, debolezze e pericolosità di ciascun detenuto. E anche reprimere, prevenire, punire, ovviamente. Ma per fare tutto questo bisogna farli uscire, non tenerli in gabbia. Insomma, un mondo che i Cafiero nemmeno potevano immaginare e che avrebbero guardato con orrore e timore e che invece è il pane quotidiano dei Pittella. "Anche se fuori c’è una gran voglia di forca, noi dobbiamo dare una speranza a queste persone", dice Antonino Giacco, comandante degli agenti di Bollate con il ritratto di Gramsci dietro la scrivania. E se parla di "speranza" il più alto in grado tra le guardie, è perché questa cultura è diventata un ferro del mestiere di tutti, o quasi. Nel frattempo l’instancabile Pittella è di nuovo nel mare aperto del corridoio. Dà appuntamento a un giovane tunisino al primo giorno di lavoro al ristorante "InGalera", all’interno del perimetro del penitenziario ma aperto al pubblico: "Com’è andata? Ti girava la testa eh? Vabbè, dai, vieni da me oggi, che ti trasferiamo al quinto reparto". Poi spiega: "Il quinto è una sorta di dormitorio, praticamente tutti lavorano, all’esterno o all’interno. E quando escono per la prima volta succede che abbiano un capogiro". Il tempo di finire la frase e spunta Kilil con lo sguardo torvo: "Briga, io mi taglio", gli sibila in faccia senza in realtà sembrare convinto nemmeno lui. "Kilil, tu mi vuoi proprio male, eh? Che lavoro vuoi? In banca non ti posso mandare... Dai, caccia quella lametta". L’altro replica sdegnato come se si trovasse a un tavolo di una negoziazione forte di chissà quale mandato. Poi Pittella gli si avvicina, sussurra qualcosa e il detenuto, con un gesto rapido sfila qualcosa dalla bocca e la porge al "briga", che poi la mostra soddisfatto. "Questo Kilil è un tormento - confida - ma non è pericoloso, adesso vediamo se l’ho convinto a lavorare alla distribuzione pasti". Poco dopo aggiorna i colleghi su tutte le questioni poste dai detenuti incrociati finora. Insieme fanno il punto sulle soluzioni proposte dal sovrintendente, ma quando si parla del "caso Kilil" tutti scuotono la testa: "Impossibile". Poi Pittella, che non annota niente ma ricorda tutto, aggiunge: "Ah, domani usciamo a fare un controllo, andiamo a pizzicare uno che sta facendo il furbo". Alle sue spalle non si perde una parola Simon, un romeno di 26 anni con due bicipiti che da soli mettono paura. Scuote la testa e sorride furbetto: "Non conviene fare incazzare il briga. Ma lui è uno a posto, se può ti aiuta". Riserva di codice, un principio che guarda al futuro di Andrea Orlando* Il Manifesto, 23 luglio 2017 La recente legge di riforma penale, approvata definitivamente in Parlamento, delega il Governo a dare "attuazione, sia pure tendenziale del principio della riserva di codice nella materia penale, al fine di una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni". E, quindi, "dell’effettività della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perché l’intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai princìpi costituzionali, attraverso l’inserimento nel codice penale di tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore che abbiano a diretto oggetto di tutela beni di rilevanza costituzionale". Per avviare tempestivamente il lavoro di elaborazione dello schema di decreto legislativo per l’attuazione della previsione di legge delega ho istituito con decreto del 3 maggio 2016 un’apposita Commissione, presieduta da Gennaro Marasca e composta da magistrati e professori universitari, i cui lavori mi sono stati formalmente consegnati nei giorni scorsi. I lavori hanno consentito una approfondita ricognizione della legislazione penale speciale per valutare quali siano i settori di essa che meritano di trovare sistemazione nel codice, per la rilevanza costituzionale dei beni tutelati. Come noto, le cause della crisi del sistema penale sono molte, ma se si guarda ai valori tutelati è sufficiente ricordare che il codice penale, che ne costituisce il perno, è stato concepito e realizzato in un clima sociale e culturale e in un assetto di potere assai diversi rispetto a quello attuale. Occorre domandarsi se l’aggiornamento dei valori e quindi l’individuazione dei beni e degli interessi costituzionalmente protetti che meritino oggi tutela penale passa attraverso la revisione generale del codice. Per molte autorevoli voci non è più il tempo di grandi codificazioni, ché anzi è questa l’età della decodificazione e si parla di percorrere la strada della creazione di "microsistemi integrati" di diritto penale. Si deve registrare infatti la sempre più stretta dipendenza tra la normativa penale e quella extra-penale per effetto della crescente complessità dei fenomeni da disciplinare; e in ciò è centrale la concorrenza delle fonti europee nella creazione del diritto per ambiti circoscritti di materie, che in molti casi impongono anche sul piano delle tecniche descrittive dei precetti criteri non sempre compatibili con quelli tradizionalmente usati nei codici. E tuttavia proprio l’esistenza oggettiva di microsistemi che regolano più livelli - penale e amministrativo e prima ancora definitori delle categorie e dei poteri - nell’ambito dei quali il precetto penale è inserito in un contesto di disposizioni omogenee per settore, spesso anche di minuziosa regolazione di fenomeni e ambiti molto specifici, consente di riservare al codice penale la sola tutela di beni ed interessi di assoluta importanza e di rilievo costituzionale. Si tratta a ben vedere anche dell’obiettivo che si pongono i fautori di un diritto penale minimo o essenziale. Proprio in questa prospettiva muove la recente riforma penale dove prevede "l’attuazione, sia pure tendenziale, del principio della riserva di codice nella materia penale". L’attuazione di tale principio è l’indispensabile presupposto per una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni da parte dei cittadini, conoscenza che consente di perseguire l’obiettivo del legislatore sul piano della piena attuazione del principio di legalità anche nei riflessi relativi alla funzione della pena. Da qui l’enunciazione di una norma di principio che riserva al codice la tutela penale dei beni essenziali della vita e di protezione della comunità civile e che può dare l’avvio ad un processo virtuoso che ponga freno alla proliferazione della legislazione penale, rimetta al centro del sistema il codice penale e ponga le basi per una futura riduzione dell’area dell’intervento punitivo dello Stato secondo ragionevole rapporto rilievo del bene tutelato/sanzione penale. La norma inserita nella parte generale del codice penale costituirebbe un principio generale che il legislatore dovrebbe necessariamente tenere in conto, spiegando le ragioni del suo eventuale mancato rispetto; una norma di indirizzo di sicuro rilievo, idonea quantomeno a mutare le attuali modalità della legislazione penale. *Ministro della Giustizia La politica senza potere nell’Italia del non fare di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 23 luglio 2017 Nessun Parlamento, nessun governo, nessun sindaco, può pensare davvero di far pagare le tasse a chi dovrebbe pagarle, di avere una burocrazia fedele alle proprie direttive, di licenziare tutti i mangiapane a tradimento che andrebbero licenziati, di ridurre l’enorme area del conflitto d’interessi, di stabilire reali principi di concorrenza. Perché da anni in Italia ogni tentativo di cambiare in meglio ha quasi sempre vita troppo breve o finisce in nulla? Perché ogni tentativo di rendere efficiente un settore dell’amministrazione, di assicurare servizi pubblici migliori, una giustizia più spedita, un Fisco meno complicato, una sanità più veloce ed economica, di rendere la vita quotidiana di tutti più sicura, più semplice, più umana, perché ognuna di queste cose in Italia si rivela da anni un’impresa destinata nove volte su dieci ad arenarsi o a fallire? Perché da anni in questo Paese la politica e lo Stato sembrano esistere sempre meno per il bene e l’utile collettivi? La risposta è innanzi tutto una: perché in Italia non esiste più il Potere. Se la politica di qualunque colore pur animata dalle migliori intenzioni non riesce ad andare mai al cuore di alcun problema, ad offrire una soluzione vera per nulla, dando di sé sempre e solo l’immagine di una monotona vacuità traboccante di chiacchiere, è per l’appunto perché da noi la politica, anche quando vuole non può contare sullo strumento essenziale che è tipicamente suo: il Potere. Cioè l’autorità di decidere che cosa fare, e di imporre che si faccia trovando gli strumenti per farlo: che poi si riassumono essenzialmente in uno, lo Stato. Al di là di ogni apparenza la crisi italiana, insomma, è innanzi tutto la crisi del potere politico in quanto potere di fare, e perciò è insieme crisi dello Stato. Beninteso, un potere politico formalmente esiste in questo Paese: ma in una forma puramente astratta, appunto. Di fatto esso è condizionato, inceppato, frazionato. Alla fine spappolato. In Italia, di mille progetti e mille propositi si riesce a vararne sì e no uno, e anche quell’uno non si riesce mai a portare a termine nei tempi, con la spesa e con l’efficacia esistenti altrove. Non a caso siamo il Paese del "non finito"; del "non previsto"; dei decreti attuativi sempre "mancanti"; dei finanziamenti iniziali sempre "insufficienti", e se proprio tutto fila liscio siamo il Paese dove si può sempre contare su un Tar in agguato. Il potere italiano è un potere virtualmente impotente. Perché? La risposta conduce al cuore della nostra storia recente: perché ormai la vera legittimazione del potere politico italiano non deriva dalle elezioni, dalle maggioranze parlamentari, o da altre analoghe istanze o procedure. Svaniti i partiti come forze autonome, come autonome fonti d’ispirazione e di raccolta del consenso, l’autentica legittimazione del potere politico italiano si fonda su altro: sull’impegno a non considerare essenziale, e quindi a non esigere, il rispetto della legge. È precisamente sulla base di un simile impegno che la parte organizzata e strutturata della società italiana - quella che in assenza dei partiti ha finito per essere la sola influente e dotata di capacità d’interdizione - rilascia la propria delega fiduciaria a chi governa. Sulla base cioè della promessa di essere lasciata in pace a fare ciò che più le aggrada; che il comando politico con il suo strumento per eccellenza, la legge, si arresterà sulla sua soglia. Che il Paese sia lasciato in sostanza in una vasta condizione di a-legalità: come per l’appunto è oggi. È a causa di tutto ciò che in Italia nessun Parlamento, nessun governo, nessun sindaco, può pensare davvero di far pagare le tasse a chi dovrebbe pagarle, di avere una burocrazia fedele alle proprie direttive, di licenziare tutti i mangiapane a tradimento che andrebbero licenziati, di ridurre l’enorme area del conflitto d’interessi, di stabilire reali principi di concorrenza dove è indispensabile, di imporre la propria autorità ai tanti corpi dello Stato che tendono a voler agire per conto proprio (dalla magistratura al Consiglio di Stato, ai direttori generali e capi dipartimento dei ministeri), di tutelare l’ordine pubblico senza guardare in faccia a nessuno, di anteporre e proteggere l’interesse collettivo contro quello dei sindacati e dei privati (dalla legislazione sugli scioperi alle concessioni autostradali) e così via elencando all’infinito. Il risultato è che da anni qualsiasi governo è di fatto in balia della prima agitazione di tassisti, e lo Stato è ridotto a dover disputare in permanenza all’ultimo concessionario di una spiaggia i suoi diritti sul demanio costiero. In Italia, insomma, tra il potere del tutto teorico della politica da un lato, e il potere o meglio i poteri concreti e organizzati della società dall’altro, è sempre questo secondo potere a prevalere. Da tempo la politica ha capito e si è adeguata, rassegnandosi a non disturbare la società organizzata e i suoi mille, piccoli e grandi privilegi. Il che spiega, tra l’altro, perché qui da noi non ci sia più spazio per una politica di destra davvero contrapposta a una politica di sinistra e viceversa: perché di fatto c’è spazio per una politica sola che agisca nei limiti fissati dai poteri che non vanno disturbati. Da quello dei parcheggiatori abusivi a quello delle grandi società elettriche che possono mettere pale eoliche dove vogliono. Ma in un regime democratico, alla fine, il potere della politica è il potere dei cittadini, i quali solo grazie alla politica possono sperare di contare qualcosa. Così come d’altra parte è in virtù del potere di legiferare, cioè grazie allo strumento della legge, che il potere della politica è anche l’origine e il cuore del potere dello Stato e viceversa. Una politica che rinuncia a impugnare la legge, a far valere comunque il principio di legalità, è una politica che rinuncia al proprio potere e allo stesso tempo mina lo Stato decretandone l’inutilità. Rinuncia alla propria ragion d’essere e si avvia consapevolmente al proprio suicidio. Non è quello che sta accadendo in Italia? Niente "Mafia capitale", dubbi sul nuovo codice di Sara Menafra Il Mattino, 23 luglio 2017 Il Pd riflette sull’esito del processo. Si rafforza la linea di chi frena sulla riforma-Orlando. Dopo le prime dichiarazioni a caldo, il Pd nelle scorse ore ha provato a tacere quanto l’indagine mafia capitale abbia diviso e continui a dividere le anime del partito. Ma al di là di una linea ufficiale che ora sembra tutta a favore della procura di Roma e della sua azione, una prima frenata nel merito sul tema mafia c’è già nei fatti: il codice antimafia così come lo voleva il ministro della Giustizia Andrea Orlando e un’area del partito non esiste più. E non importa se i numeri sempre più ballerini al Senato potrebbero impedire l’approvazione di modifiche che pure tutti promettono di voler fare per poi tornare a concentrarsi sul governo del paese. Pur di non approvare il testo così com’è attualmente, il segretario del Pd Matteo Renzi è disposto a rischiare che il codice non cambi affatto. Il leader del Nazareno ha confermato la nuova linea ai suoi nelle scorse ore, quelle immediatamente successive alla sentenza che ha stabilito che l’associazione a delinquere capeggiata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi non era mafia. "Abbiamo iniziato a lavorare in commissione da appena una settimana - spiegava due giorni fa David Ermini, responsabile giustizia del Pd in attesa di conferma, sulle pagine del Mattino - ma abbiamo tutta l’intenzione di correggere il Codice antimafia dove occorre". E la linea è stata ulteriormente confermata anche quando la polvere della polemica post sentenza si è posata. A convincere il Pd che sull’argomento fosse necessario riflettere è stata proprio la decisione del collegio presieduto dal giudice Rosanna Ianniello. Perché gli imputati di giovedì hanno subito tutti gli effetti di misure preventive patrimoniali molto pesanti, che restano in piedi nonostante la sentenza abbia ridimensionato la gravità delle accuse portandole - appunto - fuori dalla criminalità organizzata e dunque dalle forme repressive che il codice consente esclusivamente per combattere la storica emergenza del paese. Se, in questo caso è vero che, probabilmente, le cooperative coinvolte nell’indagine sarebbero state comunque sequestrate e affidate ad altri anche se fosse stata contestata l’associazione a delinquere semplice fin dal principio, ovvio che l’accaduto abbia convinto i dem a riflettere sulle parole di quanti - a cominciare dal presidente di Anac Raffaele Cantone - da tempo sostengono che sequestri e confische pre-sentenza possano essere usati solo per combattere i mafiosi. E non la corruzione, come invece propone, tra le altre cose, il codice aggiornato voluto dal Guardasigilli Andrea Orlando. Ieri, in un’intervista, il capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone ha detto di essere ancora convinto della bontà della sua tesi. Ed immediata è partita la polemica. Dalle parti di Forza Italia i toni contro la procura sono aspri. Il senatore Francesco Giro parla di "retromarcia di Pignatone" sull’ampiezza del fenomeno mafioso a Roma. Per il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri "Pignatone ha poco da sdegnarsi" e riparla di "grave danno di immagine" per la capitale derivante dall’indagine. Ma anche l’avvocato di Buzzi, Alessandro Diddi, replica: "Così il procuratore delegittima il lavoro fatto dal tribunale, è un fatto grave". Roma, una sentenza che non cancella la mafia di Francesco Forgione Il Manifesto, 23 luglio 2017 Si continuerà a discutere per molto tempo della sentenza del Tribunale di Roma. Una "sentenza di mezzo", per usare un’espressione cara a Carminati che, se per metà da torto all’impianto della Procura, dall’altro conferma, anche attraverso condanne esemplari, il rigore delle indagini, la documentazione dei fatti e la gerarchia delle responsabilità ricostruite dall’accusa sia nella sfera dell’organizzazione criminale che nel mondo della politica e della pubblica amministrazione. Intanto un’organizzazione c’è, criminale, con un vincolo associativo e un livello di omertà - pari a qualunque contesto mafioso - che ha portato a due secoli e mezzo di condanne senza "pentiti". Ora bisognerà capire perché il Tribunale ha deciso di dividerla in due: quella degli "spaccapollici", che con la violenza e il terrore imponevano pizzo, praticavano estorsioni e usura, e assoggettavano imprenditori, commercianti e cittadini e quella fatta dai corruttori che piegavano al loro volere politici e funzionari pubblici "mettendosi la minigonna" per salire le scale del Campidoglio. Il tribunale dice che il capo era unico, Carminati, ma il metodo mafioso, nonostante la disponibilità della violenza non è riscontrabile. Lo aveva riscontrato invece la sentenza della Cassazione del 2015 che, pronunciandosi su una misura cautelare nell’ambito dell’inchiesta, aveva chiarito che per configurare l’associazione mafiosa "non è indispensabile che la forza intimidatrice si diriga contro la vita o l’incolumità delle persone assoggettate, perché può essere acquisita anche da una struttura organizzativa che, con l’uso di prevaricazione e sistematica attività corruttiva, eserciti condizionamenti diffusi nell’assegnazione di appalti e nel controllo dell’attività degli enti pubblici". Se si tratti di un’interpretazione estensiva del 416 bis sarà ancora oggetto di dibattito, certo è che i fatti portati alla luce dalla Procura di Roma e sanzionati con condanne mai viste prima per reati di corruzione, stanno tutti nei profili individuati dalla Suprema Corte. Fatti gravissimi, con un "mondo di mezzo", dove la convivenza tra criminali, imprenditori ed esponenti di destra e sinistra era determinata da una consapevole convenienza. La sentenza conferma il lavoro di Pignatone e dei suoi sostituti. Non si era mai arrivati a tanto nel "Porto delle nebbie" e nemmeno in un Paese dove su una popolazione carceraria di oltre 50.000 persone, i detenuti per reati di corruzione riciclaggio e contro la pubblica amministrazione sono solo 228. Per questo l’avvocato di Carminati ha rivendicato che solo di quattro cazzari si trattava. Lo stesso entusiasmo di Giachetti, Gasparri e Fassina, sollevati dal vivere in una Roma senza mafia. È la logica che ha legittimato politicamente il sistema di Buzzi e Carminati. La mafia è ripugnante, spara, ha fatto le stragi, crea indignazione. La corruzione no; è parte della vita quotidiana, è accessibile a tutti e tutti prima o poi la possono usare per i propri fini. Se poi il fine è pure sociale - le cooperative dei poveri cristi - è un buon alibi anche per la sinistra. Almeno fino a quando non si scopre che le politiche dell’accoglienza erano diventate un affare più grosso della droga, della quale la Capitale, benché purificata dallo spettro mafioso, rimane pur sempre la principale piazza di spaccio. Chissà gestita da chi, c’è da chiedersi ora. È bene però non isolare questa sentenza dall’azione giudiziaria di questi anni: sequestri per miliardi di euro hanno dimostrato quanto il tessuto economico e finanziario della Capitale sia largamente in mano a mafia ‘ndrangheta e camorra; centinaia di anni di carcere per clan mai toccati prima, dai Casamonica agli Spada ai Pagnozzi, a volte con sentenze schizofreniche, come per i Fasciani, assolti per mafia in primo grado e condannati in appello. Evidentemente è ancora da conquistare una cultura giuridica in grado di comprendere contesti e metodologie dell’agire mafioso. Ma questo riguarda i giudici. Più grave è il silenzio della sinistra, incapace di affrontare questi temi fuori dalla propaganda, lasciando senza analisi le trasformazioni dell’economia e il ruolo della finanza criminale, il rapporto tra pubblica amministrazione e imprese e la subalternità al sistema della politica romana. Questo avrebbe dovuto accompagnare un processo che è andato avanti in un cono d’ombra mediatico e nel silenzio dei movimenti antimafia. Si è preferito aspettare la sentenza e commentarla. Magari per ricominciare tutto come prima. Mafia capitale, la Procura prepara il ricorso di Valentina Errante Il Mattino, 23 luglio 2017 Roma, i pm puntano sulle condanne ai politici per dimostrare che non è delinquenza comune. Il ricorso è certo. La procura lo ha già deciso. Ma per capire perché la mafia di Roma, "originaria e originale", sia stata bocciata dal Tribunale, bisognerà aspettare l’autunno. Il dispositivo, però, offre già alcuni elementi per ipotizzare quale valutazione sia stata fatta dalla Corte: le pene per politici e funzionari a processo, escludendo gli imputati che facevano parte dell’associazione a delinquere, sono cresciute rispetto alle richieste dell’accusa. Per il Collegio, le responsabilità dei pubblici ufficiali sono più pesanti di quanto la procura non abbia valutato. Il caso di Luca Odevaine è il più eclatante, ma non è il solo. La prossima settimana, intanto, Massimo Carminati dovrebbe lasciare il 41 bis, cioè il regime carcerario più duro. Spetterà al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, firmare il decreto. Nessuno dei cinque imputati ancora detenuti - oltre a Carminati anche Salvatore Buzzi, Riccardo Brugia, Metteo Calvio e Fabrizio Testa - lascerà il carcere. I termini di custodia cautelare, che adesso saranno di nuovo bloccati per un anno nove mesi, scadranno ad aprile 2019. L’aumento di pena più consistente è quello del componente del tavolo per i Rifugiati, Luca Odevaine, condannato a otto anni in continuazione con la pena patteggiata. Per lui la procura aveva chiesto due anni e mezzo. Nell’elenco degli imputati con condanna lievitata ci sono anche l’ex presidente del Consiglio Comunale Mirko Coratti, per il quale i pm avevano chiesto una pena di quattro anni e sei mesi, è stato condannato a sei, per il suo capo segreteria, per Claudio Turella l’ex funzionario del servizio Giardini, a fronte di una richiesta di sette anni di carcere, è arrivata una condanna a nove. Per Pierpaolo Pedetti, presidente della commissione Patrimonio del Comune si passa da una richiesta di pena di quattro anni a una condanna a sette, anche per il presidente del decimo municipio, Andrea Tassone la pena è più alta della richiesta: cinque anni a fronte di quattro. L?unica eccezione è quella del consigliere di Forza Italia Giordano Tredicine, condannato a tre anni, la procura ne aveva chiesti quattro. Lo stesso per il dipendente della Regione Guido Magrini, quattro anni la richiesta e cinque la condanna. Non è soltanto caduta l’associazione di stampo mafioso, riqualificata in semplice associazione a delinquere dal dispositivo, letto ieri in aula dal presidente del Tribunale Rosanna Ianniello, emerge un altro dato significativo, che sarà certamente chiarito nelle motivazioni, ma induce a pensare a una diversa valutazione del ruolo di dirigenti e politici tra pm e Tribunale. La dead line è aprile 2019, i tempi sono larghi. L’appello per mafia capitale dovrà cominciare entro questa data perché i termini di custodia cautelare non scadano. Prima di allora Buzzi, Carminati, Testa, Brugia e Clavio potrebbero tornare in libertà su decisione del Tribunale di sorveglianza, ma sembra un’ipotesi remota. Neppure la derubricazione del reato da 416 bis a semplice associazione mafiosa consente agi principali imputati del processo di tornare a casa. Intanto gli avvocati Giosuè e Ippolita Naso attendono che il Dap invii al ministero la relazione che consenta a Carminati di lasciare il regime di carcere duro al quale è sottoposto a Parma. Per quanto riguarda invece la posizione di Buzzi, il suo avvocato Alessandro Diddi ha annunciato che lavorerà per fargli ottenere i domiciliari, dopo circa due anni e mezzo di carcere preventivo. Intervista a Giuseppe Pignatone: "ma a Roma la mafia c’è" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 23 luglio 2017 Il procuratore: non si può accettare l’idea che a Roma la corruzione sia un fatto normale o addirittura utile. Mafia Capitale non è mafia? Il procuratore Giuseppe Pignatone: "La sentenza ha riconosciuto la sussistenza di gravi fatti di violenza e corruzione. A Roma la mafia c’è". "No, non era una fiction, dal momento che la sentenza ha riconosciuto la sussistenza di gravi fatti di violenza e corruzione in un contesto di criminalità organizzata, e ha inflitto pene altissime". Il giorno dopo il verdetto che ha declassato il "Mondo di mezzo" di Buzzi e Carminati a una banda dedita alla corruzione di politici e amministratori, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone prova a trarre il bilancio di una battaglia persa: "Non nascondo il dato negativo del mancato riconoscimento dell’associazione mafiosa, ma voglio ricordare i pronunciamenti favorevoli di un gip, del Tribunale del riesame e per due volte della Cassazione sulle nostre richieste, dunque gli imputati non erano detenuti per un insano desiderio della Procura. Inoltre dal punto di vista criminale Roma ha problemi altrettanto e forse più gravi della mafia, che pure esiste, come la corruzione e la criminalità economica. E la sentenza del tribunale ne è l’ulteriore dimostrazione. Il mio ufficio non è disposto ad accettare l’idea, purtroppo molto frequente, che la corruzione a Roma sia un fatto normale se non addirittura utile". Ma ha detto che "Mafia Capitale" non è mafia: avete perso. "Io rifuggo da una visione agonistica dei processi, e comunque non mi sento sconfitto. Attendiamo le motivazioni della decisione, anche perché noi ci siamo mossi nel solco tracciato da precedenti e successive sentenze della Cassazione. Inoltre in questi anni abbiamo dimostrato che a Roma la mafia c’è, a differenza di quanto sostenuto in passato, e non solo per via del riciclaggio, ma anche nella gestione del traffico di droga, dell’usura e altri fenomeni criminali". Non quella di Buzzi e Carminati, però. "Io stesso ho più volte sottolineato che era una organizzazione ridotta non in grado di condizionare il governo di Roma Capitale; la costruzione mediatica di quel presunto dominio non ci appartiene. L’abbiamo qualificata come associazione mafiosa e continuo a ritenere che quella costruzione fosse aderente alla realtà; se le motivazioni della sentenza non ci convinceranno del contrario faremo appello". L’accusa di mafia ha provocato conseguenze politiche che hanno portato alle dimissioni dell’ex sindaco Marino. Davvero non avete nulla di cui pentirvi? "Le valutazioni politiche su quanto è emerso dalle nostre indagini non le abbiamo fatte noi, né io posso essere chiamato a rispondere se qualcuno ha voluto utilizzarle politicamente. Quando mi è stato chiesto un parere sullo scioglimento del Consiglio comunale, l’ho qualificata come una "piccola mafia" che non solo non era in grado di dominare sulla città, come qualcuno s’è spinto a sostenere, ma era stata molto depotenziata, se non smantellata, dai provvedimenti dei giudici". Non crede che aver insistito fino alla fine sulla mafiosità sia stata una scommessa azzardata? "Non è stata una scommessa, perché non si scommette con la libertà delle persone. La nostra accusa rappresentava un momento molto avanzato nell’interpretazione del rapporto mafia-corruzione, ma sempre seguendo la indicazioni fornite dalla Cassazione nell’ultimo decennio". Pensa che rispetto alle zone a tradizionale insediamento mafioso, a Roma non ci siano le condizioni per seguire quelle indicazioni? "Non credo, anche perché in passato non veniva accettata nemmeno l’idea che in questa città ci fossero le mafie tradizionali in attività, come invece hanno accertato diversi pronunciamenti dei giudici, molto impegnati anche su questo fronte, ed è un significativo passo avanti. Adesso abbiamo un verdetto che nega la mafiosità di questo gruppo che pure è stato considerato responsabile di fatti molto gravi, ma ancora non sappiamo con quali argomentazioni. Come ho già sostenuto, la consapevolezza che non è più il tempo di rifugiarsi dietro la comoda convinzione che in certe aree la mafia non esiste è una condizione essenziale per sconfiggere le mafie". Non teme che l’esito di questo processo possa appannare l’immagine e la credibilità della Procura di Roma nell’opinione pubblica? "Io ho il massimo rispetto degli organi d’informazione e dell’opinione che contribuiscono a formare, ma non lavoriamo per ottenere il plauso della collettività. La Procura proseguirà nel suo impegno a fare nel modo migliore possibile ciò che riteniamo giusto fare, il risultato mediatico non ci riguarda. Come non ci esaltiamo per gli Osanna, così non ci fermiamo per le critiche che oggi non sappiamo neanche se e quanto siano fondate". Sta dicendo che la sentenza non cambia le vostre convinzioni su Mafia Capitale, e la partita non è chiusa? "Sto dicendo che valuteremo quello che scriveranno i giudici del tribunale, su queste materie non si procede per atti di fede. Questa pronuncia riconosce l’esistenza dei fatti che abbiamo ricostruito ma non la nostra tesi sulla loro qualificazione giuridica. I processi hanno le loro dinamiche, vedremo in questo caso come si evolverà. Ma una sentenza, per quanto importante, non può far cadere nel nulla anni di indagini e provvedimenti di altri giudici". Il fatto che un imputato come Luca Odevaine, che per voi ha collaborato alle indagini, abbia ricevuto una pena più alta di quella chiesta dai pm, può essere interpretato come il segnale che collaborare non conviene? "Non lo so. Tra gli strumenti per contrastare la corruzione c’è anche un atteggiamento premiale dei giudici per chi collabora alle indagini, e sul contribuito offerto da Odevaine c’è stata una lettura opposta fra la Procura e il tribunale. Anche in questo caso dovremo leggere le motivazioni, ma di sicuro il contrasto alla corruzione continuerà ad essere al centro dei nostri sforzi". Cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale, approvato il Dlgs Orlando giustizia.it, 23 luglio 2017 Il Consiglio dei Ministri venerdì mattina ha approvato, fra gli altri, su proposta del ministro della Giustizia Andrea Orlando e in esame preliminare, un decreto legislativo di attuazione della legge 21 luglio 2016, n.149, che delega il governo alla riforma del libro XI del Codice di procedura penale, relativo ai rapporti giurisdizionali con autorità straniere. Il provvedimento, Disposizioni di modifica del Libro XI del Codice di procedura penale in materia di rapporti giurisdizionali con autorità straniere, riforma il libro XI del Codice di procedura penale, dedicato ai rapporti giurisdizionali con le autorità straniere e il cui complesso di norme è destinato a operare in via residuale, solo cioè dove non sia prevista una diversa regolamentazione discendente da accordi internazionali. Il decreto legislativo opera modifiche alla normativa in materia di assistenza giudiziaria, ovvero la parte della cooperazione penale internazionale specificamente volta a disciplinare la raccolta della prova, in modo da superare i limiti dell’attuale sistema normativo e consentire di fronteggiare le nuove forme di criminalità, specie di quella organizzata, che hanno esteso il proprio raggio di azione oltre i confini dei singoli Stati. A questo scopo, in chiave di semplificazione, parallelamente alla regolamentazione dei rapporti con i Paesi membri dell’Unione europea, si introducono regole speciali per la cooperazione tra le autorità degli Stati che non fanno parte dell’Ue. Così lo Stato ci spia: cellulari e web controllati per 6 anni di Lorenzo Vendemiale Il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2017 Il sito internet su cui abbiamo navigato, magari anche solo per un click sbagliato. La telefonata ricevuta o addirittura persa, in un giorno qualsiasi che pensavamo di aver dimenticato. Invece resterà tutto negli archivi delle compagnie e dei provider, a disposizione delle autorità giudiziarie, per un tempo lunghissimo: sei anni. Il triplo di quello in vigore attualmente, più del doppio della media degli altri Paesi europei. Praticamente una sorveglianza di massa: con la scusa della lotta al terrorismo il data retention in Italia non avrà più limiti. La svolta in stile "Grande Fratello" è merito di un emendamento firmato dal deputato Pd, Walter Verini (insieme al collega di partito Giuseppe Berretta e all’ex M5s, ora nel Gruppo misto, Mara Mucci) e infilato in una legge sul recepimento di normative comunitarie. Le grandi novità sono due: telefoni e internet vengono equiparati. E il periodo prima di poter cancellare i tabulati viene esteso per tutti addirittura a 72 mesi. All’estero, invece, la soglia media si aggira tra i 2 e i 3 anni. Si tratta di un vero e proprio blitz, considerando che il limite attuale previsto dal Codice del Garante della privacy è di soli 24 mesi per le telefonate (6 per quelle senza risposta) e 12 mesi per i metadati online. Ora tutte queste informazioni resteranno nella disponibilità delle aziende, che dovranno fornirle alle autorità giudiziarie in caso di indagini su particolari reati. Neanche troppo limitati: c’è l’attività anti-terrorismo, certo, ma pure le più generiche "investigazioni complesse per la molteplicità dei fatti tra loro collegati". Le maglie, insomma, sono molto larghe. "Quello che accade è molto semplice", spiega Ugo Mattei, giurista e professore di diritto civile all’Università di Torino. "Le aziende saranno in possesso di una massa di dati privati enorme, che ha ovviamente un valore economico alto, visto l’uso commerciale improprio che spesso ne viene fatto e che è molto difficile da controllare. Mentre lo Stato si assicura la possibilità di fare un "profiling" dei cittadini per un periodo di una lunghezza esorbitante. Praticamente ci stanno schedando". Mattei non è l’unico ad avere dubbi sul provvedimento. Solo pochi mesi fa il garante della Privacy, Antonello Soro, in una audizione al Senato avvisava il governo che "la parificazione tra dati di traffico telefonico e telematico, se non giustificata da specifiche esigenze investigative, potrebbe risultare incompatibile" con le indicazioni comunitarie. Anche il Garante europeo, Carlo Buttarelli, sta seguendo da vicino la questione. Nell’ambiente c’è molta perplessità sulla svolta del governo italiano. Non è un mistero del resto, che l’Europa abbia sempre guardato con diffidenza alla pratica del data retention. Nel 2014 la Corte di Giustizia aveva bocciato la "direttiva Frattini " sulla conservazione dei dati, per una "forte ingerenza nella vita privata dei cittadini" e l’idea di essere esposti ad una "costante sorveglianza". Orientamento seguito poi anche in pareri successivi. Ma il governo italiano se l’è studiata bene: per aggirare i paletti posti a livello comunitario, utilizza un’altra direttiva comunitaria, quella del marzo 2017 sulla lotta al terrorismo. "È paradossale - commenta Mattei: siamo all’Euro - pa che ci dice di contraddire l’Europa. Ormai con la scusa degli attentati stravolgono i principi elementari dello Stato di diritto". Il primo firmatario Verini, invece, difende il suo emendamento: "Abbiamo avuto contatti con esperti e inquirenti, ascoltando le indicazioni della Procura nazionale antiterrorismo. Ci sembra il giusto compromesso tra le esigenze della democrazia e quelle della sicurezza. Anche in aula, del resto, non c’è stata nessuna polemica al momento dell’approvazione". Insomma, se la legge passerà anche in Senato gli italiani dovranno rassegnarsi a vedere le loro comunicazioni conservate molto più a lungo di quanto avrebbero mai pensato. E non è neanche detto che questo serva davvero alle indagini. Anche secondo chi non condivide gli stessi timori sui rischi per la privacy: "Il data retentionin sé non è qualcosa di sbagliato: attraverso le informazioni conservate ci si può anche difendere. Certo, a volte vengono utilizzate impropriamente, ma è una questione diversa", spiega Giuseppe Corasaniti, magistrato della Corte di Cassazione ed esperto di diritto informatico. "Il problema è che la norma rischia di essere inutile, visto che interviene sulla legislazione nazionale, mentre la maggior parte dei provider hanno sede all’estero". "La verità - conclude il giudice - è che il governo dovrebbe fare meno leggi sul web, ed essere più presente dove il web viene regolato davvero: in Europa e nell’Onu". Taranto: in coma dopo uno sciopero della fame, il Tribunale sospende la condanna di Nazareno Dinoi lavocedimanduria.it, 23 luglio 2017 Il Tribunale di Sorveglianza di Taranto ha sospeso la condanna per Salvatore Urbano rimettendolo in libertà. Peccato che il sessantaquattrenne manduriano, ex uomo di punta della malavita locale, non potrà godere del beneficio perché è ricoverato in gravissime condizioni nella rianimazione di Manduria dove è stato trasferito da quelle di Taranto che l’aveva accolto in coma per la conseguenza, pare, di un prolungato sciopero della fame quando era detenuto nel carcere di Taranto. Il tribunale hanno accolto l’istanza presentata dal suo avvocato, Alessandro Cavallo, riconoscendo le gravi condizioni di salute in cui versa Urbano che respira artificialmente grazie ad una macchina a cui è collegato e viene alimentato attraverso un tubo piantato nello stomaco. I medici non gli danno molta speranza di ripresa. Per questo i giudici hanno deciso di "liberarlo" con una sospensione della pena che stava scontando in carcere. Salvatore Urbano © la voce di Manduria Il manduriano Salvatore Urbano, detto "Bionda", quando era rinchiuso nel carcere di Taranto dove stava rispettando lo sciopero della fame per protestare contro il regime carcerario. Colto da malore, lo scorso 4 maggio fu ricoverato in rianimazione per le sue gravi condizioni dovute alla lunga assenza di corretta alimentazione dopo un primo periodo di ricovero nella cella di isolamento del nosocomio tarantino. Lì aveva avuto una grave compromissione respiratoria che aveva costretto i medici a trasferirlo nel reparto di rianimazione dove entrò in coma. Lo scorso 15 aprile, Urbano che stava scontando i residui di una pena di sei anni e quattro mesi di reclusione per estorsione, danneggiamento ed evasione dai domiciliari, aveva scritto una lettera inviata al giornale nella quale lamentava uno stato di malessere e di abbandono anche da parte dei sanitari della struttura che "non si prodigano ad informare chi di dovere". Per questo aveva deciso di intraprendere lo sciopero delle cure e della fame portata sino alle estreme conseguenze. "Bionda", circa un mese prima fece uscire dal carcere una drammatica lettera in cui faceva sapere di aver sospeso le cure e di aver cominciato lo sciopero della fame. "Sono cardiopatico, mi rifiuto di prendere le medicine ma nessuno si preoccupa del mio stato di salute". "Due detenuti che avevano il mio stesso problema cardiaco - scriveva ancora Urbano - sono già morti poco tempo fa, ma purtroppo il tribunale di sorveglianza a cui mi sono rivolto lamentando il mio precario stato di salute, non se ne frega niente". Secondo quanto scrive nella lettera fatta recapitare anche ai giornali, il pluripregiudicato, Salvatore Urbano, detto "Bionda" (in passato tra i personaggi di spicco della criminalità Messapica), aveva così iniziato lo sciopero delle cure decidendo di sospendere la somministrazione di otto medicinali diversi che dovrebbe assumere ogni giorno. Oltre alle compresse, si legge nella lettera, "Bionda" avrebbe anche iniziano a ridurre l’alimentazione. "Mi mettono in condizione di fare anche lo sciopero della fame", scriveva ancora il detenuto che se la prendeva anche con i medici del carcere i quali, sosteneva, "non si prodigano ad informare chi di dovere". Gorgona (Li): agenti in sciopero della fame "trattati peggio dei detenuti" di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 23 luglio 2017 La protesta partirà domenica. "I lavoratori sono come reclusi ma devono pagare anche l’affitto all’amministrazione". Il problema dell’acqua potabile e dei collegamenti a terra. "I veri reclusi siamo noi", avevano denunciato anni fa gli agenti di custodia della Gorgona, l’ultima isola carcere del Mediterraneo. Un malcontento diffuso da tempo che adesso sta diventando qualcosa di più di una protesta sindacale. "Da domenica 23 luglio gli agenti si autoconsegneranno in carcere e inizieranno uno sciopero della fame", annuncia la Fns Cisl. La situazione, secondo il sindacato, è da tempo pesantissima ma si sarebbe diventata insostenibile negli ultimi tempi. I servizi - Nella piccola isola, lunga tre chilometri, larga due e distante trentasette chilometri da Livorno di cui è amministrativamente una frazione, sono reclusi una cinquantina di detenuti che vivono praticamente liberi occupandosi di agricoltura, itticoltura e viticoltura. Il problema è che gli agenti di custodia vivono la stessa situazione. "Anzi sono trattati peggio del carcerati", denuncia il sindacato. Secondo Fns Cisl nell’isola mancano servizi (nessun esercizio commerciale, nessun ufficio postale, farmacia, banca, tabaccaio, alimentare) e adesso gli agenti "sono obbligati dall’amministrazione, adesso, a organizzarsi con un’unica corsa di collegamento in entrata la mattina (tramite motovedetta del Corpo) e un’unica uscita il pomeriggio sempre che la motovedetta non sia in avaria". Le abitazioni - Ci sarebbero poi gravi problemi di locazione per gli agenti. "Non esistendo sull’isola abitazioni private da acquistare o affittare gli agenti sono costretti a dormire in ambienti dell’amministrazione penitenziaria - si legge nella nota sindacale - che pretende per questo che paghino il consumo di acqua ed energia elettrica anche se è il ministero che li obbliga a stare lì". Come se non bastasse le autorità livornesi "hanno dichiarato non potabile l’acqua che esce dai rubinetti delle cucine della mensa, però gli agenti devono pagarne i consumi". I progetti - Eppure anche recentemente Gorgona era stata al centro di importanti progetti. Come quello voluto dai marchesi Frescobaldi, nobile famiglia fiorentina conosciuta anche per la loro produzione vinicola di eccellenza. I Frescobaldi che sono proprietari sull’isola diversi ettari di terreno, hanno prodotto in collaborazione con i detenuti e l’amministrazione carceraria un vino bianco a base di Vermentino e Ansonica considerato di grande qualità. Milano: 12 agenti percorrono 400 chilometri al giorno per sorvegliare una detenuta malata di Marco Galvani Il Giorno, 23 luglio 2017 Lei è all’ospedale, 12 guardie carcerarie perennemente in trasferta. Otto agenti e quattro autisti per piantonare in ospedale una sola detenuta. Tutti i giorni 440 chilometri di trasferta. In un paradossale giro dell’oca fra il carcere di Bollate, quello di Monza e l’ospedale Fatebenefratelli a Milano. Avanti e indietro per ognuno dei quattro turni in cui è organizzata la giornata degli agenti di polizia penitenziaria. Una scelta obbligata, secondo il Provveditorato lombardo dell’Amministrazione penitenziaria, dalla carenza di baschi blu. "Un assurdo spreco di soldi pubblici", per Domenico Benemia, segretario regionale della Uil penitenziari. L’ennesimo. E basterebbe poco per evitare di "buttar via tempo e denaro a spese dei contribuenti". Basterebbe far piantonare la detenuta (di Bollate) in ospedale dagli agenti del carcere più vicino. Quello di San Vittore è a poco più di quattro chilometri dal Fatebenefratelli: in una giornata intera si potrebbero percorrere soltanto 34,8 chilometri. Evitando pure di dover pagare a ogni agente l’indennità di missione e le ore di straordinario. Perché il viaggio imposto dall’organizzazione decisa dai piani alti prevede, per ogni turno, due ore in mezzo traffico per macinare 110 chilometri. Salvo imprevisti nel percorso. Eppure si va avanti così. La mattina un autista prende la macchina di servizio e da Bollate raggiunge il carcere di via Sanquirico, periferia sud-est di Monza, per andare a prendere una agente. Quindi torna a Bollate e carica un altro poliziotto per poi dirigersi all’ospedale. Lì avviene il cambio turno. Lo stesso autista lascia i due agenti che prendono servizio e riaccompagna i colleghi che "smontano" nei rispettivi istituti di competenza, prima Bollate e poi Monza. Fino all’ultimo viaggio per rientrare a Bollate. Dopo 2 ore di viaggio (in straordinario) e sei di turno effettivo. "Un inutile stress per gli agenti - lamenta Benemia. E poi vogliamo parlare dei costi della benzina e dell’usura dell’auto? Tra l’altro abbiamo un parco macchine che ha centinaia di migliaia di chilometri nel motore e questo si riflette anche sui costi delle manutenzioni". E poi dall’altra parte il Ministero "ci taglia il monte ore degli straordinari, come se potessimo abbandonare un detenuto in mezzo a un processo perché abbiamo esaurito le 6 ore giornaliere da contratto". Ma allo stesso tempo gli agenti non hanno certo intenzione di lavorare ore in più senza avere la certezza di essere pagati. A Monza l’ultima conta certifica 334 baschi blu ma effettivamente in servizio sono meno: 55 sono distaccati in altri istituti. In più, adesso, ogni giorno altri quattro poliziotti vengono dirottati in ospedale. Che accumulano mediamente due ore di straordinario a testa, sottratte al "tesoretto" assegnato al carcere monzese. Ma perché, polemizza il sindacalista, "parlando di tagli nessuno ha sollevato il problema delle numerose ore in più che accumula, quasi da una decina di anni, il collega che ogni giorno accompagna un dirigente dell’istituto di Monza al carcere di Lecco per poi rientrare a fine giornata? Sarebbe più conveniente stabilire un trasferimento definitivo. Senza dimenticare l’altro agente inviato in altri istituti lombardi per l’installazione dei sistemi di videosorveglianza. Tutte ore straordinarie tolte da quelle destinate a Monza ma per esigenze di altri carceri. Tanto paga sempre il contribuente". Verona: aggressione in nome di Allah, o no? Interrogazione al Ministro della Giustizia veronasera.it, 23 luglio 2017 "Su carta sono stati verbalizzati i fatti ed in particolare l’aggressione al grido di "Allah akbar" - incalza l’On. D’Arienzo. Possibile che questo non abbia significato, come dice la direttrice?" "Il grave episodio del detenuto che ha tentato di uccidere alcuni agenti penitenziari con una lama costruita in carcere in maniera rudimentale, inneggiando Allah, è avvenuto o no?". Domanda che si pone l’Onorevole Vincenzo D’Arienzo, ma che ovviamente si fanno anche tutti coloro che all’interno del penitenziario non c’erano quando i fatti si sono svolti. Le due versioni contrastanti, l’una fornita dai sindacati e l’altra dalla direttrice del carcere Maria Grazia Bregoli, non possono infatti che lasciare il dubbio su come siano effettivamente andate le cose. "È singolare che gli agenti dicano che il fatto è avvenuto e la direttrice sminuisca tutto. - incalza D’Arienzo - Intanto, parrebbe che il soggetto sia stato già trasferito in un altro carcere, quindi, esprimo soddisfazione perché era quello che avevo chiesto. Montorio non è attrezzato per affrontare questo tipo di detenuti. In ogni caso, non nascondo il mio stupore, le affermazioni della direttrice rischiano di delegittimare agli occhi dei detenuti tutti la credibilità e la professionalità degli agenti interessati e di tutta la categoria". Una critica che l’On. del Partito democratico non lascia fine a se stessa, specificando in seguito come a suo avviso sia di stringente necessità comprendere cosa sia davvero avvenuto quel giorno durante l’aggressione, anzitutto per tutelare opportunamente le guardie carcerarie. In merito quindi D’Arienzo fa sapere di aver in programma la presentazione di un’interrogazione parlamentare al collega di partito Ministro della Giustizia Orlando: "Ritengo doveroso fare chiarezza, non fosse altro perché certe situazioni mettono in pericolo, anche di vita, gli agenti della polizia penitenziaria che espletano il loro dovere. Per questo, presenterò un’interrogazione al Ministro della Giustizia per chiarire l’accadimento". Ad ogni modo l’esponente del Pd non nasconde di avere sulla vicenda un’idea differente dal racconto dei fatti fornito dalla direttrice Maria Grazia Bregoli: "Risulterebbe che il detenuto in questione sia stato oggetto nel tempo di alcune verbalizzazioni per le sue espressioni verbali tipiche del radicalismo di stampo islamico. Su carta sono stati verbalizzati anche i fatti dell’altro giorno ed in particolare l’aggressione al grido di "Allah akbar". Possibile che questo non abbia significato, come dice la direttrice? Va verificato se è vero che il medesimo era monitorato costantemente proprio per i suoi comportamenti radicali. Anzi, pare che la radicalizzazione sia avvenuta proprio in carcere, fenomeno tipico osservato anche in altre carceri italiane e sulle quali il Ministero della Giustizia è intervenuto più volte. Sapere la verità dei fatti - conclude infine D’Arienzo - è un obbligo che mi pongo affinché episodi simili non si verifichino più, ed intendo anche le divisioni tra personale e dirigenza". Verona: trasferito il detenuto attenzionato per "ideologie jihadiste e reclutamento" di Angiola Petronio Corriere di Verona, 23 luglio 2017 È stato trasferito in un altro carcere il detenuto marocchino che ha aggredito due agenti della polizia penitenziaria a Montorio urlando "Allah akbar". Da tempo è attenzionato per il suo radicalismo. Secondo livello. Quello dei carcerati "vicini alle ideologie jihadiste e attivi a livello di proselitismo e reclutamento". Così è stato inquadrato anche lui, dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E per quelle "idee" non solo era stato segnalato più volte, ma era anche attenzionato. È stato trasferito venerdì pomeriggio in un altro carcere, il detenuto marocchino che martedì pomeriggio aveva aggredito due agenti della polizia penitenziaria a Montorio urlando "Alla akbar". Quello che ha una sfilza di precedenti e che si sarebbe radicalizzato proprio in uno dei suoi tanti passaggi in carcere. Lo stesso che quell’aggressione l’avrebbe premeditata, tanto da essere andato ai due baschi azzurri con un coltello rudimentale che si era costruito in cella. Uno degli agenti ha riportato una frattura al braccio, l’altro contusioni guaribili in 15 giorni. Si erano alzate le barricate dei sindacati della polizia penitenziaria, su quell’attacco che poco prima era stato preceduto da un altro, con altri tre agenti feriti. La procura ha aperto un’inchiesta per lesioni e il Sappe aveva parlato chiaramente di volontà di "uccidere". Il giorno dopo, a smontare la ricostruzione era stata però la stessa direttrice del carcere, Maria Grazia Bregoli che aveva negato quelle frasi inneggianti al Profeta. Un dettaglio non da poco, il fatto che quelle due parole siano state pronunciate o meno. E l’"Allah akbar" che il marocchino avrebbe urlato, è stato riportato anche nei verbali delle guardie aggredite. Quella che è a dir poco una "discrasia" tra le due versioni adesso è diventata l’oggetto di un’interrogazione parlamentare a firma dell’onorevole del Pd Vincenzo D’Arienzo, che il giorno dopo l’aggressione aveva chiesto l’allontanamento da Montorio del detenuto con simpatie estremiste. Un’interrogazione che è una sciabolata alla direttrice di Montorio. Rivolgendosi al ministro della Giustizia "per chiarire l’accadimento", D’Arienzo si chiede se "il grave episodio del detenuto che ha tentato di uccidere alcuni agenti penitenziari inneggiando ad Allah è avvenuto o meno?". D’Arienzo, tra le righe dell’interrogazione in realtà si risponde già da solo. "Le affermazioni della direttrice rischiano di delegittimare agli occhi dei detenuti tutti la credibilità e la professionalità degli agenti interessati e di tutta la categoria. Ritengo doveroso fare chiarezza, non fosse altro perché certe situazioni mettono in pericolo, anche di vita, gli agenti"". D’Arienzo ha incontrato i rappresentanti sindacali. "Risulterebbe - dice - che il detenuto in questione sia stato oggetto nel tempo di alcune verbalizzazioni per le sue espressioni, tipiche del radicalismo di stampo islamico. Su carta sono stati verbalizzati anche i fatti di mercoledì ed in particolare l’aggressione al grido "Allah akbar". Possibile che questo non abbia significato, come dice la direttrice". Non resta altro che aspettare la risposta del ministro. E forse il "giallo" del detenuto integralista a Montorio si chiarirà. Siena: favole amare, le storie di vita dei detenuti premiate dal linguista Arcangeli di Katiuscia Vaselli sienanews.it, 23 luglio 2017 L’ideatore del Festival, il noto linguista e docente universitario Massimo Arcangeli, premierà i quattro detenuti che l’8 aprile scorso furono impegnati in un seminario di scrittura creativa dal titolo "L’italiano per scelta o per amore. Tre artisti migranti incontrano i detenuti per un esperimento di scrittura narrativa o creativa". Sono favole cariche di amarezza, di malinconia, di una speranza che spesso cede per poi tornare vivace dentro le righe di un italiano scritto con tanta voglia di saperlo scrivere. Sono storie diverse, scritte dai detenuti del carcere di Santo Spirito, a Siena. Sono storie che i giovani detenuti hanno imparato a scrivere nel corso del seminario di scrittura creativa dal titolo "L’italiano per scelta o per amore. Tre artisti migranti incontrano i detenuti per un esperimento di scrittura narrativa o creativa". In quell’occasione lo scrittore e giornalista Leonardo Luccone, coadiuvato dal rapper Ami Isaa, meglio conosciuto con gli pseudonimi di Meticcio, Peso Piuma, Cina e dalla scrittrice Igiaba Scego, esperta di temi legati alla dimensione della transculturalità e della migrazione, sperimentarono le capacità di narrazione e di redazione di quattro detenuti della casa circondariale. I testi dei detenuti, di notevole interesse per originalità e struttura linguistica, riscossero notevole successo tra gli addetti ai lavori e tra il pubblico presente alla sessione a Palazzo Patrizi, dedicata al tema. Fu proprio allora che Massimo Arcangeli, colpito dalla qualità dei testi, decise di far ritorno a Siena per premiare i detenuti che si erano particolarmente distinti. Così il linguista è tornato, nei giorni scorsi ed ha premiato gli scrittori con libri e dizionari di italiano. Anche il Comune ha voluto far pervenire ai detenuti dei diplomi per il lavoro svolto e proprio ieri anche Susanna Cenni, parlamentare del Pd alla Camera, ha visitato la casa circondariale di Santo Spirito di Siena, accompagnata dal direttore Sergio La Montagna. Negli anni la parlamentare senese si è occupata delle questioni riguardanti le strutture carcerarie del senese, per verificare, anche attraverso visite e incontri con il personale di polizia penitenziaria, le condizioni di vivibilità dei detenuti e quelle lavorative degli agenti. Questioni queste, che sono state al centro dell’incontro che la parlamentare toscana del Pd ha avuto all’interno dell’Istituto di pena di Siena. La Cenni ha commentato positivamente la visita: "Ho potuto vedere e constatare i buoni risultati ottenuti per migliorare le condizioni di vita dei detenuti, che sono impegnati nel loro percorso di recupero, in numerose attività quotidiane, sostenute dal direttore La Montagna e dall’amministrazione comunale di Siena e che coinvolgono soggetti appartenenti al mondo civico, culturale e associativo della città. L’istituto - ha ricordato Cenni - ha fatto tanto sul fronte della riqualificazione della struttura, investendo in opere di miglioramento delle celle, sulla qualità dei servizi igienici e nella creazione di aree per le ore di passeggio dei detenuti. Di particolare importanza sono le collaborazioni con associazioni e soggetti esterni, non solo per il sostegno economico, ma per il fondamentale confronto e le sollecitazioni che ne derivano per la vita e lo sviluppo di attività sociali e culturali all’interno della casa circondariale". I testi premiati "Voi riuscite a sentirvi liberi sapendo che l’unica cosa libera è il vostro pensiero? voi sapete godere della felicità guardando la luce degli occhi dei vostri figli? voi sapete apprezzare una semplice telefonata dl 10 minuti con le vostre persone amate? voi riuscite ad essere contenti perché il vostro prof di italiano vi porta una colomba per Pasqua da condividere con i vostri compagni? Io non so a cosa pesate, ma so’ che farei volentieri a cambio anche solo per un giorno con i vostri pensieri e i vostri problemi….." C.P. "Ma ad un certo punto tutto crollò ed il ragazzo per strada si trovò fu un periodo molto turbolento fatto di alti e bassi, verità e falsa legalità e decise dl adattarsi a tutto inizio con lo spaccio per procurarsi 1 soldi e ne faceva tanti sicché tutto contento inizio a spendere e spandere, si ritrovo pieno di amici ma presto scoprì che tutto era una cosa finta, perché si finì dietro le sbarre dopo di che si trovò solo senza più niente e nessuno… e penso che ciò sarebbe venuto lo avrebbe preso ed affrontato a testa alta perché il gabbio ti può togliere la libertà ma non la voglia dl vivere. Un giorno tutto avrà fine si disse il ragazzo davanti allo specchio, non temere tu tutto ciò, l’unica cosa dl cui aver paura è la morte". M.T. "Cera una volta un ragazzino che si chiamava Pollicino. Pollicino era un bambino molto ambizioso e molto solitario, non faceva altro che passeggiare sui sentieri. Pollicino ha sempre avuto il vizio di lasciarsi alle spalle dei sassolini per non perdersi. Un giorno si fermò sulla riva di un fiume ed iniziò a pensare alle sue ambizioni e disse tra se" … forse, chissà se ci riuscirò..(…). Questa volta si fermò in Italia e vide una insegna che indicava una discoteca, si chiamava L’Imperiale. Pollicino ci pensò e poi entrò. All’interno c’erano tanti ragazzi che ballavano e lui iniziò a ballare, fino allo sfinimento, fino alla morte perché era convinto che sarebbe diventato una nota musicale e lo diventò. La musica lo rapì, Pollicino infatti pensava che la musica era magra e mentre stava per morire continuava a dire magia portami via, voglio volare, viaggiare, fantasticare ed ora che sto per diventare una nota musicale voglio fare ballare". D.G. Genova: "Jukebox della gioia", nasce l’audioteca per i detenuti di Marassi Ansa, 23 luglio 2017 Musiche Est europeo e Africa. Don Fiscer, in linea con Francesco. Si chiama "joybox", il "Jukebox della gioia", la prima audioteca realizzata all’interno del carcere di Marassi. L’idea è di don Roberto Fiscer, fondatore e anima di Radio tra le note, la prima web radio parrocchiale della diocesi di Genova. "La musica è speciale - ha detto il prete - e annulla ogni differenza e ogni problema: quando sono con i detenuti mi sento vicino e come loro e gioisco con loro". Ogni giovedì pomeriggio, per tre ore, il giovane sacerdote entra nel carcere con i suoi lettori audio grazie ai quali i detenuti possono ascoltare le musiche che gli hanno chiesto la settimana prima. Sono previsti tre turni da un’ora ciascuno nei quali i detenuti si alternano nell’ascolto. "È commovente vedere come anche le persone apparentemente più dure si sciolgono ascoltando le musiche dei loro paesi e nella loro lingua". È per questo che, ogni settimana, don Roberto varca il cancello di Marassi con i lettori audio pieni di musiche dei paesi dell’Est Europa, del Sud America, del Nord Africa. "Grazie a questa iniziativa si è creato un bellissimo rapporto con molti detenuti e uno di loro, in particolare, mi aiuta a raccogliere i titoli delle canzoni per la settimana successiva. È un progetto in linea con il desiderio di papa Francesco di essere presenti nelle periferie e vuole essere un piccolo segnale dell’amore e della presenza di Dio che passa anche attraverso la musica. È anche un’occasione terapeutica per i detenuti che, in questo modo, possono provare emozioni e sentimenti positivi". Verbania: "Arte dentro", in mostra i dipinti dal carcere e le opere del Cavalier Tempesta verbanonews.it, 23 luglio 2017 È allestita a Villa Giulia, fino al 15 settembre, la "Mostra Galeotta - Artisti Dentro ospita il Cavalier Tempesta" curata dall’Associazione Artisti Dentro Onlus di Milano. L’esposizione che ha il patrocinio della Città di Verbania e del Museo del Paesaggio, presenta due sezioni in qualche modo complementari, ma molte diverse sul piano della gerarchia delle opere. Nella prima si possono vedere decine e decine di cartoline dipinte da detenuti, che, attraverso questa forma d’arte, comunicano con l’esterno, utilizzando la pittura come un linguaggio universale che più di ogni altro si presta a quel recupero sociale, che la costituzione garantisce. Nella seconda si possono ammirare quattro quadri del pittore olandese di larga fama, Pieter Mulier il Giovane, detto "Il Tempesta" (1637-1701),che nel 1679 fu condannato a vent’anni di prigione, come mandante dell’omicidio della moglie. È quindi evidente che il trait d’union tra le due sezioni è la condizione di carcerati degli autori delle opere esposte. Non c’è dubbio, tuttavia, che il centro dell’ esposizione è costituito dai quattro quadri di paesaggio del Tempesta che dialogano molto efficacemente con lo scenario naturale del Lago Maggiore che si gode da Villa Giulia. Le quattro tele qui esposte sono state scoperte nel 2005 in una collezione privata italiana da Marcel Roethlisberger-Bianco, che le ha pubblicate nel 2008 indicandole come capolavori della maturità del grande vedutista Pieter Mulier detto il Cavalier Tempesta (1637-1701). La qualità suprema dei dipinti e la lettura di alcuni dettagli negli edifici e nel paesaggio, che sembrano far presupporre la conoscenza dalla pittura veneta, inducono a pensare che i quadri ora esposti a Villa Giulia furono con ogni probabilità realizzati nell’ultima, eccezionale fase creativa del maestro, tra il 1685 e il 1701, quando ormai il pittore, libero dalla prigione, poté viaggiare e lavorare tra Milano, il Lago Maggiore, il Veneto e l’Emilia, ricercato e osannato dai suoi nobili committenti e dai suoi estimatori. L’esposizione resterà aperta fino al 15 settembre (martedì, mercoledì e giovedì dalle 15.00 alle 21.00 -venerdì, sabato e domenica dalle 11.00 alle 21.00). Augusta (Sr): dopo il concerto al carcere i bambini abbracciano i papà detenuti lacivettapress.it, 23 luglio 2017 Al termine dello spettacolo con attori studenti e reclusi, questi hanno potuto intrattenersi per ore con i familiari in un ampio spazio attrezzato con tavolini, sedie e un punto di ristoro. In preparazione un corso di ceramica e di modellismo per carcerati e liceali. Una breve premessa, prima di sviluppare l’argomento di questa nota: perché scrivere sul carcere, sulle iniziative che vi si svolgono, sulle positività, pur nella consapevolezza che quello del carcere è il mondo della pena? (e, si potrebbe aggiungere, come Peppino De Filippo in un vecchio film, "e ho detto tutto..."). Intanto perché ogni realtà dove c’è l’uomo è fatta di chiaroscuri, quindi anche di luci, di spicchi di vita, di vibrazioni, di piccole grandezze. E poi, di conseguenza, perché non ho mai capito l’interesse giornalistico che assume il rituale, periodico, articolo o servizio scritto o mandato in onda con l’immancabile titolo "L’inferno delle carceri" col quale testate, anche di rilievo, e di solito attente, fanno il copia e incolla di notazioni che mi sembrano gettare una colata di cemento su realtà che sono molto variegate. Ovvero scrivono di fatti infausti, eventi critici, certo presenti e drammatici ma che, a mio parere, non esauriscono la realtà. Preciso che queste mie considerazioni sono assolutamente in linea con la "Carta di Milano" che rappresenta il "codice etico/deontologico per giornalisti e operatori dell’informazione che trattano notizie concernenti cittadini privati della libertà o ex-detenuti tornati in libertà" e che raccomanda di evitare il sensazionalismo, e di andare verso un approfondimento dei temi. Ciò detto, a conclusione di questo primo semestre di attività, mi soffermo su due iniziative, una appena conclusa, l’altra che si terrà poco prima che La Civetta esca nelle edicole. Entrambe corrono sul filo dei rapporti con le famiglie e la comunità esterna, che troveranno nuovo impulso nella prossima attuazione di due punti della legge delega recentemente approvata dal parlamento, intitolata Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario, che riporto nella scheda accanto. Quella appena conclusa è stata la presenza dei familiari alla serata conclusiva dei concerti estivi all’aperto. E già, perché quando si parla di affettività si intende di solito sesso in carcere (e giù polemiche) mentre invece il concetto è molto più ampio e ricomprende tutti i momenti di incontro non rigidamente incasellati nei colloqui settimanali di un’ora. Sabato scorso ottanta familiari, di cui venti bambini, hanno trascorso diverse ore con i detenuti prima e dopo il concerto tenuto dal coro dell’istituto, la Brucoli Swing Brother’s Band. Per l’occasione abbiamo attrezzato un ampio spazio subito al di là del muro di cinta con palco sedie e, grazie agli amici dell’Associazione Pol Pen che gestisce il bar dell’amministrazione, abbiamo aggiunto un grande punto ristoro che ha consentito ai coristi di vivere questo spazio passeggiando, degustando bibite ed arancine, come nella piazza di un paese, luogo di incontro, di scambio, "luogo" insomma. Naturalmente i coristi nel corso del concerto hanno dedicato molti dei brani a mogli, fidanzate, figli, genitori e, nel corso del brano finale tutti i bambini sono saliti sul palco per cantare in braccio ai genitori. L’altra iniziativa è in via di organizzazione mentre scrivo, e nasce da un’altra appena conclusa, di cui ho già parlato in un precedente numero de La Civetta, ossia un corso di ceramica e di modellismo frequentato dai detenuti all’interno dell’istituto, insieme a magnifici ragazzi e ragazze del liceo Megara. Alla festa finale che ha concluso questa iniziativa l’insegnante di ceramica si è fatta portavoce di una richiesta dei detenuti, lo svolgimento di un minicorso nel laboratorio insieme ai propri figli. E perché no, ho pensato, ed ho detto di raccogliere le adesioni. Sei ragazzi, quasi tutti adolescenti, faranno quindi ingresso in istituto giovedì per stare tutto il pomeriggio in laboratorio, portando con loro alla fine un oggetto artigianale ricordo di quella che penso sarà una giornata particolare. Concludo questa nota facendo un sentitissimo ringraziamento pubblico alla Fondazione Val di Noto che da diversi anni finanzia numerose attività risocializzanti che si svolgono in istituto a favore dei detenuti. Come si sa, le amministrazioni pubbliche sono sempre a corto di fondi e si va alla ricerca di fonti di finanziamento diverse dai normali capitoli di bilancio. Quelle messe a disposizione dalla fondazione sono preziose e consentono di mettere in atto almeno alcune delle idee che la direzione coltiva, per l’attuazione dei principi dell’ordinamento penitenziario. Carcere e giornalismo, la Carta di Milano - Carta di Milano, codice etico/deontologico per giornalisti e operatori dell’informazione che trattano notizie concernenti cittadini privati della libertà o ex-detenuti tornati in libertà: Lettera e) Fornire, laddove è possibile, dati attendibili e aggiornati che permettano una corretta lettura del contesto carcerario; Direttiva 3) Sottolinea l’opportunità che l’informazione sia il più possibile approfondita e corredata da dati, in modo da assicurare un approccio alla "questione criminale" che non si limiti all’eccezionalità dei casi che fanno clamore, ma che approfondisca - con inchieste, speciali, dibattiti - la condizione del detenuto e le sue possibilità di reinserimento sociale. Legge relativa a "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario" definitivamente approvata dalla camera il 14 Giugno 2017: 85 lettera p n. 8) rafforzamento dei contatti con il mondo esterno quale criterio guida nell’attività trattamentale in funzione del reinserimento sociale. Le guerre inutili e le apparenti vittorie Usa di Sergio Romano Corriere della Sera, 23 luglio 2017 In varie occasioni la situazione sul terreno è divenuta più instabile che all’inizio del conflitto. Siamo in un vicolo cieco, anche se i nemici esistono e devono essere affrontati, come nel caso dell’Isis, con fermezza. È ancora possibile, in un mondo afflitto da guerre e minacce, parlare della neutralità come di un possibile rimedio all’uso della forza nelle relazioni internazionali? Ne era convinto Vittorio Dan Segre, scrittore e studioso italo-israeliano scomparso nel 2014. Si era battuto per Israele come giornalista e soldato, ma era giunto alla conclusione che soltanto la scelta della neutralità fra i maggiori protagonisti delle interminabili crisi medio-orientali avrebbe spezzato la catena dei conflitti. A tre anni dalla sua morte il tema è stato discusso a Gerusalemme da un gruppo di amici, riuniti dal nipote Gabriele nel Centro Konrad Adenauer di fronte al Monte Sion e a pochi passi dal grande Mulino che Moses Montefiori aveva fatto costruire nella prima metà del XIX° secolo per dare un lavoro alla povera comunità ebraica della città. In molti degli interventi ho trovato, insieme all’ammirazione per Segre, un’ombra di scetticismo. Non è facile parlare di neutralità in un’epoca in cui le fiamme della guerra bruciano il Grande Medio Oriente, dalle frontiere meridionali del Maghreb all’Afghanistan attraverso tutti i Paesi del Levante e della Mesopotamia. Questo non è una guerra regionale. È una guerra mondiale in cui combattono, a diversi livelli, gli Stati Uniti, la Russia, la Turchia, l’Iran e molte democrazie europee. La neutralità è possibile soltanto quando le potenze rivali smettono di temersi e di odiarsi. Uno Stato può proclamarsi neutrale soltanto se i suoi vicini sono disposti a riconoscere e rispettare la sua neutralità. È utile in questo momento e in queste circostanze, parlare di neutralità? Eppure non vi è mai stato un momento in cui le guerre fossero altrettanto inutili. Il Paese più bellicoso e maggiormente incline ai conflitti (gli Stati Uniti) non ha veramente vinto alcune delle sue guerre maggiori. Non ha vinto la guerra di Corea, terminata con un compromesso quando l’America ha rinunciato a debellare l’avversario. Non ha vinto la guerra del Vietnam, terminata quando gli americani hanno abbandonato il campo di battaglia. E quando ha vinto, come nelle due guerre del Golfo e in quella afghana dell’ottobre 2001, la vittoria è stata soltanto apparente e ha lasciato sul terreno una situazione non meno pericolosa e molto più instabile di quella che aveva preceduto l’inizio del conflitto. Forse l’aspetto più interessante e sorprendente di queste false vittorie è la particolare natura del falso vincitore: una democrazia militare in cui la ricchezza finanziaria, i progressi della scienza e quelli delle nuove tecnologie hanno creato il più raffinato e micidiale degli arsenali. Credo che fra la straordinaria efficacia di questo arsenale e la precarietà delle vittorie esista un nesso. Quanto più l’America mette in campo armi raffinate e distruttive, spesso concepite (come i droni) per ridurre drasticamente il numero delle proprie vittime, tanto più i suoi nemici sanno che non potranno mai batterla sullo stesso piano. È nata così la guerra asimmetrica in cui il nemico degli Stati Uniti ricorre ad armi di cui l’America non può servirsi: l’uso del soldato come bomba vivente, quello della popolazione civile come scudo umano, il massacro dei prigionieri, la distruzione del patrimonio culturale, gli attentati terroristici nelle retrovie del nemico. Possono esservi conflitti che terminano temporaneamente per la stanchezza di entrambi i combattenti, ma non si tratta quasi mai di pace e stabilità. Confesso di non sapere come sia possibile uscire da questo vicolo cieco in cui l’umanità del ventunesimo secolo sembra essere precipitata. I nemici esistono e devono essere affrontati, come nel caso dell’Isis, con fermezza. Ma quale è oggi il senso e la utilità di guerre che non possono essere vinte? Accampamenti e rifugi, nella Roma dei migranti tra ministeri e San Pietro di mattia feltri La Stampa, 23 luglio 2017 Non c’è quartiere della Capitale senza segni dei profughi. Cresce la protesta: bruciati alcuni ricoveri per la notte. Sotto i mille campanili di Roma, Dio ha mille nomi e per ognuno c’è pronta una maledizione. Una vecchia signora, piccina, indica con orgoglio i materassi bruciati. Poco più in là, dei ruderi ricordano la fabbrica di zucchero di suo nonno. "Li ho bruciati io i materassi". Ha ancora le chiavi del cancello che dalla via Tuscolana conduce alla ferrovia, dove sorgeva la fabbrica. "È una vergogna, uno schifo. Scavalcavano il muro e venivano qui a bere e a dormire, a decine. Ma si può tollerare una roba del genere? Sono venuta, ho dato fuoco a tutto. Si è visto il fumo in tutta Roma. Poi sono arrivati carabinieri e gliel’ho detto: sono stata io. Mi hanno guardato come fossi matta. Non mi hanno creduto". A Roma si brucia tutto quello che non va. La spazzatura, i campi rom, ora anche gli accampamenti dei migranti. Che sono migranti doppi, sono arrivati a Roma e migrano da un parco all’altro, da una strada all’altra, a seconda dell’esasperazione degli abitanti e dei rari interventi delle forze dell’ordine. A Colle Oppio, per dire, a qualche decina di metri dal Colosseo, sui prati che hanno coperto la Domus Aurea di Nerone, di accampati ne sono rimasti pochi, sdraiati dietro ai cespugli fra cumuli di bottiglie e resti di pasto e brandelli di carta e bambini che giocano a calcio. I più, le centinaia che avevano preso domicilio in una delle principali aree archeologiche del pianeta, che avevano fondato una piccola città parallela, che lavavano i panni nelle fontane e li stendevano sulle staccionate, che dormivano dentro le tende o sotto il cielo,sono stati sloggiati settimana scorsa. Sloggiati e basta, via da qua. Li avrà accolti qualche altro angolo di Roma. Non c’è zona dalla città che non diventi anche la loro zona. Non è più nemmeno la vecchia questione delle periferie, è la questione di ovunque. A piazza della Repubblica, a duecento metri dalla stazione Termini, a trecento dal Quirinale, sotto i portici arrivano soprattutto la sera, coi cartoni e le coperte e i sacchi a pelo e dormono in fila, come all’ostello, e d’inverno arrivano i volontari con le pizze e le bottiglie di latte. A piazza Augusto Imperatore, a duecento metri da piazza del Popolo, portici simili, scena identica. A piazza Vittorio, fra Santa Maria Maggiore e San Giovanni in Laterano, bivaccano tutto il giorno sul prato o seduti sul muro di cinta con lattine di birra e cartoni di Tavernello da un euro e settantanove. In questi giorni ne hanno mandati via un po’ perché serviva il minimo di spazio e di decoro per le Notti di Cinema, le arene all’aperto, e girano guardie private. Hanno pulito dai cocci di bottiglia e dagli abiti marci. A Trastevere la disputa è fra l’immigrazione e la movida, l’una dannosa all’altra, ed entrambe resistono e condividono gli spazi. A Santa Maria in Trastevere si beve, si fuma e si flirta mentre disgraziati lerci e spesso ubriachi si lasciano dietro il tempo sotto il secentesco palazzo San Callisto. Trastevere è ricolma. Il maggior numero di immigrati, a dimostrazione di quello che oggi è Roma, un luogo di invasione e di disperazione senza zone franche, pernotta nei pressi del ministero delle Finanze o dell’Istruzione. L’intera via della Conciliazione, che va dal Tevere a San Pietro, e il colonnato di Gian Lorenzo Bernini, e di conseguenze le vie di Borgo Pio, sono luogo d’asilo per i senza tetto, e senza terra, e forse senza nome che Papa Bergoglio vuole lì, vicino a sé, nella sua interpretazione del pontificato. I mille campanili di Roma, si diceva. E San Pietro. La Roma cristiana, ecco un’altra eccezione. Le chiese, i monasteri, le opere pie, le decine di mense religiose, sono l’ultimo e utile appiglio per questa povera gente arrivata dall’altro mondo, magari salvata in mare, e poi abbandonata a sé. L’Italia è il paese delle emergenze, si sa, e in questo caso è capace di accogliere e poi tutto finisce. A Roma c’è una possibilità in più: i sagrati, per esempio, dove qualche moneta si raccoglierà senz’altro, dove qualche abito viene distribuito, e un pasto forse lo si rimedia. Così, secondo gli ultimi dati, che risalgono al 2015, gli immigrati a Roma sono 364 mila (i tre quarti di loro ha un lavoro), circa il 13 per cento della popolazione, una percentuale che si considera fisiologica, visti i tempi. Ma si tratta degli immigrati iscritti all’anagrafe. E tutti gli altri, quelli che non lavorano, non hanno casa, e l’anagrafe ignora? Quante migliaia sono? Quante, se sono arrivati fin dentro il Vaticano, a due passi dal Quirinale, a pochi metri dal Colosseo? Perché qui si è volutamente trascurata la disastrosa condizione delle periferie, già nota, e non per tutelare le zone più ricche ma per restituire la dimensione del fenomeno. Ci sono piccoli (o medi) accampamenti mobili a villa Ada, che fu la residenza estiva dei Savoia, a villa Borghese, in quasi tutti i parchi romani, nei sottopassi stradali, dentro e fuori le stazioni ferroviarie, sotto gli archi degli acquedotti, negli angoli delle piazze, a ridosso o nei dintorni di ognuno dei monumenti che rendono Roma la magnifica, ci sono accattoni a ogni angolo di strada, scalzi, storditi dalla vita all’aperto, che orinano e defecano dove possono, cioè lì, e passeggiare significa andare dentro zaffate e miasmi, e sbattere il naso contro la miseria irrimediabile, significa allungare una sigaretta e una moneta come palliativo alla disorganizzazione e all’incuria più plateali, davanti alle quali non c’è istituzione che possa ritrarsi. Roma è sempre stata la città dei miserabili, lo era specialmente nel medioevo. Resiste perché è scritto sulla sua pelle, e resisterà ancora per sua natura, intanto però che le borgate ribollono, e una vecchia donna dà fuoco ai materassi, e si alzano le maledizioni. Polonia. Il colpo di grazia all’indipendenza del potere giudiziario di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 luglio 2017 Al Sejm, la Camera bassa del parlamento polacco, sono bastati due giorni per approvare le modifiche alla Legge sulla Corte suprema. Il Senato lo ha fatto altrettanto rapidamente e ora spetta al presidente della Repubblica. A quel punto il ministro della Giustizia avrà tra le mani poteri enormi, tra cui far decadere i giudici della Corte suprema, nominarne i nuovi, avviare procedimenti disciplinari nei confronti di giudici "riottosi" e intervenire nel merito delle decisioni prese dalla Corte in occasione di procedimenti disciplinari precedenti. Se entrerà in vigore, dopo quella sul Consiglio nazionale della magistratura e quella sui tribunali ordinari (i cui presidenti e vicepresidenti saranno nominati dal ministro della Giustizia, che dal 2016 è già procuratore generale), la nuova Legge sulla Corte suprema sancirà la fine dello stato di diritto e dell’indipendenza dei poteri in Polonia. Di questo scenario si è resa conto anche la Commissione europea, che ha minacciato di applicare l’articolo 7 del Trattato dell’Unione europea, che autorizza il Consiglio europeo ad ammonire uno stato membro laddove vi sia "un chiaro rischio di una grave violazione" del rispetto dello stato di diritto e dei diritti umani. Turchia. L’Ue prenda una posizione netta su Erdogan di John Dalhuisen* Il Manifesto, 23 luglio 2017 Quanto tempo ci vorrà prima che i governi europei rompano il silenzio sulla Turchia? Nei giorni scorsi il presidente Receyp Erdogan ha minacciato che lo stato d’emergenza potrebbe durare "parecchi anni": "Prima mozzeremo le teste di questi traditori, poi li faremo comparire al processo vestiti con le tute arancioni di Guantánamo", ha dichiarato in una minacciosa invettiva. In Turchia la verità e la giustizia sono diventate sconosciute. Sulla base dell’accusa palesemente assurda di sostenere un’organizzazione terroristica, sono stati imprigionati sei difensori dei diritti umani. Sono in attesa di un processo che potrebbe prolungare la loro detenzione per mesi. Altri quattro sono stati rilasciati ma l’indagine nei loro confronti continua. Sono sottoposti a limitazioni di movimento e devono presentarsi alla polizia tre volte alla settimana. Tra le persone imprigionate c’è Idil Eser, direttrice di Amnesty International Turchia. "Non ho commesso alcun reato", mi ha scritto la scorsa settimana dal carcere. Così come gli altri, del resto. Nell’ultimo anno il governo turco ha colto ogni minimo segno di dissenso come una scusa per intensificare la repressione. Ormai, anche difendere i diritti umani è diventato un reato. Esattamente un anno fa, la gente in Turchia assisteva con orrore all’arresto di giornalisti in diretta televisiva. I bambini venivano svegliati di notte dal rumore degli aerei e dai colpi d’arma da fuoco. In un bagno di sangue durato 12 ore, morirono oltre 250 persone e più di 2.000 rimasero ferite. In molti tirarono un sospiro di sollievo, il giorno dopo, quando si sparse la notizia che il tentativo di colpo di stato era fallito. Fu un momento fugace. Cinque giorni dopo, il governo impose lo stato d’emergenza. Da allora, lo stato d’emergenza è stato esteso di tre mesi in tre mesi, ogni volta con risultati peggiori. Sono state avviate indagini nei confronti di 150.000 persone accusate di far parte della "Organizzazione terroristica Fethullahista", ossia di avere rapporti col predicatore e presunto ideatore del colpo di stato Fethullah Gülen. E il numero cresce di giorno in giorno. Come effetto della repressione, circa 50.000 persone si trovano attualmente in carcere. Tra di loro, 130 giornalisti: il numero più alto rispetto a ogni altro paese al mondo. Oltre 100.000 impiegati del settore pubblico, tra cui un quarto dell’intero sistema giudiziario, sono stati licenziati in modo arbitrario. Solo l’ultima settimana, centinaia di accademici hanno perso il lavoro e sono stati spiccati 140 mandati d’arresto nei confronti di operatori informatici. Alla fine, il mese scorso, la purga ha bussato alle porte di Amnesty International. Taner Kiliç, il presidente della nostra sezione turca, è stato posto in detenzione preventiva per la ridicola accusa di far parte della "Organizzazione terroristica Fethullahista". È accusato di aver scaricato l’applicazione di messaggistica scelta per comunicare dal movimento di Gülen. Taner è un professionista nel campo dei diritti umani ma un neofita in fatto di tecnologia: non solo non ha mai usato quell’applicazione ma non ne aveva mai sentito parlare. Nei giorni scorsi il presidente Receyp Erdogan ha minacciato che lo stato d’emergenza potrebbe durare "parecchi anni": "Prima mozzeremo le teste di questi traditori, poi li faremo comparire al processo vestiti con le tute arancioni di Guantánamo", ha dichiarato in una minacciosa invettiva. Governando attraverso decreti esecutivi, eludendo il controllo parlamentare e persino quello dei sempre più remissivi tribunali, il governo ha devastato le istituzioni statali e civili con una ferocia che ricorda quella del regime militare degli anni Ottanta. È fuori discussione che i responsabili delle violenze che hanno provocato morti e feriti durante il tentato colpo di stato dello scorso anno vadano portati di fronte alla giustizia. Ma questi crimini non possono servire da alibi per un’ondata repressiva che non pare conoscere limiti. Il Presidente Erdogan è salito al potere nel 2002 promettendo di rompere i ponti con un triste passato. E invece, più è diventato potente e più ha finito per emulare le pratiche repressive che l’avevano preceduto. Con alcune eccezioni, la comunità internazionale sta zelantemente mantenendo il silenzio su quanto accade in Turchia. Per tanti paesi la Turchia è troppo importante perché i diritti umani siano presi in considerazione. Hanno bisogno della Turchia per tenere lontani migranti e rifugiati. È un alleato in Siria. Serve per fermare l’avanzata del gruppo armato che si è denominato Stato islamico. Il governo turco lo sa bene e ne trae vantaggio, ottenendo che gli altri governi chiudano gli occhi sulle violazioni dei diritti umani che sono sotto gli occhi di tutti. Nonostante una politica estera che dovrebbe proteggere i difensori dei diritti umani a livello globale, l’Unione europea ha vergognosamente mancato di rispondere in modo deciso alla terribile repressione dei diritti umani in Turchia. Martedì prossimo, 25 luglio, quando incontrerà il ministro degli esteri turco a Bruxelles, l’Alta rappresentante dell’Unione europea per la politica estera Federica Mogherini avrà la possibilità di fare ammenda. Invece di nascondersi dietro a parole melliflue e a una morbida diplomazia, chieda esplicitamente il rilascio di Idil, di Taner e degli altri difensori dei diritti umani! Non chiediamo nulla di meno. Ho parlato con alcuni dei miei colleghi in Turchia. Alcuni di loro erano stati per ore all’esterno del tribunale e avevano la voce rotta dall’emozione. Erano preoccupati non solo per i loro colleghi ma anche per il loro paese. Quanto tempo ci vorrà prima che il mondo rompa il silenzio? Mentre il mondo assiste muto, le persone vengono imprigionate una a una. Fino a quando, presto, non ne rimarrà nessuna. *Direttore di Amnesty International per l’Europa e l’Asia centrale Giappone. Indigenti e con la mano lesta, gli anziani che sognano un posto in carcere di Carlo Pizzati La Stampa, 23 luglio 2017 Un detenuto su cinque ha più di 60 anni. Per molti nonni del crimine la cella è meglio dell’ospizio. Ushikoshi Takeko, 82 anni, che s’è infilata nove cotolette di pollo fritto in borsetta per la quarta volta in tre anni. Shikada Kesae, 77 anni, è stato beccato con le tasche piene di polpette di maiale e arancini. La 75enne Tamako Sagai è stata arrestata per aver borseggiato più di 20 coetanee. Matsumoto Yoshimatu, 74 anni, chiedeva al taxi di aspettarlo col motore acceso fuori dal supermercato dove razziava diserbante, macchine fotografiche digitali e datatissime audiocassette per ascoltarsi inni strappalacrime di un famoso cantante novantenne. Ma ci sono crimini più seri, come quello della "vedova nera di Kyoto", una 67enne che ha fatto fuori nove mariti avvelenandoli con piccole dosi di cianuro, facendoli passare per incidenti, attacchi cardiaci, scivolate in moto o cancro e incassando 7 milioni di euro in eredità e assicurazioni. L’hanno bloccata mentre cercava vittime da sposare nei siti di incontri online. Rischia il patibolo. Ma questo è un caso estremo. Il dato più importante è che il 20% delle persone arrestate in Giappone ha più di 60 anni. E quasi un terzo dei carcerati ha più di 65 anni, il 27 per cento. Il fenomeno dilagante del "crimine d’argento" è preoccupante per la società e per l’economia giapponese. Secondo le cifre della Customer Products, dal 2001 gli arresti per taccheggio degli over 60 sono aumentati del 35 per cento. Ma è del 470 per cento l’aumento dei recidivi. Per il direttore Patrick Hansend è la statistica più utile: "È la prova che gli anziani vogliono andarci davvero in prigione. Si chiedono: vado in ospizio a pagamento o vado in prigione gratis?". Secondo il ricercatore Yuki Shinko, gli anziani manolesta da supermercato si danno al crimine perché sono annoiati e soli, ma anche perché non hanno paura delle ramificazioni legali. "Se ti arrestano, almeno avrai un tetto, cibo buono tre volte al giorno e controlli medici regolari. Meglio di così". Nel 2017 sono i più vecchi ad essere spregiudicati, aggressivi e irrispettosi in confronto ai giovani, questo lo può testimoniare chiunque viaggi in Giappone. Una volta si temevano i giovani drogati, ora i "lupi grigi" senza nulla da perdere. Molte prigioni sono ora villaggi per la terza età sponsorizzati dallo Stato. Vitto, alloggio e cure mediche gratuite in cambio di una libertà di cui spesso non si sa che fare. La pensione statale è 6000 euro l’anno. Il carovita ha raggiunto i 7700 euro l’anno. Ma c’è un altro motivo, secondo Ochi Keita, della facoltà di criminologia della Hosei University: "Molti anziani sentono d’aver dato così tanto alla crescita economica della nazione che una piccola trasgressione gli sarà perdonata". Il furto come risarcimento. Ma è soprattutto l’indebolimento della rete familiare e della società, scrive Fujiwara Tomoi nel suo "Anziani fuori controllo" a spingere i pensionati a ruberie, aggressioni, stalking. E poi le prigioni-ospizio sono così comode e sicure in rapporto a quelle occidentali. Non si cerca la fuga "dalla" prigione, ma si fugge "nella" prigione. "Lavorare come assistente carcerario è diventato come lavorare in un ospizio", si lamenta un funzionario del ministero della Giustizia Shinsuke Nihioka. Ad esempio, ad Asahikawa, nell’Hokkaido, l’età media dei carcerati è 50,6 anni. Il detenuto più anziano ha 88 anni. Ognuno ha una cella illuminata, scrivania, sedia, letto di legno, tv, e scale con rampe e scorri-mano. Nelle migliori carceri, il dietologo indica con bollini colorati il menu adatto alla salute dell’anziano. Nelle peggiori, ci sono infermieri-volontari, carcerati più giovani in uniforme bianca che fanno da badanti ai più anziani. È un circolo vizioso. L’aumento del "crimine geriatrico" costringe lo Stato a costruire più prigioni-ricovero. Questo rende l’opzione di andare in prigione più allettante. E i recidivi aumentano. Anche l’economia è un circolo pericoloso per gli anziani. Il Giappone ha la crescita bloccata da 20 anni. Il premier Abe ha fatto stampare moneta per spingere i consumi, creando un’inflazione che danneggia il potere d’acquisto delle pensioni. Il sistema contributivo per ora regge, ma poiché questo è il Paese più longevo al mondo, con un’aspettativa di vita di più di 83 anni, mantenere un esercito della terza età diventa più complesso. Strane storie dall’esotico Giappone? Mica tanto. In questo il Giappone è vicino all’Italia che è il Paese con più criminali dai capelli bianchi in Europa, più del doppio della media.