Interpellanza parlamentare al Ministro della Giustizia sulla Casa di Reclusione di Padova camera.it, 22 luglio 2017 I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro della giustizia, per sapere - premesso che: da oltre un mese, ad avviso degli interpellanti, dai giornali locali, si evince un attacco mediatico contro la Casa di reclusione di Padova per tutto quello che rappresenta dal punto di vista dell'esecuzione del trattamento penitenziario in applicazione di quanto previsto dalla Costituzione, dalle leggi, dagli ordinamenti e da regolamenti specifici, oltre a quanto previsto dalle direttive europee; questo attacco è rivolto in particolare modo al precedente direttore Salvatore Pirruccio (promosso dallo stesso dipartimento di amministrazione penitenziaria da poco più di un anno a vice provveditore delle carceri del Triveneto), alle cooperative e alle associazioni operanti all'interno del carcere Due Palazzi di Padova, che affiancano e sostengono le istituzioni nell'applicazione dell'articolo 27 della Costituzione, che considera le pene detentive come uno strumento di rieducazione e riabilitazione dell'individuo nella società, elementi che limitano moltissimo la possibilità di recidiva e che dunque tutelano la sicurezza collettiva; nello specifico, la Cooperativa Giotto e Ristretti Orizzonti (Associazione Granello di senape), assieme a tutto il tessuto associativo e alla presenza dell'istituzione scolastica, sono considerati come un fiore all'occhiello nell'intero sistema carcerario italiano e internazionale per i percorsi di reinserimento nelle attività lavorative e di cessazione delle azioni criminali dei detenuti, attraverso programmi di apprendimento scolastico, professionale e culturale; la Casa di reclusione di Padova è un modello di qualità ed eccellenza per il lavoro svolto dai detenuti opportunamente affiancati dalle cooperative, che, attraverso i loro programmi di qualifica professionale, garantiscono un altissimo tasso di reinserimento nella società dopo il periodo detentivo; di particolare rilievo è l'attività svolta da Ristretti Orizzonti, che conta una redazione di decine di detenuti e un progetto con le scuole che vede ogni anno il confronto con circa 8.000 studenti, e permette di conoscere dall'interno la vita, le dinamiche e le criticità che si verificano durante la detenzione, e soprattutto permette alle persone detenute una riflessione sul proprio reato e sui danni arrecati, con particolare attenzione alle vittime, scongiurando e prevenendo la reiterazione dei reati commessi, anche attraverso l'incontro con i familiari delle vittime di crimini; alcuni organi di stampa locali hanno incriminato il modello rappresentato dalla casa di reclusione di Padova dando risalto all'accusa, in particolare alla Cooperativa Giotto, a Ristretti Orizzonti e ai relativi presidenti, di essere i responsabili del declassamento a detenuti comuni di "dodici" detenuti (alcuni di questi impegnati in percorsi scolastici, lavorativi e di attività culturali educative) reclusi in regime di alta sicurezza, per evitare il loro trasferimento in altre carceri dopo la trasformazione del Due Palazzi da carcere di alta sicurezza a carcere a media sicurezza, avvenuta nel 2015 (anche se in realtà a Padova permane una sezione di alta sicurezza); in particolare, inoltre, in una testata locale il ritrovamento di un cellulare e di droga è stato addebitato a presunte libertà di movimento godute da alcuni detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti, citati come "pupilli" della direttrice della rivista; una lettera aperta della stessa, nella quale si faceva chiarezza sulla notizia in modo puntuale, non sarebbe mai stata pubblicata dal quotidiano; le strumentalizzazioni mediatiche hanno origine, tra l'altro, da un'ispezione fatta dal dipartimento di amministrazione penitenziaria nel 2015, che, secondo quanto sempre riferito dai quotidiani locali, rilevava una stretta collaborazione tra la Cooperativa Giotto, Ristretti Orizzonti e l'allora direttore, e da un'indagine in corso per falso in atto pubblico che vede coinvolto proprio Pirruccio, su cui Ristretti Orizzonti e la Cooperativa avrebbero esercitato forti pressioni per la declassificazione dei "dodici" detenuti; il merito e l'azione di altissimo valore di Ristretti Orizzonti sul tema della "declassificazione" sono stati sostanzialmente sottolineati proprio dal direttore della direzione generale detenuti e trattamento del dipartimento di amministrazione penitenziaria Roberto Calogero Piscitello (che ha la competenza per le declassificazioni dei detenuti che si trovano in regime di alta sicurezza) il 5 ottobre 2016 (testo registrato e pubblicato nel numero del novembre 2016 di Ristretti) e il 14 aprile 2017 (testo registrato e in pubblicazione nel prossimo numero di Ristretti) davanti alla stessa redazione di Ristretti Orizzonti; è necessario rilevare come nessun direttore di carcere abbia la facoltà di declassificare alcun detenuto, facoltà che spetta invece esclusivamente al dipartimento di amministrazione penitenziaria, e che non sia arrivato alcun comunicato da parte del dipartimento stesso per evidenziare questa prerogativa, soprattutto dopo le polemiche sull'indagine che vede coinvolto il direttore Pirruccio e, indirettamente, Ristretti Orizzonti e la Cooperativa Giotto-: se il Ministro interpellato sia a conoscenza dei fatti esposti in premessa e abbia disposto, per quanto di competenza, tutte le verifiche necessarie al riguardo, per evitare che enti, la cui meritoria e ormai ultraventennale azione è sempre stata riconosciuta anche dalle stesse istituzioni di giustizia e penitenziarie, possano essere delegittimati nel loro lavoro. (2-01891) "Zan, Ginoble, Berretta, Pilozzi, Morassut, Iacono, Rostellato, Orfini, Peluffo, Tino Iannuzzi, Malpezzi, Giachetti, Rubinato, Albanella, Bazoli, Benamati, Crivellari, Culotta, Aiello, Argentin, Bini, Villecco Calipari, Ginefra, Boccadutri, Cuperlo, Chaouki, Bratti, Carella, Manfredi, Tinagli, Marzano, Amato, Petrini". (18 luglio 2017) CAMERA DEI DEPUTATI. SEDUTA 21 LUGLIO 2017 PRESIDENTE. Chiedo all'onorevole Zan se intenda illustrare la sua interpellanza o se si riservi di intervenire in sede di replica. ALESSANDRO ZAN. Grazie, Presidente. L'interpellanza in oggetto riguarda la campagna mediatica e politica che si è sviluppata in questi mesi contro il carcere “Due Palazzi” di Padova, in particolare sia contro la Cooperativa “Giotto”, una realtà quasi trentennale che dà lavoro a centinaia di detenuti in svariati settori professionali, e anche contro l'associazione “Granello di senape”, che, attraverso il lavoro di una redazione, pubblica la rivista Ristretti Orizzonti e gestisce un importante centro di documentazione. Per comprendere pienamente il valore di queste due realtà all'interno del carcere di Padova, è utile partire da alcuni dati nazionali e confrontarli, poi, con quelli della realtà padovana. Nel 2016, solo un anno fa, in Italia erano detenuti nelle carceri più di 50 mila individui e il tasso di recidiva, ovvero quando i detenuti una volta scontata la pena tornano a commettere ancora reati, era stimato attorno al 68 per cento: una percentuale altissima, che in termini di costi per le casse dello Stato si traduce circa tra i 3 e i 4 miliardi di euro annui. Oggi solo il 30 per cento dei detenuti lavora in carcere e tra questi solo il 5 per cento ha un lavoro che prepara seriamente ed efficacemente alla vita esterna, al ritorno in società dopo il periodo detentivo. Per questo voglio portare l'esempio del carcere di Padova, considerato un modello in termini di riabilitazione dei detenuti, perché lì sono detenute circa 600 persone, di cui 140 operanti nella Cooperativa “Giotto” con un lavoro stabile. Basta questo dato per comprendere l'altissimo valore sociale di questa cooperativa. Il tasso di recidiva di questi lavoratori è bassissimo ed è compreso tra il 2 e il 3 per cento, contro una media nazionale del 68 per cento. Si stima, inoltre, che ogni punto di recidiva in meno posso far risparmiare allo Stato 40 milioni di euro l'anno. Questo significa che quando i detenuti imparano e praticano un lavoro in carcere, poi, quando usciranno, una volta scontata la pena, difficilmente torneranno a delinquere di nuovo e questo va a vantaggio dell'intera società. Ristretti Orizzonti , invece, è un progetto che vede coinvolte decine di detenuti, alcuni che partecipano attivamente alla redazione del giornale, interna al carcere di Padova, altri che frequentano i laboratori di scrittura. Non è una semplice testata giornalistica carceraria, ma è una fonte preziosa di informazioni sulla vita dei detenuti in carcere. Senza Ristretti Orizzonti si conoscerebbe molto meno di quel che accade nelle carceri italiane, nelle scuole non si parlerebbe di carcere, oggi 8 mila studenti all'anno non incontrerebbero i detenuti avviando così uno scambio prezioso, non si organizzerebbero percorsi di dialogo tra le vittime, i loro familiari e gli autori di reato: elementi, questi, fondamentali per attivare nei detenuti una riflessione sulla propria condotta e contribuire ad abbattere la recidiva. Tuttavia, queste attività formative, lavorative e intellettuali importantissime, sia per i detenuti sia per la collettività, nelle ultime settimane sono state attaccate violentemente da organi di stampa locali e nazionali: una campagna diffamatoria ampiamente descritta nel testo dell'interpellanza. Attacchi poi strumentalizzati politicamente anche in questo Parlamento per opposizione alla riforma penale, poco fa votata da questa Camera. Sono stati descritti decine di articoli, infangando l'azione di cooperativa Giotto e di Ristretti Orizzonti, parole che hanno dato spunto, poi, per associare queste realtà perfino alla criminalità organizzata, poiché tra i detenuti lavoratori vi sono anche individui condannati per reati di tipo associativo, anche se nel pieno di un percorso rieducativo. Pure in questo caso, la drammatica tendenza alla creazione di fake news ha prodotto i suoi danni. Dall'indagine che vede coinvolto l'ex direttore Pirruccio del Due Palazzi, si è cercato di demolire l'operato di queste due realtà, accusate di avere esercitato forti pressioni sul direttore del carcere, per il declassamento di detenuti da alta sicurezza a media sicurezza, tutte falsità, dato che nessun direttore può avere questa prerogativa di declassamento, di esclusiva competenza del DAP, cioè il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Dunque, questi attacchi mediatici sono stati un efficiente carburante per alimentare una lotta politica delle opposizioni anche contro l'operato del Governo, in tema di riforma della giustizia e, in particolare, del processo penale. È stato strumentalizzato e attaccato l'unico sistema virtuoso, che in questi decenni ha saputo dimostrare di abbattere veramente la recidiva, contribuendo alla sicurezza collettiva e al risparmio di ingenti risorse statali. Il Ministero della giustizia ha da sempre riconosciuto il grande valore di queste realtà, per usare le parole del direttore Piscitello dell'ottobre scorso, numero uno della direzione generale del DAP, che dice: ci provano fino allo stremo delle forze, a rieducare i detenuti al valore del lavoro e della legalità. Tuttavia, in queste settimane non è stato prodotto, anche da parte del Ministero, alcun comunicato né è stata presa alcuna posizione ufficiale, a difesa della cooperativa Giotto e di Ristretti Orizzonti. Silenzio che rischia di svilire ancora di più la loro azione meritoria, già pesantemente vittima di un'insensata gogna mediatica. Quest'interpellanza intende chiedere la posizione del Ministero su questi fatti e fugare ogni ambiguità istituzionale nei confronti delle cooperative e delle associazioni, che contribuiscono quotidianamente alla rieducazione dei detenuti, alla loro riabilitazione in società e, di conseguenza, alla sicurezza di tutti i cittadini. PRESIDENTE. Il Sottosegretario di Stato per la Giustizia, Gennaro Migliore, ha facoltà di rispondere. GENNARO MIGLIORE, Sottosegretario di Stato per la Giustizia. Grazie, signor Presidente. Con l'interpellanza in discussione, sono stati richiesti chiarimenti sull'opera svolta all'interno dell'istituto penitenziario di Padova da associazioni di volontariato e cooperative sociali, nonché sulla responsabilità della direzione dell'istituto, ipotizzata da alcuni organi di stampa, in ordine alla declassificazione da alta sicurezza a media sicurezza del circuito di appartenenza di alcuni detenuti. La casa di reclusione di Padova, nell'ambito del piano di rivisitazione dei circuiti penitenziari, è stata destinata dal 2015 alla gestione di detenuti di media sicurezza e il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ha, conseguentemente, richiesto alla direzione dell'istituto dettagliate informazioni sui percorsi trattamentali avviati dai detenuti di alta sicurezza, fino a quel momento presenti presso il carcere padovano. L'articolazione ministeriale ha comunicato che tale richiesta di parere costituisce solo uno dei passaggi procedimentali, in cui si articola l'istruttoria volta all'assunzione del provvedimento di declassificazione, di esclusiva competenza del DAP (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria). La procedura di declassificazione dei detenuti appartenenti ai circuiti di alta sorveglianza, attivabile d'ufficio o su istanza di parte, procede con l'acquisizione del parere del gruppo di osservazione e trattamento, per quanto attiene al percorso trattamentale, e prosegue con l'acquisizione dei pareri delle competenti direzioni distrettuali antimafia e degli altri organi investigativi interessati, per quanto riguarda l'attività del collegamento del detenuto con l'ambiente criminale di provenienza. L'amministrazione penitenziaria, infatti, deve procedere alla decisione sulla declassificazione, solo una volta acquisiti tutti gli elementi necessari e utili alla valutazione sull'opportunità o meno della permanenza nel circuito di alta sicurezza della persona detenuta. Il procedimento, descritto nelle sue linee generali, ha assunto caratteristiche di particolare complessità, per quanto attiene la valutazione dei detenuti presso la casa di reclusione di Padova. È stato, di fatti, necessario vagliare ben 117 posizioni, dovendosi procedere a rivalutazione, in quanto pareri favorevoli già espressi dalla direzione dell'istituto sono risultati non conformi alle vigenti disposizioni, come emerso dagli esiti della visita ispettiva svolta presso l'istituto penitenziario. Gli accertamenti, che sul punto sono stati avviati, hanno peraltro portato all'apertura di un procedimento penale, attualmente pendente presso la procura della Repubblica, presso il tribunale di Padova. La declassificazione, disposta dal competente Dipartimento, ha portato alla dismissione di uno dei riparti per detenuti di alta sicurezza, mentre altra sezione è ancora in funzione, in attesa del trasferimento dei detenuti verso altre idonee strutture. Per quanto concerne le attività trattamentali assicurate presso l'istituto penitenziario, l'offerta è articolata e di alto livello, sia per quanto riguarda l'istruzione scolastica e la formazione professionale, sia per quanto concerne le attività gestite dalle cooperative sociali. Quanto all'offerta didattica, si osserva che i corsi di alfabetizzazione di scuola secondaria e di primo grado coinvolgono attualmente circa 70 persone, mentre il corso di scuola secondaria superiore, gestito dall'Istituto tecnico settore economico, ha circa 50 iscritti. All'interno della casa di reclusione di Padova è inoltre presente un polo universitario, che garantisce corsi di Giurisprudenza, Scienze politiche, Lettere, Scienze dell'educazione, Ingegneria informatica, Psicologia e Agraria. Al dicembre 2016 risultano iscritti 37 detenuti studenti. Riguardo alle attività lavorative, sono impiegati alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria 115 detenuti. Un considerevole numero di detenuti lavorano, altresì, presso diverse cooperative sociali, che da anni operano presso l'istituto in questione. La cooperativa Giotto, nel primo semestre del 2017, ha assunto 85 detenuti, impiegati nel call center e nell'assemblaggio delle biciclette. La cooperativa Work Crossing gestisce il laboratorio di pasticceria e, nel medesimo periodo, ha assunto complessivamente 39 detenuti. La cooperativa Altra Città gestisce la lavorazione di legatoria e cartotecnica e ha assunto, nello stesso periodo, 28 detenuti. All'interno della struttura penitenziaria è attiva, infine, da anni, nell'ambito delle associazioni di volontariato, l'associazione “Granello di senape”, che ha promosso l'attività redazionale del periodico Ristretti Orizzonti e altre attività ad essa connesse, quali uno sportello giuridico, corsi di scrittura e altro. L'esperienza maturata e le riflessioni, sviluppate nell'ambito degli stati generali dell'esecuzione penale, fanno ritenere che la collaborazione con le istituzioni scolastiche e con il mondo della cooperazione del volontariato appare indispensabile per la realizzazione dei processi trattamentali, funzionali all'effettiva risocializzazione delle persone detenute. Per quanto attiene specificamente alla casa di reclusione di Padova, l'importanza di tale esperienze appare evidente e, anche alla luce dei risultati della visita ispettiva, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria dovrà adoperarsi, affinché tali attività siano coordinate al meglio. PRESIDENTE. L'onorevole Zan ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto per la risposta alla sua interpellanza. ALESSANDRO ZAN. Sì, grazie Presidente, mi ritengo soddisfatto e ringrazio molto il Governo e il sottosegretario Migliore per le risposte fornite e penso a una tutela anche istituzionale di queste realtà - nel caso particolare di Padova, ma parliamo di tante cooperative e associazioni che lavorano nelle realtà carcerarie di tutta Italia -, che, se difese e sostenute, possono dare veramente degli ottimi risultati, proprio per quel principio dell'articolo 27 della Costituzione, secondo cui i detenuti devono essere riabilitati e devono essere reintegrati nella società, proprio per una sicurezza della collettività. Laddove i detenuti imparano un lavoro e migliorano il proprio profilo scolastico, questi detenuti, una volta usciti, possono meglio inserirsi nella società e, dunque, rendere forte il principio presente, appunto, nell'articolo 27 della Costituzione. Per questo motivo, oltre che con un supporto di tipo istituzionale mediatico, è fondamentale sostenere queste realtà in tutto il territorio nazionale, anche in termini economici e finanziari. Per questo ho presentato un'interrogazione al Governo, firmata peraltro da più di 40 colleghi deputati, per chiedere un rifinanziamento della legge Smuraglia, dopo che in questi anni questa legge ha visto drastici e costanti tagli, e dunque, per invertire la tendenza rispetto a questo, proprio per aumentare in tutto il Paese e in tutte le nostre case di reclusione l'attività di queste cooperative e di queste associazioni che hanno lo scopo di riabilitare e reinserire i detenuti, poi, alla vita sociale. La "vittima" del processo penale di Giuseppe Ferlisi camminodiritto.it, 22 luglio 2017 Riflessioni sui danni derivanti dall’attività giudiziaria penale nei confronti di imputati assolti, indagati archiviati o ingiustamente detenuti. Proposte di possibili soluzioni rispetto ai rischi del singolo di sopportare economicamente e socialmente i costi del sistema giudiziario. Uno dei problemi da affrontare per un sistema giudiziario che vuole definirsi penal-garantista è sicuramente quello che riguarda il conflitto fra doverosità dell’accertamento penale ed il costo di tale necessità per il singolo consociato che si vede assolto, prosciolto o comunque destinatario di un provvedimento di archiviazione; egli, per arrivare a tali pronunce, ha comunque subito le conseguenze che la pendenza del procedimento penale comporta. La questione ruota intorno ad un interrogativo: il costo di una assoluzione va distribuito su tutti o va accentrato solo su chi sia stato assolto, per il bene di tutti? Già Zagrebelski, nel 1992, si interrogava sul punto, aprendo il dibattito sui costi immediati sostenuti dal singolo per l’obbligatorietà dell’azione penale. Tale questione, ovviamente, non riguarda solo principi processual-penalisti, ma anche questioni che attengono all’ideologia, pertanto intorno tale tema si registrano varie correnti, tra chi propone una redistribuzione dei danni e chi, invece, sostiene convintamente che alcuni pesi vadano affrontanti dal singolo in nome dell’amministrazione della giustizia. Sia chiaro, si sta parlando di attività giudiziaria lecita, valida e legittima, ma che lede comunque situazioni giuridiche soggettive senza che nessuno dei soggetti in campo ne sia responsabile a titolo di colpa, dolo od errore. Uno dei primi provvedimenti per cominciare a prendere cognizione del problema nel suo complesso ed poter discutere serenamente rispetto a possibili soluzioni, risiede sicuramente in una mappatura dei danni da processo. Una banca dati o una raccolta rispetto al numero di archiviazioni, assoluzioni e ingiuste detenzioni, corroborate magari dalla loro collocazione territoriale e dalle norme del codice penale ipotizzate, ma non suffragate dalla raccolta istruttoria. Oggi, affrontare tale problema, è una questione assai importante; basta pensare a quanto l’informazione sia oggi capillare ed invasiva nella sfera dei soggetti, attraverso l’uso dei social network, dei portali di informazione territoriale e di una piazza virtuale che è sempre più grande, ma allo stesso tempo vicina al soggetto colpito dal procedimento penale. Molti studiosi ed operatori del diritto hanno evidenziato come un soggetto "vittima" di un processo subito, subisca poi danni sia nell’ambito lavorativo e sociale, che in quello affettivo e relazione, oltre che nella reputazione. Lorusso ha utilizzato il termine "stress da processo", per evidenziare quello stato di alterazione emotiva determinata dal tempo, dalla preoccupazione e della concentrazione necessaria per difendersi, anche per far fronte dal lato economico per assumere un difensore; per non parlare poi delle esperienze di sofferenza, quali perquisizioni, ispezioni personali o esami. Vero è che il nostro sistema già prevede molti strumenti per far fronte agli "errori" del sistema giudiziario, tuttavia spesso si configura un danno diverso e non previsto: quello dell’alterazione del quotidiano vissuto. Si possono immaginare azioni correttive o di salvaguardia; a tal proposito anche la Corte Cedu ha emanato pronunce emblematiche in tal senso. Fra tutte la sentenza Torreggiani3, che ha imposto misure di salvaguardia per evitare che l’esecuzione della pena si risolva in trattamenti disumani e degradanti, così come può essere fatto ancora molto in fase di esecuzione della pena. Si pensi ad esempio alle carcerazioni subite in base a norme poi dichiarate incostituzionali: in tale caso sarebbe opportuno prevedere un indennizzo per la porzione di pena già subita o scontata? Certo, nessuna norma potrà mai salvaguardare i risvolti sociali di un processo o di un’indagine ingiusta, niente di normativo può proteggere il consociato dall’essere minato nella fiducia lavorativa o familiare; tali situazioni possono essere mitigate da iniziative più culturali che sociali, volti a far capire quanto sia importante la presunzione di innocenza ed il significato di un processo. Si tratta di discutere dei cd. bilanciamenti, ossia delle norme, buone pratiche o protocolli di comportamento che potrebbero attenuare i danni, rispetto ai singoli provvedimenti che vengono adottati. Il nostro ordinamento potrebbe ad esempio scegliere di prevedere un indennizzo fisso ed obbligatorio per tutti gli assolti da fatto dannoso, in maniera forfettaria, oppure scegliere un sistema più complesso che sia costituito sia da norme di salvaguardia e prevenzione, affiancato da strumenti di riparazione in concreto. Certo, tale tema vede contrapposti tra loro molteplici interessi in gioco: dall’amministrazione della giustizia ed all’interesse al risparmio delle casse erariali da una parte, e la tutela della singola posizione giuridica soggettiva dall’altro. Il nostro ordinamento, invero, ha previsto già alcune condotte riparative (ingiusta detenzione, errore giudiziario, irragionevole durata, trattamento carcerario disumano) in nome del principio di solidarietà costituzionale, operando per un bilanciamento classico: laddove si riscontra una condotta di danno da parte del sistema giudiziario, si prevede un corrispondente strumento riparativo dello Stato. Tuttavia, tale approccio, non guarda alla complessità del problema, quanto piuttosto alla sua specificità, soffermandosi sulle singole situazioni di disparità del nostro sistema penale. Ad esempio non è ancora prevista una condotta riparatoria da archiviazione, né di una forma di risarcimento a carico del denunciante di un fatto rivelatosi infondato e pretenzioso. La soluzione, come proposto da Sprangher nel libro "La vittima del processo", potrebbe essere quella di un "bilanciamento a graduatoria", nella quale venga instaurata una gerarchia fra tutti i valori lesi e fra tutti scegliere quali siano meritevoli di una forma ristorativa ovvero ancora un "bilanciamento a fasce", in cui catalogare i danni prodotti attraverso la fissazione di una media (la fascia appunto) da ristorare in maniera indifferenziata. Insomma, il problema di tutela delle persone coinvolge nel processo penale (o nell’indagine, o nelle perquisizioni) e poi "scagionate" esiste e merita la propria ontologica considerazione in un sistema che vuole definirsi progressista, moderno e garantista. Certo, molti passi sono stati fatti negli ultimi anni sotto questo aspetto, ma ciò non può e deve significare adagiarsi; la giurisprudenza ed il diritto pretendono un dibattito continuo, alla ricerca di una "perfezione" forse utopica, ma che sicuramente deve costituire l’aspirazione di un sistema, come quello penale, che costruisce la propria esistenza sulla libertà delle persone, sulle loro vite, sui loro affetti e sul loro stesso esistere. Non solo, stabilire tutte le riparazioni, con magari uno studio analitico delle possibili cause, consentirebbe al nostro sistema penale e giudiziario di progredire, capendo i propri errori o perfino permettere di comprendere le fattispecie di reato poco sostenibili in giudizio e quindi da correggere. A tal fine questo scritto, scevro da aspirazioni di completezza, vuole stimolare, in maniera sommessa, questo dibattito. Mafia Capitale. Carminati lascia il 41 bis, Buzzi punta ai domiciliari di Valentina Errante Il Messaggero, 22 luglio 2017 Massimo Carminati sarà un detenuto comune. La settimana prossima il ministro della Giustizia Andrea Orlando dovrebbe firmare il decreto che consentirà al "Nero" di lasciare il carcere duro previsto per gli imputati di associazione mafiosa. Se non avverrà automaticamente gli avvocati Giosuè Bruno e Ippolita Naso sono pronti a rivolgersi al Tribunale di sorveglianza. E intanto Salvatore Buzzi, dopo la derubricazione del reato di associazione mafiosa in semplice associazione a delinquere, punta ai domiciliari. Per capire perché la mafia di Roma, "originaria e originale", sia stata bocciata dal Tribunale, bisognerà aspettare l’autunno, ma il dispositivo offre già alcuni elementi per ipotizzare quale valutazione sia stata fatta dalla Corte: le pene per politici e funzionari a processo, escludendo gli imputati che facevano parte dell’associazione a delinquere, sono cresciute rispetto alle richieste dell’accusa. Per il Collegio, le responsabilità dei pubblici ufficiali sono più pesanti di quanto la procura non abbia valutato. Il caso di Luca Odevaine è il più eclatante, ma non è il solo. Gli avvocati di Carminati attendono che il Dap invii al ministero la relazione che consenta al "Nero" di lasciare il regime di carcere duro al quale è sottoposto a Parma. Poi sarà il ministro Orlando a firmare il decreto, tutto dovrebbe avvenire in tempi stretti, già la prossima settimana. L’avvocato Alessandro Diddi, difensore di Buzzi, invece annuncia che lavorerà per fare ottenere al re delle coop i domiciliari, dopo circa due anni e mezzo di carcere preventivo. Intanto sembra escluso che i cinque imputati ancora in carcere, oltre a Buzzi e Carminati, Fabrizio Testa, Riccardo Brugia e Matteo Calvio, possano tornare liberi per decorrenza dei termini di custodia cautelare. La dead-line è aprile 2019, i tempi sono larghi. Se l’appello per mafia capitale non comincerà entro questa data, le porte del carcere si spalancheranno. Prima di allora Buzzi, Carminati, Testa, Brugia e Clavio potrebbero tornare in libertà su decisione del Tribunale di sorveglianza, ma sembra un’ipotesi remota. Neppure la derubricazione del reato da 416 bis a semplice associazione mafiosa consente agi principali imputati del processo di tornare a casa. L’aumento di pena più consistente è quello del componente del tavolo per i Rifugiati, Luca Odevaine, condannato a otto anni in continuazione con la pena patteggiata. Per lui la procura aveva chiesto due anni e mezzo. Nell’elenco degli imputati con condanna lievitata ci sono anche l’ex presidente del Consiglio Comunale Mirko Coratti, per il quale i pm avevano chiesto una pena di quattro anni e sei mesi, è stato condannato a sei, per il suo capo segreteria, per Claudio Turella l’ex funzionario del servizio Giardini, a fronte di una richiesta di sette anni di carcere, è arrivata una condanna a nove. Per Pierpaolo Pedetti, presidente della commissione Patrimonio del Comune, si passa da una richiesta di pena di quattro anni a una condanna a sette, anche per il presidente del decimo municipio, Andrea Tassone, la pena è più alta della richiesta: cinque anni a fronte di quattro. Lo stesso per il dipendente della Regione Guido Magrini, quattro anni la richiesta e cinque la condanna L’unica eccezione è quella del consigliere di Forza Italia Giordano Tredicine, condannato a tre anni, la procura ne aveva chiesti quattro. Non è soltanto caduta l’associazione di stampo mafioso, riqualificata in semplice associazione a delinquere dal dispositivo, letto in aula dal presidente del Tribunale Rosanna Ianniello, emerge così un altro dato significativo, che sarà certamente chiarito nelle motivazioni, ma induce già a pensare a una diversa valutazione del ruolo di dirigenti e politici tra pm e Tribunale. Pignatone: "Non mi sento sconfitto. È crimine organizzato, noi andremo avanti" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 22 luglio 2017 Il procuratore: non si può accettare l’idea che a Roma la corruzione sia un fatto normale o addirittura utile. "No, non era una fiction, pene altissime". "No, non era una fiction, dal momento che la sentenza ha riconosciuto la sussistenza di gravi fatti di violenza e corruzione in un contesto di criminalità organizzata, e ha inflitto pene altissime". Ma ha detto che "Mafia Capitale" non è mafia: avete perso. "Io rifuggo da una visione agonistica dei processi, e comunque non mi sento sconfitto. Attendiamo le motivazioni della decisione, anche perché noi ci siamo mossi nel solco tracciato da precedenti e successive sentenze della Cassazione. Inoltre in questi anni abbiamo dimostrato che a Roma la mafia c’è, a differenza di quanto sostenuto in passato, e non solo per via del riciclaggio, ma anche nella gestione del traffico di droga, dell’usura e altri fenomeni criminali". Non quella di Buzzi e Carminati, però. "Io stesso ho più volte sottolineato che era una organizzazione ridotta non in grado di condizionare il governo di Roma Capitale; la costruzione mediatica di quel presunto dominio non ci appartiene. L’abbiamo qualificata come associazione mafiosa e continuo a ritenere che quella costruzione fosse aderente alla realtà; se le motivazioni della sentenza non ci convinceranno del contrario faremo appello". Il giorno dopo il verdetto che ha declassato il "mondo di mezzo" di Buzzi e Carminati a una banda dedita alla corruzione di politici e amministratori, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone prova a trarre il bilancio di una battaglia persa: "Non nascondo il dato negativo del mancato riconoscimento dell’associazione mafiosa, ma voglio ricordare i pronunciamenti favorevoli di un gip, del Tribunale del riesame e per due volte della Cassazione sulle nostre richieste, dunque gli imputati non erano detenuti per un insano desiderio della Procura. Inoltre dal punto di vista criminale Roma ha problemi altrettanto e forse più gravi della mafia, che pure esiste, come la corruzione e la criminalità economica. E la sentenza del tribunale ne è l’ulteriore dimostrazione. Il mio ufficio non è disposto ad accettare l’idea, purtroppo molto frequente, che la corruzione a Roma sia un fatto normale se non addirittura utile". L’accusa di mafia ha provocato conseguenze politiche che hanno portato alle dimissioni dell’ex sindaco Marino. Davvero non avete nulla di cui pentirvi? "Le valutazioni politiche su quanto è emerso dalle nostre indagini non le abbiamo fatte noi, né io posso essere chiamato a rispondere se qualcuno ha voluto utilizzarle politicamente. Quando mi è stato chiesto un parere sullo scioglimento del Consiglio comunale, l’ho qualificata come una "piccola mafia" che non solo non era in grado di dominare sulla città, come qualcuno s’è spinto a sostenere, ma era stata molto depotenziata, se non smantellata, dai provvedimenti dei giudici". Non crede che aver insistito fino alla fine sulla mafiosità sia stata una scommessa azzardata? "Non è stata una scommessa, perché non si scommette con la libertà delle persone. La nostra accusa rappresentava un momento molto avanzato nell’interpretazione del rapporto mafia-corruzione, ma sempre seguendo la indicazioni fornite dalla Cassazione nell’ultimo decennio". Pensa che rispetto alle zone a tradizionale insediamento mafioso, a Roma non ci siano le condizioni per seguire quelle indicazioni? "Non credo, anche perché in passato non veniva accettata nemmeno l’idea che in questa città ci fossero le mafie tradizionali in attività, come invece hanno accertato diversi pronunciamenti dei giudici, molto impegnati anche su questo fronte, ed è un significativo passo avanti. Adesso abbiamo un verdetto che nega la mafiosità di questo gruppo che pure è stato considerato responsabile di fatti molto gravi, ma ancora non sappiamo con quali argomentazioni. Come ho già sostenuto, la consapevolezza che non è più il tempo di rifugiarsi dietro la comoda convinzione che in certe aree la mafia non esiste è una condizione essenziale per sconfiggere le mafie". Non teme che l’esito di questo processo possa appannare l’immagine e la credibilità della Procura di Roma nell’opinione pubblica? "Io ho il massimo rispetto degli organi d’informazione e dell’opinione che contribuiscono a formare, ma non lavoriamo per ottenere il plauso della collettività. La Procura proseguirà nel suo impegno a fare nel modo migliore possibile ciò che riteniamo giusto fare, il risultato mediatico non ci riguarda. Come non ci esaltiamo per gli Osanna, così non ci fermiamo per le critiche che oggi non sappiamo neanche se e quanto siano fondate". Sta dicendo che la sentenza non cambia le vostre convinzioni su Mafia Capitale, e la partita non è chiusa? "Sto dicendo che valuteremo quello che scriveranno i giudici del tribunale, su queste materie non si procede per atti di fede. Questa pronuncia riconosce l’esistenza dei fatti che abbiamo ricostruito ma non la nostra tesi sulla loro qualificazione giuridica. I processi hanno le loro dinamiche, vedremo in questo caso come si evolverà. Ma una sentenza, per quanto importante, non può far cadere nel nulla anni di indagini e provvedimenti di altri giudici". Il fatto che un imputato come Luca Odevaine, che per voi ha collaborato alle indagini, abbia ricevuto una pena più alta di quella chiesta dai pm, può essere interpretato come il segnale che collaborare non conviene? "Non lo so. Tra gli strumenti per contrastare la corruzione c’è anche un atteggiamento premiale dei giudici per chi collabora alle indagini, e sul contribuito offerto da Odevaine c’è stata una lettura opposta fra la Procura e il tribunale. Anche in questo caso dovremo leggere le motivazioni, ma di sicuro il contrasto alla corruzione continuerà ad essere al centro dei nostri sforzi". Toscana: formazione dei detenuti, un bando per progetti nelle carceri di Barbara Cremoncini toscana-notizie.it, 22 luglio 2017 Fornaio, idraulico, apicoltore, ma anche cuoco o elettricista: sono questi alcuni dei percorsi professionali che potranno intraprendere i detenuti delle carceri toscane. La Regione ha stanziato 500 mila euro di risorse del Por Fse 2014-2020, per cofinanziare progetti di formazione professionale rivolti a persone recluse nelle case circondariali o di Massa Marittima, Livorno, Isola di Gorgona, Porto Azzurro, Lucca, Massa Carrara, Pisa, Volterra, Pistoia, Prato, Siena, San Gimignano. "Grazie a questa iniziativa - commenta l’assessore all’istruzione, formazione e lavoro Cristina Grieco - in coerenza con gli obiettivi del programma operativo regionale del Fondo sociale europeo che prevede azioni a favore di soggetti svantaggiati, ci proponiamo di sostenere il reinserimento e l’inserimento lavorativo di detenuti delle carceri toscane attraverso percorsi formativi che consentano di ridurre il divario fra le competenze possedute e quelle richieste dal mondo del lavoro". Potranno usufruire dei corsi detenuti delle carceri toscane con pena definitiva residua minima di cinque anni. L’avviso si rivolge a un singolo soggetto formativo oppure a una associazione temporanea di imprese o di scopo, costituita o da costituire a finanziamento approvato. Gli interventi ammissibili prevedono: percorsi professionalizzanti riferiti al repertorio regionale delle figure professionali, finalizzati al rilascio di una qualifica professionale o di una certificazione di competenze. Percorsi di formazione obbligatoria (riferiti al Repertorio regionale dei profili professionali), per responsabile tecnico dell’attività di panificazione e responsabile tecnico di tinto-lavanderia. Gli interventi formativi, strutturati in accordo con gli Istituti penitenziari, dovranno prioritariamente tener conto dei diversi requisiti di ingresso e delle caratteristiche soggettive dei destinatari, nonché delle esigenze dei fabbisogni formativi espresse dagli istituti penitenziari toscani, in particolare nei settori edilizia, idraulica, elettricità-elettrotecnica, cucina-ristorazione, apicoltura, giardinaggio-floricoltura, sartoria, acconciatura. Dovranno inoltre essere previsti specifici moduli formativi sulla sicurezza dei luoghi di lavoro e, per le attività nell’ambito della cucina-ristorazione, dei moduli formativi sull’igiene alimentare (Haccp). Ogni soggetto formativo è tenuto a presentare un solo progetto, in relazione ad un unico fabbisogno formativo fra quelli espressi da ciascun istituto penitenziario (di qualifica, di certificato di competenze, di formazione obbligatoria). I progetti dovranno essere presentati al Settore programmazione in materia di formazione continua, territoriale e a domanda individuale. Interventi gestionali per gli ambiti territoriali di Grosseto e Livorno, a partire dal giorno successivo alla data di pubblicazione sul Bollettino dovranno pervenire entro il 31 luglio 2017, tramite sistema on line, all’ indirizzo https://web.rete.toscana.it/fse3, con utilizzo di tessera sanitaria - cns attivata. Per maggiori informazioni consultare il bando oppure scrivere a formazioneterritoriale@regione.toscana.it. Ferrara: si è impiccato in cella, ma doveva essere ricoverato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 luglio 2017 Stava male, perché è finito in cella invece che all’ospedale?. Pugni alla macchina del caffè Arrestato: si suicida in cella. Un ragazzo di trent’anni, Roman Horoberts, di origine ucraina, si è ucciso in cella qualche giorno fa, poche ore dopo essere stato arrestato. Perché era finito in cella? Per una crisi nervosa che aveva avuto davanti a una macchina che distribuisce il caffè, nell’atrio di una palestra di Ferrara. Aveva colpito la macchina a pugni, furioso perché gli si era rovesciato addosso un bicchierino di caffè. Qualcuno ha chiamato la polizia e lo hanno arrestato. Il questore dice che si erano accorti che era molto agitato. e allora, perché in cella e non all’ospedale? Si è impiccato alle sbarre verso le 6 della mattina. È il ventisettesimo suicidio quest’anno. Uno ogni settimana. Una macelleria. Se fosse stato portato in ospedale, forse non si sarebbe tolto la vita. Giallo sul suicidio del 30enne ucraino che si è impiccato il 17 luglio scorso nel carcere di Ferrara. Spunta la testimonianza indiretta pubblicata su Facebook, della presidente di Circomassimo e Arcigay Ferrara, Manuela Macario. È operatrice e socia di una cooperativa specializzata in progetti di formazione e inserimento al lavoro dedicati a persone in condizione di svantaggio sociale, con problemi di salute mentale o di tossicodipendenza. Conosce, quindi, molto bene il disagio psichico e sa come ci si debba comportare. Macario, 45 anni, fa una denuncia forte: "Alcuni presenti (in palestra al momento dell’intervento della polizia, ndr) raccontano di aver visto picchiare il ragazzo e fare anche il segno della vittoria portandolo via. Ancora una volta nessuno è disposto a testimoniare". Secondo la polizia che era intervenuta, il ragazzo sarebbe andato in escandescenze picchiando la macchinetta del caffè situata nella palestra. L’hanno, infatti, tratto in arresto con l’accusa di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale e minacce aggravate. Manuela Macario frequenta una palestra di via Reggiani, McFit, dove Roman Horoberts - il ragazzo suicidato -, domenica mattina, si è rovesciato un caffè addosso e poi ha scatenato la sua rabbia contro la macchinetta distributrice dicendo che il caffè era "troppo caldo" e solleva le preoccupazioni dei responsabili dell’impianto sportivo, che poi hanno chiamato le forze dell’ordine. "Sono iscritta da poco - ha raccontato Manuela Macario al giornale locale "La Nuova Ferrara" - e al momento dei fatti non ero in palestra". Secondo il racconto fatto dai testimoni e raccolto dalla polizia, Horoberts è andato in escandescenze verso la tarda mattinata di domenica. Gli agenti sono arrivati in palestra qualche minuto dopo la telefonata da parte dei responsabili. "Delle botte sono state 2- 3 persone a parlare. Ma riporto cose che mi sono state riferite, voglio che sia chiaro", prosegue Manuela Macario. Il questore, Antonio Sbordone, si dice stupito delle affermazioni contenute nel post di Manuela Macario. "Quel giovane ha ribadito - è stato portato in questura e appariva effettivamente agitato. In questura è rimasto circa un’ora, non aveva segni di percosse addosso e tutto quello che è avvenuto lì è stato registrato. In effetti sembrava piuttosto su di giri e questo ci ha spinto a chiedere l’intervento di un medico del 118 che l’ha visitato. Il giovane aveva detto che assumeva farmaci, il medico ha escluso però che dovesse essere sedato o ricoverato. È stato quindi affidato al personale del carcere in attesa dell’udienza in tribunale". Secondo la dinamica riferita dagli operatori penitenziari, il trentenne è entrato in carcere domenica pomeriggio ed è rimasto agitato tutta la notte, tanto che il compagno di cella era riuscito ad addormentarsi solo attorno alle 6, per essere poi svegliato un’ora dopo dall’urlo dell’agente penitenziario che ha ritrovato il ragazzo impiccato. Qualche ora dopo avrebbe dovuto svolgersi l’udienza per direttissima e probabilmente il giovane sarebbe stato liberato. Nel frattempo, ieri, è stata effettuata l’autopsia che ha confermato la dinamica. Oltre a presentare una lesione nel cranio riconducibile però a giorni prima, vengono riscontrate leggere escoriazioni sul dorso delle mani: sono lievi ferite compatibili con i pugni che il ragazzo diede contro la macchinetta del caffè. Il corpo non presenta altri segni particolari. Per quanto riguarda invece la causa della morte non ci sono dubbi sulla causa: soffocamento. Verona: la direttrice del carcere "le violenze? Allah non c’entra" di Alessandra Vaccari L’Arena di Verona, 22 luglio 2017 Maria Grazia Bregoli nega i fondamentalismi denunciati dai sindacati e spiega la situazione a Montorio. La posizione del detenuto al vaglio del consiglio di disciplina. Solidarietà del sindaco Sboarina al personale del penitenziario. "Esiste un ordinamento penitenziario, i detenuti che provocano disordini vengono sanzionati dal consiglio di disciplina. Non è certo nel potere del direttore trasferire o meno un detenuto. Noi facciamo riferimento al Dipartimento regionale cui vengono inviati gli atti". Maria Grazia Bregoli, il direttore della casa circondariale di Montorio è stata nelle sezioni quasi tutta mattina, al rientro in ufficio, lei sempre schiva accetta di farsi intervistare. "Vede", dice, "il carcere è una polveriera. Ogni giorno c’è un’emergenza diversa. Qui abbiamo 52 etnie diverse. Nessuno dei detenuti ha scelto di venire in carcere, nessuno ha scelto le persone con cui condividere la cella, quindi ogni giorno può accadere qualcosa. Credo sia stata data troppa enfasi all’accaduto che purtroppo rientra nella quotidianità. E la polizia penitenziaria è stata costretta ad adeguarsi a tutti i cambiamenti che ci sono stati e costretta ad affrontare situazioni per cui nessun agente si era arruolato. Perché dobbiamo dirlo chiaro: qui gestiamo anche situazioni di patologie psichiatriche, etilisti e tossicodipendenti, malati di Aids. Quello che vorrei che emergesse", continua Bregoli, "è che nel caso specifico i poliziotti sono intervenuti a difesa della collettività, perché un detenuto recuperato e rimesso in società è un vantaggio per tutti". La direttrice smentisce che dietro all’aggressione dei cinque agenti ci siano ragioni di integralismo o religiose, come invece era stato sottolineato dal Sappe: "Guardi le cose sono molto più banali. Ho parlato con il detenuto, mi ha detto che è stufo di stare in carcere e vuole lavorare. Gli ho spiegato che la possibilità di lavorare non c’era e comunque che dopo quello che ha combinato l’ipotesi non è percorribile. Vede", sottolinea Bregoli, "qui basta un niente a scatenare il putiferio, uno che si vuol fare la doccia a un orario non previsto, che vuole pregare, che vuole andare in biblioteca. Persone che si ritrovano lontane da casa senza nessun familiare. Gente arrivata con gli sbarchi che finisce in galera. Il carcere è un mondo a sé, se qui dentro fossero tutti bravi e gentili, probabilmente manco sarebbero qui". Tornando al caso specifico, in questi casi ci sono due livelli di segnalazione: la prima è al provveditore regionale se si tratta di delinquente comune. La seconda al dipartimento. Può essere lo stesso provveditore eventualmente poi a rivolgersi al dipartimento. Nel caso per esempio emergesse che lo stesso detenuto ha avuto comportamenti non rispettosi in svariate carceri del Triveneto. Ma a volte i detenuti si decide di non trasferirli anche per evitare reazioni di solidarietà da parte degli altri carcerati, che potrebbero provocare proteste. "Qui dentro il personale ogni giorno è costretto ad adattarsi, ad adeguarsi ai cambiamenti. Anche le forze dell’ordine fuori lavorano e tanto, ma poi la convivenza con le persone arrestate è della polizia penitenziaria che deve non soltanto contenere, ma anche attuare un percorso educativo che comporta dei rischi. Il lavoro della Penitenziaria emerge soltanto quando ci sono questi eventi critici, mi piacerebbe che si parlasse di loro anche per le cose positive che vengono realizzate qui dentro", conclude Bregoli. Intanto sull’episodio avvenuto nel pomeriggio di mercoledì (poliziotto scaraventato contro un muro)sono intervenuti in un comunicato congiunto Osapp Fns-Cisl, Uspp e Fp-Ggil: "L’ennesimo grave episodio dimostra il fallimento delle attuali scelte dell’amministrazione penitenziaria, dove con il nuovo sistema vigente della vigilanza dinamica e il regime aperto è sempre e solo la polizia penitenziaria a pagare, anche a prezzo della propria incolumità personale, le conseguenze dei disservizi e della disorganizzazione, in questo preciso momento storico in cui è lasciata ai detenuti, anche a quelli di notevole pericolosità, la massima libertà di movimento", evidenziano i sindacalisti. Sull’argomento anche il sindaco Federico Sboarina che ha contattato la direttrice Bregoli, per comunicarle la sua solidarietà e la vicinanza della città agli agenti della polizia penitenziaria, per i difficili momenti che stanno vivendo. "Ho comunicato alla direttrice Bregoli la volontà, in accordo con l’assessore alla sicurezza Daniele Polato, di sostenere quanto più possibile le loro attività e esigenze", ha detto il sindaco. Varese: detenuti e studenti gomito a gomito, percorsi a confronto per educare alla legalità di Giuseppe Del Signore agensir.it, 22 luglio 2017 L’iniziativa, proposta dal 2014, è stata premiata dalla Regione Lombardia tra i migliori progetti sulla legalità e porta gli studenti delle scuole superiori dietro le sbarre, a lavorare e a trascorrere il tempo a stretto contatto con altri giovani, che quella soglia l’hanno passata per scontare una pena. Cineforum, laboratorio di cucina, scrittura creativa, queste alcune delle attività che carcerati e ragazzi svolgono insieme. "Incontro persone diverse, respiro un pò di normalità, posso spiegare ai ragazzi l’importanza di non sbagliare, perché qui ci finisci per delle cavolate". Davide P., 24 anni, è seduto su uno sgabello, ha preso una piccola pausa dai fornelli per parlare, ma non è alla cucina che si riferisce, bensì alla casa circondariale di Varese, dove sta scontando una condanna per spaccio. Ha deciso di partecipare al progetto "Percorsi a confronto" organizzato a partire dalle linee guida del Provveditorato regionale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia. L’iniziativa, proposta dal 2014, è stata premiata dalla Regione Lombardia tra i migliori progetti sulla legalità e porta gli studenti delle scuole superiori dietro le sbarre, a lavorare e a trascorrere il tempo a stretto contatto con altri giovani, che quella soglia l’hanno passata per scontare una pena. Cineforum, laboratorio di cucina, scrittura creativa, queste alcune delle attività che carcerati e ragazzi svolgono insieme, guidati da Maria Mongiello, responsabile Area trattamentale, Sergio Preite, educatore professionale e formatore di Enaip, e dai docenti delle scuole della provincia di Varese aderenti. Un’occasione di condivisione. Mentre si concentrano sui fornelli, tutti sembrano dimenticare dove sono. Gomito a gomito, ristretti e studenti impastano la pizza, preparano mandorle caramellate, intagliano la frutta. La testa di un cigno che una ragazza ha ricavato da una mela si spezza, uno dei detenuti prende uno stuzzicadenti e la riattacca al resto del corpo, poco più in là due giovani apparecchiano la tavola; che uno dei due sia stato condannato per un reato al momento pare un dettaglio. Si parla del più e del meno; certo c’è l’imbarazzo di non conoscersi, ma dietro la timidezza ci sono la voglia di raccontare e la curiosità di ascoltare. "Sono qui da sei mesi - prosegue Davide - quando i carabinieri sono venuti a prendermi è crollato il mondo, non me l’aspettavo proprio perché pensavo di aver chiuso. Ho perso il lavoro, la ragazza, la mia famiglia soffre, gli amici sono lontani". Non si aspettava di finire in prigione per la terza volta, la prima per qualche giorno e la seconda per un mese prima di essere assegnato ai domiciliari. "Dal 2015 avevo messo la testa a posto, mi trovo qui per il primo reato che ho commesso, ero ancora minorenne e pensavo che sarebbe andato tutto in prescrizione diventando maggiorenne, invece non è così. Avrei voluto pagare subito il mio errore, non ora che avevo iniziato a costruire una vita". Anche Aldousz, 28enne albanese condannato per furto, sperava di cavarsela. "Ho iniziato a rubare perché pensavo che così avrei potuto vivere meglio. Lavoravo, però i soldi non bastavano per vivere, ho conosciuto degli amici che rubavano e ho visto che stavano bene, così ho iniziato anche io. Ogni colpo avevo paura, capivo che era una cosa sbagliata, quando mi hanno arrestato ero terrorizzato, sono stato portato a San Vittore, ma non sapevo neppure dove fosse". E ancora: Dare senso al tempo. Davide, Aldousz e gli altri hanno aderito a "Percorsi a confronto" e ai corsi organizzati nella casa circondariale per passare il tempo, ma anche per trasmettere la loro esperienza agli studenti. "Mi sono iscritto subito a tutti i progetti - spiega il primo - perché altrimenti vai fuori di testa; hai tanti pensieri, mia mamma che sto facendo soffrire e ho paura stia male per colpa mia, la ragazza che non ho più, il mio cane Leo che vorrei vedere perché è il mio migliore amico, ma che è anziano e non so se sarà ancora vivo quando uscirò". "Sono stati gli educatori - fa eco il secondo - a propormi di partecipare, mi sono fidato, so che cercano di aiutarci, così non facciamo di nuovo i deficienti. Mi sta facendo bene, anche perché un giorno con un progetto passa più in fretta e dimentichi dove sei". Un’alternativa a giornate sempre uguali: "Ti svegli tra le 8 e le 9 - racconta Davide - e se non hai corsi stai appoggiato al ballatoio a parlare, ma alla fine fai sempre gli stessi discorsi. ‘A te quanto manca?’ "Ah poco, sto aspettando il pullman". Giochi a carte, guardi la tv, fumi, stringi qualche amicizia, ma sono amicizie in galera, è difficile che sopravvivano". "Mi sono iscritto per saltare ore di scuola - dichiara Federico Beri, uno di loro - ma mi sono ricreduto: il progetto è stato molto interessante, conoscevo già diverse cose che ci hanno detto, ma è una bella occasione per chi non le sa e per i detenuti, che possono vivere un pò il mondo esterno e respirare normalità". Dopo il laboratorio i ristretti tornano in cella, i ragazzi recuperano gli smartphone, li accendono, varcano la soglia, rientrano nel mondo. "Spero di tornare dove lavoravo prima - confida Davide - magari di guadagnare quanto serve per lasciare l’Italia. Vorrei tornare a fare una vita normale". Locri (Rc): concluso il progetto sulla violenza sulle donne vista dagli uomini detenuti larivieraonline.com, 22 luglio 2017 Il 19 luglio scorso, intensità e commozione nella Casa Circondariale di Locri per la Tavola Rotonda organizzata in occasione della conclusione del Progetto "O mia o nessun altro…la violenza sulle donne raccontata dagli uomini". Con il patrocinio della Caritas Diocesana Locri-Gerace rappresentata in questa occasione dalla Dott.ssa Carmela Zavettieri, grazie al prezioso supporto della direttrice, dott.ssa Patrizia Delfino, da sempre attenta alle esigenze dei detenuti e protesa verso la dimensione umana dell’Istituto, dei membri dell’area Educativo-comportamentale e del personale della Polizia Penitenziaria, e in collaborazione i volontari dell’associazione DoMino, i detenuti nell’ultimo trimestre, hanno potuto sperimentare il lavoro di gruppo e la socializzazione in un ambiente protetto, in forme nuove, nonché riscoprire la propria sfera emotiva e gli strumenti per gestire le relazioni in modo da rispettare gli altri e se stessi. Partiti dalla lettura di due testi, "Viola" della Dott.ssa Filomena Drago e "I bambini non nascono cattivi" della Dott.ssa Maria Tinto, i detenuti hanno liberato le loro anime nero su bianco, scrivendo poesie, lettere, racconti, in cui hanno dato voce alle loro riflessioni. "Abbiamo voluto portare queste riflessioni in carcere, tra detenuti uomini, per sensibilizzarli attraverso la lettura e la scrittura, invitandoli a risolvere potenziali conflitti con le donne - e non solo - usando le parole e non le mani o le armi, mostrando loro che un’alternativa alla violenza c’è sempre, basta vederla!" così ha dichiarato il Presidente dell’associazione DoMino, nel rappresentare i motivi che hanno spinto la proposta di un tale progetto in un carcere. Si è lavorato con le parole sulle parole per la costruzione di una narrazione maschile contro la violenza di genere. A turno, i partecipanti hanno dato lettura dei loro elaborati e i presenti hanno potuto apprezzare il loro impegno nell’immergersi non solo nella psicologia dell’uomo violento ma anche nell’animo femminile. Ciò che emerso, è stata una grande presa di coscienza del fenomeno; degno di rilievo, infatti, l’intervento di uno dei detenuti - autore di una monografia - la cui conclusione è un invito alle Donne a denunciare per non subire, "perché solo così aiuti Te e aiuti Lui"! Dal profondo rilievo umano, l’intervento Presidente della sezione Penale del Tribunale di Locri, Dott. Accurso il quale ha sottolineato che "il detenuto prima di essere tale, è pur sempre un Uomo, da qui l’importanza e la bontà dei progetti nelle carceri". Commosso e partecipato l’intervento dell’avv. Maria Antonia Belgio che unitamente alla Dott.ssa Ciccone sono intervenute in rappresentanza dell’Ufficio del Garante dei detenuti di Reggio Calabria. Incisivo l’intervento della Dott.ssa Filomena Drago, che con la dott.ssa Miriam Panaia, volontaria DoMino, ha letto alcune parti salienti del testo lanciando in conclusione un chiaro messaggio "è importante la forza di volontà di nella fuoriuscita dal vortice, ma ancora più importante è riuscire a stringere la mano di chi ci vuole aiutare". I detenuti, si sono congedati, consegnando agli ospiti delle panchine in legno, da loro stessi costruite e sulle quali hanno riportato in rosso il titolo del progetto, simbolo della lotta contro la violenza sulle donne. Appare facilmente comprensibile il valore intrinseco del progetto, in chiave rieducativa e di contenimento della recidiva, e il fatto che abbia stimolato una profonda introspezione nei detenuti, contribuisce a rafforzarne il significato positivo. Auspichiamo quindi che possa essere recepito e accolto con attenzione anche dalla comunità esterna, il nostro messaggio, affinché lo sterile sentimento di diffidenza verso il mondo carcerario, per una volta, possa essere sostituito dalla consapevolezza che il percorso di risocializzazione passa anche e soprattutto dal cambiamento culturale. Siena: Cenni (Pd) "al carcere di Santo Spirito buoni risultati che vanno sostenuti" gonews.it, 22 luglio 2017 Susanna Cenni, parlamentare del Pd alla Camera, ha visitato oggi la Casa circondariale di Santo Spirito di Siena, accompagnata dal direttore Sergio La Montagna. Negli anni la parlamentare senese si è occupata delle questioni riguardanti le strutture carcerarie del senese, per verificare, anche attraverso visite e incontri con il personale di polizia penitenziaria, le condizioni di vivibilità dei detenuti e quelle lavorative degli agenti. Questioni queste, che sono state al centro dell’incontro che la parlamentare toscana del Pd ha avuto oggi all’interno dell’Istituto di pena di Siena. "Sono passati alcuni anni dalla mia ultima visita al carcere di Santo Spirito - ha commentato Cenni, dopo l’incontro con il direttore La Montagna. E oggi ho potuto vedere e constatare i buoni risultati ottenuti per migliorare le condizioni di vita dei detenuti, che sono impegnati nel loro percorso di recupero, in numerose attività quotidiane, sostenute dal direttore La Montagna e dall’amministrazione comunale di Siena e che coinvolgono soggetti appartenenti al mondo civico, culturale e associativo della città". "L’istituto - ha ricordato Cenni - ha fatto tanto sul fronte della riqualificazione della struttura, investendo in opere di miglioramento delle celle, sulla qualità dei servizi igienici e nella creazione di aree per le ore di passeggio dei detenuti. Di particolare importanza sono le collaborazioni con associazioni e soggetti esterni, non solo per il sostegno economico, ma per il fondamentale confronto e le sollecitazioni che ne derivano per la vita e lo sviluppo di attività sociali e culturali all’interno della Casa Circondariale. "Resta - ha concluso Cenni - qualche criticità, comune al resto del mondo carcerario, legata ai numeri risicati del personale. Una problematica più volte denunciata e su cui continuerò sollecitare e a tenere alta l’attenzione del DAP". Palermo: i biscotti "Cotti in fragranza", se non li gusti non puoi giudicarli di Chiara Affronte ilsalvagente.it, 22 luglio 2017 Sfornano biscotti di alta qualità, insegano ai più giovani la professione e intanto svolgono un’attività riparativa, restituendo in qualche modo alla società ciò che le hanno tolto. Sono i ragazzi detenuti nell’Istituto penale per i minorenni Malaspina di Palermo, che ha sede in un palazzo settecentesco, la cui direzione da tempo si dimostra molto aperta all’avvio di progetti che diano un senso al periodo di detenzione e che offrano una possibilità per il momento in cui i carcerati usciranno. Cotti in fragranza fa parte di questi progetti e altro non è che un laboratorio adibito alla preparazioni di prodotti da forno che da un anno esatto vengono commercializzati soprattutto in Sicilia ma anche nel resto d’Italia: una vera e propria attività imprenditoriale, la prima interna ad un carcere minorile. In realtà, appena fuori dalle celle, ma sempre interna al perimetro carcerario, a duecento metri da dove sono reclusi i ragazzi, che sono entrati in carcere quando erano minori, ma adesso hanno ormai tutti tra i 21 e 23 anni: "Grazie all’articolo 21 i ragazzi possono uscire dal carcere vero e proprio, anche se il laboratorio si trova sempre all’interno del Malaspina: questo favorisce l’attività stessa perché le restrizioni sono minori", spiega Nadia Lodato, una delle due operatrici che ha avuto l’idea insieme a Lucia Lauro, immediatamente appoggiate dall’Istituto penale e dall’opera don Calabria, ma anche da Associazione nazionale magistrati e Fondazione San Zeno: "Abbiamo fin da subito avuto un pensiero collettivo sulle cose, e questa è stata una carta vincente; ai detenuti troppo poco spesso viene chiesto cosa pensino ma noi lo abbiamo fatto - spiega Lodato. Inoltre, noi stesse non avevamo competenze su settori cruciali come il marketing e il packaging e così le abbiamo prese da esterni, che ci hanno aiutato a creare un’identità di brand". Un brand come quello che ha dato il nome al primo biscotto, il Buonicuore, "perché i ragazzi ci tenevano a dire che non sono solo malacarne",": il senso è "abbiamo anche un cuore anche noi", una riflessione da cui è nato anche lo slogan "se non li gusti non li puoi giudicare". Ad offrire la ricetta originaria del primo biscotto della linea Buonicuore, il famoso chef pasticcere siciliano Giuseppe Catalano, ma a lavorare fianco a fianco coi ragazzi, è invece lo chef Nicola Cinà: "Cercavamo da tempo un cuoco e avevamo difficoltà a trovare una persona disponibile a tempo pieno e che ci sembrasse adatta a questo ruolo", racconta Nadia. L’hanno trovata attraverso le iscrizioni all’Inail: "Nicola è uno chef bravissimo, su sedia a rotelle; quando ha incontrato per la prima volta i ragazzi ha detto: ‘Oggi è il quarto anniversario dal mio incidente; vedete che la vita può cambiare in ogni momento: adesso sono qui con voi’". "Una presentazione migliore non poteva farla - aggiunge Nadia - abbiamo subito capito che era il nostro chef predestinato!". Perché l’idea è quella: "Ognuno di noi può dare un corso nuovo alla propria vita". Fondamentale, poi, dal punto di vista dell’attività riparativa, anche la formazione che i ragazzi seguono e che, una volta esperti, e trasformati in aiuto-cuochi con contratto (sono dieci, attualmente, i ragazzi coinvolti in Cotti in fragranza), diventano a loro volta formatori: "Il carcere in sè, ovviamente, è un posto di dolore e di sofferenza in cui l’attività riparativa ha un ruolo fondamentale e esiti notevoli. La dimensione del carcere è molto dura, i ragazzi hanno spesso i nervi a fior di pelle - noi a questo siamo abituati -ma esperienze simili aiutano davvero tanto ad intraprendere un percorso di rinascita", spiega l’operatrice sociale. Cotti in fragranza conta ormai oltre 50 punti di vendita tra la Sicilia e il resto dell’Italia, molti rientrano nei circuiti km 0, ma non solo, perché i contatti con la grande distribuzione sono già avviati. E i biscotti dei ragazzi del Malaspina si trovano, ad esempio, anche al Centro Olimpo, un supermercato confiscato e riaperto dai suoi stessi dipendenti grazie al sostengo di diverse realtà cooperative come Legacoop. Recentemente anche Coop Alleanza 3.0 ha dimostrato il proprio interesse verso questi prodotti: "Abbiamo già avuto l’ispezione dei nostri locali e siamo in attesa di sviluppi", spiega Lodato. I prodotti vengono venduti anche on line nel corso di quest’anno sono stati oltre 13mila i pacchi di biscotti acquistati, per un totale di circa 4.000 kg di prodotto. Del resto gli ingredienti stessi utilizzati per preparare i biscotti sono di alta qualità: "Utilizziamo tutte materie prime molto buone; i mandarini di cui ci serviamo per preparare un certo tipo di frollino, poi, li raccogliamo noi stessi insieme ai ragazzi che ottengono dei permessi per uscire a compiere anche questa attività", aggiunge Nadia. Tutto, insomma, si mette insieme per raggiungere gli obiettivi sui ragazzi e anche per dare un senso a queste azioni: "Organizziamo anche eventi e benefici e cerchiamo di non sprecare niente. Un esempio: dei mandarini noi utilizziamo solo la buccia e così abbiamo donato la polpa ad altre strutture che l’hanno utilizzata per diverse finalità". "Palermo è un città problematica ma anche accogliente, aperta e vivace - conclude Lodato: credo che qui davvero si sperimenti quella resilienza di cui adesso tanto si parla". Vigevano (Pv): lavori sociali dei detenuti, progetto rinviato al 2018 La Provincia Pavese, 22 luglio 2017 Niente soldi per la copertura assicurativa, saltano i lavori socialmente utili dei detenuti del carcere di Vigevano. Nel consiglio comunale di lunedì, il vicesindaco Andrea Ceffa ha risposto all’interrogazione presentata da Stefano Bellati (Progetto Vigevano) su questo tema. Secondo l’intesa carcere-Comune alcuni detenuti in procinto del fine pena ed autorizzati dal tribunale, avrebbero potuto svolgere dei lavori socialmente utili. "I soggetti coinvolti nel progetto sono tre - ha spiegato Ceffa - il Comune, il carcere e l’Apolf. Quest’ultima doveva occuparsi della copertura assicurativa dei detenuti, ma non avendo ottenuto finanziamenti non ha potuto corrispondere alla spesa, quindi il tutto è rimandato al 2018: se non avranno copertura assicurativa loro, pagheremo noi. Ci tengo a precisare che, benché riconosca l’utilità rieducativa del progetto, ho insistito affinché ai detenuti non fosse riconosciuto alcun compenso. Non condivido alcune frasi della mozione. D’accordo aiutare le persone che sono in difficoltà, però non esageriamo nel dipingere chi ha compiuto dei reati in maniera privilegiata rispetto agli altri". La Costituzione garantisce i diritti sociali dei cittadini di Valerio Onida Corriere della Sera, 22 luglio 2017 Distruggere il sistema del welfare costruito faticosamente in Europa significherebbe riaprire in radice un processo costituente e soprattutto fare un salto indietro di due secoli. Caro Direttore, l’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere del 21 luglio pone con la consueta franchezza un tema di fondo. La discussione sulla proposta di flat tax avanzata dall’Istituto Bruno Leoni darebbe a suo dire lo spunto per mettere in gioco qualcosa di più: e cioè la opportunità o la necessità di porre mano a una riforma della prima parte della Costituzione, quella dedicata ai diritti e ai doveri dei cittadini, per superare le "ideologie socialisteggianti" che "hanno segnato i secoli diciannovesimo e ventesimo", e che ispirano il testo del 1947. Addirittura, secondo Panebianco, ciò consentirebbe di superare l’impasse che dopo il referendum del 4 dicembre 2016 caratterizzerebbe il tema delle riforme costituzionali. Sembra dunque di capire che per l’Autore abbiano ragione coloro che, di fronte alle proposte di riforma "organica" della seconda parte, in particolare della forma di governo parlamentare, temono che esse sottintendano un rifiuto "ideologico" anche dei principi della prima parte e dunque una radicale visione "anticostituzionale". In realtà la Costituzione non detta programmi politici, che restano largamente affidati alla dialettica democratica, ma pone in maniera definitiva i principi di fondo che riguardano i caratteri fondamentali e i compiti della Repubblica. Lo Stato che i costituenti hanno voluto costruire non è solo uno Stato che rifiuta l’eredità delle ideologie autoritarie affermatesi nella prima metà del Novecento (la "Costituzione antifascista"), ma è una Repubblica che non intende riproporre, bensì vuole superare, quella che Giorgio La Pira alla Costituente chiamava "la Costituzione del 1789", cioè un ritorno al liberalismo delle origini, che garantisce le libertà "negative" ma ignora i diritti sociali e i compiti di giustizia, non solo di ordine, dello Stato. I principi sono l’universalità dei diritti umani, il rapporto stretto fra diritti e doveri di solidarietà, l’eguaglianza non solo nel senso formale della "legge uguale per tutti" ma anche in senso sostanziale, cioè del "compito della Repubblica" di rimuovere "gli ostacoli di ordine economico e sociale" che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza e impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Di qui la Repubblica "fondata sul lavoro", che non significa attribuire al lavoro il ruolo di principio supremo prevalente sulla libertà, ma indicare nel lavoro il contributo che ciascuno, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, deve dare al progresso della società. Di qui una "Costituzione economica" che non trascura di garantire la proprietà come diritto ma punta anche ad assicurarne la funzione sociale e a renderla accessibile a tutti; e che chiama tutti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della rispettiva capacità contributiva, in un sistema informato a criteri di progressività. Rinnegare questi principi, per predicare un ritorno alla ideologia dell’individualismo e dello "Stato minimo", e la distruzione dello "Stato sociale" faticosamente costruito nell’Europa uscita dalla seconda guerra mondiale (e oggi in difficoltà) non vorrebbe dire rivedere la Costituzione, ma stravolgerne i principi supremi: ciò che certo non si potrebbe fare con il procedimento di revisione costituzionale dell’art. 138, ma significherebbe riaprire in radice un processo costituente, e soprattutto fare un salto indietro di due secoli.. Tutto questo c’entra col dibattito sulla flat tax? C’entra, nella misura in cui impone di valutare la proposta dell’Istituto Bruno Leoni - per molti versi apprezzabile ove si propone il giusto obiettivo di un radicale riordino e di una semplificazione del sistema tributario, e sicuramente meritevole di esame e discussione in vari dei suoi aspetti particolari - alla luce degli effetti che produrrebbe sui caratteri del nostro Stato sociale. Senza poter qui entrare nel dettaglio, indicherei solo due punti. Il primo riguarda il principio costituzionale della progressività. Non basta sottolineare, come fa la proposta, la giusta esigenza di riportare sotto la generale imposizione sui redditi tutte le tipologie di reddito, in ispecie quelle da capitale, e non come oggi accade quasi solo i redditi da lavoro. Né basta dire che attraverso le deduzioni dalla base imponibile si può egualmente raggiungere un risultato di progressività nell’imposizione sul reddito. La questione è se questo principio sia adeguatamente salvaguardato da un sistema che, da un lato, comporterebbe una drastica riduzione dell’onere tributario principalmente a favore dei contribuenti più ricchi (da un’aliquota marginale del 43% ad una fissa del 25%), dall’altra trasferirebbe una parte del carico tributario dalle imposte dirette (sul reddito e il patrimonio) a quelle indirette, di per sé per definizione non progressive, perché l’Iva sul prezzo di un acquisto o su una prestazione la pagano in modo eguale tutti i contribuenti, quale che sia il loro livello di ricchezza. Il secondo punto riguarda un aspetto della proposta che ha finora attirato minore attenzione: l’idea di mantenere bensì il servizio sanitario come servizio "universale", uguale per tutti, ma di prevedere che i titolari di redditi più elevati da un lato siano tenuti, a differenza dei meno ricchi, a pagare il costo delle cure, ma dall’altro abbiano la facoltà di uscire (opting out) dal sistema sanitario pubblico e provvedere altrimenti alle proprie necessità: aprendo così la strada all’avvento di un duplice sistema sanitario: uno pubblico e per tutti, a carico della fiscalità generale, un altro, privato, per i più ricchi, pagato da loro direttamente o attraverso le assicurazioni. La proposta della flat tax dunque merita di essere discussa, non di essere utilizzata come bandiera per una battaglia ideologica di retroguardia. Migranti. Dentro i barconi la mafia nigeriana di Carlo Valentini Italia Oggi, 22 luglio 2017 Prostituzione, droga, rapine. I primi pentiti raccontano. Arrivano sui barconi. Si rifocillano nei centri di prima accoglienza, poi spariscono. Vanno a ingrossare le fi la della mafia nigeriana, che sta rapidamente ramificandosi lungo la Penisola, diventando sempre più organizzata e pericolosa. Ormai le grida d’allarme non si contano tanto che ieri, dopo l’ennesima rissa in città e le proteste anche delle istituzioni, è arrivato a Ferrara il capo della Polizia, Franco Gabrielli, per spronare a interventi più risolutivi per garantire l’ordine pubblico. La Black Axe, ascia nera, così si chiama la mafia nigeriana, in alcune città ha addirittura conquistato il primato, a Milano della prostituzione delle donne di colore, a Ferrara (dove c’è un’importante università) dello spaccio di eroina e cocaina, a Novara del racket, e poi Padova, Biella, Brescia, Rimini. A Palermo "Cosa nostra", dice il procuratore aggiunto Leonardo Agueci, "ha consentito ai nigeriani di organizzare una struttura subalterna alla mafia: tollerati a patto che non uscissero dal loro perimetro di appartenenza". Per cercare di rompere questa spirale ha ordinato l’arresto di 17 esponenti dell’organizzazione africana accusati a vario titolo di associazione criminale di stampo mafioso. Mentre a Fermo alcuni esponenti di Black Axe, riconoscibili dal vestiti neri con fazzoletti e coccarde rosse, sembra abbiano preso parte ai funerali di Emmanuel Chidi Nnamdi, il richiedente asilo nigeriano morto dopo una colluttazione con l’ultrà Amedeo Mancini. Questo omaggio di stampo prettamente mafioso è riportato in un’informativa di polizia contenuta nel fascicolo del processo. Il primo pentito nigeriano ha parlato agli investigatori di Novara, dove la polizia è intervenuta dopo una violenta aggressione ai danni di un nigeriano, il quale al processo ha avuto la forza di testimoniare contro il suo connazionale, Aye, 40 anni, immigrato che da Lampedusa è salito al Nord, responsabile del pestaggio: "Mi aveva chiesto di aderire alla società occulta mafiosa che dà protezione ai membri che opprimono e sfruttano i connazionali. Io non ho accettato. Allora mi ha accompagnato nel cortile e lì, mentre uno mi teneva fermo, un altro mi ha spaccato una bottiglia in testa". Un’altra confessione è stata raccolta dalla procura siciliana. Il collaboratore di giustizia, anche lui arrivato clandestino visa mare, ha affermato che l’affiliazione è preceduta da un apprendistato che culmina col first match, un pestaggio per sperimentare la capacità del nuovo adepto di affrontare con coraggio e fermezza la sofferenza e gli eventuali interrogatori. Se supera la prova, è ammesso a un rito di iniziazione, con tatuaggi e incisioni sul corpo. Da quel momento chi sgarra è spacciato. "Lo faccio per i miei figli - ha spiegato il collaboratore, Austine, 30 anni, in carcere per scontare una pena di 12 anni - non voglio che passino quello che ho vissuto io. Per questo ho deciso di raccontare tutto". Sembrano le parole di un pentito della mafia siciliana. Egli ha anche rivelato il meccanismo del racket della prostituzione: le ragazze, anche minorenni, firmano un contratto a casa loro impegnandosi a versare 50 mila euro (per farle compiere il viaggio verso l’Italia) in cambio di un lavoro (onesto) quando saranno a destinazione. La ragazza viene affidata ad un accompagnatore (detto trolley) che l’aiuta ad attraversare vari stati (Togo, Ghana, Costa d’Avorio) per raggiungere la Libia. Qui viene imbarcata sui gommoni e prelevata in mare insieme ai compagni da una Ogm o da una nave di Frontex. In Sicilia l’aspetta una donna dell’organizzazione che la istruisce su come comportarsi e che, mensilmente, riscuoterà il denaro per il debito da 50 mila euro. Chi non rispetta i patti mette a rischio l’incolumità dei parenti rimasti nella terra di origine e viene brutalmente picchiata. Ogni donna frutta da 500 a mille euro a notte Secondo Damilola Ade Odiachi, giornalista nigeriano di Cnbc Africa: "Il Black Axe opera come una vera e propria gang, tanto da scontrarsi con altre mafie etniche per il controllo del territorio, arrivando a compiere omicidi". Sempre in Sicilia gli inquirenti stanno raccogliendo prove su un patto sottoscritto tra la mafia siciliana e quella nigeriana, cementato da un reciproco interesse: da una parte la mafia locale collabora nel facilitare gli sbarchi nei porti dell’isola, dall’altra quella nigeriana mette a disposizione questi disperati da sfruttare. Il giornale in lingua inglese RT all’inizio di luglio ha pubblicato un’inchiesta (Mafia & Migrant Gang) in cui sostiene che "la mafia sta collaborando con Black Axe per costringere i nuovi arrivati a lavorare nei traffici illeciti". Dice Roberto Mirabile, della Onlus La Caramella Buona, che si occupa di sfruttamento dei minori: "Fanno arrivare le minorenni e le costringono sulla strada. Ma l’organizzazione vuole crescere e tra le migliaia di disperati che arrivano nelle nostre città trovano sempre più manovalanza. Aprendo così la strada a nuovi affari come l’elemosina. Fino a pochi anni fa era difficile vedere questuanti africani. Oggi è pieno. E dietro c’è il racket". Secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni nel 2016 in Italia sono entrate 12 mila ragazze nigeriane con il flusso dei rifugiati e richiedenti asilo. Andrea Morniroli, della cooperativa Dedalus, dice: "Il numero degli arrivi è talmente alto che noi programmiamo posti di accoglienza per un anno nell’ambito di alcuni progetti ma poi dopo un mese ce li abbiamo già pieni. In genere queste ragazze dalla Sicilia arrivano a Castelvolturno, restano qualche settimana e vengono poi smistate in varie città italiane e in altri Paesi europei". Del fenomeno si sta interessando anche la Dda di Napoli, per altro in conflitto con un Gip. In un blitz ha arrestato 22 africani presunti appartenenti alla Black Axe, il Gip ha negato l’associazione mafiosa, l’ufficio inquirenti ha fatto appello e il Riesame gli ha dato ragione. Nela ricostruzione degli investigatori c’era chi gestiva la prostituzione, chi il traffico e lo spaccio di droga, chi forniva documenti falsi ai connazionali che sbarcavano, chi faceva rapine ed estorsioni. Un’altra conferma dello sviluppo dell’insediamento nigeriano in Italia arriva dall’Easo, l’Agenzia per l’asilo dell’Ue. Nel 2016 sono arrivati 48.885 nigeriani, il doppio rispetto all’anno precedente. Insomma, aumentano gli sbarchi e la mafia nera si rafforza. Secondo l’Osservatorio Diritti: "Si riscontra una presenza radicata e organizzata di alcuni gruppi che magistrati e investigatori chiamano "mafie etniche", caratterizzati da un’accentuata efferatezza nel delinquere, tra esse la Black Axe, che oltre alla prostituzione, orchestra traffici illeciti di droga e armi". E il traffico d’armi sta facendo muovere anche l’antiterrorismo. Ma se i barconi continuano ad arrivare a questo ritmo, per di più sotto il controllo della mafia, è quasi impossibile un controllo efficace. Droghe. Le proposte per legalizzare la cannabis ci sono, manca la volontà politica di Filomena Gallo* Il Dubbio, 22 luglio 2017 A otto mesi dalla consegna di oltre 60mila firme su una proposta di legge per la regolamentazione legale della produzione, consumo e commercio della cannabis e suoi derivati, la presidente della Camera Laura Boldrini ha comunicato all’Associazione Luca Coscioni che il controllo dei certificati elettorali si è concluso con successo e che il testo verrà assegnato alle commissioni competenti. La presidente Boldrini, che ha sempre dimostrato una sincera attenzione al contributo della società civile ai lavori istituzionali, ha aggiornato al 2017 la prassi del controllo dei certificati elettorali che, in parte, avevamo consegnato in formato digitale, considerandoli validi. Si tratta quindi di una buona notizia per il merito e il metodo che rappresenta e rende finalmente omaggio a chi per mesi ha consentito a oltre 60mila cittadini di farsi legislatori. Tra l’altro la comunicazione della Camera ci è giunta nel momento in cui le agenzie rendevano nota la proposta dello stralcio della parte terapeutica avanzata dell’onorevole Margherita Miotto, relatrice del provvedimento per la parte sanitaria, che affosserebbe definitivamente la proposta della legalizzazione totale bloccato alla Camera da quasi un anno. La proposta di legge "Legalizziamo!" si va ad aggiungere al compromesso elaborato dall’intergruppo parlamentare ‘ Cannabis Legalè con proposte che, pur in linea con l’impianto di regolamentazione legale previsto, tendono a liberalizzare quanto più possibile la coltivazione per uso personale quanto quella per fini commerciali. Allo stesso tempo la proposta contiene norme per la totale depenalizzazione di uso e possesso personale di tutte le sostanze proibite e elabora un meccanismo affinché, in modo automatico, all’entrata in vigore della legge verrebbero liberati i detenuti in carcere per condotte non ritenute più criminali. Si tratta di una riforma di buon senso che negli ultimi anni ha messo d’accordo decine di magistrati e la Direzione nazionale antimafia che sottrarrebbe risorse alle mafie consegnandole all’erario, liberando milioni di consumatori dal mercato criminale informandoli sulla qualità di quanto consumano. Da maggio di quest’anno, tutti i sabati, Mario Staderini, già Segretario di Radicali Italiani, a turno con Marco Gentili, co-Presidente dell’Associazione Luca Coscioni, Leonardo Monaco, Segretario dell’Associazione Radicale Certi Dritti, Marco Perduca, coordinatore di Legalizziamo. it e io abbiamo manifestato con un "duran adam" - la nonviolenza resa famosa dai fatti di Piazza Taksim a Istanbul - davanti al Quirinale per attirare l’attenzione del Presidente della Repubblica su quanto accade in Italia relativamente agli strumenti di iniziativa popolare, in particolare ai referendum e le leggi d’iniziativa popolare. La decisione della Camera onora anche questa forma di denuncia. Il 26 giugno, assieme alle associazioni del Cartello di Genova, di cui l’Associazione Luca Coscioni fa parte, abbiamo presentato l’ottavo Libro Bianco sulla legge Fini-Giovanardi con dati che confermano che le droghe in Italia restano totalmente fuori dal controllo delle forze dell’ordine. Numeri che denunciano come, non aver dato seguito alla sentenza della Consulta del 2014 che ha smontato la legge sulla droga, stia facendo di nuovo riempire le carceri. La questione resta molto popolare, proposte legislative abbondano, il tempo ci sarebbe, manca la volontà politica che faccia collaborare Parlamento e Governo per conquistare una regolamentazione legale della cannabis partendo da una depenalizzazione complessiva di coltivazione, uso e possesso personale. La legge popolare Legalizziamo! è promossa dall’Associazione Luca Coscioni e Radicali Italiani con il sostegno di A Buon Diritto, Coalizione Italiana per le Libertà Civili e Democratiche, Forum Droghe, Antigone, La PianTiamo, Società della Ragione, Federazione dei Giovani Socialisti, vari gruppi di Giovani Democratici e circoli Arci in ordine sparso, il Coordinamento Nazionale dei grow-shop, Canapa Info Point, Ascia, Possibile a livello nazionale e decine di consiglieri comunali di Sinistra Italiana e anche del Movimento 5 Stelle, del Partito Democratico nonché di liste civiche e indipendenti. Ecco cosa prevede la proposta di legge Legalizziamo! per la regolamentazione della produzione, del consumo e del commercio della cannabis e suoi derivati. 1. Auto-coltivazione libera fino a cinque piante, con comunicazione da sei a 10. 2. Possibilità di associazione in cannabis social club non a fini di lucro (fino a un massimo di 100 componenti che possono coltivare cinque piante femmine a testa). 3. Coltivazione e fini commerciali previa comunicazione dell’inizio della coltivazione, nome e varietà di cannabis utilizzate e quantità di seme per ettaro. 4. Sulle confezioni dei prodotti sarà specificato il livello di Thc, la provenienza geografica e l’avvertimento che "un consumo non consapevole può danneggiare la salute". 5. I rivenditori non potranno essere nelle immediate vicinanze delle scuole né sarà possibile pubblicizzare i prodotti. 6. Promozione ulteriore dell’accesso ai cannabinoidi medici ampliandolo chiaramente ai malati affetti da sintomatologie che rispondano favorevolmente ai preparati. 7. Controllo della produzione è affidato alla direzione generale sulle frodi agro- alimentari del Ministero delle politiche agricole e dal Comando carabinieri per la tutela della salute presso il Ministro della salute. 8. Relazione annuale al Parlamento. 9. Tassazione mutuata dal "Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative" del 1995. 10. Sanzioni amministrative fino a un massimo di 5000 euro per chi viola la nuova normativa. 11. Nuovi introiti destinati a: 10% per campagne informative, 15% per attività di previdenza sociale, 15% per attività di assistenza sociale, 20% per la riduzione delle imposte sul lavoro e impresa e per il finanziamento di incentivi all’occupazione, 30% per investimenti produttivi, il rimanente 10% per la riduzione del debito pubblico. 12. Vengono infine abolite tutte le sanzioni penali anche per l’uso personale di tutte le altre sostanze proibite e si introduce una norma volta alla scarcerazione di coloro che hanno subito una condanna relativa a condotte legalizzate con la proposta di legge. *Segretario Associazione Luca Coscioni Droghe. Con la "cannabis light" giro d’affari da 44 milioni l’anno e 1.000 posti di lavoro di Giacomo Talignani La Repubblica, 22 luglio 2017 Lo studio commissionato a un ricercatore della Sorbona da parte della prima produttrice italiana di "marijuana legale". All’erario almeno 6 milioni di euro. Ma manca ancora un quadro normativo chiaro. Quanto vale il giro d’affari della "cannabis light" in Italia? È la domanda che si è posta EasyJoint, primo produttore della cosiddetta "marijuana legale", che in poco più di 45 giorni ha già fatturato quasi mezzo milione di euro. Secondo un report di mercato appena consegnato e redatto da un ricercatore italiano della Sorbona che si occupa di cannabis "le attività commerciali potrebbero portare a un fatturato annuo minimo di circa 44 milioni di euro creando l’equivalente di almeno 960 posti di lavoro fissi". Per capire meglio di cosa si tratta bisogna fare un passo indietro a metà maggio, prima dell’esplosione di questo prodotto. In quei giorni a Bologna, durante la fiera nazionale della canapa, l’appena nata azienda EasyJoint ha presentato una varietà italiana di erba, l’Eletta Campana, con il THC (tetraidrocannabinolo, principio psicoattivo della marijuana) inferiore allo 0,6 per cento, il limite di legge consentito, e dunque vendibile. Ha effetti sedativi che, dicono i produttori, sono ricercati perché alleviano ansia, insonnia, dolori mestruali e altro. Da quando è stata messa sul mercato (oggi conta centinaia di rivenditori nei growshop di tutta Italia) "avevamo un ordine ogni 30 secondi" ha raccontato a Repubblica Luca Marola, fra i fondatori della azienda che, come sottolinea lui stesso, "più che un obbiettivo commerciale, ha una missione sociale: mostriamo come potrebbe essere la legalizzazione. È vero, abbiamo avuto un fatturato molto alto in questi primi giorni, ma con l’investimento fatto per ora i guadagni si fanno attendere". Sta di fatto che nuove e varie realtà si stanno già affacciando sul mercato (c’è per esempio Mary Moonlight) e gli stessi produttori di EasyJoint spingono per norme e regole precise sulle infiorescenze italiane (per ora è un far west legislativo), necessarie per regolamentare il mercato. Per poter affrontare il discorso anche dal punto di vista politico - è stato chiesto un incontro al Ministero dell’Agricoltura e ci sono già stati contatti con parlamentari ed esponenti di Federcanapa - è stato chiesto ad un esperto di settore di provare a tracciare i possibili sviluppi di mercato della cannabis light. La stesura del report è stata affidata a Davide Fortin della Sorbona di Parigi, ricercatore del Marijuana Policy Group di Denver, lo stesso che si è occupato della consulenza sulla legalizzazione in altre aree del mondo, come il Canada. Dopo aver esaminato i dati di Easyjoint di questi primi mesi Fortin prevede che "con un quadro legislativo ad hoc le attività commerciali di cannabis light in Italia potrebbero generare un fatturato annuo minimo di circa 44 milioni creando l’equivalente di almeno 960 posti di lavoro fissi. Inoltre, poiché la filiera produttiva è quasi totalmente confinata in Italia, le previsioni circa le oltre 20 tonnellate acquistate porterebbero all’erario una tassazione minima annua attorno ai 6 milioni di euro" sono le conclusioni del report. Nella sua "Ricerca di mercato sulle infiorescenze di canapa a basso contenuto di Thc in Italia" Fortin scrive che per i coltivatori si ipotizzano "ricavi medi che potrebbero arrivare a 50mila euro per ettaro" così come "opportunità di sopravvivenza per i grownshop" e nuovi posti di lavoro nella filiera. L’importante, evidenzia sempre il ricercatore, è la necessità di "normative che regolamentino il mercato" indicando gli importanti temi della tracciabilità, l’etichettatura e altre variabili da normalizzare. Ad oggi la "cannabis tecnica italiana" viene venduta in vasetti da 8-10 grammi a un prezzo di 17 euro. Secondo Luca Marola "il nostro prodotto, che nulla a che fare con la marijuana per come la si intende, ha un valore sociale. Anche i dati economici che ci sono stati presentati servono soprattutto da indicatori per cosa potrebbe portare la legalizzazione, il cui iter riprende finalmente in questi giorni". Ucraina. I bambini soldato dei neonazi di Azov di Yurii Colombo Il Manifesto, 22 luglio 2017 Le "colonie" dei miliziani ucraini responsabili di "crimini di guerra". Nei campi la rivoluzione russa è spiegata come una "congiura di ebrei" al servizio dei tedeschi. "Siamo giovani aquile! Ragazzi e ragazze! Noi siamo giovani falchi! Nazionalisti! Un-due!". È quanto gridano dei bambini mentre marciano in un campo di addestramento militare vicino a Kiev, dove si insegna a centinaia di minorenni a diventare futuri combattenti ucraini. Sono i primi fotogrammi del documentario shock tramesso 5 giorni fa dal canale americano Nbc, su queste "colonie" create appositamente dal "Battaglione Azov", per fornire i primi rudimenti all’uso delle armi a ucraini tra i 9 e i 17 anni. I campi esistono dal 2015, ma solo ora delle macchine da presa hanno avuto l’autorizzazione a entrarvi. Il Battaglione Azov è un corpo di volontari ucraini fondato nel 2014, subito dopo inizio della guerra civile nel Donbass, da un gruppo di neofascisti. L’Azov si richiama apertamente alle gesta fondatore del nazionalismo di destra Stepan Bandera che durante la seconda guerra mondiale collaborò con le truppe naziste. Dal novembre 2014, il Battaglione Azov è stato integrato dal governo di Petr Poroshenko nella Guardia Nazionale e combatte contro le autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk a fianco dell’esercito ucraino regolare. L’Azov fa parte della "Assemblea Nazionale" un raggruppamento che include altri gruppi di estrema destra come Pravy Sektor e Svoboda. Amnesty International nel 2016 ha inserito l’"Azov" tra le formazioni armate che non rispettano i diritti umani dei prigionieri. In un rapporto pubblicato dalla ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani si afferma che il battaglione "commette regolarmente crimini di guerra: saccheggio, pestaggio di civili, tortura, violenza sessuale". Nei campi di addestramento dell’Azov ci si sveglia alle 3 del mattino: si inizia la giornata con una frugale colazione e canti nazionalisti. Il New York Times ha intervistato nell’edizione dell’altro ieri, una delle partecipanti al campo, la quindicenne Sonia. "Dopo gli esercizi fisici del mattino si può scegliere gli approfondimenti a cui partecipare: la storia, la medicina o la preparazione tattica. Se si sceglie quest’ultima si impara ad avere confidenza con le armi e impariamo come montarle e smontarle rapidamente" spiega la teenager. In altre sessioni si impara a rispettare la disciplina militare, a strisciare sui gomiti nel fango fino all’esaurimento delle forze, a conoscere la storia del movimento nazionalista. "La giornata finisce intorno al fuoco. E intorno alle sacre fiamme condividiamo i nostri pensieri. È importante rilassarsi dopo una dura giornata" aggiunge Sonia. Sasha, 9 anni appena, dice "di aver sognato di venire al campo già lo scorso anno" ma non era stato accettato perché ancora troppo piccolo. "Noi non siamo di sinistra, non siamo comunisti, non siamo fascisti e neppure nazisti. Noi siamo nazionalisti. Noi vogliamo che questi bimbi imparino ad amare l’Ucraina, a non tradirla" afferma uno degli istruttori di questa particolarissima "colonia". Peccato che si insegni che la rivoluzione russa è stata una congiura di ebrei al servizio dei tedeschi e la liberazione del paese dai nazisti una invasione neocoloniale russa. L’Appartenenza dell’Azov al neofascismo europeo è talmente nota, che persino il Congresso americano nello stanziare lo scorso maggio 150 milioni di dollari a favore dell’esercito ucraino ha ritenuto necessario specificare che in nessun modo i finanziamenti dovranno andare al tanto discusso battaglione. Tuttavia alcune agenzie di stampa russe sostengono che i soldati dell’Azov riceverebbero uno stipendio di 1.000 dollari al mese mentre quello degli ufficiali oscillerebbe tra i 3-5000. In un paese in cui i salari stagnano intorno ai 150 dollari, viene da chiedersi se più che un battaglione di volontari ci si trovi di fronte a un gruppo di mercenari. La cultura nazionale ucraina nel campo di addestramento non viene insegnata a questi bimbi attraverso gli straordinari versi di Taras Shevecenko o le commoventi storie di operai e contadini dei romanzi di Ivan Franko, ma con poche nozioni rabberciate in cui si esalta lo slavismo tradizionalista antioccidentale. Democrazia, rispetto dei diritti dei gay, cosmopolitismo sono definiti "elementi di decadenza sociale" da combattere. Libia. La spallata di Macron all’Italia. A Parigi l’incontro fra Haftar e Sarraj di Francesco Semprini La Stampa, 22 luglio 2017 Summit il 25 luglio, l’obiettivo francese è creare un esercito unitario. Il sostegno di Al-Sisi e degli Emirati arabi. La mediazione degli Usa. Emmanuel Macron tenta di scalzare l’Italia nella partita libica facendo entrare a gran voce la sua Francia nel complicato dossier del Paese maghrebino. E lo fa con la pretesa di far incontrare il presidente del Governo di accordo nazionale (Gna), Fayez al-Sarraj, e il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, in un vertice fissato a Parigi per martedì 25 luglio, per puntare tutto sulla creazione di un esercito nazionale unitario. Il neopresidente francese si candida a mediatore privilegiato nel processo di riconciliazione del Paese cercando di ridimensionare il ruolo svolto dall’Italia che per prima paga le ricadute, specie in termini di afflusso di migranti, del caos che ha caratterizzato gli ultimi sei anni di storia libica. Oltre un lustro di guerre e conflitti seguiti alla caduta di Muhammar Gheddafi con l’intervento della Nato fortemente sostenuto dalla Francia dell’allora presidente Nicolas Sarkozy. E di cui Macron vuole rilanciarne l’attivismo per assicurarsi una "golden share" nella Libia del futuro, nei suoi asset sotto embargo e soprattutto nel suo petrolio. Forte anche del ruolo dicotomico, o meglio ambiguo, svolto dalla Francia. Nella doppia veste di membro dell’Unione europea e quindi sostenitore del Consiglio presidenziale del Gna guidato da Sarraj e al contempo di interlocutore privilegiato in Occidente di Haftar. Fonti diplomatiche arabe parlano di "una sorta di riconoscimento della posizione del generale sul terreno e della legittimità della guerra che ha condotto contro i gruppi radicali". Non a caso l’iniziativa francese ha raccolto il plauso di Emirati Arabi Uniti ed Egitto, i due principali sponsor del generale, specie nei suoi sforzi bellici a Derna, Bengasi e nel Sud della Libia. Si tratta dei Paesi che fra l’altro già avevano organizzato bilaterali tra Sarraj e Haftar, al Cairo lo scorso febbraio concluso con un nulla di fatto, e il secondo a Doha con il primo faccia a faccia tra il generale e il presidente di aprile. Parigi si candida quindi ad ospitare un altro giro di colloqui, mettendo sul piatto una posta molto alta: creare una forza armata unita che operi al servizio di tutto il Paese, dalla Tripolitania alla Cirenaica passando per il Sud dove è in corso un confronto militare per procura tra Ovest ed Est. Il progetto è ambizioso ma ricco di incognite. In primis per il ruolo che dovrebbe rivestire Haftar, il quale si è detto sempre contrario ad avere incarichi politici. Il secondo per il rischio che una svolta col generale da parte di Sarraj possa avere contraccolpi interni, specie dalle fazioni più legate a Misurata, come accaduto dopo l’incontro di Doha. Se il generale sembra infatti aver già dato risposta positiva a Macron - spiegano fonti libiche - il suo potenziale interlocutore nicchia per non compromettere i recenti progressi politici e militari compiuti dentro e fuori Tripoli. Occorre infine considerare che la notizia del vertice arriva dopo il bilaterale tra Macron e Donald Trump tenuto in occasione delle celebrazioni del 14 luglio a Parigi. Non è chiaro se i due presidenti ne abbiano parlato, ma è certo che l’attivismo del titolare dell’Eliseo coincide con l’incontro di Amman del 9 luglio tra l’ambasciatore Usa in Libia, Peter William Bodde, e lo stesso Haftar. "L’obiettivo è creare pressioni sul generale per un accordo con Tripoli", spiegano fonti vicine al Gna. Col rischio che l’operato dell’amministrazione Trump, per cui il dossier libico ha un posto più ridimensionato rispetto a quella Obama, pur puntando a una soluzione unitaria per il Paese, con la logica delle deleghe ai partner europei, apra spazi di intermediazione insidiosi ad attori diversi dall’Italia. Uruguay. Marijuana scontata in farmacia, a ruba l’erba di Stato di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 22 luglio 2017 In vigore legge voluta da Mujica. La droga libera costa un euro a grammo. Da tre giorni la marijuana è libera in Uruguay. Si vende nelle farmacie e costa pochissimo: poco più di un euro al grammo. Si può produrre in casa, si può fumare alla luce del sole. Tranne nei luoghi pubblici dove è proibito anche per tabacco e derivati. Naturalmente non lo possono fare tutti. Il piccolo paese sudamericano non è il paradiso dei consumatori. Non ha alcuna intenzione di diventare l’Olanda del Sudamerica. Ha le sue regole, limiti, divieti e controlli. Ma l’entrata in vigore della seconda parte della legge promossa nel 2011 da Sebastián Sabini, deputato del Frente Amplio, il blocco della sinistra da 15 anni al potere e appoggiata dall’ex presidente José "Pepe" Mujica, ha trasformato l’Uruguay nel primo paese al mondo che detiene il monopolio completo delle foglie della pianta. Lo Stato controllerà la qualità del prodotto e la sua distribuzione. Una garanzia, nelle intenzioni dei promotori, nei confronti dei "tagli" spesso tossici e del mercato illegale che alimenta la criminalità. Non mancano tuttavia le critiche da parte dei proibizionisti. Pedro Martínez, proprietario di una farmacia di Montevideo che non ha aderito al programma, spiega così i suoi timori: "Con l’erba libera si aprono le porte alle altre droghe. Chi non ci dice che dopo si arriverà a vendere anche la coca, l’ecstasy, la metanfetamina? ". La maggioranza dei 3,4 milioni di uruguayani resta comunque convinta che si tratti di una scelta positiva. Sono almeno dieci anni che il paese discute sul tema. Fino agli albori del nuovo secolo, l’Uruguay era percorso dal traffico di stupefacenti come il resto dei paesi del Continente sudamericano. Ma essendo piccolo e fuori dalle rotte tradizionali, finiva per essere inondato da merce di pessima qualità. Soprattutto di pasta base della coca. Costava poco, arrivava dalla Bolivia, veniva fumata per stordirsi negli anfratti di Montevideo. José Mujica decise di troncare questa piaga e suggerì ai parlamentari del suo partito di liberalizzare la marijuana. I dati sul consumo, gli dicevano che almeno 120 mila suoi concittadini si concedevano uno spinello di tanto in tanto. Che un giovane su 3, a Montevideo, fumava erba nel fine settimana. Che il 90 per cento della droga richiesta dal mercato interno era la marijuana. Che il suo business si aggirava su 30 milioni di dollari l’anno. Il dibattito fu ampio e anche contrastato. Nel dicembre del 2013 si decise così di approvare una legge che andasse per gradi. Nella prima fase venne depenalizzato il suo uso. Si evitò di continuare a riempire le carceri di consumatori e piccoli spacciatori e si iniziò a prosciugare l’acquario in cui sguazzavano narcos e sicari. Solo due anni fa si decise di procedere alla fase due: la piena legalizzazione. Anche per scopo ricreativo. La nuova legge è chiara: l’erba si compra in farmacia, lo può fare un cittadino uruguayano o un residente abituale e tutti devono registrarsi in un apposito libro. Per dimostrare la propria identità si usa l’impronta digitale. Si possono comprare fino a 40 grammi al mese per 45 dollari: un quinto del prezzo sul mercato clandestino. La qualità è garantita dallo Stato. Chi vuole coltivarla a casa ha diritto a sei piante per uso personale. Ma devi essere iscritto nel registro. Oggi sono già settemila. Il laboratorio uruguayano stimola molti paesi del Continente. Dopo aver chiesto all’Onu di rivedere la sua politica sulla droga e aver ottenuto solo vaghe risposte, molti Stati hanno deciso di agire in modo autonomo. Così, il Messico ha legalizzato la coltivazione personale in piccole quantità; la Colombia ha avviato la produzione per scopi medici; Il Canada ha in programma di liberalizzarla nel 2018. Tunisia. Il destino dei figli dei foreign fighter di Laura Cappon lettera43.it, 22 luglio 2017 Nelle carceri libiche sono detenuti decine di bambini. Il governo non vuole trattare per liberarli e la popolazione protesta contro il ritorno dei genitori. Così crescono gli estremisti del futuro. Il nonno di Tamim Jendoubi vive a Tadamon, uno dei sobborghi più poveri di Tunisi. Nel salotto di casa, spoglio e bersagliato dall’afa, custodisce alcune foto del nipotino. In quegli scatti è appena un neonato, ma oggi Tamim ha già tre anni e quello che ormai è il suo parente più prossimo teme di non riconoscerlo più. Tamim è lontano, solo e prigioniero, orfano di entrambi i genitori da quando ne ha uno e mezzo. È nato ad Antalya, nel Sud della Turchia, mentre suo padre, tunisino di origine, combatteva in Siria sotto le insegne dello Stato Islamico. Quando questo soldato del Califfato si è spostato in Libia, madre e figlio lo hanno seguito per un breve periodo prima di rientrare a casa. Ed è lì che hanno scoperto che per loro tirava una brutta aria: la polizia tunisina, infatti, perquisiva quasi quotidianamente e in maniera brutale la loro abitazione, costringendoli alla fine a riparare di nuovo al di là del confine libico. Dove nel febbraio 2016 Tamim Jendoubi ha visto mamma e papà cadere sotto le bombe di un attacco americano al campo di addestramento dell’Isis di Sabrata. Da allora, se possibile, la sua situazione è anche peggiorata: da più di un anno Tamim si trova nel carcere di Mitiga, a poca distanza dall’aeroporto di Tripoli, e suo nonno ha passato la frontiera con la Libia due volte per provare a riportarlo a casa. Senza successo. A raccontarmi la storia di Tamim, e dei molti altri bimbi che si trovano nella stessa situazione, è Mohammed Iqbal: 40 anni, dipendente di una compagnia telefonica locale, dal 2013 lotta per riportare a casa i figli dei foreign fighter tunisini rinchiusi nelle carceri libiche. La sua è stata una vita ordinaria sino a quando, quattro anni fa, la sua esistenza venne stravolta dalla partenza di suo fratello per la Siria. Per reagire Mohammed ha fondato la Rescue Association for Tunisian Trapped Abroad, diventando l’interlocutore tra le famiglie dei foreign fighter e il governo del suo Paese. Un problema su cui nessuno vigila e che nessuno pare intenzionato a risolvere, ma capace di mettere in mostra numeri impressionanti. La Tunisia, infatti, è lo Stato che ha fornito in assoluto più combattenti ai jihadisti in Libia, Siria e Iraq: secondo il governo sarebbero 2.926 ma per le Nazioni Unite potrebbero essere almeno il doppio. E i figli di jihadisti reclusi nelle carceri libiche, quasi sempre in compagnia delle madri - quello di Tamim, orfano di entrambi i genitori, è un caso limite - sono moltissimi. "Negli ultimi nove mesi sono arrivate decine di nuove segnalazioni", mi racconta Iqbal in un caldo e lento pomeriggio di Ramadan sull’Avenue Bourguiba di Tunisi, il viale della rivoluzione che nel 2011 destituì il presidente Ben Ali dopo 24 anni di dittatura. "Nel carcere di Mitiga ora si contano 22 minori mentre 17 sono reclusi a Misurata". Secondo quanto riportato lo scorso aprile da Ibtissem Jebabli, parlamentare del partito Nidaa Tounes, nella terza città libica, i minorenni reclusi hanno un’età compresa tra i 13 e i 15 anni mentre altri sette, dei quali non si conosce l’età, si trovano fuori dalla struttura penitenziaria sotto la protezione della Mezzaluna Rossa. Le loro storie sono diventate note dopo la liberazione di Sirte, quando il ritiro delle milizie dello Stato Islamico ha lasciato sul terreno diverse donne e bambini stremati e in cerca di aiuto. Tra di loro c’è Baraa Zayani: ha 4 anni e suo padre era un venditore ambulante nel Kef, regione occidentale al confine con l’Algeria. Nel 2014 l’uomo ha deciso di andare a combattere in Libia e ha portato con sé mogli e figli. "Abbiamo saputo che Baraa e la madre erano rimasti feriti e che entrambi hanno ricevuto delle cure", spiega Iqbal. "Ora sta meglio ma la sua famiglia sta facendo di tutto per farli tornare a casa". A Mitiga con Baraa, Tamim e gli altri ci sono anche quattro fratelli tunisini, l’ultimo di loro è nato in Libia. Sono originari di Médenine, governatorato nel Sud delle Tunisia. Insieme a loro c’è anche la madre. "Abbiamo pochi dettagli su di loro", continua Iqbal. "La famiglia ci ha contattato ma è restia a darci le generalità complete perché ha paura". L’atteggiamento repressivo e securitario delle autorità tunisine, mostrato anche nella vicenda di Tamim, è il motivo principale per cui le famiglie dei foreign fighter non si espongono ai media e hanno lasciato a Iqbal il ruolo di portavoce con la stampa e il governo. Come raccontato dalla stampa locale, una delegazione tunisina è arrivata a Tripoli lo scorso aprile ma la visita al carcere di Mitiga è stata cancellata all’ultimo momento. L’opinione di Iqbal è che il governo tunisino non voglia trattare con le milizie che controllano il carcere nonostante la loro disponibilità a far tornare i minori in patria. Il ministero degli Esteri non ha voluto rilasciare dichiarazioni sul caso ma Chafik Haji, diplomatico tunisino che si sta occupando della vicenda, ha dichiarato all’Associated Press che le autorità tunisine stanno cercando di riportare a casa i bambini. "La nostra politica estera è caratterizzata da un’estrema passività e in generale da una burocrazia complessa", ci spiega Mohammed Alahmadi, giornalista indipendente tunisino. "Su questo dossier, il governo ha scelto, ancora una volta, la strategia della fuga in avanti: ha rilasciato diverse dichiarazioni senza fare nessuna azione concreta per risolvere la situazione". Al momento, nessun minore è tornato e la questione si interseca con il più ampio dibattito sul ritorno in patria dei foreign fighter, che ha infiammato l’opinione pubblica tunisina all’inizio di quest’anno. I primi mesi del 2017 sono stati da numerose manifestazioni di piazza contro l’ipotesi del ritorno, con l’ala liberale e alcuni partiti di sinistra che si sono opposti fermamente al rientro, chiedendo addirittura che gli ex combattenti vengano privati della cittadinanza (misura che viola la costituzione approvata nel 2014). Il presidente Essebsi aveva dichiarato lo scorso anno che tutti i tunisini hanno il diritto di tornare in patria. Ma la reazione popolare ha spaventato le autorità tunisine che al momento mantengono una posizione cauta in un contesto sociale dove i passi in avanti verso la democrazia sono rallentati non solo dallo stato di emergenza - in vigore da quasi due anni dopo gli attacchi nella capitale a a Sousse - ma anche dalla crisi economica che ha provocato diverse proteste nelle aree più povere del Paese. "Le uniche misure prese per i combattenti di ritorno sono solo azioni di controllo", continua Alahmadi. "Questo fa sorgere diversi dubbi sull’intenzione di pianificare in futuro dei programmi di anti-radicalizzazione". I dati resi pubblici dal ministero degli Interni a inizio del 2016 parlavano di 600 combattenti rientrati a casa: di questi 92 si troverebbero agli arresti domiciliari. Lo scorso gennaio il ministro delle Giustizia, Ghazi Jribi, ha rivelato durante una sessione parlamentare che ci sarebbero altri 160 tunisini che stanno tornando dalle aree di conflitto, e con la ritirata dello Stato Islamico in Iraq e Siria la situazione minaccia di peggiorare ulteriormente. Al totale vanno poi aggiunte le persone già in carcere per accuse di terrorismo, 1.648 secondo l’ultima rilevazione. Tra di loro c’è Nasreddin Bin Dhiab, espulso dall’Italia e accusato di far parte di una cellula, attiva in Lombardia, che pianificava attacchi in Tunisia e all’estero. È in carcere in attesa di processo anche Moaz al-Fazani, consegnato dalle autorità sudanesi alla giustizia tunisina lo scorso dicembre. Fazani è accusato di aver pianificato l’attacco contro il Museo Nazionale del Bardo nel marzo del 2015. Inoltre, la grave crisi economica rende difficoltosi i reinserimenti e, al contrario, continua a creare terreno fertile per la radicalizzazione. "La gente in Tunisia continuerà ad arruolarsi con i network jihadisti se il governo non troverà una soluzione politica e sociale", spiega Fabio Merone, ricercatore dell’Università di Ghent ed esperto di Islam radicale. "Il ritorno dei combattenti non fa altro che aggravare un contesto in cui le istituzioni sembrano non volersi sforzare ad andare oltre lo stato di emergenza e le strette misure di sicurezza. Il governo, inoltre, non ha mai aperto un dialogo politico con i movimenti salafiti per poter contrastare chi decide di sposare la lotta armata". Un altro fattore di rischio per la radicalizzazione è il sovraffollamento delle carceri. Lo ha denunciato in una commissione parlamentare anche il ministro della Giustizia. Le strutture carcerarie tunisine sono al 217% della loro capacità. "Questo significa che i 1.648 detenuti per terrorismo entrano in contatto con altre persone che sono dentro per crimini non violenti", spiega un operatore umanitario che preferisce restare anonimo. "Bisogna costituire un sistema tale per cui le persone che tornano vengano classificate per il loro livello di pericolosità", conclude Iqbal. "Se niente verrà fatto, significa che saremo complici della creazione dei jihadisti del futuro". Egitto. Detenuto muore in un posto di polizia. Parenti e amici: è stato torturato a morte Fides.org, 22 luglio 2017 Centinaia di egiziani, in gran parte appartenenti alla comunità copta, si sono radunati spontaneamente davanti alla stazione di polizia del distretto cairota di Manshiet Nasser per manifestare la propria rabbia, dopo che si è sparsa la notizia dell’uccisione di un copto lì detenuto. Il copto ucciso si chiamava Jamal Kamal Aweidah, aveva più di 40 anni, lavorava nel campo della concessione delle patenti per condurre autoveicoli ed era stato arrestato mercoledì 19 luglio dalla polizia, dopo essere stato denunciato per un caso di frode e corruzione legato al suo mestiere. Il fratello si era subito recato nel posto di detenzione per incontrarlo, ma non gli era stato reso possibile di vedere il congiunto. Dieci ore dopo l’arresto, è stata diffusa la notizia della morte di Jamal. I funzionari della stazione di polizia hanno provato a far passare la morte come un caso di suicidio, ma per loro è subito scattata l’accusa - sostenuta dai familiari di Jamal - di aver torturato il detenuto fino a provocarne la morte. Le autorità giudiziarie hanno disposto l’autopsia del corpo del deceduto. Prima di questa vicenda, già lo scorso dicembre alcuni agenti di polizia erano stati rinviati a giudizio con l’accusa di aver torturato a morte il copto cattolico Magdy McCain La Cina sfrutta le miniere africane con il lavoro forzato dei detenuti di Luigi Guelpa Corriere della Sera, 22 luglio 2017 Nonostante il Pil nel 2016 abbia fatto registrare un +8,6 per cento, non è tutto oro ciò che luccica nel Ghana. La nazione posizionata sulle cartine geografiche dalle performance dei suoi calciatori (come Asamoah, Muntari o Abedi Pelè), in realtà sull’oro galleggia. Peccato che i profitti delle miniere siano pari a zero, cannibalizzati dalla longa manu cinese, che si mette in tasca circa 2 miliardi di euro l’anno (l’8% della forza economica ghanese). Dal Paese della Grande Muraglia sono arrivati circa 50mila cercatori d’oro dall’inizio dell’anno. Un esercito di manovalanza a costo zero inviata da Pechino per estrarre il metallo prezioso. Lavoratori impiegati anche diciotto ore al giorno nelle 549 miniere artigianali, e spesso illegali, disseminate nell’ex colonia britannica. A buona parte dei cercatori d’oro non viene riconosciuto uno stipendio: sono quasi tutti prigionieri comuni o prigionieri politici, condannati alla catena perpetua, ed esportati per continuare a svolgere i lavori forzati dove l’economia cinese vanta un qualche interesse. È l’altra faccia del made in China, quella che offre tecnologia e manodopera in Ghana, costruisce stadi in Angola, centrali elettriche in Guinea Equatoriale e autostrade in Tanzania, e in cambio ottiene il diritto d’esclusiva nello sfruttamento di qualsiasi materia prima. Uno sfruttamento che viaggia di pari passo all’invasione silenziosa e incalzante dell’Africa nera. Ci sono parecchie associazioni umanitarie che vorrebbero vederci chiaro sulle miniere del Ghana e sulla forma di schiavitù camuffata da contratto di lavoro. Alcune miniere sono diventate enclave cinesi, senza controllo da parte del governo di Accra. Zone dedite ai peggiori traffici, compresi quelli della droga e della prostituzione, un business nel business. Inoltre, l’utilizzo scriteriato del mercurio per l’estrazione dell’oro ha provocato l’inquinamento delle falde acquifere. Pechino rispedisce al mittente critiche e accuse, continuando a flirtare con i suoi partner africani. Il Ghana potrebbe però a breve spezzare questa sorta di circolo vizioso. Almeno secondo le parole di uno dei tanti personaggi bizzarri del continente nero, l’attuale presidente della repubblica Nana Akufo Addo, che ha assunto il potere lo scorso 7 gennaio. Addo vorrebbe tagliare il cordone ombelicale con la Cina, per prendere le distanze dal suo predecessore John Mahama, fedele alleato di Xi Jinping, e privatizzare le miniere. Ha assicurato di potere risolvere tutto nello spazio di un anno. Il che significherebbe rispedire in Cina circa 400mila persone tra maestranze e lavoratori forzati, mandando all’aria tra l’altro una lunga serie di accordi economici con Pechino. Qualcosa del genere venne messo in atto una sola volta nella storia dell’Africa Nera: era il 1977 e il sanguinario presidente dell’Uganda Idi Amin Dada cacciò dal Paese tutte le forze lavoro straniere. L’Uganda venne travolta da una crisi economica devastante e Amin Dada costretto a riparare in Arabia Saudita dopo il colpo di stato perpetrato da Yusufu Lule. Molto più prosaicamente Addo vorrebbe azzerare le ingerenze straniere non tanto per far crescere l’economia ghanese, la cui locomotiva viaggia a buon passo, ma per far fronte ai costi della pachidermica macchina statale. Il Ghana, che conta 25 milioni di abitanti, ha un governo composto da 97 ministri, 254 sottosegretari e quasi 500mila funzionari governativi che a vario titolo succhiano avidamente dalle floride (per il momento) mammelle delle casse statali. Controllare l’oro sarebbe di vitale importanza per mantenere a vita la corte dei miracoli (ovvero i collettori di voti per lo stesso Addo). Lo scorso maggio il ministro delle Risorse naturali ha lanciato un ultimatum, dando tre settimane di tempo a tutti i minatori e alle aziende minerarie cinesi per lasciare il Ghana. A luglio non è cambiato nulla. Anzi soltanto nelle ultime settimane sarebbero entrate illegalmente almeno altre duemila persone. Nessuno le ha viste arrivare all’aeroporto di Accra, ma a quello di Lomè, in Togo, ottenendo alla dogana un visto turistico. Qualcuno potrebbe domandarsi come abbiano fatto a trasferirsi in Ghana. Semplice: Lomè capitale togolese, si trova per un terzo del territorio in... Ghana. Di frontiere quindi neanche a parlarne. La Cina da parte sua ha chiesto al presidente Addo di rivedere i suoi propositi bellicosi, offrendo 14 milioni di euro sull’unghia per irrorare le casse dello Stato e offrendosi di cofinanziare i recenti progetti della rete autostradale e ferroviaria per collegare Accra alle città di Kumasi e Tamale. Per la manovalanza di problemi non ce ne sono, fa sapere Pechino, le carceri funzionano meglio di un ufficio di collocamento. Non solo, la Cina vorrebbe diversificare gli investimenti, fino a controllare anche le coltivazioni di cacao. Una produzione senza precedenti, 820mila tonnellate, ha provocato il crollo dei prezzi, e per coprire la retribuzione agli agricoltori locali il governo ghanese dovrà attingere al fondo di stabilizzazione. La Cina si è offerta di mettere mano al portafogli, anche per indebolire la concorrenza (in materia di cacao) della vicina Costa d’Avorio, che durante il braccio di ferro armato tra Gbabgo e Ouattara nel 2011 non aveva ceduto alle lusinghe di Hu Jintao. Stati Uniti. Podcast registrato dai carcerati, racconta la vita all’interno di una prigione di Jacopo Musicco thesubmarine.it, 22 luglio 2017 "Ear Hustle" nasce con un intento preciso: abbattere stereotipi, pregiudizi e leggende sulla vita in prigione - più vicina alla routine che a un caos violento e incontrollato. Ear Hustle - che potremmo tradurre con "intercettazioni," ma che nello slang carcerario è più simile all’orecchiare conversazioni altrui - è il nuovo podcast del network radiofonico Radiotopia. I produttori sono Earlonne Woods e Antwan Williams, rispettivamente condannati a 31 e 15 anni di reclusione presso il penitenziario di San Quentin, in California, e Nigel Poor, volontaria dedicata a progetti di riabilitazione nelle carceri del paese. La prigione di San Quentin, situata a nord della città di San Francisco, è una delle più vecchie della California e ospita più di tremila condannati - ad oggi supera di quasi settecento persone la sua capacità massima. Tutti i condannati alla pena di morte nello stato della California devono essere trasferiti a San Quentin, l’unica prigione ad avere un braccio della morte. In questo contesto nasce Ear Hustle, un podcast creato da carcerati per raccontare la reale quotidianità della vita dietro le sbarre. Se progetti di fiction come Orange is the New Black o The Night Of hanno cercato negli ultimi anni di sensibilizzare il pubblico sulle condizioni di vita all’interno dei penitenziari americani, Ear Hustle nasce con un intento ancora più definito: abbattere stereotipi, pregiudizi e leggende sulla vita in prigione - più vicina alla routine che a un caos violento e incontrollato. "Ci sono tutte queste serie tv, come Prison Break e Orange is the New Black. Sono stronzate! La prigione non è veramente così. Semplicemente viviamo la vita come tutti gli altri," insistono Williams e Woods durante una delle prime puntate. "[Ear Hustle] riguarda la vita di tutti i giorni dentro una prigione. Come sopravvivi? Come gestisci la famiglia, l’amore, la depressione, avere un figlio, trovare un senso nella vita?" aggiunge Poor. La prima puntata, per esempio, affronta il tema dei compagni di cella, i "Cellies" - come sceglierli, conoscerli e infine conviverci. Dimenticatevi la retorica paternalistica, di humor ce n’è all’interno del podcast ed è ben calibrato, necessario soprattutto per non farci dimenticare che le persone condannate sono pur sempre persone. C’è un altro elemento che rende il progetto di Radiotopia così innovativo: finalmente sono i carcerati ad avere in mano la narrazione, non sceneggiatori, esperti o giornalisti, ma le stesse persone che ogni giorno vivono la drammatica esperienza in prima persona. "Una volta che ci apriamo a qualcuno, loro hanno la possibilità di girarla come preferiscono. Ma con i podcast, siamo noi a controllare la nostra narrativa". A partire dal 2014 - grazie al podcast true crime Serial - il medium ha riscoperto il suo potenziale, permettendo a molti produttori di sperimentare nuovi modi per raccontare storie che altrimenti non avrebbero avuto lo stesso impatto sul pubblico. Dopo ottimi casi come StartUp, Orbiting Human Circus, Love + Radio, S-Town e molti altri, Ear Hustle aggiunge un nuovo tassello alla narrazione audio, trasportandoci all’interno di un luogo vietato e riavvicinando l’esterno con l’interno. Quella particolare intimità trasmessa dai podcast ci accomuna tutti. "Mi piace come ascoltando persone che parlano fra di loro iniziamo a cogliere momenti che rimangono nei cuori delle persone. In un ambinete in cui la creatività può spesso svanire, creare questi momenti attraverso i suoni è la mia parte preferita," afferma Antwan Williams a Rolling Stone. L’ostacolo più grande quindi non sono più le storie, di cui un luogo imprevedibile come il carcere abbonda, ma le istituzioni. Ogni episodio deve essere infatti approvato dalle autorità, anche per questo motivo fino ad ora il podcast non si è avventurato in territori "politici". Data la natura dell’istituto di San Quentin però non è da escludere un futuro approfondimento sul delicato tema della pena di morte.