Ordinamento penitenziario, al via le Commissioni per la riforma di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 luglio 2017 Entro fine anno dovranno essere presentate le bozze dei decreti attuativi. Costitute tre commissioni di studio per elaborare, entro il 31 dicembre 2017, delle bozze dei decreti attuativi per la riforma dell’ordinamento penitenziario approvata il 23 giugno scorso. Il ministro della giustizia Orlando ha già emanato gli inviti agli esperti qualificati che formeranno le commissioni: si occuperanno di redigere schemi di decreti legislativi riguardanti le modifiche della disciplina delle misure di sicurezza e dell’assistenza sanitaria, con particolare riguardo alle patologie di tipo psichiatrico, e della revisione del sistema delle pene accessorie; gli strumenti normativi di giustizia riparativa nella fase dell’esecuzione penale e l’articolazione di una organica disciplina di ordinamento penitenziario minorile e, infine, le modifiche al vigente ordinamento penitenziario. Il sistema penitenziario risente sempre di più la necessità di avere un nuovo ordinamento. Le commissioni avranno il compito di mettere nero su bianco l’attuazione di tutte queste misure volte a rendere ef- tutto ciò che recita, in primis, la nostra costituzione. Quindi hanno tempo fino alla fine dell’anno. Ciò ha provocato qualche malumore all’interno del partito radicale, Rita Bernardini in primis che aveva fatto 25 giorni di sciopero della fame non solo per chiedere l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, ma anche per chiedere al governo di far approvare i decreti attuativi entro la fine dell’estate. Anche alla luce di questa notizia, i radicali hanno rilanciato con gran forza il "Satyagraha" collettivo, ovvero la prosecuzione dell’azione non violenta decennale di Marco Pannella. Inizierà a metà agosto in concomitanza della Carovana per la giustizia promossa dallo stesso partito radicale e l’unione delle camere penali. Il principale obiettivo riguarda proprio quello di far in modo che il governo emani, entro l’estate, i decreti attuativi del disegno di legge di riforma dell’ordinamento penitenziario. Intanto, la commissione che avrà il compito di redigere lo schema di decreto legislativo sulle modifiche alla disciplina delle misure di sicurezza e di assistenza sanitaria, è presieduta da Marco Pelissero - ordinario di Diritto penale, Università di Torino. I componenti sono Roberto Bartoli, ordinario di Diritto penale, Università di Firenze; Daniele Caprara, avvocato; Giuseppe Cherubino, avvocato; Francesco Paolo De Simone Policarpo, avvocato; Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano; Benedetta Galgani, associato di Diritto pro- cessuale penale, Università di Pisa; Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale, Università di Milano; Oliviero Mazza, ordinario di Diritto processuale penale, Università Milano- Bicocca; Nicola Mazzamuto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Messina; Michele Giacomo Carlo Passione, avvocato; Francesco Patrone, giudice di Tribunale, Roma; Giovanni Maria Pavarin, presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia; Giorgio Pighi, associato di Diritto penale, Università di Modena e Reggio Emilia; Giovanna Spinelli, magistrato del Tribunale di sorveglianza di Avellino. La Commissione che tratterà la riforma dell’ordinamento penitenziario minorile è presidente Francesco Cascini, sostituto procuratore presso il Tribunale di Napoli. I componenti sono Maria Brucale, avvocato; Salvatore Campanelli, avvocato; Adolfo Ceretti, ordinario di Scienze Criminologiche dell’Università di Milano-Bicocca; Maria Grazia Coppetta, associato di Diritto processuale penale dell’Università di Urbino; Maria De Luzenberger Milnernsheim, procuratore presso il Tribunale minori di Napoli; Fulvio Filocamo, sostituto procuratore presso il Tribunale minori di Roma; Antonietta Fiorillo, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna; Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale minori di Milano; Bruno Guazzaloca, avvocato; Grazia Mannozzi, ordinario di Diritto penale dell’Università Insubria; Vania Patanè, ordinario di Diritto processuale penale dell’Università di Catania; Paolo Renon, associato di Diritto penale dell’Università di Pavia e Guido Sola, avvocato. La Commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario nel suo complesso è presieduta da Glauco Giostra, ordinario di Diritto processuale penale dell’Università di Roma- La Sapienza. I componenti sono Paolo Borgna, sostituto procuratore, Tribunale di Torino; Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze; Stefania Carnevale, associato di Diritto processuale penale, Università di Ferrara; Gherardo Colombo, già magistrato di Cassazione; Andrea De Bertolini, avvocato; Franco Della Casa, ordinario di Diritto penitenziario, Università di Genova; Alessandro De Federicis, avvocato; Fabio Fiorentin, magistrato di sorveglianza di Udine; Carlo Fiorio, ordinario di diritto processuale penale, Università di Perugia, Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza di Spoleto; Luigi Kalb, ordinario di Diritto processuale penale, Università di Salerno; Vania Maffeo, associato di Diritto processuale penale, Università di Napoli Federico II; Antonia Antonella Marandola, ordinario di Diritto processuale penale, Università Lum; Riccardo Polidoro, avvocato; Marco Ruotolo, ordinario di Diritto costituzionale, Università di Roma Tre; Fabrizio Siracusano, associato di Diritto processuale penale, Università di Catania; Gabriele Terranova, avvocato; Daniele Vicoli, associato di Diritto processuale penale, Università di Bologna Alma Mater Studiorum e Stefano Visonà, sostituto Procuratore generale presso la Cassazione. Allo scopo di rendere noto il lavoro e di dare continuità a quanto prodotto dagli Stati generali, all’interno di ogni gruppo sarà costituito fra le Commissioni un coordinamento affidato al Professor Glauco Giostra, presidente del gruppo dedicato alla riforma dell’Ordinamento penitenziario, che avrà il compito di convocare riunioni periodiche. Il Capo di Gabinetto, dell’Ufficio legislativo, dei Dipartimenti per gli affari di giustizia, della Giustizia minorile e dell’Amministrazione penitenziaria partecipano ai lavori. La predisposizione delle bozze degli schemi dovrà essere ultimata entro il 31 dicembre 2017. Carceri: Orlando costituisce le Commissioni di riforma, c’è anche la salute psichiatrica sanita24.ilsole24ore.com, 21 luglio 2017 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha costituito presso l’Ufficio Legislativo, tre Commissioni di studio per l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo per la riforma dell’ordinamento penitenziario e del sistema delle misure di sicurezza personali, come previsto dalla Legge n. 203 del 23 giugno 2017. Lo fa sapere una nota del dicastero. Le Commissioni sono formate da esperti qualificati che si avvarranno di quanto elaborato dagli Stati generali dell’esecuzione penale, costituiti presso il ministero, e si occuperanno di redigere schemi di decreti legislativi riguardanti: le modifiche della disciplina delle misure di sicurezza e dell’assistenza sanitaria, con particolare riguardo alle patologie di tipo psichiatrico, e della revisione del sistema delle pene accessorie; gli strumenti normativi di giustizia riparativa nella fase dell’esecuzione penale e l’articolazione di una organica disciplina di ordinamento penitenziario minorile e, infine, le modifiche al vigente ordinamento penitenziario. Riforma dell’Ordinamento penitenziario, Commissioni al via. Giostra: compito delicato di Teresa Valiani Redattore Sociale, 21 luglio 2017 Istituite tre commissioni per la modifica dell’ordinamento penitenziario e delle misure di sicurezza. Intervista a Glauco Giostra, responsabile del coordinamento dei gruppi: molto prezioso il materiale prodotto dagli Stati generali. Per la prima volta si lavora alla stesura di un ordinamento minorile. Sono state costituite dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, tre commissioni di esperti chiamati a formulare, in attuazione della legge delega, le proposte per la riforma dell’ordinamento penitenziario e del sistema delle misure di sicurezza. Si avvia così a completamento il percorso promosso 2 anni fa dal Guardasigilli con gli Stati generali dell’esecuzione penale ed è un cordone doppio a legare le due fasi: al timone della Commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario e nel ruolo di responsabile del coordinamento dei gruppi c’è lo stesso giurista che per più di un anno ha diretto il Comitato scientifico del movimento culturale pensato da Orlando per ridisegnare il volto degli istituti di pena italiani, dopo la condanna arrivata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Per Glauco Giostra, ordinario di Procedura penale all’università Sapienza, già membro del Csm e presidente di diverse altre commissioni ministeriali, una nuova sfida da portare a termine nei brevissimi tempi a disposizione: le bozze degli schemi dovranno essere pronte, infatti, per il 31 dicembre 2017. Nell’intervista a Redattore Sociale le novità, le criticità e gli obiettivi del delicato passaggio del processo di riforma. Presidente Giostra, quali sono le novità più qualificanti della legge Delega? Per alcuni filoni tematici la Delega ripercorre, approfondendole e rilanciandole, le linee di fondo della legislazione penitenziaria vigente: si pensi, ad esempio, all’individualizzazione del trattamento rieducativo, alla valorizzazione del lavoro, all’importante ruolo da riservare al volontariato. Per altri, si registra un’inedita attenzione ad aspetti trascurati dall’attuale normativa. Si pensi all’affettività, ai collegamenti audiovisivi, alla giustizia riparativa, in particolare. Ma soprattutto il Parlamento, con più di 40 anni di ritardo, ha dettato al Governo le linee portanti di un ordinamento penitenziario a misura di minorenne: un ordinamento tutto da inventare che speriamo riesca a fare del minore non già ‘una frazionè dell’adulto, ma una entità qualitativamente diversa. Non più mere diminuzioni di pena o accessi facilitati ai benefici, ma risposte sanzionatorie e misure rieducative calibrate su questa peculiarissima realtà in divenire. Sarebbe stato, anche su questo piano, quanto mai opportuno che non venisse abbandonata la via della rifondazione del sistema sanzionatorio. Formalmente fuori della delega penitenziaria, ma a questa strettamente collegata, c’è poi la radicale riforma delle misure di sicurezza. Per la parte relativa a minorenni e giustizia riparativa e per quella su misure di sicurezza e assistenza sanitaria sono state istituite le altre due Commissioni, presiedute rispettivamente da Francesco Cascini, sostituto procuratore al tribunale di Napoli, già capo del dipartimento minorile, e da Marco Pelissero, ordinario di Diritto penale all’università di Torino. Partecipano ai lavori, il Capo di Gabinetto, dell’Ufficio legislativo, dei Dipartimenti per gli affari di giustizia, della Giustizia minorile e dell’Amministrazione penitenziaria. Quali sono i limiti della legge Delega, se ci sono? Non sempre i criteri direttivi riescono ad esprimere in modo nitido le coordinate entro cui il governo è autorizzato dal Parlamento ad esercitare il potere legislativo in sua vece. Qualche volta le maglie normative sono troppo lasche. Sarà compito del legislatore delegato trovare formule attuative in linea con lo spirito complessivo della Delega. Dal punto di vista dei contenuti, nel corso dei lavori preparatori sono riemersi alcuni automatismi preclusivi, nonostante l’indirizzo di fondo li vedesse destinati all’abbandono. Si dovrà cercare di costruire un sistema complessivamente coerente e credibile. Come saranno utilizzate le informazioni arrivate dagli Stati generali? Dall’accesso alle misure alternative alla giustizia riparativa, dalle opportunità di lavoro alla medicina penitenziaria, dall’assistenza psichiatrica alla sorveglianza dinamica, dagli interventi a tutela delle donne recluse all’esecuzione nei confronti di minorenni: i temi definiti dal perimetro della delega coincidono in larga parte con quelli su cui gli Stati generali hanno lavorato, elaborando interessanti ipotesi di riforma. Anche se un conto è l’attività svolta in quella sede, un conto è tradurre le idee in disposizioni di legge. Non c’è dubbio però che senza i cospicui risultati degli Stati generali, l’obbiettivo di concludere l’elaborato normativo in pochi mesi non sarebbe stato soltanto ambizioso, ma velleitario. Proprio in vista del poco tempo e dell’imponente impegno che attendevano il legislatore delegato, tempo fa, insieme a un collega della Sapienza, ho chiesto a diversi colleghi, magistrati e avvocati: "se foste nel Governo come realizzereste uno o più punti della Delega?". I contributi che sono arrivati, e si tratta di materiale quantitativamente e qualitativamente cospicuo, sono stati raccolti in un fascicolo: "Proposte per l’attuazione della Delega penitenziaria". Sono quasi 400 pagine di schede normative, riunite per criteri di Delega. In ciascuna scheda sono riportate la norma, la modifica e l’illustrazione delle ragioni della proposta. Un lavoro "di pronto consumo" che dovrebbe facilitare il compito al legislatore delegato. Dalla presidenza della Commissione mista del Csm, al coordinamento del Comitato scientifico degli Stati generali. Come sta affrontando questo nuovo incarico? Ci attende un compito estremamente delicato e complesso. Sarà un lavoro intenso che avrà bisogno del contributo di tutti, anche di chi non fa parte delle Commissioni, perché si tratta di un importante progetto di riforma il cui destino dipende molto da un forte cambiamento nella percezione sociale della pena e della sua funzione, che poi è stato l’obbiettivo principale degli Stati generali. L’approvazione del disegno di legge delega rappresenta comunque un importante segnale in tal senso ed è fondamentale coglierne e trasmetterne il significato politico-culturale. Dopo le "ventate" riformiste, in risposta all’umiliante condanna arrivata dalla corte europea, ci si poteva aspettare uno stallo, se non addirittura un periodo di "risacca legislativa". Invece il Parlamento ha trovato la determinazione politica per approvare linee guida con l’intento di ridare vento alla vela del principio costituzionale secondo cui le pene devono tendere a rieducare socialmente il condannato. E già il plurale sta ad indicare che il carcere non è l’unica soluzione e che, anzi, la prospettiva sanzionatoria è destinata a guardare ben oltre le sbarre se si vogliono ottenere risultati sia in termini di rispetto del dettato costituzionale che di sicurezza sociale. Suicidi in carcere. Il Garante nazionale interviene nelle indagini come persona offesa Agenpress, 21 luglio 2017 27 suicidi in carcere nei primi sette mesi dell’anno, una media di una morte a settimana: il dato, in crescita rispetto a quello dello scorso anno, desta la seria preoccupazione del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute. Pur considerando la difficoltà di ricondurre eventi del genere a un’unica matrice e di fermarli completamente, il Garante ritiene che la situazione meriti tutti gli approfondimenti necessari per perfezionare il sistema di prevenzione elaborato dal Ministero della Giustizia con la Direttiva del 3 maggio 2016. A tale scopo il Garante nazionale, in quanto titolare della tutela dei diritti delle persone detenute e, conseguentemente, di persona danneggiata dalle violazioni dei diritti protetti, intende intervenire come parte offesa nelle indagini relative a tutti i casi di suicidio, a cominciare dall’anno in corso, per fornire il proprio eventuale contributo di conoscenza e per seguire gli accertamenti che saranno condotti: per questo nei prossimi giorni il Garante nazionale invierà richieste di informazioni sullo stato dei procedimenti alle diverse competenti Procure della Repubblica. Volontariato nelle carceri. Protocollo d’intesa tra Sant’Egidio e Ministero della Giustizia santegidio.org, 21 luglio 2017 Rafforzata la collaborazione per attività culturali, di sensibilizzazione, e iniziative di solidarietà a favore dei detenuti. Rafforzare la collaborazione per le attività di volontariato a favore dei detenuti: è questo l’obiettivo del protocollo d’intesa firmato oggi dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) del Ministero della Giustizia e dalla Comunità di Sant’Egidio. Con l’accordo il Dap si impegna a sensibilizzare le direzioni degli Istituti Penitenziari per favorire l’accesso dei volontari della Comunità e a facilitare la realizzazione di iniziative ed eventi (campagne di distribuzione di generi di prima necessità, iniziative di sensibilizzazione e di solidarietà anche internazionale) che prevedano il contributo di esperti o di cittadini come volontari occasionali. La Comunità di Sant’Egidio si impegna a proseguire nelle attività di colloqui personali e di sostegno ai detenuti e nei programmi di assistenza materiale e spirituale; alla creazione di laboratori di pace; a realizzare iniziative culturali per favorire le relazioni tra istituti penitenziari e territorio; a offrire la possibilità di svolgere attività di volontariato e servizi di utilità pubblica presso alcune strutture di assistenza e aiuto, con progetti e percorsi individuali di accompagnamento o di inserimento sociale condivisi con gli operatori degli Istituti penitenziari Piccola posta di Adriano Sofri Il Foglio, 21 luglio 2017 Vediamo se ho capito. Dopo l’assassinio di Paolo Borsellino e di Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, viene deliberatamente montata da uomini della Polizia e di altri organi dello stato una raccapricciante quanto maldestra falsa pista, che sarà avallata da uno stuolo impressionante di magistrati di ogni ordine. Undici persone, poi ridotte a nove, del tutto estranee ai fatti (cioè innocenti, questo è il significato della parola) vengono condannate all’ergastolo e incarcerate, nell’orrore del 41 bis, per dodici anni. Il pilastro di questa abominevole falsificazione è un disgraziato di nome Scarantino, che peraltro prova ripetutamente a dire che quello che gli hanno fatto "confessare" è completamente falso ed estorto. La sua inaffidabilità è del resto evidente dall’inizio ad altri inquirenti, meno ottusi o meno disposti a stare al gioco dei depistaggi. Quando finalmente, nel 2008, un mafioso di altro calibro, di nome Spatuzza, fornisce la sua versione dei fatti e la accompagna con prove verificate, gli sventurati che stanno in galera innocenti al 41 bis vengono messi fuori, con il meccanismo anestetico della "sospensione della pena". Per capirci, di uno di loro Scarantino riferirà di aver fatto il nome perché al bar non lo salutava. Mentre altri processi condannano altri responsabili della strage di Via D’Amelio, gli innocenti restano così, sospesi. Trascorrono ancora nove anni, e tre giorni fa, alla chetichella, per così dire, il tribunale di Catania sbriga in una manciata di minuti il processo di revisione e annulla formalmente le condanne per quei calunniati, che ora lo stato dovrà risarcire, benché né lo stato né alcuna altra entità abbia tasche piene abbastanza da risarcire di un’infamia simile. Ora questa sommaria ricapitolazione era per formulare una domanda: nelle innumerevoli e sentite commemorazioni dei 25 anni dalla strage di Via D’Amelio ce n’è stata almeno una cui siano stati invitati, con un posto per così dire d’onore, i condannati innocenti tormentati per tanti anni nella peggiore delle galere? Non dico che dovessero sedere accanto ai magistrati che li hanno perseguitati e condannati a oltranza, spesso sapendo quello che facevano: non sarebbe stato bello per loro. Ma magari accanto al Presidente della Repubblica, per rendere più efficace il suo monito sulle "troppe incertezze nella ricerca della verità". A volte la verità è così vicina che le si potrebbe trovare un posto a sedere. Caso Borsellino, i giornali ignorano la denuncia (della figlia e di Mattarella) di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 21 luglio 2017 Le parole del Presidente della Repubblica e della figlia di Borsellino sugli "errori", che hanno caratterizzato le indagini sull’attentato di Via D’Amelio, hanno aperto due fronti di riflessione. Il primo, sul quale si è concentrata immediatamente la grande stampa, riguarda i misteriosi perché siano stati commessi quegli errori. E, come sempre accade quando vengono chiamati in ballo i poteri oscuri, vi è stata un’eccitata partecipazione alla riflessione su quali trame si nascondano dietro quegli errori. Il secondo aspetto è stato trattato solo da Tiziana Maiolo su questo giornale. Ha riferito la Maiolo che la moglie di Enzo Scarantino, passati pochi giorni dal pentimento del marito, aveva scritto una lettera "nella quale mi raccontava che il marito era stato portato per mano, a calci e pugni e con vere torture, a confessare un delitto che non aveva mai commesso, l’omicidio del magistrato Paolo Borsellino". Ancora Tiziana Maiolo riferisce che erano stati constatati "sui corpi dei detenuti di Pianosa e Asinara le conseguenze delle torture", il che avrebbe permesso di capire in che modo si costruivano i "pentiti". E, ancora, sempre Tiziana Maiolo riferisce che la Corte di Assise di Caltanissetta, nella sentenza al quarto processo per la strage di Via D’Amelio, "ha sancito che Enzo Scarantino è stato indotto al depistaggio dagli investigatori". Dove sta lo scandalo? Nel fatto che solo Tiziana Maiolo ha avuto la coscienza civile ed il coraggio di centrare tutta la sua riflessione sulle vere e proprie storture che hanno accompagnato le indagini su Via D’Amelio, mettendo in luce che tali storture non sono state il frutto di semplici errori, ma di vere e proprie gravissime violazioni del codice penale e, prima ancora, di quelli che sono alcuni capisaldi di una società civile ed autenticamente democratica. Le indagini per l’attentato di Via D’Amelio costituiscono, in questa prospettiva, un buco nero nella coscienza collettiva, su cui tutti si guardano bene dall’aprire i riflettori con la volontà di guardare fino in fondo quello che è successo. Mentre con riferimento alle violenze di Bolzaneto lo Stato è stato messo senza sconti sul banco degli imputati e vi è stato il Capo della Polizia, Gabrielli, che ha avuto il coraggio civile di prendere le distanze in modo forte da quanto accaduto, rispetto agli abusi commessi in nome di una pretesa lotta alla mafia si preferisce tacere e nascondere. Un dato impressionante è la circostanza che questo tacere e nascondere coinvolge l’intera magistratura. Nessuna delle correnti, anche quelle più accese nel contestare la neutralità del giudice e nell’invocare una militanza dell’ordine giudiziario nella lotta alla illegalità, si è neanche lontanamente sognata di prendere una posizione ferma ed adeguatamente pubblicizzata contro le illegalità gravissime che sarebbero state commesse nel procedimento relativo all’uccisione di Borsellino. Inutile parlare, poi, dei militanti in servizio permanente effettivo dell’antimafia, su cui pesa in modo definitivo il giudizio di Sciascia. Ma è soprattutto il sostanziale silenzio della magistratura associata che lascia storditi e che fa venire in mente un altro silenzio assordante. Il silenzio delle gerarchie ecclesiastiche sugli innumerevoli casi di abusi sessuali nei confronti dei minori, che solo ora e faticosamente stanno emergendo. Nell’uno e nell’altro caso l’impressione finisce con l’essere quella di chiese chiuse su sé stesse, che sono disponibili ad immolare, per preservare sé stesse e la propria presunta aureola, qualsiasi valore religioso, umano e civile. Le indagini sulla uccisione di Borsellino, con il loro gravido carico di misteri oscuri, restano una macchia indelebile, con cui prima o poi la magistratura silente ed i professionisti dell’antimafia dovranno fare, sul piano morale e civile, i conti. I falsi pentiti e i loro portavoce: pm e giornalisti di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 21 luglio 2017 L’inaudito caso di Enzo Scarantino, costretto a "collaborare" a calci e pugni, ad autoaccusarsi e ad accusare deviando le indagini. Gli incredibili "errori" dei magistrati, tra i quali Di Matteo. Adesso lo dicono tutti, anche Sergio Mattarella: nel 1992, quando fu ucciso Paolo Borsellino, ci fu qualcosa di sbagliato nelle indagini e nei processi che seguirono. In realtà non ci fu nessun "errore", ma il fatto banale che nessuno si curò della verità sulla morte di Paolo Borsellino. Magistrati vanesi e investigatori senza scrupoli volevano in fretta una qualunque verità. Persino quella di Enzo Scarantino. Il "pentito" costruito a tavolino, come dice oggi la figlia del magistrato ucciso. Erano passati pochi giorni dal "pentimento" di Enzo Scarantino quando la moglie Rosalia mi scriveva una lettera nella quale mi raccontava che il marito era stato portato per mano, a calci e pugni e con vere torture a confessare un delitto che non aveva commesso, l’omicidio del magistrato Paolo Borsellino. I falsi pentiti e i loro portavoce: Pm e giornalisti Ci sono voluti venticinque anni e una sordità colpevole e senza precedenti da parte delle istituzioni per arrivare alle parole di una donna coraggiosa come la figlia di Borsellino che denuncia i "pentiti costruiti a tavolino". E fa nomi e cognomi, senza paura. Quei nomi e cognomi che non ha potuto fare (se non su personaggi non di primo piano) la corte d’assise di Caltanissetta che nei mesi scorsi, nella sentenza al quarto processo per la strage di via D’Amelio, ha sancito che Enzo Scarantino è stato indotto al depistaggio dagli investigatori. Quali investigatori? Fiammetta Borsellino ricorda chi erano i procuratori dell’epoca: il capo Tinebra, i sostituti Annamaria Palma. Carmelo Petralia, Nino di Matteo. Questi sono i magistrati ingenui, quelli che hanno creduto (creduto?) che un picciotto della Guadagna, un piccolo spacciatore vanitoso e ignorante e un bel po’ spaccone, potesse aver partecipato, con il furto di un’auto da imbottire con 90 chili di tritolo, a una delle stragi del secolo. Hanno continuato a credere (credere?) a quelle prime parole del "pentito" anche quando lui stesso, anche a costo di rinunciare alla libertà, aveva continuato a dire che quella specie di verità gli era stata estorta. Estorta come? La moglie di Scarantino aveva puntato il dito contro Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto che conduceva le indagini sulle stragi e gestiva i collaboratori di giustizia. E del resto sarebbe bastato ascoltare le testimonianze (o magari rispondere alle interrogazioni parlamentari che nel corso degli anni deputati come me e Enzo Fragalà presentavano caparbiamente) di chi aveva constatato sui corpi dei detenuti di Pianosa e Asinara le conseguenze delle torture, per capire in che modo si costruivano i "pentiti". I magistrati non volevano vedere e tiravano dritto, osannati da una grande fanfara mediatica e sostenuti da un partito, il Pds, che voleva fare dell’" antimafia", di quell’antimafia messa all’indice da Leonardo Sciascia, la propria identità. Di quel che succedeva nelle carceri, pochi si curavano. I radicali e qualche "matto" isolato in Parlamento e nell’opinione pubblica. La storia veniva scritta dai "pentiti" attraverso i loro portavoce, Pm e famosi giornalisti. Scarantino raccontava che prima di ogni interrogatorio, di ogni udienza, veniva ammaestrato, nomi e cognomi delle persone da accusare e far arrestare gli venivano suggeriti. Proprio come era già capitato con i 17 finti pentiti che accusavano Enzo Tortora. Ma nel caso Scarantino si è fatto di peggio, perché si scopriranno anni dopo addirittura appunti vergati a mano dalla grafia di qualche inquirente. E si andrà avanti così, di processo in processo, per anni e anni, fino al 2008. Con gli ergastoli che erano fioccati nei confronti di persone innocenti. Quando arriva il "pentito d’oro" Gaspare Spatuzza a dire che tutto era sbagliato, che i colpevoli erano altri, solo allora si era sbaraccato tutto il castello costruito in 16 lunghi anni. Oggi lo dicono tutti, che era stato tutto sbagliato. E sarebbe facile prendersela con persone che non ci sono più, come Arnaldo La Barbera o Tinebra. Ma dove sono tutti gli uomini di governo che hanno chiuso gli occhi, tutti i giudici delle corti d’assise che facevano i portavoce dei Pubblici ministeri e gli investigatori che svolgevano colloqui riservati nelle carceri e gli "sbirri" delle squadrette di picchiatori? C’è una responsabilità collettiva in tutto ciò. Basta fiaccolate, commemorazioni e agendine rosse. Facciamo nomi e cognomi per favore (come ci sta insegnando Fiammetta Borsellino), magari anche di qualcuno che nel frattempo ha fatto carriera o sta sognando di diventare ministro di giustizia. Ingiusta detenzione, Russo Spena accanto a Giulio Petrilli nella sua battaglia laquilablog.it, 21 luglio 2017 In merito alla battaglia di Giulio Petrilli sul mancato risarcimento per ingiusta detenzione prende posizione anche Giovanni Russo Spena, figura storica della sinistra italiana, ex senatore, giurista e da sempre attento alle problematiche sui diritti. "Condivido pienamente il ricorso alla giustizia europea di Giulio Petrilli. Sono stato, infatti, già nel lontano 2011 tra i primi firmatari (con l’attuale ministro Andrea Orlando, con Rita Bernardini, con Luigi De Magistris, con Luigi Manconi e molti altri parlamentari e giuristi) della iniziativa politica e parlamentare per introdurre l’ovvia retroattività nella legge sulla riparazione per ingiusta detenzione. La mancata retroattività rispetto alla legge dell’89 e la valutazione delle responsabilità e dei comportamenti del cittadino innocente per sentenza passata in giudicato o per errore giudiziario sono fonte di grave sperequazione ed iniquità e ledono lo Stato di diritto. Sono violati, infatti, gli articoli 2, 13, e 24 della Costituzione nonché la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Condivido, da garantista, completamente la denunzia alla giustizia europea da parte di Petrilli per il comportamento ipocrita ed omissivo del governo e del Parlamento italiano. Sono convinto che la giustizia europea condannerà il comportamento italiano come avvenuto ripetutamente, ad esempio, nel caso delle leggi sulla tortura e sull’asilo politico". Giovanni Russo Spena, giurista, responsabile dipartimento democrazia e diritti del PRC Condannato il "mondo di mezzo" di Carminati e Buzzi di Giuliano Santoro Il Manifesto, 21 luglio 2017 Condanne per complessivi 250 anni di carcere per i 36 imputati nel processo. Il sodalizio tra giochi di potere e grumi di interesse declassato ad associazione a delinquere semplice. La sentenza arriva dopo 20 mesi di udienze, 230 sedute e 5 ore di camera di consiglio. Puntuali, intorno alle 13, i giudici chiudono il primo grado del processo comunemente detto Mafia Capitale. Il dispositivo letto dalla presidente Rossana Ianniello incrocia differenti livelli, non parla solo dei 46 imputati e va oltre la mappa del sistema di potere che per anni ha imperversato a Roma. Il primo dato è il duro colpo all’ipotesi accusatoria portata avanti dai pm Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli sulla base delle indagini coordinate dal procuratore Giuseppe Pignatone. Cade il reato più grave, l’associazione di stampo mafioso. La Mafia Capitale non è una forma nuova di mafia. Il sodalizio fatto di alleanze, giochi di potere e grumi di interesse viene declassato ad associazione a delinquere semplice. Quasi a far da contrappeso, piovono condanne: per 36 persone ci sono 250 anni di reclusione. A partire da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, considerati i capi, condannati rispettivamente a 20 e 19 anni (comunque meno di quanto avesse chiesto l’accusa). Nel dicembre del 2014 sulla Roma dei palazzi del potere e delle relazioni pericolose precipita l’"operazione mondo di mezzo". Con centinaia di pagine di ordini di arresto gli inquirenti tirano l’ennesimo filo nero che collega affari e denaro pubblico, cascami delle trame nere e politica corrotta. L’inchiesta prende a prestito il nome dalla teoria formulata da Carminati, già considerato una specie di ufficiale di collegamento tra i Nar e la Banda della Magliana. Il Nero, intercettato, la vede così: "Ci stanno i vivi sopra e i morti sotto. Noi stiamo nel mezzo. E allora vuol dire che ci sta un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano". La quasi secolare alleanza tra fascisti e padroni, con le sue diramazioni nei palazzi del potere e le relazioni criminali, serve questa volta a costruire una forma predatoria di mediazione sociale, a garantire la camera di compensazione di una nuova borghesia parassitaria. Il fondo d’investimento al quale attinge Carminati è la propria storia personale, il mito della sua invincibilità e la storia dei suoi approdi nei tanti porti delle nebbie dell’Italia anticomunista. "M’hanno chiamato re di Roma, Er Cecato, il Nero di Romanzo criminale, il Samurai di Suburra - recita una delle intercettazioni - Nel mio ambiente queste cose ti rendono ridicolo, non ti danno potere". Ma in un’altra occasione si vanta: "È il re di Roma che viene qua". Più volte, ascoltato in videoconferenza dall’isolamento estremo del 41 bis, si esibisce in uno scenografico saluto romano che pare fatto apposta per alimentare leggende e gonfiarne il mito. Diversi volti noti dell’estrema destra romana siano stati visti a piazzale Clodio, a seguire le udienze manifestare attenzione. Ma nel "mondo di mezzo" di Carminati si proclamano stati d’emergenza che creano sovranità: servono agli imprenditori per lucrare e ai politici per avere più potere. Qui entra in gioco il ruolo di Salvatore Buzzi. L’ex detenuto al centro di una fitta rete di cooperative sociali scrive in un sms di auguri per il 2013: "Speriamo che sia un anno pieno di monnezza, profughi, immigrati, sfollati, minori, piovoso così cresce l’erba da tagliare e magari con qualche bufera di neve: evviva la cooperazione sociale". La storia di Buzzi si intreccia con quella che parla di diritti della cooperativa 29 giugno, la prima di ex detenuti in Italia. Quando il "cecato" Carminati, esorta Buzzi a "mettersi la minigonna" e ad "andare a battere" si riferisce alla nuova giunta di Ignazio Marino. Qualche tempo dopo afferma: "Col mio amico capogruppo se magnamo Roma". Tra i politici la pena più pesante, 11 anni, colpisce Luca Gramazio, già consigliere comunale e capogruppo alla Regione Lazio del Pdl: avrebbe utilizzato la sua posizione per pianificare la spartizione di appalti. Era stato eletto nelle liste del Pd, invece, l’ex presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti, condannato a 6 anni: Buzzi afferma di "esserselo comprato". Il consigliere Pdl Giordano Tredicine, condannato a 3 anni, è parte della famiglia che a Roma gestisce camion, bar e bancarelle. Viene da sinistra Luca Odevaine, già capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni e componente del tavolo permanente sugli immigrati a stipendio di Buzzi. È stato condannato a 6 anni e mezzo: quando il capo della 29 giugno pronuncia la famosa frase circa il business dei migranti che rende "più della droga" si riferisce anche ai suoi servizi. Spettano 5 anni ad Andrea Tassone, anche lui Pd e presidente del municipio di Ostia commissariato per infiltrazioni mafiose. Sono 10 gli anni di pena per un’altra vecchia conoscenza dell’estrema destra come Franco Panzironi, Ad di Ama e braccio destro di Gianni Alemanno: "Mi chiese il 2,5% su un appalto da 20 milioni", dice Buzzi. Mafia Capitale da oggi è Mazzetta Capitale: la sconfitta della Procura di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 21 luglio 2017 La sentenza di primo grado stabilisce che non si è trattato di associazione mafiosa, ma di associazione "semplice". Resta da capire, e dovranno spiegarlo le motivazioni, l’apporto dell’ex estremista nero Carminati al sistema corruttivo del rosso Buzzi. Non era un’associazione mafiosa, bensì un’associazione per delinquere "semplice". Anzi, due: una più piccola, quella del benzinaio di corso Francia, dedita per lo più alle estorsioni; l’altra più grande e strutturata, messa in piedi per corrompere la pubblica amministrazione. Entrambe incarnate da Massimo Carminati, l’ex estremista nero divenuto criminale comune di peso ma non un boss, evidentemente. Non più Mafia Capitale, insomma, ma Mazzetta capitale. Un sistema nel quale più dell’assoggettamento e dell’intimidazione imposta dalla caratura del bandito con un occhio solo ha inciso la compravendita dei politici esercitata da Salvatore Buzzi, il capo delle cooperative sociali. Un "mondo di mezzo" diverso da quello disegnato dall’accusa, che aveva sommato la "riserva di violenza" garantita dagli ex picchiatori degli anni Settanta divenuti malavitosi di strada alla corruzione praticata sistematicamente da imprenditori spregiudicati; la prima metà del sodalizio è caduta, lasciando in piedi la seconda che rientra in un contesto molto più "normale", accettabile e digeribile da una città come Roma. È il motivo per cui gli imputati esultano, insieme ai loro avvocati, a dispetto di pene molto severe inflitte dalla X sezione del Tribunale di Roma: vent’anni di carcere per Carminati, 19 per Buzzi e a scendere quasi tutti gli altri (solo 5 dei 46 accusati sono stati assolti), con una scala di responsabilità che dal punto di vista dei ruoli attribuiti ai singoli personaggi sembra seguire l’impostazione dei pubblici ministeri. Ma la vera posta in gioco era un’altra: la scommessa di una nuova associazione mafiosa, originale e originaria, autoctona e autonoma, diversa da tutte le altre contestate finora, che da oggi non è più nemmeno presunta. Semplicemente non c’è, perché così hanno deciso i giudici del Tribunale, dopo che altri giudici l’avevano invece riconosciuta: il gip che ordinò gli arresti a fine 2014, il tribunale del Riesame che li confermò e persino la Cassazione, che aveva ribadito come non fosse necessario il controllo del territorio né l’esercizio della violenza; bastava la minaccia, anche implicita, e la corruzione del sistema politico che era da considerarsi l’arma principale a disposizione di una nuova mafia. Questo impianto, dopo un anno e mezzo di dibattimento e 250 udienze, non ha retto. Il tribunale composto da tre magistrati ha ritenuto (probabilmente a maggioranza, due contro uno, ma sono solo rumors non verificabili che non tolgono nulla al peso della decisione) che la minaccia insita in una personalità dal passato turbolento come quella di Carminati non fosse sofficiente a configurare neanche quel "metodo mafioso" che ormai da tempo ha superato i confini siciliani o calabresi, dove viene praticato da decenni. Era la sfida della Procura guidata da Giuseppe Pignatone, il magistrato che dopo aver contrastato Cosa nostra e ‘ndrangheta ha applicato (insieme ai suoi aggiunti e sostituti, e ai carabinieri del Ros che molto hanno creduto e investito su questa indagine) quel metodo investigativo e quel reato a questo frammento di criminalità romana che ha aggredito la pubblica amministrazione. Sfida persa. Resta da capire, e dovranno spiegarlo le motivazioni della sentenza, quale apporto ha portato l’ex estremista nero all’associazione corruttiva del rosso Buzzi, se non la "riserva di violenza" negata dai giudici. Nell’attesa, ci si dividerà tra l’esultanza di chi ha sempre definito tutta questa costruzione nient’altro che una fiction a vantaggio di qualche carriera, una "mafia all’amatriciana" inventata a tavolino per i motivi più disparati, e il rammarico di chi dirà che Roma sconta un ritardo culturale nella lotta al crimine e ha perso un’occasione storica per impedire che tutto prima o poi si annacqui, finisca sotto la sabbia o si perda nelle nebbie mai completamente diradate. Divisioni inevitabili di fronte a un’accusa tanto clamorosa quanto inedita, che ha tenuto banco per quasi tre anni e ha avuto indiscutibili ricadute politiche. Finendo per travolgere le due precedenti giunte comunali e mettendo qualche premessa per l’avvento di quella nuova (non a caso ieri la sindaca Raggi s’è presentata in aula per assistere personalmente all’utimo atto). Ma è evaporata in meno di un’ora, il tempo necessario a leggere il dispositivo della decisione; polemiche e letture contrapposte sono garantite. Tuttavia al di là della sconfitta subita dai pubblici ministeri - parziale e non definitiva, ché le condanne ci sono comunque state e per il resto ci saranno gli altri gradi di giudizio - restano l’importanza e il peso di un’inchiesta e di un verdetto che hanno scoperchiato il grande malaffare di Roma. Con pene molto pesanti che, se da un lato aumentano il valore per l’assoluzione dall’accusa di mafia, dall’altro hanno il sapore del contrappeso confermando la gravità di quanto scoperto: dai 10 anni di carcere inflitti a uno dei principali collaboratori dell’ex sindaco Alemanno (a sua volta imputato per corruzione in un processo parallelo) ai 10 per l’ex presidente del Consiglio comunale con la giunta Marino. Sintomo di un’infiltrazione criminale, seppure non mafiosa, che non aveva confini politici e ha condizionato l’amministrazione della Capitale d’Italia. Mafia Capitale, demolite le tesi della procura di Roma di Andrea Colombo Il Manifesto, 21 luglio 2017 I politici capitolini si facevano corrompere senza nessun bisogno di minacce. L’esito del processo inciderà sul sofferto caso del codice antimafia in discussione in Parlamento. La sentenza è un colpo tremendo per la procura di Roma, che vede cedere l’intero impianto accusatorio. "Questa sentenza in parte ci dà torto", ammette il procuratore Paolo Ielo, annunciando il probabile ricorso in appello. Più che le parole sono i volti scuri dei rappresentanti dell’accusa e quelli raggianti dei difensori a chiarire il senso della sentenza, nonostante le condanne molto alte. "È una pietra miliare - dichiara Salvatore Diddi, legale di Buzzi - ora so che Buzzi non è un mafioso e neppure Carminati", prosegue. "Questa sentenza è un modo serio e consapevole di ricordare Borsellino. La mafia è una cosa seria: se tutto è mafia, niente è mafia", infierisce Giosuè Bruno Naso, avvocato di Carminati, che giustamente si accinge a chiedere, dopo 31 mesi, la revoca del carcere duro per il suo assistito. Non è una sentenza ambigua quella della X sezione di Roma. È al contrario molto netta. La vera posta in gioco di questo processo non erano le condanne per corruzione, sia pur rese pesantissime grazie all’uso dell’associazione per delinquere "semplice". Era la conferma, che non è arrivata, del carattere mafioso di tale associazione. Sarebbe stata quella a fare giurisprudenza, creando un precedente destinato a stravolgere decine di processi. Avrebbe anche deciso davvero della sorte degli imputati. Se fossero stati condannati per mafia, Carminati e Buzzi non sarebbero più usciti di prigione, o ne sarebbero usciti decrepiti. Ora potranno usufruire di tutti i benefici previsti della legge, dato e non concesso che condanne così abnormi vengano confermate nei successivi gradi di giudizio. Sin dall’inizio, in realtà, era apparso evidente che la contestazione dell’associazione mafiosa, in assenza di omicidi, atti di violenza e palesi intimidazioni, aveva poche chance di reggere in tutti e tre i gradi di giudizio. Il perno, in realtà unico, era la presenza di Carminati che, in virtù della sua più volte citata "straordinaria caratura criminale", cioè della sua sola presenza, rappresentava un fattore di minaccia e coercizione. Tuttavia, alla vigilia del dibattimento, la condanna in primo grado, fondamentale per salvare almeno la faccia della procura, era considerata probabile. Tanto più che la presidente Rosanna Ianniello era considerata elemento a favore dell’accusa. La si riteneva infatti convinta che l’associazione mafiosa non debba essere contestata solo alle mafie "ufficiali", filiazioni delle grandi strutture criminali, ma anche alle organizzazioni autoctone, come i clan di Ostia. A capovolgere le previsioni è stato il dibattimento, dal quale è emerso che i politici chiedevano favori ed erano pronti a ripagarli senza bisogno di alcuna minaccia. Nessun dubbio quindi sull’estensione della corruzione nell’amministrazione della capitale e neppure sui connotati criminali di Carminati e dei suoi più stretti sodali. Però nessuna mafia. La sentenza va oltre. Stabilisce che a Roma erano attive due distinte associazioni per delinquere: quella strettamente banditesca di Carminati e complici e quella finalizzata alla corruzione. Il "Cecato" e il suo braccio destro, Riccardo Brugia facevano parte di entrambe, ma senza che i due percorsi si intrecciassero. È la più clamorosa smentita dell’impianto accusatorio ed è anche la spiegazione della decisione di non condannare ai sensi dell’art. 416bis. Tra le reazioni, la più bizzarra è quella di Roberto Saviano: "Anche a Palermo la mafia non esisteva. È ora di rivedere un reato applicabile solo a gruppi capeggiati da meridionali". Come se a orientare il verdetto fosse stato il fatto che Massimo Carminati non viene dal Sud. Anche se nessuno ne parla, questa sentenza inciderà inevitabilmente sul sofferto caso del codice antimafia in discussione in Parlamento, quello che allarga ai sospettati di corruzione il sequestro preventivo già in vigore per i sospetti mafiosi e che è stato bersagliato da critiche al di sopra di ogni sospetto di simpatia per i corrotti. Tra le due vicende non c’è nesso diretto, ma è ovvio che una condanna per mafia in un processo sulla corruzione avrebbe rafforzato le traballanti argomentazioni dei difensori del codice nella sua versione attuale. Mafia Capitale. Si può punire con un diritto normale di Vincenzo Maiello Il Mattino, 21 luglio 2017 L’opinione pubblica comune e quella specialistica di quanti lavorano e riflettono con le categorie del diritto penale, attendevano con ansia e curioso interesse la sentenza del processo a Mafia Capitale. L’una desiderava sapere se fosse mafiosa l’associazione criminale messa in piedi da Carminati e Bezzi - che, attraverso un’impressionante capacità di penetrazione corruttiva, aveva asservito ai propri obiettivi di accaparramento degli appalti molti dei centri decisionali del Comune di Roma. In sostanza, intendeva conoscere se la capitale d’Italia - un tempo "caput mundi" e centro di irradiazione di una civiltà del diritto millenaria, che continua a trasmetterci idee-guida - avesse generato una "propria" mafia, nata, cioè, negli ambienti criminali locali ed emersa quale ente originario e non mera appendice delle mafie storiche. L’altra aspettava di sapere se, ancora una volta, la forte suggestione indotta dal clamore delle indagini e dalla pericolosità del fenomeno scoperto avesse prevalso sulla rigorosa applicazione delle norme, determinando un’ulteriore strappo alla legalità sul terreno scivoloso del diritto penale dell’emergenza, favorendone un’ennesima sua impropria espansione. Siamo dell’avviso che la sentenza pronunciata ieri dal Tribunale di Roma - nella parte in cui ha escluso la natura mafiosa del predetto aggregato criminale, riconoscendone, al contrario, il carattere di comune associazione per delinquere - abbia fatto tirare ad entrambi un sospiro di sollievo, rasserenandone i timori. Sul piano specifico del discorso giuridico, essa segna un’indiscutibile riaffermazione delle ragioni del diritto e, in particolare, della legalità penale, valorizzandone il ruolo di limite insormontabile del potere di punire. In termini ancora più significativi, la pronuncia dimostra come fenomeni di accentuata pervasività offensiva- qual è indubbiamente quello legato alla vicenda romana - possano trovare efficace e dissuasiva risposta attraverso le risorse di un diritto penale "normale"; vale adire, un diritto penale che soddisfi i bisogni repressivi della società senza rinnegare le ragioni della legalità, segnatamente la pretesa dell’individuo di essere giudicato, ed eventualmente punito, nei limiti di quanto la legge prevede, e non già in rapporto a quel che potrebbe risultare gradito alla piazza o ai movimenti sociali che ne sfruttano le capacità comunicative. Al riguardo, la decisione ha il merito di accogliere una interpretazione "conforme a legge" del delitto di associazione mafiosa, ribadendone altresì quella dimensione criminologica che funge da linea di confine con le comuni associazioni per delinquere. Nell’ escludere la connotazione mafiosa del gruppo criminale di Carminati e Bezzi, i giudici romani hanno inteso, infatti, sottolineare il nesso intercorrente tra un’associazione mafiosa e una realtà sottostante di assoggettamento e di intimidazione di (almeno una) parte della comunità sociale; ciò che, come molti hanno rilevato in diverse occasioni, è apparso mancare nel contesto di operatività di Mafia Capitale. La sentenza può, allora, avere il valore di monito nel momento in cui la politica criminale del nostro Paese sta conoscendo una fase di involuzione illiberale e populista, ben testimoniata da talune scelte della recente legge Orlando e dal disegno di legge - all’esame della Camera- che propone di estendere agli indiziati di reati contro la Pubblica amministrazione le misure di prevenzione - personali e patrimoniali. Piace illuderci che da essa si possa ricavare una lezione di "ritorno al diritto" ed alle sue pretese di regolare le esigenze sociali di tutela, attuandole con moderazione ed equilibrio, ma, soprattutto, sulla base di una puntuale conoscenza dei fenomeni che si intendono contrastare. Affinché ciò accada, è indispensabile che il legislatore torni alla scuola della ragione, riscoprendo la grammatica del rapporto tra autorità e diritti individuali. Un simile auspicio, espresso sulle pagine di questo giornale, vuole anche essere un tributo i eroi - talvolta dimenticati - dell’illuminismo napoletano, allorché si impegnarono, con Gaetano Filangieri e Mario Pagano sopra tutti, a far sì che "la face della filosofia" tornasse a rischiarare "le tenebre del Foro". Quelle tenebre sembrano, oggi, oscurare soprattutto i palazzi delle decisioni legislative: il loro diradamento può avvenire per mano del diritto di qualità delle nostre Corti e del costante e vigile esercizio dello spirito pubblico. Per i giudici non c’è mafia, per Rai e Ansa invece sì di Valerio Spigarelli Il Dubbio, 21 luglio 2017 L’aula è gremita di avvocati, familiari e rappresentanti della stampa. Decine di giornalisti e operatori video, cespugli di telecamere montate sui treppiedi, che pare di stare in un film hollywoodiano degli anni Cinquanta. Clima delle grandi occasioni giornalistiche, insomma. Il pienone di giornalisti, a dirla tutta, è una novità, visto che non se ne vedevano così tanti dai tempi del debutto del processo. Nel corso delle 250 udienze la presenza dei cronisti s’era fatta sempre più rada; spesso i giornalisti era assenti del tutto, soprattutto quando a parlare era la difesa. Talmente assenti che alcune cronache comparse sui giornali non avevano raccontato quel che realmente era avvenuto nel corso dell’una o dell’altra udienza, ma avevano liberamente ripreso gli avvenimenti dagli atti di qualche anno prima contenuti nelle informative di polizia giudiziaria. Insomma, visto che non avevano tempo di venire, i giornalisti ascoltavano il processo su radio radicale, il più delle volte, e qualche volta neanche quello: invece di udire quello che aveva detto il teste convocato per una certa udienza, andavano a sfogliare le informative e riportavano quello che la stessa persona aveva raccontato nel chiuso di un ufficio di polizia qualche anno prima. In ogni caso ieri no, tutti presenti, attenti ed informati. Talmente informati che neppure un’oretta dopo il ritiro in camera di consiglio dei giudici, alle 10,15 l’Ansa, cioè la più grande e prestigiosa agenzia giornalistica italiana, lancia un breve take subito ripreso da molte testate dal titolo shock "Mafia Roma: Carminati condannato a 28 anni". Il testo specificava "Massimo Carminati è stato condannato a 28 anni al termine del processo a Mafia Capitale. La decima corte del Tribunale di Roma ha accolto le richieste della Procura riconoscendo l’ex Nar come capo dell’associazione mafiosa che avrebbe condizionato la politica romana". La notizia, ovviamente, cade come una bomba tra gli avvocati presenti. È una balla, evidentemente, visto che i giudici non sono ancora usciti, ma, si sa, gli avvocati sono sospettosi e malfidati, e dunque si scatena immediatamente una ridda di ipotesi e commenti: "avranno avuto la notizia dell’esito e gli è sfuggita" "certamente hanno parlato con qualcuno" "forse hanno visto una bozza del dispositivo" "chi sarà la talpa?". I più allenati a verificare la fisiognomica giudiziaria - cioè quella scienza inesatta molto in voga nei tribunali che pretende di preconizzare l’esito delle cause a seconda delle espressioni dei giudici, dei pm o del personale amministrativo (e che di solito non ci azzecca mai) - subito pretendono di trarre conferme della verità della notizia dal fatto che uno dei tre pm, non precisamente un giovialone, fin dalla prima mattina dispensa sorrisi a destra e a manca. Anche la circostanza - di suo comunque non troppo elegante - che al seguito dei procuratori si è presentato il Ros che aveva seguito le indagini praticamente al completo, capo, sotto capo e militi in polpa e delegazione, viene subito collegata alla bufala per accreditarla: "se stanno qui è perché sanno qualcosa; ‘ sto giornalista dice la verità! " è la conclusione dei più smart tra i commentatori. Neppure quando, una manciata di minuti dopo, la stessa agenzia Ansa dichiara che si è trattato di uno spiacevole incidente pregando di "annullare la notizia" in quanto "andata in rete per errore", i commenti preoccupati si acquietano: "figurarsi, erano obbligati a farlo! E poi una smentita è una notizia data due volte". I più addentro ai misteri della stampa nazionale dopo un po’ ricostruiscono l’accaduto millantando le più diverse fonti, dall’amico giornalista vaticano alla fidanzata occulta di un capo redattore. Secondo questa versione è semplicemente accaduto che un cronista un po’ sbadato ha inserito in rete una bozza, una sorta di coccodrillo giudiziario tanto per usare termini da redazione, che aveva predisposto per portarsi un po’ avanti col lavoro. Tutto qui. Spiacevole incidente, appunto. "Spiacevole, sì" - pensa qualcuno dei più scaramantici, come il sottoscritto - anche il fatto che il coccodrillo sia quello: chissà se ne hanno fatto uno che dice "La procura di Roma smentita" etc. etc.". Di commento in commento si arrivava alle 13. La tensione sale quando entra il Tribunale, la gloriosa stampa nazionale è tutta coi cellulari in mano che registrata l’evento. Anche su Radio Rai Uno sono sul pezzo, vanno in diretta interrompendo il notiziario delle 13: " Carminati condannato a 20 anni, Buzzi a 19, riconosciuta l’associazione di tipo mafioso che era la questione centrale del processo, il perno attorno al quale ruotava l’inchiesta" dice il giornalista. È la seconda balla della giornata, ancora più clamorosa della prima, visto che il cronista non sta al desk di una redazione dislocata chissà dove, ma proprio nell’aula bunker di Rebibbia, tanto che si scusa perché deve parlare a bassa voce. Sta lì, sicuramente col cellulare in mano, ma col cervello sintonizzato chissà dove, visto che non capisce quel che succede. Anche qui, a stretto giro ed in diretta, segue canonica smentita: un po’ come a tutto il calcio minuto per minuto, il reporter si ricollega e dice " scusa (Bortoluzzi?) devo precisare che è in realtà caduta l’accusa di associazione mafiosa. La notizia non è vera, il cronista s’è sbagliato". E due. Ora, perché racconto quella che può sembrare solo la cronaca impietosa di un paio di topiche giornalistiche? Perché non sono topiche, sono lapsus freudiani che dicono tutto sulla gloriosa stampa nazionale, embedded sul carro delle Procure da troppo tempo, e oggi ancor più comodamente assisa sulle alfette delle agenzie investigative. Una stampa che sbaglia perché non gli sembra vero, proprio no, che possa sbagliare una Procura, o il ROS, e dunque scrive coccodrilli forcaioli, quando non copia veline giudiziarie o intercettazioni illegittimamente diffuse, oppure fraintende una cosa semplice come un dispositivo di una sentenza proprio perché ha smesso di abbaiare al potere giudiziario, come dovrebbe fare un vero cane da guardia del potere, ma azzanna solo chi finisce dentro gli ingranaggi giudiziari. Poi magari si scusa, "spiacevole incidente", "scusa Ameri mi dicono che non è gol". Eppure oggi la notizia, quella su cui dovevano fare attenzione, era una sola: se c’era o non c’era la Mafia a Roma, ci voleva poco. Naturalmente anche il resto dell’universo giornalistico inizia a parlare e commentare, e non sono pochi quelli che, al succo, dicono: "la mafia non c’è ma le condanne, e pure toste, invece sì: dunque che cambia? La Procura ha vinto lo stesso". E magari sono quelli che da qualche anno in qua l’hanno menata su e giù per le colonne dei giornali proprio sul fatto che di epocale, in questo processo, c’era la Mafia, Capitale per di più, non certo la corruzione che è vecchia come il mondo. Quella era la notizia "vera" ma a molti, troppi, giornalisti italiani non gli va giù che quella "notizia", su cui si sono cullati per anni, alla fine sia stata dichiarata ufficialmente "una balla" e allora fanno diventare realtà la fantasia. Come volevasi dimostrare. Ma che c’entra col giornalismo? Tenuità del fatto anche con precedenti penali di Luigi Caiazza Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2017 Corte di Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 20 luglio 2017 n. 35757. La rilevata presenza di numerosi precedenti penali a carico dell’imputato non costituisce motivo per escluderlo dall’accoglimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui al primo comma dell’articolo 131-bis del Codice penale. Sostanzialmente su tale principio si fonda la sentenza della Cassazione n. 35757, depositata ieri, con la quale è stato accolto il ricorso proposto dal titolare di una ditta contro la sentenza di condanna del Tribunale di Torino, in composizione monocratica, nella parte in cui non gli aveva riconosciuto la qualificazione del fatto commesso come di particolare tenuità. Il ricorrente aveva omesso di installare una serie di misure antinfortunistiche a tutela dei propri dipendenti e, pur avendo rimosso tempestivamente le predette irregolarità, non aveva poi provveduto al versamento della sanzione prevista per le stesse in sede amministrativa ai sensi dell’articolo 301 del dlgs 81/08. Senza contestare la materialità della sua condotta e la sua astratta rilevanza penale, l’imputato ha fondato il ricorso sulla mancanza di motivazione della sentenza impugnata in relazione alla richiesta di qualificazione del fatto commesso come di particolare tenuità, ai sensi del citato articolo 131-bis, e alla conseguente non punibilità del fatto. Il Tribunale, sebbene avesse riconosciuto l’imputato meritevole delle circostanze attenuanti generiche in ragione dell’eliminazione delle situazioni di pericolo accertate e della puntuale ottemperanza alle prescrizioni dall’Asl, ha, tuttavia, comminato la sanzione prevista partendo da una pena base superiore al minimo edittale, il che escludeva implicitamente la ricorrenza della particolare tenuità dell’offesa. Peraltro, la ragione per la quale il Tribunale lo aveva escluso dal beneficio risiedeva nella pena che per il caso in esame era stata determinata sulla base di una sanzione superiore al minimo edittale, in quanto il ricorrente vantava precedenti penali, sia pure legati a reati di diversa natura. Di tale avviso non è stata però la Cassazione, la quale ha ritenuto che la presenza dei precedenti penali non può costituire implicita motivazione del mancato accoglimento della richiesta di applicazione della causa di non punibilità, per particolare tenuità del fatto, tenuto conto che i parametri di valutazione previsti dal comma uno dell’art. 131-bis hanno natura e struttura oggettiva (pena edittale, modalità e particolare tenuità della condotta, esiguità del danno). Diversamente, i parametri connessi al corredo penale gravanti sull’imputato attengono ad aspetti evidentemente collegati a profili soggettivi del reo e, pertanto, non significativi ai fini della valutazione concernente la tenuità o meno dell’offesa arrecata mediante la commissione del reato. Occorre quindi tenere distinto il piano della valutazione della personalità del reo da quello avente specificamente ad oggetto l’offensività della condotta del medesimo posta in essere. Concordato preventivo, l’ammissione al piano non basta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2017 Corte di Cassazione - Sentenza 21 luglio 2017 n 35786. Solo l’omologazione del concordato preventivo e non la semplice ammissione a questo evita che scatti il reato in caso di omesso versamento dell’Iva o dei contributi. La Cassazione (sentenza 35786), sceglie tra due indirizzi quello più rigoroso per il contribuente. I giudici respingono così il ricorso del legale rappresentante di una Srl che chiedeva l’annullamento dell’ordinanza con la quale il Tribunale aveva confermato l’ordinanza che disponeva un sequestro preventivo, finalizzato alla confisca. Alla base della misura cautelare gli indizi per i reati di omesso versamento delle ritenute (articolo 10-bis del Dlgs 74/2000) e dell’Iva (articolo 10-ter). Il ricorrente riteneva però di avere una giustificazione: era stato ammesso al concordato preventivo, prima della scadenza per il versamento dell’Iva e un suo eventuale adempimento delle obbligazioni sarebbe avvenuto in violazione del principio che impone una parità di condizioni nella soddisfazione dei creditori. La Cassazione non è d’accordo. I giudici precisano prima di tutto che la "carta" giocata dalla difesa non riguarderebbe comunque il reato di omesso pagamento delle ritenute certificate, perché perfezionato prima dell’ammissione al concordato preventivo. Ad escludere il reato per il mancato "pagamento" dell’Iva c’è invece la giurisprudenza maggioritaria. Secondo i giudici, infatti, l’ammissione al concordato preventivo, anche se precedente alla scadenza del termine fissato per il pagamento dell’imposta, non "salva" dal reato per un debito scaduto. Inutile per il ricorrente invocare l’applicazione del principio a lui più favorevole (sentenza 15853/2015) secondo il quale il reato, previsto dall’articolo 10-ter, non è configurabile, anche a debito è scaduto, se il debitore è stato ammesso al concordato preventivo prima della dead line per il pagamento: un effetto dell’inclusione nel piano del debito di imposta degli interessi e delle sanzioni amministrative. La Cassazione dà conto del ragionamento seguito nelle contrastanti pronunce. Secondo l’indirizzo condiviso, gli Stati sono tenuti, per essere in linea con il diritto dell’Unione, a garantire la riscossione dell’Iva sul loro territorio. Anche la disciplina sul concordato preventivo impone, con una norma inderogabile di ordine pubblico (articolo 182-ter della legge fallimentare) il pagamento dell’imposta, "aprendo" solo alla dilazione. La scelta, di natura privatistica, del debitore di imboccare la via del concordato non fa venire meno gli obblighi giuridici, di natura pubblicistica, come il versamento dell’Iva. In caso contrario si consumerebbe un reato istantaneo che coincide con l’inutile scadenza del termine per il versamento. Per l’indirizzo minoritario il concordato, anche se frutto di iniziativa privata è un istituto prevalentemente pubblicistico che si muove su un percorso disegnato dalla giurisdizione, non si può ignorare dunque ai fini penali, che la dilazione del debito Iva può rientrare nel piano concordatario. Una liceità che non deve restare confinata nell’ambito di quell’istituto a meno di cadere nella contraddizione di dare al giudice fallimentare il potere di ammettere e di omologare una condotta di rilievo penale. L’intreccio tra norme penali e concorsuali non può avere come conseguenza lo svuotamento di contenuto delle seconde, relativizzandone gli effetti. In nome del coordinamento è necessario - per i giudici che scelgono l’orientamento meno "rigido" - escludere la sussistenza del reato. Ma per la Cassazione il contrasto è più apparente che effettivo. Secondo i giudici della terza sezione, anche l’indirizzo dal quale prendono le distanze, presupporrebbe in realtà l’omologazione del concordato. In conclusione è necessario che l’accordo di ristrutturazione o della transazione fiscale prevedano espressamente la dilazione del debito in epoca successiva alla scadenza del termine e che l’omologa ci sia prima di quella data. Solo così l’omologazione dell’accordo inciderebbe sulla sussistenza del reato. Omessi versamenti, la rateazione non osta al sequestro preventivo di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2017 Corte di Cassazione- Sezione III penale - Sentenza 20 luglio 2017 n. 35781. In presenza di reato di omesso versamento delle ritenute o Iva, l’accesso alla rateazione delle somme non versate in precedenza, non inibiscono il sequestro preventivo nonostante la recente riforma penale tributaria. L’interessato può chiedere la riduzione del sequestro in misura corrispondente alle rate corrisposte con istanza al PM e non al Tribunale del riesame. A fornire queste indicazioni è la Corte di Cassazione, sezione terza penale con la sentenza 35781depositata ieri. Nei confronti di un imprenditore indagato per il reato di omesso versamento delle ritenute veniva effettuato un sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca A seguito della conferma della misura cautelare da parte del tribunale del riesame, l’indagato ricorreva in Cassazione eccependo, tra l’altro, di aver concordato con l’amministrazione finanziaria il pagamento rateale del debito prima dell’emissione del sequestro preventivo e di aver già pagato alcune rate. Evidenziava inoltre che, a seguito delle modifiche al regime penale tributario, introdotte con il Dlgs 158/2015, sarebbe venuto meno, rispetto al passato, l’automatismo del sequestro, allorché sia concordato un piano di rateazione provando la volontà di adempiere all’obbligazione tributaria. La Cassazione ha rigettato l’impugnazione. Innanzitutto, secondo i giudici di legittimità, le nuove cause di non punibilità in caso di pagamento del debito tributario, introdotte dal citato Dlgs 158, non mutano la natura del sequestro, né della confisca. Le previsioni che la confisca non operi per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario, anche in presenza di sequestro, e che in caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta, non precludono l’adozione del sequestro preventivo relativamente agli importi non ancora corrisposti. Nel caso in cui, in virtù di un accordo tra contribuente e amministrazione finanziaria per la rateazione del debito tributario, siano già state versate delle somme, il sequestro non può essere mantenuto sull’intero ammontare del profitto derivante dal mancato pagamento dell’imposta evasa, ma va ridotto in misura corrispondente ai ratei versati, altrimenti si verificherebbe una inammissibile duplicazione sanzionatoria in contrasto con il principio secondo cui l’ablazione definitiva di un bene non può essere mai superiore al vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa. La richiesta di riduzione e, quindi, la revoca parziale della cautela, deve essere avanzata al pm previa dimostrazione del quantum corrisposto, al netto di interessi e sanzioni e non può essere domandata in difetto di tali indicazioni al Tribunale del riesame o dell’appello cautelare. Tale organo, infatti, è sprovvisto di poteri istruttori e quindi, salvo i casi di immediata soluzione sulla base degli atti, non è in condizione di dirimere questioni contabili derivanti dal pagamento parziale. Ferrara: suicidio in carcere, effettuata l’autopsia estense.com, 21 luglio 2017 Il corpo presenta una ferita sopra la fronte, risalente ad alcuni giorni prima del decesso. Il volto di Roman Horoberts presenta una lesione nel cranio, sopra la tempia, riconducibile però a giorni prima. Sono le prime indiscrezioni che emergono dall’autopsia effettuata dal medico legale Sara Chierici (affiancata per la parte tossicologica dalla dottoressa Anna Talarico) su incarico del pm Giuseppe Tittaferrante sul corpo del ragazzo ucraino, trovato morto in una cella dell’Arginone con i jeans attorno al collo. Il consulente del pubblico ministero avrà 70 giorni per depositare le proprie conclusioni. Dalle prime informazioni la ferita sarebbe una lacerazione cutanea, già registrata dal medico dell’Arginone prima dell’ingresso in carcere, e risalente a qualche giorno prima del decesso. Altre leggere escoriazioni sono state riscontrate sul dorso delle mani, lievi ferite compatibili con i pugni che Roman diede contro la macchinetta del caffè. Il corpo non presenta altri segni particolari. Per quanto riguarda invece la causa della morte non ci sono dubbi sulla causa: asfissia meccanica. Da quanto si apprende Horoberts è rimasto agitato quasi tutta la notte. Il compagno di cella è riuscito ad addormentarsi solo attorno alle 6, per essere svegliato un’ora dopo dall’urlo dell’inserviente che stava facendo il giro delle celle per i giornali del mattino. L’episodio drammatico del suicidio in carcere aveva già fatto intervenire il sindacato del Sappe e il Pd di Ferrara. Ora è la Camera Penale Ferrarese "Avv. Franco Romani", che ha appreso dai media locali come il 30enne " si trovasse nell’istituto di pena da poche ore, dopo essere stato tratto in arresto in flagranza di reato e in attesa della celebrazione di giudizio direttissimo. La notizia, al di là del cordoglio per la morte del giovane, riaccende le preoccupazioni per i troppi decessi all’interno delle carceri, segno evidente di un perdurante disagio che accompagna la detenzione e, in particolare, la custodia in attesa di giudizio". Nel caso specifico "la vicenda risulta ulteriormente preoccupante per il fatto che il detenuto avesse cercato, già prima dell’arresto, di porre fine alla propria vita". La Camera Penale ribadisce, quindi, "la necessità di un intervento dello Stato volto a garantire migliori condizioni di vita all’interno delle carceri onde assicurare, anche attraverso un potenziamento del personale e delle strutture, quella indefettibile opera di individualizzazione del trattamento che può scongiurare gesti di questo tipo". Bologna: i bambini della Dozza nel carcere sovraffollato di Caterina Giusberti La Repubblica, 21 luglio 2017 Ci sono quattro bambini nella sezione femminile della Dozza, due appena nati. L’ultimo lo ha consegnato un papà alla mamma una settimana fa e adesso osserva i secondini dal passeggino. "È un massimo storico, non siamo attrezzati, non abbiamo abbastanza celle con culle e lettini, sbotta la direttrice Claudia Clementi. Lo ha ribadito ieri ai consiglieri comunali, in visita della struttura. "Per legge i figli possono stare in carcere fino a sei anni - spiega - ma il carcere non è proprio un posto per loro". Da tempo a Bologna si parla di aprire una casa protetta (coi requisiti della legge 62/2011) per le mamme con bambini, ma ancora non si è mosso nulla. Dentro fa un caldo da boccheggiare, chi si arrangia coi ventagli, chi riesuma la vecchia battuta sullo "stare al fresco", ma non fa ridere nessuno. I detenuti sono 750-800, duecento in più di quelli previsti. Sono 160 quelli che lavorano ogni mese, alcuni hanno posti fissi nelle aziende aperte all’interno del carcere, altri si alternano in tirocini nella struttura, tra pulizie e lavanderie. Il fiore all’occhiello è il centro creato dai tre big Ima, Marchesini e Gd, dove si confezionano componenti meccanici di alto livello. Ci lavorano in sedici e da quando ha aperto nel 2012 "almeno cinque-sei ex detenuti sono stati assunti", spiega con orgoglio uno dei tutor, Silvano Simoncini. Altri 35 detenuti sono iscritti all’Università, 250 fanno corsi di alfabetizzazione, 80 hanno frequentato le superiori. Ma non basta a non sentirsi marziani. "Com’è fuori?", chiede un detenuto giovane a un gruppetto di consiglieri che visitano la sua cella microscopica aggiustata alla meno peggio con televisione, ripiani, mensoline, fotografie. Le pentole sono appese in bagno con dei ganci, per cucinare usa un fornello da campeggio, per mangiare bisogna sollevare uno dei materassi. "Ci dormiamo in due, ma fino a ieri eravamo in tre", precisa. Poi ci sono gli agenti, fuori dalla celle ma sempre dietro le sbarre. "Siamo sotto organico di almeno cento persone", spiega il comandante Roberto Di Caterino: sono 390, dovrebbero essere 567. Sempre ieri, a dare l’allarme sulla condizione di chi lavora in carcere è stato pure Nicola D’Amore, del sindacato Sinappe: ha chiesto l’apertura di uno sportello per prevenire i suicidi degli agenti. "Non tutti sono capaci, una volta usciti, di smettere di pensarci". Gorizia: "troppe risse e tentati suicidi in carcere" di Francesco Fain Il Piccolo, 21 luglio 2017 È un carcere "ad alta tensione" quello di Gorizia, stando almeno ai numeri che emergono dall’allarme lanciato dai sindacati. E la stagione estiva, con le sue temperature elevate, non fa che acuire i problemi. Storie di esasperazione e frustrazione sia per chi è dietro alle sbarre sia per le guardie che spesso devono sobbarcarsi turni massacranti in un atmosfera rovente. In via Barzellini, nel corso del 2016, si sono verificate dieci risse, otto casi di autolesionismo e un unico caso di aggressione da parte di un detenuto ai danni del personale di polizia penitenziaria, ma che causò sei feriti tra gli agenti. L’episodio, riportato allora anche da "il Piccolo", si verificò nel pomeriggio del 31 maggio dell’anno scorso, quando un detenuto di nazionalità albanese, nel corso di una normale operazione di "apri e chiudi" della cella, si era scagliato contro quattro agenti in servizio, distruggendo letteralmente la stanza. Solo grazie alla professionalità e tempestività del personale si riuscì ad evitare che la situazione degenerasse e potesse avere effetti ben più gravi. Fondamentale anche la freddezza che, in momenti concitati, può essere fondamentale. Il carcere, dunque, non era riuscito a "mitigare" la rabbia dell’uomo che dopo aver distrutto tutti gli oggetti presenti in cella, aggredì gli agenti entrati per calmarlo ed evitare che si potesse ferire con i frammenti di vetro rimasti sul pavimento. A "rivelare" questi numeri la Uil polizia penitenziaria. Che chiede "più sicurezza per i detenuti e per i nostri agenti". "Soltanto in Friuli Venezia Giulia - spiega il segretario regionale del sindacato, Leonardo Angiulli - si sono verificati nel 2016 ben 472 eventi critici, tra cui aggressioni, ferimenti e tentati suicidi". E Gorizia fa la sua parte. Tant’è che la Uil polizia penitenziaria continua a chiedere a gran voce un incremento del numero di agenti per garantire condizioni di maggiore sicurezza nel carcere goriziano. "Sono dati significativi che oltre a mettere in evidenza come la disparità numerica derivante dall’alto numero di detenuti rispetto a un organico di polizia fermo da troppo tempo si ripercuote sulla qualità del lavoro di chi rappresenta lo Stato all’interno del carcere". Più personale - è questa l’equazione - significa anche maggiore vigilanza e tranquillità per tutti. Il comprensibile nervosismo che serpeggia tra gli agenti non aiuta e per questo chiedono rinforzi. A Gorizia in particolare i casi più ricorrenti sono le risse fra detenuti che, secondo la Uil polizia penitenziaria, sarebbero provocate anche da motivi di natura etnica. "Un detenuto italiano fa fatica a convivere con uno straniero e quando per questioni di sovraffollamento si mischiano è più facile che si arrivi al litigio. Quando poi si devono dividere spazi ristretti è facile entrare in rotta di collisione e così scoppiano le risse. Anche i detenuti stranieri andrebbero divisi in base all’etnia. Le forme di xenofobia più importanti sono quelle dei cittadini dell’Est nei confronti di carcerati magrebini o provenienti dalle regioni centrali dell’Africa". La casa circondariale di Gorizia conta 12 stanze di detenzione, una sala adibita agli incontri dei detenuti con i familiari, 3 aule, una biblioteca, un locale adibito a cappella. Quattro stanze sono comprensive di bagno separato, acqua calda, riscaldamento, doccia, bidet e lavabo. All’interno dell’istituto vengono organizzate delle attività di alfabetizzazione e dei corsi di lingua inglese, oltre a dei corsi di formazione professionali negli ambiti delle tecniche di pulizia e sanificazione e di sicurezza sul lavoro. Sono state inoltre promosse piccole attività lavorative e culturali, tra cui un laboratorio teatrale, corsi di informatica e di scienza per immagini. Secondo i dati del ministero della Giustizia, i posti regolamentari sono 60, a fronte di una quarantina di detenuti presenti, compresi gli unici due della sezione omosessuali. Il numero degli agenti è drammaticamente fermo invece a 37, ai quali si affiancano un educatore e 4 amministrativi a fronte di un numero previsto di 15. Il recupero dell’ex scuola Pitteri non può risolvere di certi tutti questi problemi ma almeno verrebbero allargati gli spazi per il personale. Bisogna però trovare i soldi. Verona: polveriera carcere, indaga la procura Corriere di Verona, 21 luglio 2017 Aggressione agli agenti in nome di Allah: interrogazione al ministro. Tre episodi, 8 feriti. "Polveriera" carcere. Escalation di violenza, nelle ultime ore, a Montorio. Tre le aggressioni registrate alla casa circondariale scaligera tra martedì e mercoledì, per un bollettino che in totale conta 8 agenti feriti. Episodi inquietanti, soprattutto quello del poliziotto colpito con una lama "inneggiando ad Allah". Ieri in procura sono arrivati gli atti che ricostruiscono quanto accaduto in carcere e, ipotizzando per ora il reato di lesioni aggravate, sono state avviate le indagini. "Polveriera" carcere. Escalation di violenza, nelle ultime ore, a Montorio. Tre le aggressioni registrate alla casa circondariale scaligera tra martedì e mercoledì, per un bollettino che in totale conta 8 agenti feriti. Episodi inquietanti, soprattutto quello del poliziotto colpito con una lama "inneggiando ad Allah". Ieri in procura sono arrivati gli atti che ricostruiscono quanto accaduto in carcere e, ipotizzando per ora il reato di lesioni aggravate, sono state immediatamente avviate le indagini. Nel frattempo tornano ad alzare la voce i sindacati che, prendendo spunto dall’ultima aggressione di mercoledì ai danni di un agente "spinto a terra da un magrebino per futili motivi, procurandosi la contusione della mano e dovendo alle cure del pronto soccorso con prognosi di sette giorni", denunciano in coro l’insostenibilità dell’attuale situazione: "Tale ennesimo grave episodio - sostengono Alfredo Santagata, Daniela Ferrari, Giulio Pegoraro e Daniele Ercoli (rispettivamente per le sigle Osapp, Fsn-Cisl, Uspp e Fp-Cgil) - dimostra il fallimento delle attuali scelte dell’amministrazione penitenziaria, dove con il nuovo sistema vigente della vigilanza dinamica e il regime aperto è sempre e solo la polizia penitenziaria a pagare, anche a prezzo della propria incolumità personale, le conseguenze dei disservizi e della disorganizzazione, in questo preciso momento storico in cui è lasciata ai detenuti, anche a quelli di notevole pericolosità, la massima libertà di movimento". Sempre ieri, è intervenuto anche il sindaco Federico Sboarina: "Ho contattato la direttrice della casa circondariale di Montorio, Maria Grazia Bregoli, per comunicarle la mia solidarietà e la vicinanza della città agli agenti della polizia penitenziaria, per i difficili momenti che stanno vivendo. Inoltre ho comunicato alla direttrice Bregoli la volontà, in accordo con l’assessore alla Sicurezza Daniele Polato, di sostenere quanto più possibile le loro attività e esigenze". E la vicenda finirà anche a Roma: i grillini, infatti, hanno deciso di presentare un’interrogazione al ministro degli Interni Marco Minniti: "Quanto successo nel carcere di Montorio è gravissimo - attacca il portavoce alla Camera per il Movimento 5 Stelle, Mattia Fantinati. Cinque poliziotti penitenziari finiti in ospedale perché, mentre stavano sedando una rissa, sono stati aggrediti da alcuni detenuti nordafricani in nome di Allah. I detenuti in questione, tra cui un marocchino noto per le idee integraliste e fondamentaliste, avevano intenzione di uccidere gli agenti, i quali difendendosi dall’aggressione sono tutt’ora in prognosi di 25, 15,10 giorni ed il più grave ha un braccio rotto. Per questo motivo ho già chiesto con una interrogazione scritta al ministro Minniti spiegazioni al riguardo perché non è plausibile che i nostri uomini che provvedono alla sicurezza di tutti noi, rischino la vita in questo modo". Già lo scorso marzo, nel corso di una normale attività di polizia nel carcere di Montorio, un detenuto si era scagliato contro un sovrintendente e un assistente capo della Penitenziaria. La colluttazione anche in quel caso era stata violenta, con calci e pugni ai danni dei due agenti trasportati d’urgenza in ospedale. Coinvolta un’intera sezione della casa circondariale, messa a soqquadro e dove si registrarono ingenti danni. Taranto: allarme carcere, troppi detenuti e pochi agenti tarantobuonasera.it, 21 luglio 2017 "Sistema penitenziario sempre più alla deriva gli eventi critici degli ultimi giorni dal nord al sud, stanno caratterizzando e determinano lo stato di malessere del Corpo di Polizia Penitenziaria che solo grazie allo spirito di sacrificio, abnegazione senso di appartenenza e alta professionalità garantiscono il servizio". L’allarme viene lanciato dall’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) per voce del segretario generale aggiunto Pasquale Montesano. "In Puglia si registrano carenze non più tollerabili - sottolinea il dirigente sindacale- la carenza degli organici della polizia penitenziaria, l’apertura di nuovi reparti a Taranto a Trani e Lecce di cui un reparto psichiatrico nella struttura salentina, la carenza di automezzi per le traduzioni detenuti oltre alle carenti condizioni di quelli in uso perfino senza climatizzatori e totalmente obsoleti e desueti nella forma e nella sostanza, i straordinari carichi di lavoro per gli uomini e donne della polizia penitenziaria costretti ad essere impiegati dai due e quattro posti di servizio, la totale inesistenza dei sistemi di automazione e dei sistemi di sicurezza da anni non funzionanti, la continua crescita della popolazione detenuta, una miscela di elementi sul punto di implodere di cui i responsabili non potranno che essere coloro che hanno determinato l’attuale disastro del sistema penitenziario. Il perseverare delle aggressioni ai danni di personale di Polizia Penitenziaria, come anche risulterebbe avvenire presso gli Istituti della regione dove, e come vanamente segnalato agli organi dell’amministrazione penitenziaria e di Governo, nota della segreteria regionale Osapp Puglia, inviata a tutte le autorità prefettizie della regione e ad oggi senza un minimo di riscontro, l’attività di gruppi collegati alla criminalità organizzata tenderebbero, mediante intimidazioni e violenze ad ottenere la prevalenza in ambito penitenziario nei confronti sia del personale e sia degli altri detenuti - conclude Montesano - appaiono urgentissime risposte concrete, non solo dalle autorità di governo territoriali, ma anche l’intervento delle autorità responsabili a livello nazionale in ambito amministrativo e politico, anche per un immediato invio personale Polizia Penitenziaria gravemente carente a fronte del preoccupante sovraffollamento popolazione detenuta, iniziative non più rinviabili pena maggiori e più gravi conseguenze per il Corpo. La Puglia può ospitare a pieno regime strutturale 2298 detenuti mentre allo stato ne ospita circa 3300 e registra una carenza negli organici di circa 300 unità". Appello anche al presidente del consiglio Paolo Gentiloni, al ministro della Giustizia Andrea Orlando al Capo del Dap Santi Consolo che possano recepire il grido d’allarme della Puglia, senza sicurezza a rischio tutto il sistema, la sofferenza lavorativa degli uomini e donne della Polizia Penitenziaria deve essere nell’immediato obiettivo di interventi non più rinviabili. Caltanissetta: "Coltiviamo la vita", all’Ipm presentato l’orto urbano seguonews.it, 21 luglio 2017 Guidati dall’insegnante agronomo Michele Sberna i ragazzi hanno acquisito le necessarie competenze teoriche e pratiche di coltivazione della terra. Presentato questa mattina all’Istituto Penale per i Minorenni di Caltanissetta l’orto urbano realizzato dai giovani detenuti grazie ad un laboratorio promosso da Promimpresa e precedentemente dall’Eap Fedarcom. L’iniziativa, voluta dalla direttrice Maria Grazia Carneglia, ha inteso offrire, attraverso l’impegno dei ragazzi inseriti nel progetto, una possibilità di reinserimento attraverso l’acquisizione di competenze nel campo dell’agricoltura. "L’orto rappresenta - spiega Maria Grazia Carneglia - il legame con la nostra terra, che attraverso tanto impegno e fatica riesce a dare degli ottimi frutti. I giovani impegnati nella realizzazione dell’orto sono stati cinque, dal mese di aprile ad oggi, giornalmente hanno lavorato costantemente, guidati sapientemente dal docente agronomo Michele Sberna che li ha accompagnati nell’acquisizione delle necessarie competenze teoriche e pratiche. Pertanto si sono messe in atto tutte le moderne tecniche di coltivazione auto-sostenibili, utilizzando metodi di cura biologici, tenendo conto che l’orto può avere anche scopo ornamentale. Oggi non si raccolgono solo i frutti offerti dalla nostra terra, ma anche il frutto della sinergia tra le arre sicurezza ed educative dell’istituto grazie all’impegno del comandante vice commissario Pintaldi e degli educatori Anna Lisa Arcoleo e Vincenzo Indorato". Presenti all’inaugurazione anche il presidente del tribunale dei minori Antonino Porracciolo, il sostituto procuratore minorile Stefano Strino, il magistrato di sorveglianza Antonina Sabatino e padre Alessandro Giambra. Locri (Rc): "O mia o di nessun altro", la violenza sulle donne raccontata dagli uomini citynow.it, 21 luglio 2017 In rappresentanza del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria, avv. Agostino Siviglia, le componenti dell’Ufficio del Garante, dott.ssa Maria Antonia Belgio e avv. Maria Teresa Ciccone, sono intervenute per un indirizzo di saluto durante l’evento conclusivo del primo trimestre del progetto "O mia o di nessun altro … la violenza sulle donne raccontata dagli uomini", tenutosi lo scorso 19 luglio presso la Casa Circondariale di Locri. Il progetto ideato e realizzato dall’Associazione DoMino, presieduta dall’avv. Jessica Tassone, ha visto il coinvolgimento diretto di venti detenuti del carcere di Locri, nell’ottica di una profonda "presa di coscienza" rispetto al drammatico tema della violenza sulle donne. Partendo dall’analisi di due libri, "Viola" della dr.ssa Filomena Drago, presente all’iniziativa e "I bambini non nascono cattivi" della dr.ssa Maria Tinto, i detenuti coinvolti nel progetto hanno redatto delle loro poesie, saggi, racconti ed anche una monografia riguardante la violenza genere, quest’ultima particolarmente significativa perché frutto dell’esperienza personale di un detenuto per stalking. La profonda riflessione da parte dei detenuti coinvolti nel progetto rispetto al drammatico tema della violenza sulle donne ha, inoltre, consentito agli stessi di poterne dare espressione grafica, trasposta su appositi cartelloni contenenti disegni e frasi frutto della personale riflessione compiuta. Corale è stata la partecipazione delle massime istituzioni locali all’iniziativa, in particolare, sono intervenuti per la conclusione di questa prima fase progettuale il dott. Fulvio Accurso, Presidente della sez. Penale del Tribunale di Locri, da sempre estremamente sensibile al tema del recupero, della rieducazione ed del reinserimento sociale di chi ha delinquito; la dott.ssa Carmela Zavettieri, in rappresentanza della Caritas diocesana di Locri-Gerace che ha patrocinato il progetto; la Dott.ssa Patrizia Delfino, ospite dell’iniziativa, nella qualità di Direttrice della Casa Circondariale di Locri e particolarmente attenta ai percorsi trattamentali rieducativi dei ristretti; presenti anche il personale dell’area pedagogica dell’istituto e gli agenti di polizia penitenziaria. La coincidenza dell’anniversario della morte di un "Uomo giusto", come in più occasioni è stato definito Paolo Borsellino, conforta rispetto alla speranza che il perseguimento della Giustizia non possa e non debba concludersi con la repressione giudiziaria, ma che proprio l’esecuzione penale, così come prescrive la Costituzione, consista in un momento autentico di rivisitazione critica del proprio vissuto, di profonda consapevolezza del male commesso, di scelta positiva di cambiamento di vita, perché solo così può davvero nascere, o forse rinascere, il senso proprio della legalità e della libertà, concetti che, come ripeteva Borsellino, non possono essere disgiunti, ma devono essere compresi ed amati, costi quel che costi, ancor più quando si pone al centro il riconoscimento dell’assoluta inviolabilità del microcosmo femminile. Trieste: l’attrice Elisa Menon trasforma i detenuti in attori Il Piccolo, 21 luglio 2017 Un’occasione di espressione, comunicazione, riscoperta di sé, per chi è "dentro", ma anche un’occasione di riflessione, conoscenza e crescita per chi arrivava da "fuori". In altre parole, un esempio diverso, positivo, di quel che può essere (anche) il carcere. È stato questo lunedì pomeriggio la replica dello spettacolo teatrale "Courage - Ritornare a casa", messo in scena nel cortile interno della casa circondariale di via Barzellini dai detenuti che hanno preso parte all’interessate progetto del laboratorio teatrale in carcere curato dalla regista ed attrice Elisa Menon e dalla sua associazione "Fierascena". Di fronte ad un pubblico selezionato di invitati, gli attori del carcere (peraltro davvero bravi, e per questo applauditissimi) si sono cimentati in un’opera coinvolgente e profonda, ispirata alla figura di Ulisse e dell’Odissea. Un "ritorno a casa" pieno di ostacoli e peripezie che in fondo non è poi così diverso dal percorso interiore che ogni detenuto deve affrontare nel tentare di ritrovare se stesso, dietro le sbarre di una cella, per poi uscire ed riprendere il suo posto nella società esterna. Ma la rappresentazione teatrale - che è stata anche ripresa per essere poi proiettata il giorno seguente a Gradisca d’Isonzo, in occasione della terza edizione del festival di teatro sociale "Per un Teatro Vulnerabile - è solo la punta di un iceberg formato da tutto il laboratorio condotto da Elisa Menon con i detenuti, strumento di crescita e recupero della persona attraverso l’arte e la cultura. Migranti. Il rinvio dello ius soli è una sconfitta per i cattolici di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 21 luglio 2017 Francesco aveva firmato, in modo insolito per il Papa, un appello per la cittadinanza ai bambini. Il Presidente e il segretario della Cei sono intervenuti pubblicamente. Il rinvio della legge sullo ius soli è una sconfitta non solo per il premier Paolo Gentiloni o per Matteo Renzi, ma anche per la Chiesa, la sua leadership e i soggetti cristiani del paese. Su questo bisognerebbe riflettere. Ma, prima di addentrarsi nella questione, un’osservazione non solo lessicale: perché parlare di ius soli? La legge non tratta di ius soli com’è invalso dire, ma piuttosto di ius culturae. Riconosce la cittadinanza al bambino che ha seguito cinque anni di scuola o al nato, figlio di straniero se possiede un lungo permesso di soggiorno. Parlare di ius soli amplifica la portata della legge. È la terminologia inappropriata imposta dagli oppositori nel dibattito. Al di là di questa precisazione, il mondo cattolico teneva molto all’approvazione della legge. Francesco aveva firmato, in modo insolito per il papa, un appello per la cittadinanza ai bambini. Il presidente della Cei, card. Bassetti, e il segretario, mons. Galantino, ne hanno parlato pubblicamente. Quest’ultimo ha denunciato "gazzarre ignobili in aula". È pure intervenuto il Sostituto della Segreteria di Stato, Angelo Becciu. Si è sentita con chiarezza la parola del card. Bagnasco. L’Avvenire ha puntualmente insistito, parlando correttamente di ius culturae. Ne sono nate polemiche, ad esempio con la Lega che raccomandava ai vescovi di occuparsi degli italiani poveri e non degli stranieri. Non sono state solo posizioni di vertice, ma c’è un "popolo" cospicuo di cattolici (e non) in favore, che tra l’altro hanno sostenuto in questi anni una parte importante dell’integrazione e dell’accoglienza. Tuttavia non ha significato molto come ricadute concrete sulla volontà del legislatore e anche come mobilitazione. Sono lontani, anche per scelta della Chiesa, i tempi in cui il card. Ruini, teneva sul tavolo la mappatura dei parlamentari e li seguiva sulle leggi "calde" per la Cei. Dal 2011, Benedetto XVI, anche forte di un rapporto con il premier Mario Monti (da lui molto stimato), aveva lasciato cadere alcuni aspetti della costruzione ruiniana che esercitava un’influenza diretta sulla politica, dopo la fine della mediazione della Dc. Papa Francesco ha inaugurato una nuova stagione, convinto che la Chiesa non è un partito politico e che un partito cattolico non è necessario, ma invitando i cattolici a impegnarsi in politica. La domanda, però, non riguarda il modello dei rapporti tra Chiesa e politica, bensì questioni concrete come una legge così a cuore ai cattolici e al papa. Il distacco da quelli che venivano chiamati "i giorni dell’onnipotenza" (alludendo a Pio XII) porta al tempo dell’irrilevanza? Assai spiacevole, quando si tratta di bambini e vite umane. Forse la parola e l’impegno dei cattolici restano solo una mera esortazione o una testimonianza? Non tutti i cattolici poi sono d’accordo con le priorità della Cei. Non solo i tradizionalisti, che vedono all’orizzonte un’invasione islamica. Spesso quei cattolici che, in passato, facevano volentieri riferimento alla Cei o che si spendevano in difesa dei "valori non negoziabili": sono, con l’appoggio di taluni ecclesiastici, cristallizzati nella critica al papa, accusando la Chiesa di deriva sociale. Se ne potrebbe parlare come nuovi "cattolici adulti", anche se non gradirebbero questa definizione che fu applicata piuttosto ai cattolici democratici. In passato era stata richiesto dalla Chiesa, in qualche modo, a tutti di difendere e farsi carico di alcune posizioni cattoliche. Ma si potrebbe dire oggi con don Milani (pur in altro senso): "l’obbedienza non è più una virtù". Che sta succedendo? Certo si verifica un’assenza di comunicazione tra cattolici, accompagnata dalla mancanza di dibattito che non sia quello insultante e polemico. Al convegno ecclesiale di Firenze, fu lanciata la proposta di metodo "sinodale", ma poco è avvenuto, anzi la frammentazione si è cristallizzata e nel mondo cattolico non c’è confronto. Da un punto di vista politico, la vicenda della legge sulla cittadinanza si è misurata con Ap di Angelino Alfano, il quale ne ha ottenuto il rinvio. Gran parte dei suoi parlamentari è contrario non solo per questioni di principio ma per vicinanza alla destra. Non si capisce come Ap possa accreditarsi quale centro di ispirazione cattolica, quando non ha sintonia con il sentire di questo mondo. Si discute ancora sull’idea di un centro, in cui sarebbe più forte la presenza politica dei cattolici, ma non se ne vedono la realizzazione e l’identità culturale. Lo scarso rilievo sulla legge per la cittadinanza - non la sconfitta che presuppone una vera battaglia combattuta - potrebbe far meditare i cattolici sulla cultura della mediazione (risalente a Montini), che si poneva il problema dei contenuti, dei metodi e delle collaborazioni necessarie per cambiare la società. Non per contare confessionalmente, ma per evitare diritti infranti e delusioni di una parte, non così minoritaria del paese. Se non c’è una cultura, variegata certo, di carattere sociale e politico, i cattolici e la Chiesa restano confinati alla categoria dell’esortazione o della testimonianza. L’Austria e i migranti. Le soluzioni si cercano, non si "pretendono" di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 21 luglio 2017 Bloccare i trasferimenti da Lampedusa alla terraferma, come chiesto dal ministro degli Esteri Kurz, significherebbe trasformare l’isola in un campo di detenzione destinato a esplodere per ragioni igienico-sanitarie. C’è da sperare che la gara a parlare di migrazioni e profughi innalzando i decibel sempre di più non produca proposte adatte a precedenti millenni. Per esempio, quella di imbarcare i reietti su galere per farli tornare nella sponda Sud del Mediterraneo remando sotto colpi di frusta. Il ministro degli Esteri austriaco Sebastian Kurz, ieri, ha rischiato di somigliare a un despota arcaico. "Pretendiamo che venga interrotto il traghettamento di migranti illegali dalle isole italiane, come Lampedusa, verso la terraferma", ha affermato. Non solo ha impiegato verso un Paese amico un verbo - pretendere, se le traduzioni circolate sono esatte - da usare con parsimonia in diplomazia. Kurz ha chiesto di fatto che un’isola lunga 10,8 kilometri e larga 3,6 diventi un campo di detenzione destinato a scoppiare per condizioni igienico- sanitarie insostenibili. È proprio difficile far capire ad alcuni nostri partner comunitari che migranti e rifugiati in arrivo in Italia dal mare entrano nell’Unione Europea, non unicamente nel nostro Paese. Troppi governi e partiti, dovunque, annaspano nella ricerca, più che di soluzioni, di modi per provare ad attrarre elettori ritenuti ostili ad accogliere persone in fuga da guerre e fame. Non diciamoci bugie: è vero che se le precarie imbarcazioni cariche di povera gente vengono salvate da navi europee questo può incentivare partenze, è vero che l’Italia spesso lascia fuggire verso Nord migranti e profughi. Tuttavia neppure venendo meno a doveri di soccorso si otterrebbe la fine dei flussi: i disperati sono consapevoli di mettere a rischio la propria vita nelle traversate, non rinuncerebbero a partire. E occorrono rimedi concordati, non spacconate, per rendere inutili i sotterfugi adottati da Stati. Non passano forse dall’Austria (alle urne in ottobre) tanti afghani e pakistani diretti in Italia? I razzisti del web. Il mio dialogo con gli intolleranti di Paolo Di Paolo La Repubblica, 21 luglio 2017 Uno scrittore affronta gli "hater" che ogni giorno popolano la Rete. Ecco il suo racconto. Buongiorno Floriana, hai lavorato a scuola tutta la vita, c’è una foto che ti ritrae in un’aula, in piedi dietro bambini sorridenti con il grembiule azzurro. Nella tua pagina Facebook, qualche giorno fa, hai commentato la falsa notizia di un profugo che promette di sgozzare decine di italiani. Hai scritto che i migranti stanno "massacrando l’Italia e gli italiani " e che quel profugo merita di essere evirato - tu l’hai detto con termini un po’ più rudi - e rispedito "su un gommone verso il suo paesaccio", con il suo stesso membro in bocca. Ti ho scritto, senza conoscerti - sconosciuto a una sconosciuta. Ti ho chiesto se ti sembrasse giusto, opportuno parlare così. Mi hai risposto, digitando tutto in lettere maiuscole: "Sì, ho diritto di scrivere liberamente quello che penso, perché?". Perché forse è un linguaggio un po’ troppo violento. Perché le parole hanno un peso, comportano una responsabilità. "La situazione è molto violenta per tutti, mi sono adeguata, o meglio ho usato il linguaggio per smuovere idee e convinzioni, in realtà sono diversa". Mi ha colpito che tu mi abbia risposto, che tu abbia impiegato tempo a dialogare con un intruso, "un qualunquista attuale", "un perbenista del cazzo". Ma mi ha colpito soprattutto una frase: "In realtà sono diversa". La dinamica del confronto sui social, o della sua parte peggiore, è ormai tanto evidente da risultare ovvia. Inutile tornarci sopra. La folla di hater, di troll, di lanciatori di pietre, più o meno consapevolmente, usa parole che non userebbe in famiglia, tra amici seduti intorno a un tavolo. Dobbiamo rassegnarci? Credo di no. D’altra parte, appena lo si accosta, l’hater seriale appare subito ammansito. Così, l’autore di un commento sul dodicenne pakistano morto in un canale ("Per fortuna che l’hanno trovato morto se no ci toccava mantenerlo"), quando è stato raggiunto dalla telefonata del direttore della "Gazzetta di Reggio", ha ammesso di essersi "lasciato prendere la mano". "In realtà sono diversa", diceva Floriana. Dovremmo supporre dunque che sia "diversa" anche Teresa, rispetto al momento in cui scrive "Bisogna riportarli nel deserto e lasciarli senza acqua né cibo"; e Simone, che scrive: "Ma perché non li prendiamo a sprangate?". E Giusy, che posta la foto della nipote nel giorno della prima comunione e poi scrive che "i nigeriani come razza negra sono i più bastardi e violentano le donne dalla pelle bianca". "Le donne dalla pelle bianca". Se risulta ingenuo pretendere di sedare risse e sfoghi sui social, così come nelle giornate degli umani in genere, non lo è forse chiedersi quale sia il limite accettabile. Il ragazzo di sedici anni che scrive "Arrivano anche i negri a Mottola, ci stiamo rovinando" e aggiunge l’emoji con la mascherina sulla bocca, merita un’alzata di spalle, oppure è un problema? Abbiamo liquidato il politicamente corretto come moralistico, come buonista, e anni di campagne contro il razzismo non hanno impedito a un ragazzo nato nel ventunesimo secolo di esprimersi come un trisavolo fascista: "i negri". Se un ventiseienne, che dice di ispirarsi a Falcone e Borsellino, insiste su una presunta "guerra civile" fra italiani e migranti, va considerato un ragazzetto sciocco, o è un problema? Tra i 2.700 commenti che lo assecondano, ce n’è uno che dice: "Tra poco tornerà il nazismo e io mi godrò la repressione con popcorn e bibita fresca". Una battuta? Il sarcasmo a buon mercato della Rete? Forse non solo. Forse non più. "Io di buonisti ne ho le palle piene!" reagisce Alexandra, quando le faccio notare che invitare a sparare contro "gli stranieri" e a "riprendersi l’Italia " forse è pericoloso. Un uomo che si firma "Shooter", invece, modera subito i toni, dice di non essere per il far west: "A volte sui social si commenta d’impulso, presi anche dalla rabbia per un Paese che non va". "Io non sparerei mai, ma qui stiamo ormai in guerra" mi dice Alessio, che invitava il governo, in un commento pubblico, a mettere navi militari a largo delle coste africane e a fare fuoco sui migranti. "Si commenta d’impulso". "Io sono diversa". "Io non sparerei mai". Se - come ricordava su "Repubblica" Chiara Saraceno - l’Italia "appare" come il secondo Paese più razzista d’Europa, possiamo fare finta di niente? In quell’"appare " c’è tutto: il malessere, il risentimento sociale, la rabbia più cieca che cerca bersagli con un’irruenza ottusa e indiscriminata. La molla del razzismo si carica anche, o soprattutto, di questo - e non è inoffensiva. Nemmeno le parole lo sono. La pelle bianca, i negri, i nigeriani bastardi, la repressione nazista. Che cosa sta accadendo al nostro lessico? Che cosa sta accadendo a noi? La signora Floriana mi spiega che "loro" sono aggressivi, vogliono fare i padroni a casa nostra, "è un’invasione, e non stiamo parlando di inglesi, francesi, che sono uguali o molto simili a noi"; "sono convinta che l’Italia è degli italiani che se la sono guadagnata". Poi mi ringrazia, con una gentilezza sorprendente, per avere dialogato con lei: "Buone cose ". Buone cose a te, Floriana - anche se è difficile mettere insieme la foto fra i bambini, la tua gentilezza di ora, il sorriso nell’immagine del profilo e la frase in cui pretendi che si eviri un profugo. Richiede uno sforzo di immaginazione immenso, e di empatia - lo stesso che tu non riesci nemmeno a ipotizzare verso quel ragazzo nero passato in bicicletta davanti a casa tua, e che - dici - "mi è sembrato arrogante e aggressivo". "Come? il turco mio fratello? mio fratello il cinese? il giudeo? il siamese?". Era il diciottesimo secolo - e Voltaire faceva il verso ai razzisti di allora, agli eterni pregiudizi, alle radici salde dell’intolleranza. "Cadono le braccia a osservare come gli uomini si comportano con gli altri uomini", sì, ma una possibilità di correggersi c’è sempre. "Dobbiamo lottare contro noi stessi", scriveva in una lettera, commentando con irritazione la frase di chi, arrivato a una certa età, sbotta: "Ormai sono fatto così". "Beh, vecchio stupido, cerca di cambiare". Comincia dalle parole. Olanda. A risolvere i casi irrisolti collaborano i carcerati radiosubasio.it, 21 luglio 2017 "Cold case" o casi irrisolti. Ce ne sono tantissimi, si tratta di omicidi rimasti senza colpevole, delitti gravissimi, per i quali la legge non prevede prescrizione ed è per questo che possono sempre essere ripresi e risolti. In Italia la polizia nel 2009 ha istituito l’Unità delitti insoluti che coordina le indagini su casi ormai chiusi e si avvale della sinergia tra polizia scientifica e squadre operative, coniugando le risorse più avanzate con i metodi d’indagine tradizionali. Nei Paesi Bassi, invece, la polizia ha individuato una nuova strategia. Dal 2018 in tutte le prigioni verranno distribuiti dei calendari che per le 52 settimane dell’anno riportano alla mente un caso rimasto irrisolto. L’idea è che i detenuti, ispirati dai calendari, dal loro stesso passato o dalla vita in carcere, possano fornire informazioni utili alla polizia. I calendari saranno distribuiti a 30.000 persone dopo che la strategia è stata testata in 5 prigioni del nord del paese e si è dimostrata efficace: nei primi cinque mesi del 2017, la polizia ha ricevuto 160 suggerimenti e informazioni sui casi segnalati dal calendario di prova, un numero che di solito si ottiene in un anno e due vecchi casi irrisolti sono stati riaperti. I calendari saranno molto colorati, ogni pagina conterrà la foto di una persona scomparsa e le informazioni che si hanno sul caso saranno stampate in più lingue: oltre che in olandese, in arabo, inglese, russo e spagnolo. Inoltre una ricompensa fino a 800mila euro è promessa a chi darà informazioni che porteranno alla risoluzione di un caso. Non tutti i carcerati hanno voluto il calendario, alcuni si sono rifiutati di partecipare alla sperimentazione perché non volevano passare per spie, ma due terzi dei prigionieri che hanno partecipato alle prime prove hanno detto di pensare che l’iniziativa sia una buona idea e la polizia ha anche detto di poter garantire l’anonimato ai futuri informatori se sarà necessario. Ad oggi nei Paesi Bassi ci sono circa 1.500 vecchi casi irrisolti; di quelli contenuti nel calendario si parla anche su un apposito sito della polizia, consultabile da chiunque. Olanda. Aumenta il consumo di droghe all’interno delle carceri 31mag.nl, 21 luglio 2017 Cannabis, cocaina ed oppiacei, nelle carceri di tutto il paese aumenta il consumo di droga. Le istituzioni chiedono maggiori controlli. I drug-test effettuati sui detenuti delle prigioni olandesi e sui pazienti delle unità psichiatriche hanno evidenziato un uso diffuso di cannabis. Migliaia di campioni di urine sono stati trovati positivi, addirittura più del 50% dei detenuti in alcune carceri, riporta Anp. Rispetto ai dati del 2014 sono cresciuti i consumatori di cannabis all’interno delle prigioni (14.500 fino ai 16.600 di oggi, praticamente 1.000 soggetti positivi per carcere). Sono stati registrati anche 1.600 casi positivi alla cocaina, 730 agli oppiacei (come l’eroina). I dati si riferiscono a rilevamenti campionari e non è dunque escluso che la realtà superi di gran lunga i numeri dell’indagine. "Le cliniche per la dipendenza sono coinvolte all’interno del processo di rieducazione che avviene all’interno delle prigioni e lavorano per preparare lo staff delle carceri", queste le parole del ministro della giustizia rilasciate ancora a Anp. Secondo Frans Carbo, portavoce del sindacato Abvakabo Fnv, gli sforzi di prevenzione all’interno delle carceri andrebbero aumentati per garantire un ambiente di lavoro sicuro e i controlli andrebbero inaspriti per non permettere ai detenuti di reperire e di far entrare sostanze stupefacenti all’interno delle prigioni. Zambia. Il leader opposizione Hichilema detenuto in condizioni "disumane" Nova, 21 luglio 2017 A cento giorni dal suo arresto con l’accusa di tradimento, il leader dell’opposizione in Zambia, Hakainde Hichilema, ha pubblicato un post sulla sua pagina Facebook nel quale denuncia le condizioni "disumane" in cui versano i detenuti. "A prescindere dai reati commessi, i detenuti devono essere trattati in maniera umana e in conformità con le convenzioni locali e internazionali per quanto riguarda il trattamento delle persone e il rispetto dei diritti umani. La situazione è ancora peggiore per coloro che stanno ancora cercando di capire quale crimine abbiano commesso ma che sono già stati puniti vivendo in queste condizioni inumane", ha scritto Hichilema. Il leader dell’opposizione zambiana è stato arrestato nel mese di aprile dopo che il convoglio a bordo del quale viaggiava si era rifiutato di farsi da parte per lasciar passare quello con a bordo il presidente Edgar Lungu. Lo scorso 15 maggio Hichilema è stato prosciolto dal tribunale di Lusaka dall’accusa di ingiuria, ma deve ancora difendersi dall’incriminazione per tradimento. In precedenza è stata fatta cadere anche l’accusa di disobbedienza agli ordini delle autorità. Hichilema, alla guida del Partito unito per lo sviluppo del popolo (Upnd), era stato sconfitto dal presidente Lungu in una contestata elezione presidenziale che secondo l’opposizione sarebbe stata macchiata da brogli.