Al Due Palazzi i reclusi ricordano Borsellino Il Mattino di Padova, 20 luglio 2017 Sono i detenuti ex 41bis, alcuni collaborano con Ristretti Orizzonti. Hanno ricordato con un minuto di silenzio chi, in un passato per loro ormai molto lontano, giudicavano un nemico: il giudice Paolo Borsellino, ucciso dalla mafia il 19 luglio di 25 anni fa. I detenuti in alta sorveglianza del carcere di Padova, ‘ndranghetisti, camorristi e capi di Cosa nostra, si sono ritrovati insieme, durante un incontro col direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dap Roberto Piscitello e i responsabili di una trentina di associazioni che fanno volontariato nell’istituto di pena. Molti di loro sono ex 41 bis, molti stanno scontando condanne all’ergastolo per omicidio, alcuni sono nomi noti delle mafie italiane, tutti stanno seguendo un percorso di recupero e reinserimento. In trenta fanno parte della redazione di Ristretti Orizzonti, una rivista nata nel carcere di Padova che si occupa dei problemi della giustizia legati alle carceri. Con un minuto di raccoglimento hanno voluto ricordare la memoria di Borsellino e degli agenti di scorta. Borsellino: detenuti alta sorveglianza di Padova lo ricordano (Ansa) Hanno ricordato con un minuto di silenzio chi, in un passato per loro ormai molto lontano, giudicavano un nemico: il giudice Paolo Borsellino, ucciso dalla mafia il 19 luglio di 25 anni fa. I detenuti in alta sorveglianza del carcere di Padova, ‘ndranghetisti, camorristi e capi di Cosa nostra, si sono ritrovati insieme, durante un incontro col direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dap Roberto Piscitello e i responsabili di una trentina di associazioni che fanno volontariato nell’istituto di pana. Molti di loro sono ex 41 bis, molti stanno scontando condanne all’ergastolo per omicidio, alcuni sono nomi noti delle mafie italiane, tutti stanno seguendo un percorso di recupero e reinserimento. In trenta fanno parte della redazione di Ristretti Orizzonti, una rivista nata nel carcere di Padova che si occupa dei problemi della giustizia legati alle carceri. Con un minuto di raccoglimento hanno voluto ricordare la memoria di Borsellino e degli agenti di scorta. Orlando istituisce le Commissioni per l’elaborazione dei Decreti di riforma dell’O.P. giustizia.it, 20 luglio 2017 Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha costituito presso l’Ufficio Legislativo, tre Commissioni di studio per l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo per la riforma dell’ordinamento penitenziario e del sistema delle misure di sicurezza personali, come previsto dalla Legge n. 203 del 23 giugno 2017. Le Commissioni sono costituite da esperti qualificati che si avvarranno di quanto elaborato dagli Stati generali dell’esecuzione penale, costituiti presso il Ministero, e si occuperanno di redigere schemi di decreti legislativi riguardanti: le modifiche della disciplina delle misure di sicurezza e dell’assistenza sanitaria, con particolare riguardo alle patologie di tipo psichiatrico, e della revisione del sistema delle pene accessorie; gli strumenti normativi di giustizia riparativa nella fase dell’esecuzione penale e l’articolazione di una organica disciplina di ordinamento penitenziario minorile e, infine, le modifiche al vigente ordinamento penitenziario. La Commissione che avrà il compito di redigere lo schema di decreto legislativo sulle modifiche alla disciplina delle misure di sicurezza e di assistenza sanitaria, è così composta: Presidente: Marco Pelissero - ordinario di Diritto penale, Università di Torino; Componenti: Roberto Bartoli - ordinario di Diritto penale, Università di Firenze; Daniele Caprara - avvocato; Giuseppe Cherubino - avvocato; Francesco Paolo De Simone Policarpo - avvocato; Giovanna Di Rosa - presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano; Benedetta Galgani - associato di Diritto processuale penale, Università di Pisa; Gian Luigi Gatta - ordinario di Diritto penale, Università di Milano; Oliviero Mazza - ordinario di Diritto processuale penale, Università Milano-Bicocca; Nicola Mazzamuto - presidente del Tribunale di sorveglianza di Messina; Michele Giacomo Carlo Passione - avvocato; Francesco Patrone - giudice di Tribunale, Roma; Giovanni Maria Pavarin - presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia; Giorgio Pighi - associato di Diritto penale, Università di Modena e Reggio Emilia; Giovanna Spinelli - magistrato del Tribunale di sorveglianza di Avellino. La Commissione che tratterà la riforma dell’ordinamento penitenziario minorile è così composta: Presidente - Francesco Cascini, sostituto procuratore presso il Tribunale di Napoli; Componenti: Maria Brucale - avvocato; Salvatore Campanelli - avvocato; Adolfo Ceretti - ordinario di Scienze criminologiche dell’Università di Milano-Bicocca; Maria Grazia Coppetta - associato di Diritto processuale penale dell’Università di Urbino; Maria De Luzenberger Milnernsheim - procuratore presso il Tribunale minori di Napoli; Fulvio Filocamo - sostituto procuratore presso il Tribunale minori di Roma; Antonietta Fiorillo - presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna; Maria Carla Gatto - presidente del Tribunale minori di Milano; Bruno Guazzaloca - avvocato; Grazia Mannozzi - ordinario di Diritto penale dell’Università Insubria; Vania Patanè - ordinario di Diritto processuale penale dell’Università di Catania; Paolo Renon - associato di Diritto penale dell’Università di Pavia; Guido Sola - avvocato. La Commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario nel suo complesso è così composta: Presidente: Glauco Giostra - ordinario di Diritto processuale penale dell’Università di Roma-La Sapienza; Componenti: Paolo Borgna - sostituto procuratore, Tribunale di Torino; Marcello Bortolato - presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze; Stefania Carnevale - associato di Diritto processuale penale, Università di Ferrara; Gherardo Colombo - già magistrato di Cassazione; Andrea De Bertolini - avvocato; Franco Della Casa - ordinario di Diritto penitenziario, Università di Genova; Alessandro De Federicis - avvocato; Fabio Fiorentin - magistrato di sorveglianza di Udine; Carlo Fiorio - ordinario di Diritto processuale penale, Università di Perugia; Fabio Gianfilippi - magistrato di sorveglianza di Spoleto; Luigi Kalb - ordinario di Diritto processuale penale, Università di Salerno; Vania Maffeo - associato di Diritto processuale penale, Università di Napoli Federico II; Antonia Antonella Marandola - ordinario di Diritto processuale penale, Università LUM; Riccardo Polidoro - avvocato; Marco Ruotolo - ordinario di Diritto costituzionale, Università di Roma Tre; Fabrizio Siracusano - associato di Diritto processuale penale, Università di Catania; Gabriele Terranova, avvocato; Daniele Vicoli - associato di Diritto processuale penale, Università di Bologna Alma Mater Studiorum; Stefano Visonà - sostituto Procuratore generale presso la Cassazione. Allo scopo rendere noto il lavoro e di dare continuità a quanto prodotto dagli Stati generali, all’interno di ogni gruppo sarà costituito fra le Commissioni un coordinamento affidato al Professor Glauco Giostra, presidente del gruppo dedicato alla riforma dell’Ordinamento penitenziario, che avrà il compito di convocare riunioni periodiche. Il Capo di Gabinetto, dell’Ufficio legislativo, dei Dipartimenti per gli affari di giustizia, della Giustizia minorile e dell’Amministrazione penitenziaria partecipano ai lavori. La predisposizione delle bozze degli schemi dovranno essere ultimate entro il 31 dicembre 2017. Giustizia minorile e misure alternative: la famiglia diventa protagonista di Teresa Valiani Redattore Sociale, 20 luglio 2017 Il nuovo capo del Dipartimento, Gemma Tuccillo, presenta i primi mesi di lavoro. Tra i temi in evidenza: giustizia riparativa, banca dati adozioni e ordinamento penitenziario minorile. Per l’esecuzione penale esterna "la sfida è quella di realizzare la più completa osmosi tra le esperienze". In primo piano trattamento, giustizia riparativa, pieno funzionamento della Banca Dati adozioni (che permetterà di incrociare le caratteristiche dei bambini adottabili e delle coppie disponibili all’adozione, su tutto il territorio nazionale) e stesura dell’ordinamento penitenziario minorile, a cui, finalmente, si è deciso di porre mano a livello legislativo e che "mai era stato realizzato in passato". Una carriera in magistratura, dalla Sorveglianza alla Procura minorile, al Tribunale per i minori, come giudice e come presidente, il capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, Gemma Tuccillo, fino al marzo scorso vice capo di Gabinetto del ministro Andrea Orlando, presenta a Redattore Sociale il nuovo corso che rilancia e dedica maggiori energie al solco tracciato da Francesco Cascini, il dirigente che ha guidato il Dipartimento dal 2015. Giustizia minorile: un’eccellenza italiana che riflette le sue peculiarità nel Dipartimento. Dal dirigente che l’ha preceduta, Francesco Cascini, arriva un’eredità importante. La sua direzione è nel segno della continuità o ci saranno cambiamenti sostanziali? Il cons. Cascini, mio predecessore e collega, ha svolto un eccellente e difficile lavoro teso sempre più a valorizzare la specializzazione e la delicatezza della materia minorile e la tutela dei diritti dei minori di età, coniugando questo impegno con quello particolarmente complesso della completa ristrutturazione del Dipartimento, oggi della Giustizia minorile e di comunità, che vede estesa la sua competenza sull’intero mondo dell’esecuzione penale esterna. Il solco tracciato, pertanto, è quello che intendo proseguire, implementando sempre più gli interventi perché in quest’ambito non si fa mai abbastanza. Nuovo capo dipartimento con una lunga esperienza nel minorile. Da dove è partita, in questi primi mesi, prendendo le redini del nuovo incarico? Ho lavorato a lungo come magistrato minorile, sia in Procura che in Tribunale e con riferimento all’ambito minorile di competenza di questo Dipartimento, particolare attenzione sarà dedicata alla implementazione delle opzioni trattamentali, alla giustizia riparativa, al pieno funzionamento della Banca Dati adozioni e alla predisposizione di proposte per la stesura dell’ordinamento penitenziario minorile, espresso punto di delega, mai realizzato in passato. Con l’accorpamento dell’esecuzione penale esterna, il Dipartimento registra una sinergia o le due funzioni restano distinte? La sfida è quella di realizzare la più completa osmosi tra le esperienze, valorizzando i buoni risultati ottenuti nell’ambito della giustizia minorile, diffondendo le buone prassi e lavorando in piena sinergia, nel profondo rispetto dei fisiologici tratti di diversità che per alcuni utenti - penso ai cosiddetti ‘giovani-adulti’ - consentono un percorso assolutamente parallelo. Anche in considerazione dei punti di delega dedicati, sarà particolarmente intenso e determinante il lavoro in tema di giustizia riparativa e funzionalmente, per la diffusione sempre più ampia della mediazione penale. I percorsi avviati all’interno di un settore tanto complesso quanto delicato hanno bisogno dell’intervento e del supporto di tutta la società civile. Come pensa di convogliare gli sforzi e coinvolgere l’esterno? Si tratta di invertire la rotta e superare l’idea che sicurezza è repressione. La costituzione parla di pene e non di pena. Dunque la misura alternativa non è un premio ma un modo di eseguire la pena alternativo e con pari dignità di sanzione che ben applicata produce sicuri risultati in termini di sicurezza sociale e diminuzione del rischio recidiva. È necessario implementare le risorse, rafforzare gli uffici con personale adeguatamente formato e motivato, anche per poter affrontare l’auspicato incremento di misure alternative alla detenzione all’indomani dei decreti attuativi della delega che necessita di un intenso lavoro anche in sinergia con le strutture detentive. L’esterno sarà coinvolto valorizzando l’apporto del volontariato, anche quello relativo al servizio civile, con progetti da realizzarsi su tutto il territorio nazionale, come auspicato con la firma dell’Accordo con la Conferenza nazionale del volontariato. Ma fondamentale rilievo viene conferito, e sempre più si intende conferire, al coinvolgimento attivo del nucleo familiare di appartenenza, la cui consapevole adesione è elemento imprescindibile per la buona riuscita degli stessi progetti. La riforma Fornero azzera le pensioni e la disoccupazione ai detenuti da Associazione Yairaiha Onlus Ristretti Orizzonti, 20 luglio 2017 Negli ultimi anni si è parlato molto di riforma Fornero emanata sotto il governo Monti nel 2011 con il decreto "salva Italia" e finalizzata a diminuire la spesa pubblica in materia di pensioni per evitare il default finanziario dell’Italia chiesto dall’Europa. La riforma, in un crescendo dilatato nell’arco di tempo 2011/2018, va a toccare la maggior parte delle categorie beneficiarie delle diverse tipologie di ammortizzatori sociali. Ai disoccupati, pensionati e invalidi civili, ai sensi dell’art. 2 commi 58, 59, 60, 61, 62 e 63 della riforma, dallo scorso mese di maggio, si sono aggiunti anche i detenuti o comunque condannati ai sensi degli articoli 270-bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter e 422 del codice penale. Come segnalatoci nelle ultime due settimane da decine di detenuti, su di loro, tra cui tanti invalidi civili, non è stata operata solo una semplice decurtazione ma, bensì, la totale revoca del trattamento previdenziale precedentemente riconosciuto e percepito nonostante la legge all’art. 2 comma 61 esplicita la irretroattività dell’applicazione. Inoltre, sempre l’art. 2 al comma 58 prevede che, in fase processuale per i reati ai sensi degli articoli sopra richiamati, "il giudice disponga ulteriori accertamenti per verificare che le forme di assistenza previdenziale percepite e/o riconosciute abbiano origine, in tutto o in parte, da lavoro fittizio o a copertura di attività illecite". Per quanto attiene la prevalenza degli indennizzi di disoccupazione riconosciuti ai detenuti queste sono frutto delle prestazioni di lavoro svolte per conto del Ministero di Giustizia con il lavoro intramurario (sottopagato) che, a rotazione, i detenuti svolgono all’interno andando a garantire, spesso, le necessarie piante organiche al funzionamento delle carceri stesse. Le pensioni sociali vengono riconosciute per sopraggiunta età e quelle di invalidità alle migliaia di detenuti che soffrono delle più disparate patologie e disabilità. E stiamo parlando di pensioni minime (non d’oro) e di indennizzi che stanno al di sotto dei minimi previsti visto e considerato che la stessa attività lavorativa dei detenuti è retribuita molto al di sotto dello spettante, come testimoniano le numerose sentenze di risarcimento che ogni anno il Ministero di Giustizia va a pagare a coloro i quali riescono a presentare ricorso. A questo punto ci chiediamo dove sono le "origini fittizie accertate" richiamate dall’art. 2 comma 58? Dove la non retroattività della legge visto che si sta applicando anche a condannati molto tempo prima della sua entrata in vigore e a persone che hanno già interamente scontato i propri reati? L’art. 38 della Costituzione prevede che "Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera". Ma è ancora valido? E ancora, cosa succederà per i condannati a pene lunghe o con l’ergastolo e gli ostativi? La risposta, purtroppo, è scontata e per gli effetti di questa riforma non avranno mai accesso a nessun ammortizzatore sociale sia che si tratti di detenuti lavoratori sia che si tratti di anziani o invalidi. Infine l’Inps non avrebbe dovuto comunicare agli interessati dell’imminente revoca? Sono molteplici le richieste di rinvio alla Corte Costituzionale della Legge Fornero e, forse, le forze politiche e sindacali non avevano ancora valutato questo aspetto che, a nostro avviso, è non solo incostituzionale ma, così applicata, oltremodo illegittima, è una vera e propria vessazione verso gli ultimi degli ultimi. Una sanzione accessoria che mette la corda al collo definitiva alle migliaia di detenuti o in misura domiciliare che versano in condizioni economiche disagiate, migliaia di persone che spesso, quando va bene, fanno 1 o 2 colloqui all’anno perché i familiari non possono nemmeno permettersi di affrontare i "viaggi della speranza" dal sud verso le carceri del nord dove sono ristretti i propri cari. Ma qua si vuole cancellare definitivamente ogni diritto costituzionale e sociale che uno stato di diritto dovrebbe garantire indistintamente a ognuno e ciascuno. E a farne le spese sono sempre i soggetti più deboli. Art. 2 legge 92/2012 58. Con la sentenza di condanna per i reati di cui agli articoli 270-bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter e 422 del codice penale, nonché per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, il giudice dispone la sanzione accessoria della revoca delle seguenti prestazioni, comunque denominate in base alla legislazione vigente, di cui il condannato sia eventualmente titolare: indennità di disoccupazione, assegno sociale, pensione sociale e pensione per gli invalidi civili. Con la medesima sentenza il giudice dispone anche la revoca dei trattamenti previdenziali a carico degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza, ovvero di forme sostitutive, esclusive ed esonerative delle stesse, erogati al condannato, nel caso in cui accerti, o sia stato già accertato con sentenza in altro procedimento giurisdizionale, che questi abbiano origine, in tutto o in parte, da un rapporto di lavoro fittizio a copertura di attività illecite connesse a taluno dei reati di cui al primo periodo. 59. I condannati ai quali sia stata applicata la sanzione accessoria di cui al comma 58, primo periodo, possono beneficiare, una volta che la pena sia stata completamente eseguita e previa presentazione di apposita domanda, delle prestazioni previste dalla normativa vigente in materia, nel caso in cui ne ricorrano i presupposti. 60. I provvedimenti adottati ai sensi del comma 58 sono comunicati, entro quindici giorni dalla data di adozione dei medesimi, all’ente titolare dei rapporti previdenziali e assistenziali facenti capo al soggetto condannato, ai fini della loro immediata esecuzione. 61. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro della giustizia, d’intesa con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, trasmette agli enti titolari dei relativi rapporti l’elenco dei soggetti già condannati con sentenza passata in giudicato per i reati di cui al comma 58, ai fini della revoca, con effetto non retroattivo, delle prestazioni di cui al medesimo comma 58, primo periodo. 62. Quando esercita l’azione penale, il pubblico ministero, qualora nel corso delle indagini abbia acquisito elementi utili per ritenere irregolarmente percepita una prestazione di natura assistenziale o previdenziale, informa l’amministrazione competente per i conseguenti accertamenti e provvedimenti. 63. Le risorse derivanti dai provvedimenti di revoca di cui ai commi da 58 a 62 sono versate annualmente dagli enti interessati all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate ai capitoli di spesa corrispondenti al Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura, di cui all’articolo 2, comma 6-sexies, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10, e agli interventi in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, di cui alla legge 3 agosto 2004, n. 206. Prevenire la radicalizzazione islamica nelle carceri, proposta legge approvata alla Camera progettoitalianews.net, 20 luglio 2017 Prevenire la radicalizzazione islamica e la diffusione dell’estremismo jihadista e provvedere al recupero umano, sociale, culturale e professionale di soggetti già coinvolti in fenomeni di radicalizzazione, mediante programmi di formazione ed informazione che interessino la società civile e le istituzioni a tutti i livelli, comprese le istituzioni scolastiche e le carceri. È stata approvata ieri dalla Camera, e passa ora al vaglio del Senato, la proposta di legge Dambruoso-Manciulli su "Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista", che per la prima volta mira a introdurre in Italia una strategia complessiva per la prevenzione dei fenomeni di radicalizzazione islamica. La legge prevede l’istituzione del Centro Nazionale sulla Radicalizzazione (Crad) presso il Dipartimento delle libertà civili e dell’immigrazione del Ministero dell’Interno, incaricato di elaborare annualmente il Piano Strategico Nazionale di prevenzione dei processi di radicalizzazione e adesione all’estremismo di matrice jihadista e di recupero dei soggetti coinvolti nei fenomeni di radicalizzazione. Ancora, l’elaborazione del Piano Strategico Nazionale, approvato dal Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’Interno, previa acquisizione dei pareri delle Commissioni parlamentari e del Comitato parlamentare. Definisce i progetti, le azioni e le iniziative da realizzare, anche prevedendo l’adozione di strumenti legati all’evoluzione tecnologica e la promozione di progetti pilota o di poli di sperimentazione per l’individuazione delle migliori pratiche di prevenzione. È prevista anche l’istituzione dei Centri di coordinamento regionali sulla radicalizzazione (CCR) presso le Prefetture - UTG dei capoluoghi di regione, per dare attuazione al Piano Strategico Nazionale. I CCR sono disciplinati nella composizione e nelle modalità di funzionamento dal Prefetto. Nasce anche un Comitato parlamentare per il monitoraggio dei fenomeni della radicalizzazione e dell’estremismo violento di matrice jihadista in diversi ambiti (scuole, ospedali, carceri, luoghi di accoglienza e detenzione amministrativa dei migranti), e l’analisi del rapporto semestrale redatto dalla Polizia Postale e delle comunicazioni relativo alle attività di propaganda e diffusione sul web di idee estreme tendenti al terrorismo violento di matrice jihadista. La legge prevede una formazione specialistica (anche per la conoscenza delle lingue straniere), diretta a fornire elementi di conoscenza anche in materia di dialogo interculturale e interreligioso del personale di forze di polizia, forze armate, amministrazione penitenziaria, del garante nazionale e dei garanti territoriali dei diritti delle persone detenute o private della libertà personal, di docenti e dirigenti delle scuole di ogni ordine e grado, delle università, di operatori dei servizi sociali e socio-sanitari e dei corpi di polizia locale. Inoltre, sono previste l’elaborazione delle Linee guida sul dialogo interculturale e interreligioso da parte dell’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’intercultura, in conformità al Piano strategico nazionale, finalizzate a diffondere la cultura del pluralismo e a prevenire episodi di radicalizzazione in ambito scolastico, e adottate con decreto del Ministro dell’istruzione; lo stanziamento di fondi in favore delle istituzioni scolastiche per assicurare l’accesso dei docenti e degli studenti a iniziative di dialogo interculturale e interreligioso con docenti e studenti di altri paesi, il potenziamento delle infrastrutture di rete e l’istituzione di specifici programmi di contrasto dell’odio on line; il finanziamento di progetti di formazione universitaria e postuniversitaria previsti e organizzati da accordi di cooperazione tra università italiane e quelle di Stati aderenti all’Organizzazione della cooperazione islamica; la promozione della realizzazione di un portale informativo sui temi della radicalizzazione e dell’estremismo e dello sviluppo di campagne informative, attraverso piattaforme multimediali che utilizzino anche lingue straniere e in partnership con soggetti pubblici o privati, la realizzazione da parte della RAI, in qualità di concessionaria del servizio pubblico, di una specifica piattaforma multimediale per la messa in onda di prodotti informativi e formativi in lingua italiana e araba e infine l’adozione del Piano nazionale per la rieducazione e la deradicalizzazione di detenuti e di internati su regolamento del Ministero della Giustizia, in coerenza con il Piano Strategico Nazionale elaborato dal Crad. I giudici non siano torri d’avorio, il diritto ha bisogno di armonia di Sabino Cassese Corriere della Sera, 20 luglio 2017 Un gruppo di lavoro promosso da Italiadecide, l’Associazione per la qualità delle politiche pubbliche diretta da Luciano Violante, ha concluso i suoi lavori ponendo le basi per un accordo tra le corti supreme italiane, la Corte di cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, e i procuratori generali presso la prima e la terza corte, accordo che è stato poi firmato dai presidenti e dai procuratori generali il 15 maggio scorso. Questo accordo costituisce una pietra miliare nella storia della giustizia italiana. Provo a spiegare perché. Partiamo da lontano. Lo Stato contemporaneo, quello italiano in particolare, non è solo lo Stato hobbesiano che assicura sicurezza e pace all’interno, ma è - come dicono i tedeschi - Jurisdiktionsstaat: in esso i giudici sono onnipresenti, non c’è area immune dalla giurisdizione. Basti pensare alla enorme crescita del numero di sentenze rispetto alla crescita della popolazione, e - procedendo a ritroso - alla quantità di conflitti che finiscono davanti ai giudici, conflitti dovuti anche all’aumento delle aree regolate da leggi. Con la moltiplicazione dei giudizi e delle sentenze, aumenta il pericolo che ogni giudice vada per conto suo, lasciando il cittadino senza quella sicura guida sulla interpretazione e applicazione del diritto che l’ordinamento giuridico dovrebbe garantire. Questo problema è accentuato dalla penetrazione nell’ordine giuridico nazionale di almeno altri due nuovi produttori di norme e di sentenze, l’Unione Europea con la Corte di giustizia europea e il Consiglio d’Europa con la Corte europea dei diritti dell’uomo. Occorre, allora, armonizzare l’operato delle corti, specialmente quelle supreme, stabilire canali di dialogo istituzionalizzato, garantire cooperazione, specialmente tra i giudici che sono al vertice, i tre che ho menzionato all’inizio, che sono i giudici legittimati a eleggere propri componenti nella Corte costituzionale. Ecco, quindi, l’idea del "memorandum", l’accordo firmato il 15 maggio scorso, tra i vertici giudiziari. Un accordo difficile, che ha pochi precedenti. Difficile perché la tradizione culturale italiana considera ciascun giudice una turris eburnea, un polo isolato da tutti gli altri, che decide da solo, in silenzio, senza guardare ad altro che non sia il caso che ha davanti. Per questo motivo, si tratta anche di un accordo che ha pochi precedenti. In Italia, quello illustre del "concordato giurisprudenziale" del 1929, firmato da Mariano D’Amelio, presidente della Cassazione, e da Santi Romano, presidente del Consiglio di Stato, e successivamente ratificato dalle Sezioni unite della Cassazione e dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Ma quell’accordo aveva un unico oggetto, la stabilizzazione dei criteri del riparto della giurisdizione tra giudice civile e giudice amministrativo. L’altro precedente non è italiano, ed è l’accordo Skouris-Costa del 2011. Lo firmarono il presidente della Corte di giustizia europea e il presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo, e aveva anche esso una portata limitata (all’applicazione della Carta di Nizza e all’adesione dell’Unione Europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo). L’importanza e la novità del nuovo accordo, quello sottoscritto a maggio, stanno nel fatto che questo è il primo passo per una cooperazione stabile e che esso non ha oggetti predefiniti, ma si estende su tutta l’area della giurisdizione. Con il nuovo accordo, avremo una attenzione maggiore all’attività delle giurisdizioni superiori che viene chiamata nomofilattica. Queste debbono assicurare l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto, garantire indirizzi interpretativi uniformi, in una parola assicurare l’unità dell’ordinamento. Si tratta di "beni" che sono divenuti rari, considerati il moltiplicarsi delle corti, il ricorso sempre più frequente dei cittadini a esse, ma anche la confusione della nostra legislazione, l’aumento dei produttori di diritto (Unione Europea, Stato, Regioni, ma anche organismi globali), nonché il cosiddetto dualismo giurisdizionale che fa parte della tradizione italiana (come di quella francese), cioè il fatto che vi sono due giudici, uno civile, uno amministrativo. In conclusione, è un gran bene che tre presidenti illuminati e due procuratori generali aperti alle esigenze della collettività, con l’aiuto di una attiva fondazione privata, abbiano posto le premesse perché il moderno État de justice non parli con troppe voci discordanti. Il silenzio sugli innocenti di Maurizio Tortorella Panorama, 20 luglio 2017 Prendete il Comune della Spezia, incidentalmente la città dove 48 anni fa è nato l’attuale ministro della Giustizia, Andrea Orlando: ha 90 mila abitanti. Ebbene, Panorama è in grado di rivelare che ogni anno sono 90 mila anche gli italiani assolti con formula piena, e in via definitiva, in un tribunale o in una Corte d’appello (perché nessun pubblico ministero oppone ricorso) o in Corte di cassazione. Insomma, ogni anno 90 mila cittadini imputati di qualcosa vengono riconosciuti innocenti perché non hanno commesso il fatto per il quale sono stati processati, o perché quel fatto "non sussiste". È un dato impressionante, oltre che inedito, perché vale il 38 per cento delle condanne irrevocabili: l’Istat calcola che queste siano state 235.244 nel 2011, l’ultimo anno coperto da una statistica. Ogni dieci condanne, quindi, arrivano in media quasi quattro assoluzioni piene. Bisogna considerare che ogni anno ci sono altre migliaia di imputati che vengono assolti con un’altra formula (perché il fatto non costituisce reato, o perché il fatto non è previsto dalla legge come reato); poi ci sono circa 140 mila prescrizioni; quindi ci sono anche tantissimi procedimenti che non arrivano a un risultato, e quelli che restano pendenti. Tutti questi numeri contribuiscono a creare un totale di 1,9 milioni di processi penali l’anno. Rispetto a questo dato, i 235 mila condannati valgono il 12 per cento, mentre i 90 mila assolti con formula piena il 5 per cento. La statistica è stata appena consegnata informalmente dal ministero della Giustizia ai senatori Gabriele Albertini, di Alternativa popolare, e Giacomo Caliendo, di Forza Italia. I due sono impegnati da mesi in commissione Giustizia per trasformare in legge una proposta sulla "ingiusta imputazione", presentata oltre un anno fa dall’ex sindaco di Milano e nata da un’inchiesta di copertina di Panorama. L’inchiesta aveva messo in evidenza che in una trentina di Paesi europei lo Stato si fa carico delle spese legali sostenute dall’imputato assolto perché pienamente innocente. Quasi soltanto in Italia, ormai, non è così. Albertini sta cercando di riparare all’ingiustizia, ma incontra ostacoli ed è riuscito a ottenere un risultato che reputa insoddisfacente: in commissione è in discussione un testo che stanzia 25 milioni l’anno. "È un inizio" dice Albertini "e l’approvazione di un principio. Ma ai 90mila innocenti arriverebbero appena 278 euro a testa. Non basta". No di Davigo ai magistrati in politica. Tranne uno... di Annalisa Chirico Panorama, 20 luglio 2017 L’ex presidente dell’Anm è furibondo con chi usa la toga per fare carriera. Ora, per esempio, si oppone alla promozione di un collega che fu parlamentare del centrosinistra. Tuttavia evita accuratamente di parlare del pm Antonino Di Matteo. Piercamillo Davigo è uno di noi. L’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati si oppone alla promozione di un magistrato, ex parlamentare di centrosinistra, già ministro della Giustizia ombra nel Pd a guida veltroniana, a presidente del Tribunale di Pordenone. Davigo si oppone al punto da abbandonare per protesta, con la sua corrente, la giunta del sindacato delle toghe. "Avevamo chiesto di non designare a funzioni giurisdizionali chi è stato eletto" - ha scandito l’ex toga di Mani pulite. Parole sacrosante, basta ambiguità: il magistrato che entra nell’agone politico non potrà più indossare la toga per processare i cittadini. Nello stesso istante in cui si invoca la necessità di sbarrare le porte girevoli tra politica e magistratura, viene in mente un altro profilo che si staglia all’orizzonte di un cortocircuito tutto italiano. E sul quale Davigo, misteriosamente, tace. Se infatti desta scandalo il magistrato già parlamentare che pretende di presiedere un tribunale, che cosa dire di un pm in servizio, fresco di promozione alla Direzione nazionale antimafia, contemporaneamente impegnato in un processo palermitano iper-mediatico (trattativa, do you remember?), e che, tra un’indagine e l’altra, si comporta da ministro in pectore? Lui si chiama Antonino Di Matteo, già sodale e collega di Antonio Ingroia, che secondo un identico copione prosegue nella inarrestabile marcia verso la politica. Pochi giorni fa a la Stampa ha dichiarato: "Non sono pregiudizialmente contrario all’impegno di un magistrato in politica, soprattutto se questo significasse la naturale prosecuzione del lavoro svolto con la toga addosso". Brivido. Il sol fatto che un pm adombri l’ipotesi che l’attività nei ranghi della magistratura possa essere, in qualche misura, "propedeutica" all’impegno politico spiega bene come certi magistrati militanti si sentano investiti di una missione moralizzatrice e pedagogica. Alla faccia della separazione dei poteri. Viene in mente la parabola di un altro pm che non vuol sentir parlare di dimissioni, da tempo impegnato in politica, attualmente presidente di una importante regione del Sud, che prima indagò su Massimo D’Alema e poi si candidò a sindaco con la sua benedizione. Coincidenze. Sarà pure una casualità che il corteggiamento pentastellato nei confronti di Di Matteo sia diventato sempre più insistente. Già incoronato nel 2014 da Beppe Grillo "uomo dell’anno, esempio di onestà", tra pochi giorni verrà insignito della cittadinanza onoraria dal sindaco Virginia Raggi in Campidoglio. Lo scorso 31 maggio, nel corso di un convegno pentastellato alla Camera, Di Matteo non ha lesinato apprezzamenti verso il movimento grillino: "Il codice etico del M5s rappresenta un segnale di svolta importante e molto positivo. Finalmente contribuisce a distinguere la valutazione di responsabilità politica dalla eventuale responsabilità penale". Lo staff conferma gli abboccamenti in corso, mentre Luigi Di Maio si rallegra pubblicamente: "La disponibilità di Di Matteo è una buona notizia. Ne siamo contenti". Applausi a scena aperta. Il matrimonio si farà. Avvisare Davigo. La tortura è reato, previste pene fino a 10 anni di carcere di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2017 Legge 14 luglio 2017 n. 110 - Gazzetta ufficiale 18 luglio 2017 n. 166. È il vigore dal 18 luglio il reato di tortura, inserito nel Codice penale, che punisce con la reclusione fino a 10 anni chi provoca sofferenze fisiche o psichiche a una persona, privata della libertà personale e affidata alla sua custodia. La legge 110/2017 approdata nella Gazzetta ufficiale 166 del 18 luglio, prevede la reclusione da un minimo di 4 a un massimo di 10 anni, quando il fatto è il risultato di più condotte o se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Il tetto si alza, da 5 a 12 anni, se i fatti sono commessi da pubblici ufficiali, a meno che le sofferenze non siano il risultato dell’esecuzione di misure che, legittimamente privano o limitano i diritti. Le pene lievitano anche in conseguenza di lesioni, arrivando a 30 anni in caso di morte dovuta a maltrattamenti e all’ergastolo se la morte è causata volontariamente. Punita anche l’istigazione alla tortura da parte del pubblico ufficiale. La norma modifica inoltre l’articolo 191 del Codice penale per prevedere l’inutilizzabilità nel processo delle informazioni ottenute con la tortura, che valgono solo come prova per affermare la responsabilità dell’autore del reato. Messa nero su bianco, attraverso un intervento sull’articolo 19 del testo unico sull’immigrazione (Dlgs 286/1998), l’impossibilità di respingere, espellere o estradare una persona verso uno Stato, se esistono fondati motivi per ritenere che questa rischi di essere torturata. Nel valutare tale pericolo pesa la consapevolezza dell’esistenza nel Paese di eventuale destinazione, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani. Infine è negata qualunque forma di immunità agli stranieri processati o condannati per il reato di tortura. Reato di tortura, perché questa legge non piace alle Camere penali di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 20 luglio 2017 Una norma fondata sul compromesso che non garantisce la punibilità. per questo non ci accontentiamo. La patria del diritto è ormai diventata la nazione del compromesso. In tema di giustizia le recenti leggi sono il frutto di scelte demagogiche mirate ad ottenere il consenso del popolo che si vuole sempre più ignorante. Avverso questa deriva, l’Unione Camere Penali Italiane ha protestato e protesta costantemente anche con modalità estreme, come l’astensione dalle udienze. Le recenti, dei mesi scorsi, non hanno impedito l’emanazione di norme che prevedono l’assurdo, irragionevole aumento dei termini di prescrizione e la celebrazione dei processi con detenuti in videoconferenza con il risultato di avere processi infiniti e dibattimenti in cui sono assenti fisicamente le persone maggiormente interessate al loro esito, a cui viene impedito di sedersi al fianco del loro difensore. L’ ulteriore astensione, programmata per il 18 luglio, era stata indetta per manifestare il dissenso avverso il disegno di legge di modifica del codice delle leggi antimafia e delle norme sulla "confisca allargata", che amplia le ipotesi applicative dell’istituto, in contrasto con le indicazioni europee e i principi costituzionali. In questi anni, vi è stato anche un altro fenomeno politico non generato dal populismo legislativo, in quanto ha avuto ad oggetto temi del tutto ignorati o comunque dimenticati dall’opinione pubblica: il carcere e la tortura. Il Governo e il Parlamento sono dovuti intervenire in materia, non per assecondare la volontà popolare, ma per precisi obblighi nei confronti della Comunità Europea. Obblighi che hanno dovuto rispettare, ma sempre strizzando l’occhio agli elettori per il facile consenso di chi non è stato messo in condizione di comprendere effettivamente il valore culturale e politico di quello che si sarebbe dovuto fare e che, invece, si è fatto. Va detto chiaramente, se non vi fossero state le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo, se non fosse stata emessa nei confronti del nostro Paese una sentenza c. d. "pilota", nulla si sarebbe fatto in tema di detenzione, come mai sarebbe stata approvata la legge sull’istituzione del delitto di tortura se, a circa 30 anni dalla firma della Convenzione internazionale, non vi fossero stati continui richiami e censure da parte della Comunità europea. Ma possiamo dire di avere effettivamente adempiuto a quanto l’Europa ci ha chiesto di fare? Noi diciamo "No". Dopo oltre 4 anni dalla sentenza Torreggiani, le nostre carceri stanno tornando ad affollarsi, l’assistenza sanitaria è inesistente o minima, il trattamento individualizzato vietato, per legge, per alcune categorie di detenuti, è impedito, di fatto, a chi ne avrebbe diritto. La cronica carenza di personale sia nelle carceri che nei Tribunali di Sorveglianza, la fatiscenza di molte strutture e i rimedi risarcitori illusori, attestano quotidianamente che manca una visione d’insieme che possa effettivamente far uscire la detenzione in Italia dal tunnel eterno dell’illegalità. Sulla legge che ha istituito il delitto di tortura, appena approvata dal Parlamento, l’Unione, anche con il proprio l’Osservatorio Carcere, ha più volte manifestato il proprio dissenso. Lo ha fatto, nonostante abbia sempre denunciato l’inosservanza dell’Italia all’impegno, ormai trentennale, d’inserire nel nostro ordinamento il reato. L’articolo 117 della Costituzione prevede che "la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni, nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali". Tale principio non è stato rispettato, in quanto nella Convenzione Onu sottoscritta dall’Italia, il delitto di tortura è una fattispecie diversa da quella inserita nel nostro ordinamento. Molto diversa, a cominciare dalla stessa definizione. Nella Convenzione, all’art. 1, si legge: "… il termine "tortura" designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire o esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate". La firma apposta dall’Italia alla Convenzione, avrebbe dovuto obbligare il nostro Paese ad adottare tale definizione ma - dopo circa 30 anni - il reato che ha trovato ingresso nel nostro ordinamento, altro non è che un’"etichetta", apposta nel codice penale. La fattispecie astratta prevista, infatti, è tutt’altro da quella indicata nella Convenzione e la sua formulazione consente la non punibilità nella maggior parte dei casi. A fronte di "qualsiasi atto con il quale sono inflitti dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche", come si legge nella Convenzione, in Italia si punirà solo chiunque "con più condotte violente o plurime minacce gravi causi sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico ad una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia o in condizioni di minorata difesa". Il reato diventa "comune" e non "proprio" del pubblico ufficiale (per il quale sono previste aggravanti) e non viene punito "qualsiasi atto", ma solo "più condotte violente" (quante?) o "plurime minacce gravi" (quante?). Un unico atto, dunque, non è penalmente rilevante ed il trauma psichico deve essere "verificabile". Termine questo sibillino e privo di valenza tecnica in una norma penale, in quanto tutto va provato e quindi verificato. Da avvocati possiamo affermare che la non punibilità è garantita. Il neonato delitto di tortura tradisce, tra l’altro, il principio costituzionale dell’art. 13, che stabilisce che "È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà". Il termine "ogni" non si presta ad alcuna interpretazione e, pertanto, bene avrebbe fatto il Legislatore a rispettare la Convenzione Internazionale sottoscritta, adeguandosi anche a quello che, già nel 1947, avevano scritto i Padri Costituenti. Ribadiamo, pertanto, il nostro "No" e non ci accontentiamo, come altri - pur impegnati da anni sul medesimo fronte del rispetto dei diritti - di avere "finalmente" anche in Italia il delitto di tortura. Le "etichette" non si applicano al codice penale, ma altrove. *Responsabile Osservatorio Carcere Unione Camere Penali Italiane G8 Genova. Violenze e torture furono una strategia, Gabrielli faccia seguire gesti concreti di Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci Il Manifesto, 20 luglio 2017 Passano gli anni e c’è chi vorrebbe relegare la contestazione al G8 di Genova del 2001 nella categoria dei luoghi o dei fatti della memoria, come una pagina chiusa che non comunica più col presente. È una tentazione emersa a più riprese negli ultimi mesi, ad esempio intorno al dibattito sul reato di tortura e in questi stessi giorni di avvicinamento alla ricorrenza del 20 luglio, anniversario dell’uccisione in piazza Alimonda di Carlo Giuliani. Si cita il G8 di Genova e se ne discutono alcune conseguenze, magari ci si indigna e si esprime qualche misurata frase di rimpianto, ma a condizione di dichiarare solennemente chiuso e sigillato quel capitolo della nostra storia, dopo averlo sottratto all’attualità delle vicende politiche che scuotono il mondo odierno. Rischia così di avverarsi il vero obiettivo della repressione genovese del luglio 2001: criminalizzare il movimento, attraverso la violenza istituzionale, per criminalizzare le sue idee e metterle fuori gioco. Allora diciamolo chiaramente: Genova G8 resta uno spartiacque politico e culturale perché mai come in quelle giornate, come in quella fase politica, è emerso con tutta la sua forza il nuovo discrimine fra destra e sinistra, fra adattamento all’ideologia neoliberale dominante e prospettive di giustizia sociale e ambientale su scala planetaria. Le idee forti dei forum e delle manifestazioni genovesi sono ancora in campo - la libertà di movimento per ogni essere umano, il ripudio del debito iniquo, la democrazia partecipativa, l’apertura alla visione indigena di Madre Terra, il superamento dell’ideologia della crescita - e perché mai dovremmo abbandonare questo patrimonio ideale e politico costruito dal basso e attraverso i continenti? Genova G8 non è un capitolo chiuso della nostra storia e lo si è visto anche in parlamento: all’inizio di luglio è stata approvata una legge sulla tortura, la cui ragione d’essere va ricercata proprio nelle giornate del luglio 2001, delle quali peraltro non si è minimamente parlato. L’esito legislativo è stato paradossale, con l’approvazione di un testo che non sarebbe applicabile a un nuovo caso Diaz o a un nuovo caso Bolzaneto, come spiegato in una lettera-denuncia firmata da undici magistrati genovesi impegnati negli anni scorsi proprio nei processi Diaz e Bolzaneto. È triste ma necessario constatare che in questa vicenda le organizzazioni deputate alla tutela dei diritti umani e in generale il mondo delle grandi associazioni e gli stessi sindacati, sono stati scavalcati per rigore, coraggio e tenacia da pochi singoli attivisti e professionisti (avvocati, studiosi, docenti universitari) e da soggetti istituzionali come il commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, i cui puntuali e potenti messaggi sono stati lasciati cadere nell’indifferenza generale. È cioè prevalsa una logica minimalista secondo la quale occorre accontentarsi di quel che passa il convento-parlamento, perché non è tempo di grandi ideali e di grandi progetti e non è quindi il caso di lottare fino in fondo nemmeno quando si parla di diritti fondamentali. Intanto il capo della polizia Franco Gabrielli, in un’intervista-monologo utile solo a certificare la fine dell’era De Gennaro, vorrebbe mettere un punto finale alla questione Genova G8, riconoscendo la "catastrofica" gestione dell’ordine pubblico, ma sostenendo al tempo stesso che la polizia del 2017 è sana "come lo era nel 2001". Il tutto mentre i funzionari condannati nel processo Diaz si apprestano a rientrare in servizio alla scadenza dei 5 anni di interdizione giudiziaria dai pubblici uffici, grazie alla scelta compiuta a suo tempo e sempre confermata di non avviare provvedimenti disciplinari e di non procedere alle rimozioni richieste dalla Corte europea per i diritti umani. Il prefetto Gabrielli a questo punto potrebbe e dovrebbe far seguire gesti concreti alle sue valutazioni, ad esempio chiedendo davvero scusa (Manganelli non lo fece, si limitò a dire "è arrivato il tempo delle scuse") e riconoscendo che le violenze di piazza e le torture di Genova G8 furono parte di una precisa strategia di gestione delle manifestazioni e non l’esito casuale di errori nella gestione della piazza o addirittura - come ha detto - della fiducia malriposta nei portavoce del movimento. Genova G8 non è un fiume inaridito della nostra storia, né un motivo di rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato; Genova G8 è tuttora un cantiere aperto sia per il delicatissimo snodo dei rapporti fra i cittadini - i loro corpi - e il potere, sia per l’enorme questione politica introdotta nella vita pubblica dal movimento che prese corpo fra Seattle, Porto Alegre e Genova. Lo spirito di Genova non è affatto una reliquia della politica italiana: è semmai un enorme patrimonio ideale e culturale al quale fare riferimento nelle lotte presenti e future, coscienti che lo slogan coniato a Porto Alegre nel 2001 - "Un altro mondo è possibile" - non ha smesso di ispirare milioni e milioni di persone attraverso il pianeta. Mafia. Mattarella accusa: errori su Borsellino. La figlia Fiammetta: 25 anni di menzogne di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 20 luglio 2017 "Errori e incertezze nel cercare la verità": il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, davanti al Csm, chiede di fare luce sulla morte di Paolo Borsellino, venticinque anni dopo l’attentato in cui il giudice venne ucciso. E sulle motivazioni per il no alla scarcerazione di Riina emergono intercettazioni in cui il boss rifiuta di pentirsi. "Mi diano pure 3 mila anni di carcere". "La tragica morte di Paolo Borsellino, insieme a coloro che lo scortavano con affetto, deve ancora avere una definitiva parola di giustizia". Venticinque anni dopo l’omicidio di Paolo Borsellino, nel Palazzo del Consiglio Superiore della Magistratura, dove il magistrato venne chiamato a rispondere di dichiarazioni amare, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, punta un faro sulle ombre che ancora avvolgono le indagini sul suo attentato. "Troppe sono state le incertezze e gli errori che hanno accompagnato il cammino nella ricerca della verità sulla strage di via D’Amelio, e ancora tanti sono gli interrogativi sul percorso per assicurare la giusta condanna ai responsabili di quel delitto efferato", dichiara di fronte a Lucia, la figlia del magistrato ucciso. Lodandone il "prezioso metodo di indagine" ma, soprattutto, il modo di servire lo Stato con "coraggio, dedizione, e tenacia. Facendo della mitezza uno dei suoi punti di forza". La stessa mitezza che ha mostrato la famiglia fino a oggi. La stessa tenacia con cui ora chiede la verità. Lo dice con fermezza Lucia Borsellino, "in linea" con la sorella Fiammetta che a Palermo, di fronte alla commissione antimafia stigmatizza i "25 anni di menzogne". Lucia chiede di "non indulgere nella retorica del ricordo". Piuttosto "a fronte delle anomalie emerse, riconducibili verosimilmente a comportamenti di uomini delle Istituzioni si intraprendano iniziative per fare luce e chiarezza su quanto accaduto nelle indagini che precedettero i procedimenti Borsellino uno e Borsellino bis". Lo dice di fronte al plenum che ha appena desecretato il fascicolo su suo padre. In onore alla volontà, espressa ieri dal vicepresidente Giovanni Legnini, di "trarre, da quelle drammatiche vicende, insegnamenti per l’oggi e per il futuro". Ma ha in mente il Csm di allora. "Mio padre dovette giustificarsi sotto la minaccia di un procedimento disciplinare per dichiarazioni in cui denunciava lo smantellamento del pool antimafia", ricorda. E auspica che "quantomeno con la stessa solerzia" si chieda conto di quei comportamenti "anomali". Parla dei depistaggi e dei falsi pentiti usati per far deragliare le inchieste sulla morte di suo padre. Chi li mise in atto, o non li perseguì, verrà davvero chiamato a risponderne? Si potrà aprire una inchiesta disciplinare su quei fatti? "Ne parleremo in Consiglio", anticipa al Corriere Legnini che ieri ha evidenziato "il dovere di sostenere con forza un’insopprimibile domanda di giustizia che chiama tutti in causa, senza eccezioni". E la "necessità di fare luce piena su quegli eventi di sangue, fino in fondo e senza temere lo scorrere del tempo che ci separa dalla tragica estate del 1992". Il primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio è convinto che si "debba" fare qualcosa. C’è "il dovere morale di accertare e far conoscere alla comunità da chi e perché, dopo la strage, fu costruita una falsa verità giudiziaria". Una "calunnia" che non può essere prescritta. Perché, come twitta il premier Paolo Gentiloni, "della memoria dobbiamo prenderci cura". Mafia. "In via d’Amelio un uomo dei Servizi chiedeva della valigetta di Borsellino" di Salvo Palazzolo La Repubblica, 20 luglio 2017 Il racconto dell’ispettore Giuseppe Garofalo, fu uno dei primi poliziotti ad arrivare sul luogo della strage del 19 luglio. "Quell’uomo è un fantasma - dice - e quel pomeriggio in via d’Amelio un incubo. Per un mese non riuscì a dormire. E in tutti questi anni non sono più voluto tornarci in quei luoghi. Poi, due anni fa, mia figlia mi chiese di accompagnarla in via d’Amelio, le ho raccontato cosa avevo vissuto". Di quel pomeriggio in via d’Amelio ricorda l’odore acre dei copertoni bruciati, le auto in fiamme, le urla. Ricorda i volti degli anziani e dei bambini che ha aiutato a uscire dai palazzi sventrati. Ricorda tanto fumo. E all’improvviso, un uomo ben vestito, con una giacca, che cosa strana un uomo con la giacca dentro quell’inferno di fumo e fiamme. "Si aggirava attorno alla blindata del procuratore Paolo Borsellino - racconta l’ispettore Giuseppe Garofalo, uno dei primi poliziotti delle Volanti ad arrivare in via d’Amelio - chiedeva della borsa del giudice, l’ho subito fermato. "Scusi, chi è lei?". Ha risposto: "Servizi segreti". E mi ha mostrato un tesserino. L’ho lasciato andare, capitava spesso che sulla scena dei delitti di Palermo ci fossero agenti dei Servizi, non mi sono insospettito. Ma adesso mi chiedo chi fosse davvero quell’uomo". L’ispettore Giuseppe Garofalo voleva fare l’archeologo da ragazzo. Ma ha finito per seguire le orme del padre, il maresciallo Garofalo è stato per quarant’anni una delle colonne portanti della squadra mobile di Ragusa. Fa il poliziotto anche il fratello di Giuseppe, e pure sua moglie. "Io l’università l’ho fatta alla sezione Omicidi della squadra mobile di Palermo - sussurra - anni difficili, quelli. Era il 1989. Le corse da una parte all’altra della città, a raccogliere cadaveri e misteri, troppi misteri a Palermo. E un giorno, l’incontro con il giudice Falcone, nel suo ufficio bunker al palazzo di giustizia. Alla fine, mi strinse la mano e mi disse: "In bocca al lupo per la sua carriera". Quel pomeriggio del 19 luglio 1992, Giuseppe Garofalo è il capopattuglia della volante 32. "Potevamo essere spazzati anche noi in via d’Amelio, perché generalmente la pattuglia faceva da apripista alla scorta di Borsellino. Ma quel pomeriggio non fummo chiamati dalla centrale operativa per accompagnare il giudice a casa della madre, chissà perché". Quando un boato squarcia Palermo, alle 16,58, la questura manda subito la volante 21. "Si pensava all’esplosione per una bombola di gas. Noi eravamo a Mondello, dico all’autista di stringere. E arriviamo pochi attimi dopo la 21. Non c’è nessuno in quella strada avvolta dal fumo". Il primo pensiero è per gli abitanti dei palazzi di via d’Amelio, che sembrano i palazzi di una zona di guerra. "Ci siamo lanciati dentro, non abbiamo pensato che potessero esserci dei crolli, c’era gente insanguinata per le scale. Ricordo che abbiamo soccorso la mamma di Borsellino. Poi, io sono sceso in strada, di corsa. Il capo pattuglia della 21 stava già accompagnando in ospedale il superstite della scorta, Antonino Vullo. Io mi aggiravo in quell’inferno. Su un muro c’erano i resti di un collega, per terra la sua mitraglietta M12 sciolta per il terribile calore dell’esplosione. Per terra, quello che restava del procuratore Borsellino". In via d’Amelio cominciano ad arrivare decine di persone che camminano sui reperti, sui resti, su tutto ciò che potrebbe costituire una traccia per arrivare agli stragisti. "All’improvviso, quasi senza accorgermene - così continua il racconto di Giuseppe Garofalo - mi ritrovo davanti quell’uomo ben vestito che chiede della borsa del giudice. È un attimo, un frame nella mia testa. Oggi, quell’uomo con la giacca è una persona che resta senza volto, i ricordi sono confusi". I magistrati di Caltanissetta hanno già ascoltato Garofalo, gli hanno anche mostrato diverse fotografie. Ma non è emerso nessun volto in particolare. "Quell’uomo è un fantasma - dice ora l’ispettore - e quel pomeriggio in via d’Amelio un incubo. Per un mese non riuscì a dormire. E in tutti questi anni non sono più voluto tornarci in quei luoghi. Poi, due anni fa, mia figlia mi chiese di accompagnarla in via d’Amelio, le ho raccontato cosa avevo vissuto". Giuseppe Garofalo è poliziotto ormai di esperienza, ma ancora si commuove quando rievoca i suoi giorni a Palermo. Alla Mobile, il suo dirigente fu Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto adesso al centro della bufera sul depistaggio delle indagini sulla strage Borsellino. "Io non so quello che è successo - dice l’ispettore Garofalo - tutti siamo fallibili, ma quando io ero alla squadra mobile La Barbera era un esempio per tutti noi. Viveva praticamente in ufficio, ricordo di quando fece pulizia, qualche mese dopo il suo arrivo, buttando fuori gente che riteneva collusa o comunque avvicinabile". Un altro mistero. "Io ho fiducia che la verità un giorno la sapremo - dice Giuseppe Garofalo - dobbiamo avere fiducia nelle istituzioni, la magistratura e le forze dell’ordine, che questa verità non hanno mai smesso di cercare, per onorare i nostri morti". Mafia. Totò Riina resta al 41bis. Alla moglie: "Il non mi pento" La Repubblica, 20 luglio 2017 Il tribunale di sorveglianza di Bologna dice no alla scarcerazione: "Tutelato il suo diritto alla salute. Può ancora intervenire nelle logiche di Cosa Nostra". Il dialogo tra il boss e la moglie in carcere. L’avvocato: "Faremo ricorso". Il tribunale di sorveglianza di Bologna ha rigettato la richiesta di differimento pena o, in subordine, di detenzione domiciliare presentata dai legali del boss Totò Riina. I giudici hanno riunito due procedimenti, decidendoli insieme. Riina quindi resta detenuto al 41bis nel reparto riservato ai carcerati dell’ospedale di Parma. Alla richiesta dei legali, motivata da ragioni di salute del boss, si è opposto il Pg di Bologna Ignazio De Francisci. "Io non mi pento" - "Io non mi pento...a me non mi piegheranno" e "Io non voglio chiedere niente a nessuno... mi posso fare anche 3000 anni no 30 anni", ha detto Riina alla moglie Antonietta Bagarella in un colloquio video-registrato avvenuto lo scorso 27 febbraio. Le parole del dialogo, "nel contesto di uno scambio di frasi su istanze da proporre", scrivono i giudici, sono nell’ordinanza con cui la Sorveglianza ha rigettato l’istanza del boss di Cosa Nostra. Per i giudici è "degno di nota" il fatto che Riina asserisca che "non si piegherà e non si pentirà mai". E "altrettanto significativo" è un passaggio durante il quale i coniugi "giungono ad affermare che i collaboratori di giustizia vengono pagati per dire il falso". Il dialogo in carcere - Di seguito è riportata la trascrizione del dialogo. Riina: "Sono stato io... non è che siamo! Facciamo finta che eravamo insieme... non e che non lo sanno!... Lo sanno che eravamo sempre qua con questo direttore! Io non ho fatto niente e non so niente e quello... Brusca...". Bagarella: "Ma tu lo sai che quelli prendono soldi quando dicono queste cose?". Riina: "Certo". Bagarella: "E allora... più se ne inventano e più sono pagati". Riina: "Hanno... esatto...". Bagarella: "Non è che è gratis quando lui dice queste cose che non esistono e perciò! Eh perciò ci vivono tutti! È così". "Ancora socialmente pericoloso" - Riina appare "ancora in grado di intervenire nelle logiche di Cosa Nostra", nonostante le sue condizioni di salute e l’età ormai avanzata e "va quindi ritenuta l’attualità della sua pericolosità sociale". È un passaggio cruciale dell’ordinanza. "La lucidità palesata" da Riina e "la tipologia dei delitti commessi in passato (di cui è stato spesso il mandante e non l’esecutore materiale) - proseguono i giudici - fanno sì che non si possa ritenere che le condizioni di salute complessivamente considerate, anche congiuntamente all’età, siano tali da ridurre del tutto il pericolo che lo stesso possa commettere ulteriori gravi delitti (anche della stessa indole di quelli per cui è stato condannato)". Mafia, Totò Riina resta al 41 bis. Alla moglie: "Non mi pento, mi posso fare pure 3mila anni" "Assoluta tutela del diritto alla salute" - Riina, scrivono i giudici, "non potrebbe ricevere cure e assistenza migliori in altro reparto ospedaliero ossia nel luogo in cui ha chiesto di fruire della detenzione domiciliare". È "palese", a Parma, "l’assoluta tutela del diritto alla salute sia fisica che psichica del detenuto". E questo, osservano i giudici (relatore Manuela Mirandola, presidente Antonietta Fiorillo), "a fronte di idonea sistemazione, da oltre un anno e mezzo, nel reparto detentivo ospedaliero ossia in stanza dotata di tutti i presidi medici e assistenziali necessari alla cura di una persona anziana", affetta da varie patologie. Riina "viene assistito giornalmente da un fisioterapista" e "dispone quotidianamente, senza necessità di spostamento alcuno, di un importante intervento assistenziale espressamente finalizzato al mantenimento della residua funzionalità muscolare". "Cure e terapie di altissimo livello" - E ancora: "Al soggetto affetto da plurime patologie, alcune delle quali tipicamente connesse all’età avanzata", vengono "non solo somministrate cure e terapie di altissimo livello con estrema tempestività di intervento, ma anche, e soprattutto, prestata assistenza di tipo geriatrico con cadenza quotidiana ed estrema attenzione e rispetto della sua volontà, al pari di qualsiasi altra persona che versi in analoghe condizioni fisiche", aggiunge il tribunale, affrontando il tema delle condizioni del boss e il diritto a morire dignitosamente, citato dalla Cassazione, che deve intendersi come "il diritto a morire in condizioni di rispettabilità e decoro": la complessiva situazione di Riina non solo non viola tale diritto, ma, per i giudici, non costituisce neppure "una prova di intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione". Le reazioni - "Totò Riina rimane in ospedale ma è una ordinanza ampiamente ricorribile, e come tale sarà oggetto di ricorso". Lo dichiara il legale avvocato Luca Cianfaroni. "Riteniamo che il Tribunale di sorveglianza abbia preso su Riina la decisione giusta", dice invece Rosy Bindi. "Noi abbiamo visitato qualche tempo fa Riina all’ospedale di Parma e abbiamo ritenuto che la decisione da prendere fosse proprio quella di dire no alla scarcerazione, ci fa piacere che la nostra conclusione coincida con quella del Tribunale di sorveglianza", ha aggiunto. Assistenti giudiziari: ammessi gli stranieri di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2017 Cittadinanza italiana non necessaria per concorrere come assistente giudiziario. Diversamente, il bando sarebbe discriminatorio, trattandosi di requisito richiesto, per l’accesso nella Pa, solo per impieghi implicanti l’uso di pubblici poteri e la tutela degli interessi generali dello Stato o delle pubbliche collettività. Lo afferma il tribunale di Firenze, con ordinanza del 27 maggio 2017. A citare in giudizio il ministero della Giustizia, sono una donna albanese, in possesso di un permesso di soggiorno di lungo periodo, e una Onlus. Contestata, la natura discriminatoria dell’articolo di un bando di concorso indetto per assistente giudiziario nei ruoli del personale del ministero della Giustizia, che imponeva il requisito della cittadinanza italiana per l’accesso alla selezione pubblica. Di qui, la richiesta, rivolta al tribunale, di ordinare in via cautelare l’ammissione con riserva della ricorrente - e degli altri candidati privi della cittadinanza italiana (comunitari o stranieri titolari di carta blu e familiari non comunitari di italiani) - alle prove preselettive e/o selettive della procedura concorsuale pubblica. Ulteriore domanda? Quella di sospendere il concorso fino a conclusione del giudizio, per permettere la partecipazione di chi si fosse astenuto dall’inoltrare la sua candidatura, ritenendosi privo dei requisiti. Anche perché il bando, come formulato, violava la Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro, il principio di non discriminazione dell’Unione, il Trattato sul funzionamento della Ue, le direttive che equiparano alcune categorie di stranieri agli italiani, la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Ue, il Testo unico sull’immigrazione e quello sul lavoro ove è consentito l’accesso ad impieghi presso la Pa - "che non implicano l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale" - di comunitari e loro familiari non comunitari ma con diritto di soggiorno, cittadini di Paesi terzi con permesso di soggiorno Ue, titolari dello status di rifugiati o protetti. Tesi accolta dal tribunale, competente, quale giudice ordinario, a pronunciarsi sul diritto assoluto a non subire discriminazioni, cui è consentito, riscontrata la natura discriminatoria del provvedimento, di disattenderlo adottando le misure atte a rimuoverne gli effetti (Cassazione Sezioni unite 3670/11). Ebbene, nella vicenda, il bando era discriminatorio: le mansioni messe a concorso riguardavano assistenti giudiziari di seconda area funzionale, quindi personale non dirigenziale che opera su istruzioni o forma atti, giudiziari, contabili, tecnici o amministrativi, collaborando con professionalità superiori. Tale impiego, allora, non poteva ricondursi tra quelli (individuati dal Dpcm 174/94) implicanti l’esercizio, anche indiretto, di pubblici poteri o tesi a garantire l’interesse nazionale, per i quali si esige la cittadinanza come requisito di accesso. Alveo, al di fuori del quale non può vietarsi l’accesso agli stranieri (Cassazione 18523/14). Si comprende, allora, la decisione del tribunale di disapplicare la clausola del bando contestata, per incompatibilità con il diritto comunitario, ed estenderne la valenza nei confronti di tutti i candidati lesi dalla discriminazione. È stalking la persecuzione del dipendente di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2017 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 19 luglio 2017 n. 34836. È stalking la persecuzione professionale nei confronti di una dipendente da parte del superiore. E il datore di lavoro, nel caso esaminato il Comune è tenuto a risarcire in solido con lo stalker i danni subiti dalla vittima. La Cassazione (sentenza 35588) analizza sia il ricorso del persecutore, che contestava il reato, sia della parte civile, contro la decisione della Corte d’appello di negare il risarcimento danni e la responsabilità indiretta del Comune: per i giudici di merito mancava il nesso di "occasionalità necessaria". I giudici della quinta sezione penale respingono il ricorso del persecutore e accolgono quello della parte civile. Ad essere condannato per stalking era stato il gestore di una biblioteca di un Comune milanese che aveva molestato una dipendente. L’uomo aveva messo in atto una "persecuzione professionale" tradotta in violenze morali e atteggiamenti oppressivi a sfondo sessuale. L’originale capo di imputazione di violenza privata aggravata era stato modificato, nel corso del dibattimento, in atti persecutori (articolo 612-bis del codice penale). Il cambio "in corsa" del reato contestato é stato oggetto di una delle eccezioni sollevate dalla difesa dell’imputato, che negava anche i presupposti del reato di stalking e la possibilità di applicare la norma, entrata in vigore nel 2009, rispetto a condotte iniziate prima della sua introduzione. Secondo il ricorrente le contestazioni facevano riferimento a "violenze morali", mentre l’articolo 612-bis del Codice penale richiederebbe l’esistenza di molestie o minacce. La Cassazione ricorda che con l’introduzione del reato di Stalking il legislatore ha colmato un vuoto di tutela per condotte che, anche se non violente, producono nella vittima "un apprezzabile turbamento". Nel caso specifico gli atti si sono manifestati in più occasioni provocando nella vittima un accumulo di disagio, degenerato nella prostrazione psicologica descritta dall’articolo 612-bis del Codice penale. In virtù dell’abitualità del reato vengono meno sia il presupposto per la prescrizione, che decorre non dall’inizio delle persecuzioni ma dall’ultimo atto, sia la presunta illegittimità di un’applicazione "retroattiva" della norma sullo stalking: le condotte sono continuate, infatti dopo l’entrata in vigore del reato. I giudici accolgono invece il ricorso della parte civile e rinviano alla Corte d’appello perché riveda la decisione sulla responsabilità del Comune. Secondo i giudici la Pubblica amministrazione deve essere riconosciuta civilmente responsabile per il comportamento dei suoi dipendenti in base al criterio dell’occasionalità necessaria, a meno che le azioni illecite non siano del tutto imprevedibili ed eterogenee rispetto ai compiti istituzionali. I giudici sono consapevoli di un diverso orientamento secondo il quale il nesso di occasionalità va escluso quando il dipendente agisce per finalità di carattere personale. Tuttavia nel caso esaminato, anche se parte delle azioni persecutorie sono state messe in atto durante la pausa pranzo o al di fuori dell’orario di lavoro, per la Cassazione "l’esercizio delle funzioni pubbliche ha agevolato il danno nei confronti della persona offesa". Nè conta che le "pressioni" siano state interrotte dopo l’intervento di un superiore gerarchico del ricorrente. L’omesso versamento dei contributi non è bancarotta per dissipazione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2017 L’omesso versamento dei contributi non può essere considerato bancarotta per dissipazione. La Cassazione, con la sentenza 34836, precisa infatti che il reato di bancarotta per dissipazione si configura solo in caso di operazioni incoerenti con le esigenze dell’impresa, che ne riducono il patrimonio. È questo il solo punto sul quale i giudici della quinta sezione penale, danno ragione al ricorrente, nei confronti del quale viene comunque confermata la condanna per bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e documentale. L’imputato, titolare di una ditta individuale, era stato ritenuto responsabile della distrazione di 20 mila euro in suo favore, 8 mila "stornati" per pagare le spese di trasporto di un’imbarcazione della figlia e 250 mila euro restituiti per un prestito personale. La condanna per bancarotta per dissipazione riguardava proprio la somma più importante, circa 2 milioni di euro, relativa a contributi non versati. La Corte territoriale aveva riqualificato, in bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e documentale l’originaria imputazione di bancarotta impropria per aver causato il fallimento con operazioni dolose: una fattispecie prevista solo per il fallimento delle società e non applicabile al fallimento di un’impresa individuale. Per il ricorrente però la sua condanna era infondata su tutti fronti. Le somme distratte, secondo la difesa, erano troppo esigue per "aggravare" una situazione di dissesto di un’impresa che aveva debiti insoluti per cifre molto superiori. Il prestito restituito non era personale ma un finanziamento in favore dell’impresa e, per finire, non si poteva parlare di bancarotta per dissipazione in caso di omesso versamento dei contributi. Per quanto riguarda le prime due eccezioni la Cassazione sottolinea che l’esiguità delle distrazioni, secondo la difesa tale da non incidere sul dissesto, è ininfluente ai fini del reato, dal momento che il fallimento costituisce una condizione obiettiva di punibilità. Per quanto riguarda la restituzione del prestito non c’era prova di un finanziamento in favore della ditta. Mentre è fondata la tesi secondo la quale il mancato versamento dei contributi non fa scattare la bancarotta per dissipazione. Gli omessi versamenti, infatti, pur potendo essere considerati come operazioni non coerenti con il legittimo esercizio dell’attività di impresa, non incidono direttamente sulla sua consistenza patrimoniale "viceversa esponendo quest’ultima all’eventuale insorgenza di un obbligo sanzionatorio nei confronti dell’erario". Sarebbe possibile parlare di bancarotta per distrazione, e comunque non per dissipazione, precisa la Cassazione, solo i soldi destinati al pagamento dei contributi fossero stati spesi per altri scopi. C’è concorso tra reati tributari e fallimentari di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2017 I reati di bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale possono concorrere rispettivamente con i delitti tributari di occultamento e sottrazione dei documenti contabili e di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. A confermare questo orientamento è la Corte di cassazione, sezione V penale, con la sentenza n. 35591 depositata ieri. Il legale rappresentante di una società veniva condannato per bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, frode fiscale, occultamento o distruzione di documenti contabili e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. L’imputato, avverso la decisione, confermata anche in appello, ricorreva in Cassazione, lamentando tra l’altro, l’errata applicazione del concorso tra i reati fallimentari e fiscali. I giudici di legittimità hanno innanzitutto escluso che il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (articolo 11 del Dlgs 74/2000) rimanga assorbito nel delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Dalla comparazione strutturale delle fattispecie emerge una diversità nella soggettività dell’illecito: il reato fallimentare può coinvolgere soltanto gli imprenditori falliti, mentre al delitto tributario sono interessati tutti i contribuenti (imprenditori e non). C’è poi anche una diversità dell’elemento psicologico atteso che per la bancarotta fraudolenta per distrazione, il dolo è generico, mentre nella sottrazione fraudolenta è specifico per il pagamento delle imposte. Nell’articolo 10 del Dlgs 74/2000 esiste una clausola di riserva "salvo che il fatto costituisca più grave reato" che, secondo la giurisprudenza consolidata, la maggiore o minore gravità dei reati concorrenti presuppone che entrambi siano posti a tutela dello stesso bene giuridico. Nella specie, però, la Cassazione ha ritenuto che le due norme tutelino beni giuridici differenti. La condotta del reato tributario è finalizzata a evadere le imposte e tutela l’Erario; mentre il delitto fallimentare protegge gli interessi dei creditori del fallito. I giudici di legittimità hanno così concluso che la norma fiscale è "speciale" rispetto a quella fallimentare in relazione all’oggetto materiale delle condotte e alla specie di lesione da esse procurata, nonché in relazione all’oggetto del dolo specifico. È però "generale" con riguardo ai soggetti destinatari dell’incriminazione, potendosi la stessa applicare all’imprenditore non fallito e persino al contribuente non imprenditore. In virtù di tali differenze, si verifica nelle due ipotesi esaminate una specialità reciproca tra gli illeciti, con la conseguenza che essi concorrono e non si assorbono. L’orientamento della Suprema corte lascia qualche perplessità perché come si evince dalla relazione illustrativa al Dlgs 74/2000, il legislatore aveva introdotto nell’articolo 10 e inizialmente anche nell’articolo 11 (successivamente soppresso con il Dl 78/2010) la locuzione "salvo il fatto non costituisce più grave reato" espressamente per evitare il concorso con i reati fallimentari. Nella relazione, infatti, è precisato che la clausola "vale ad escludere, in particolare, il concorso fra il delitto in esame e quello di bancarotta fraudolenta documentale, sancendo la prevalenza di quest’ultimo". Evidentemente il legislatore non aveva valutato, differentemente dalla Cassazione, la sussistenza di un’ipotesi di specialità bilaterale. Toscana: l’Università tra le sbarre, si rinnova l’esperienza Redattore Sociale, 20 luglio 2017 Un accordo di durata triennale promosso dalla Regione permetterà di proseguire l’esperienza che consente ai reclusi di studiare e laurearsi. Saccardi: "Attività incrementata in considerazione dei buoni risultati raggiunti". Studiare e laurearsi dietro le sbarre, mentre si sta scontando la pena prevista dalla legge. In Toscana questa possibilità per i detenuti esiste già dal 2000, e con gli anni ha assunto un’importanza sempre maggiore. Un accordo di durata triennale (2017-2018-2019) consentirà di proseguire la collaborazione tra Regione Toscana, le tre Università di Firenze, Pisa e Siena e il Prap (Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria). Lo schema di accordo per il Polo universitario penitenziario della Toscana, al quale quest’anno si è aggiunta anche l’Università per stranieri di Siena, è stato approvato dalla giunta, con una delibera presentata dall’assessore Stefania Saccardi, nel corso della seduta di lunedì scorso; per i tre anni, la Regione investe 119.800 euro, che serviranno a coprire le spese di segreteria regionale del Polo universitario penitenziario. "Abbiamo deciso di proseguire e incrementare questa attività - spiega l’assessore al diritto alla salute e al sociale Stefania Saccardi - in considerazione dei buoni risultati raggiunti finora, che dimostrano il valore di questi percorsi formativi, sia per l’affermazione del diritto allo studio che per il recupero dei detenuti. I detenuti che hanno partecipato alle attività del Polo universitario hanno avuto ricadute positive nel recupero psico-sociale, sia nel periodo di detenzione che una volta usciti dal carcere". L’esperienza dell’Università per i detenuti è partita a Firenze nel 2000, poi nel 2003 a Pisa e Siena. Nel 2010 le tre Università si sono consorziate, con il supporto della Regione. Col nuovo accordo, alle tre Università che storicamente partecipano alle attività del Polo, si aggiunge l’Università per stranieri di Siena, ampliando così ulteriormente le opportunità offerte ai detenuti. Quello toscano è attualmente l’unico Polo Universitario Penitenziario regionale in Italia: non ne esistono altri supportati dalla Regione. Ogni anno accademico partecipano alle attività del Polo circa 100 detenuti. Per garantire un effettivo diritto allo studio viene data la possibilità di accesso a qualsiasi corso di laurea. Le facoltà più gettonate sono scienze politiche, agraria, le facoltà umanistiche come lettere e filosofia; ma anche scienze motorie, economia, ingegneria; e c’è anche un iscritto a medicina, già laureato in farmacia. Lazio: consulenza notarile gratis per i detenuti, intesa tra Garante e Ainc affaritaliani.it, 20 luglio 2017 Firmato il protocollo che garantisce il servizio gratuito nelle carceri. È stato firmato a Roma il protocollo d’intesa tra il Garante Stefano Anastasia, Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e Associazione italiana notai cattolici. Un atto che garantisce un servizio gratuito di consulenza notarile, dedicato ai detenuti ospiti negli istituti penitenziari dal Lazio. I professionisti aderenti all’ Associazione italiana notai cattolici (Ainc) forniranno infatti consulenza gratuita ai detenuti meno abbienti o in stato di difficoltà, secondo le diverse modalità definite con le singole strutture. Gli istituti a loro volta si impegnano a trasmettere le richieste di consulenza direttamente al referente territoriale dell’associazione o al Garante, mettendo a disposizione tutta la documentazione utile. All’Ufficio del Garante spetta infine il compito di rilevare e comunicare all’associazione le richieste di consulenza e di monitorare lo stato di avanzamento dell’intesa. "La firma di questo protocollo - commenta il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio Stefano Anastasia - rappresenta un ulteriore passo in avanti nel percorso di riconoscimento e tutela dei diritti della popolazione detenuta. Dai colloqui che periodicamente il mio ufficio svolge all’interno delle strutture detentive della nostra regione, infatti, era emersa in più occasioni l’esigenza di avere anche questo tipo di supporto, in quanto i dirigenti dell’amministrazione penitenziaria possono effettuare solo certificazioni minori, che non coprono tutte le esigenze delle persone detenute. Da qui l’idea di promuovere una collaborazione finalizzata a offrire un servizio qualificato in ambito notarile anche a quei detenuti che si trovano in condizioni di difficoltà". Spoleto (Pg): trentenne si impicca in carcere, inutili i tentativi di rianimarlo perugiatoday.it, 20 luglio 2017 Tragedia nella notte tra sabato 14 e domenica 15 nel carcere di Spoleto per la morte di un giovane detenuto di 26 anni originario di Foligno. Gli agenti della Polizia penitenziaria lo hanno ritrovato impiccato all’interno della sua cella, a nulla sono valsi i soccorsi per salvarlo. In custodia cautelare dallo scorso maggio per furto aggravato, il detenuto aveva problemi di tossicodipendenza, ma era seguito dal Sert anche all’interno del carcere. Prima di compiere il gesto estremo non avrebbe lasciato alcun biglietto, né dato segni di squilibrio. Nonostante il tempestivo intervento del personale di polizia penitenziaria e del medico di turno che hanno tentato il tutto per tutto per salvarlo, per lui non c’è stato nulla da fare. "Gli agenti nel corso del tempo sono riusciti a salvare vari detenuti che avevano tentato il suicidio. Questa volta non ci sono riusciti, ma nulla toglie al costante impegno del personale per assicurare l’ordine e la sicurezza all’interno dell’istituto penitenziario e alla professionalità ineccepibile nell’affrontare le criticità che avvengono"- Spiega Fabrizio Bonino, Segretario nazionale Sappe dell’Umbria. Ma non è un caso isolato, nel giro di pochi giorni altri due detenuti si sono suicidati nelle carceri italiane. "È decisamente allarmante", commenta Donato Capece, segretario generale del Sappe. "Un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta dello Stato e dell’intera comunità. Questo nuovo drammatico suicidio evidenzia come i problemi permangono, sia quelli umani che quelli sociali, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria (che non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza". "Un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti, ma anche per l’intero istituto, ma non ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione" "Negli ultimi vent’anni le donne e gli uomini della polizia penitenziaria hanno sventato più di 2mila tentati suicidi e impedito 168mila atti di autolesionismo nelle carceri italiane, conclude il leader nazionale del primo Sindacato del Corpo. "Il dato oggettivo è che la situazione nelle carceri resta allarmante". Avellino: suicidio in carcere, aperta un’inchiesta di Alessandra Montalbetti Il Mattino, 20 luglio 2017 Il sostituto Fabio Del Mauro ha aperto un fascicolo a carico di ignoti, ipotizzando il reato di istigazione al suicidio. Sembrerebbe che l’uomo avesse tentato il gesto estremo già la scorsa settimana, almeno queste le indiscrezioni che trapelano l’indomani del rinvenimento del corpo ormai esanime del 42enne, che ha deciso di togliersi la vita un giorno prima che fosse emessa la sentenza di primo grado nel procedimento penale a suo carico. Pare che il 42enne di Montoro si trovasse in una condizione psicologica particolarmente fragile, possibile motivo del gesto estremo compiuto la notte tra lunedì e martedì. Per compiere il gesto, il detenuto avrebbe utilizzato delle lenzuola, legandole alle inferriate della finestra del bagno della casa circondariale di Bellizzi Irpino trovando così la morte. Intanto nel pomeriggio di ieri, il medico legale Carmen Sementa, incaricato dagli uffici della procura di Piazzale De Marsico, presso l’obitorio dell’ospedale "San Giuseppe Moscati" ha provveduto ad eseguire l’esame autoptico sul corpo del 42enne, con un passato di tossicodipendenza. Le conclusioni dell’accertamento saranno rese note non prima di 60 giorni. Intanto nei prossimi giorni verrà celebrato il rito funebre dopo la consegna della salma ai familiari. Il 42enne, originario di Montoro, era finito in carcere con l’accusa di maltrattamenti in famiglia dopo che la sua compagna, con la quale aveva avuto tre figli, rappresentata dall’avvocato Rosaria Vietri, aveva presentato denuncia ai carabinieri. Sul suicidio anche la direzione della casa circondariale di Bellizzi Irpino, dove l’uomo era detenuto da pochi mesi, ha aperto un’inchiesta per far chiarezza su quanto accaduto nella cella del 42enne. Intanto ieri mattina, presso il tribunale di Avellino era attesa la sentenza di primo grado. La difesa dell’uomo era stata affidata all’avvocato Nello Pizza. Sul drammatico gesto attuato dall’uomo interviene la Cgil Funzione Pubblica con il segretario Marco D’Acunto. "Crediamo - scrive D’Acunto - sia giunto il tempo per intervenire seriamente in un ambiente davvero delicato come un istituto detentivo. Non è più immaginabile gestire tale servizio senza investimento statale e con personale ormai stanco e sottorganico, costretto a lavorare in strutture insicure. L’amministrazione penitenziaria non può essere abbandonata a sè stessa. Anche quest’anno, dopo svariate riunioni sindacali, l’amministrazione è riuscita ad assicurare il previsto periodo di ferie estivo al personale penitenziario, riducendo al minimo garantito i turni di guardia e prevedendo doppi turni per chi resta al lavoro e con il mancato rispetto della norma sui riposi obbligatori. Gli agenti sono costretti a mangiare un panino perché il direttore non ha ritenuto avviare la procedura per l’acquisto dei buoni pasto sostitutivi come previsto dalla norma. Tra qualche giorno si vedranno sospendere il servizio idrico come ormai accade da qualche anno nelle notti d’estate". Ferrara: impiccato in carcere. Macario (Arcigay ) "lo hanno visto picchiare" estense.com, 20 luglio 2017 La presidente di Arcigay si chiede perché non sia stato chiamato personale sanitario. "Quando una persona è in evidente stato di agitazione e le forze dell’ordine intervengono è loro dovere far intervenire il 118 per sedare la persona ed eventualmente procedere con un Tso. Perché questo non è avvenuto? Perché è stato portato in questura e poi in carcere? Perché alcuni presenti raccontano di aver visto la polizia picchiare il ragazzo e fare anche il segno della vittoria portandolo via? Ancora una volta nessuno è disposto a testimoniare. Ancora una volta una città omertosa. Vorrei che questa vicenda non venisse archiviata così facilmente e vorrei che chi ha visto trovasse il coraggio di raccontare". A parlare, anzi a scrivere sul proprio profilo Facebook, è Manuela Macario, presidente di Arcigay Ferrara. La Macario fa riferimento alla tragedia occorsa a Roman Horoberts, il trentenne di nazionalità ucraina, residente a Occhiobello che lunedì mattina si è impiccato in cella con i jeans. Horoberts, che proprio lunedì doveva affrontare la convalida dell’arresto e il processo per direttissima per resistenza e oltraggio a pubblico Ufficiale e per minacce aggravate, era stato arrestato dalla Polizia domenica mattina. Quel giorno il trentenne si era recato nella palestra McFit, in via Reggiani, di fianco al Bricoman. "Non l’avevo mai visto prima", afferma la responsabile della palestra, Giulia Pellizzari. "Era in prova" (prima di fare un abbonamento la struttura offre qualche giorno di prova ai propri tesserati), aggiunge prima di chiudersi dietro un deciso no comment. Horoberts, secondo la ricostruzione della questura, stava prendendo un caffè alla macchinetta e all’improvviso si è scottato con la bevanda. A quel punto è andato in escandescenze, iniziando a prendere a calci e pugni il distributore di bevande. È arrivata quindi la responsabile per chiedergli di smettere e lui l’avrebbe minacciata pesantemente, A quel punto la donna ha chiamato la Polizia. Anche di fronte agli agenti, che hanno invitato invano il giovane a uscire, il trentenne avrebbe continuato in atteggiamenti provocatori e offese, costringendo i poliziotti a bloccarlo ed accompagnarlo in questura. Anche qui avrebbe continuato in un atteggiamento violento e alla fine è stato dichiarato in arresto e, su disposizione del pm di turno, portato all’Arginone. Qui, la mattina successiva, in cella con un altro detenuto che non si è accorto di nulla, si è tolto la vita. Dalla procura il procuratore reggente Ombretta Volta fa sapere che "tutti gli accertamenti sono in corso e che l’autopsia è già stata disposta". Il fascicolo è stato affidato al pm Giuseppe Tittaferrante. Altro particolare emerso: sembrerebbe che il giovane avesse già tentato una prima volta in passato di togliersi la vita. Manuela Macario però si chiede perché non sia stato chiamato il personale sanitario "per sedarlo e portarlo magari in ospedale". La presidente di Arcigay, che per lavoro ha spesso a che fare con persone in difficoltà anche psichica, sostiene che "ci sono diverse persone che hanno visto la Polizia picchiare questa persona". Lei però parla per sentito dire, voci che arriverebbero "da persone di fiducia che però per motivi seri non vogliono esporsi, ma che se verranno chiamati dagli inquirenti sono pronti a dire cosa hanno visto". "Lì c’erano tanti clienti - aggiunge; perché nessuno alza il dito e racconta cosa ha visto? Se fossi stata un testimone oculare sarei già andata dai carabinieri. Intanto, per non far cadere tutto nel silenzio, ho scritto quel post su Facebook per denunciare il fatto che spesso si preferisce il metodo della repressione piuttosto che un percorso di sostegno. Quello di cui sono certa è che se l’avessero portato in un reparto di psichiatria a Cona anziché in cella non sarebbe morto". Va detto che al momento le camere di sicurezza della questura non sono agibili e ii carcere è dotato sia dei servizi di assistenza medica che psichiatrica. "Eppure qualcosa non ha funzionato - ribatte la Macario - se la mattina è riuscito a impiccarsi con i suoi pantaloni". Parma: il Garante accompagna detenuto in permesso, potrà uscire e incontrare i familiari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 luglio 2017 Un detenuto recluso in Alta sorveglianza nel carcere di Parma, dopo aver espiato gran parte della pena, avrà la possibilità di usufruire un permesso premio che gli permetterà di uscire per sei ore, accompagnato dal garante dei detenuti del comune di Parma Roberto Cavalieri. Ancora una volta, il garante locale si fa parte attiva del percorso trattamentale dei detenuti. Non accade spesso, soprattutto quando la figura dei garanti locali e regionali - in alcuni casi - si limita di solito a fare relazioni annuali. Il detenuto in questione si chiama Lombardo Alfio, ristretto 1996 e condannato a 30 di carcere per il reato di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti e produzione, detenzione e spaccio. Un reato ostativo nel quale è vietato ogni beneficio della pena. Ma grazie all’istanza presentata dall’avvocato difensore Federica Folli del Foro di Parma, il magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia ha concesso un permesso premio di 6 ore da usufruire sul territorio del Comune di Parma, anche al fine di incontrare i propri familiari, in data e in orario diurno da concordare con la direzione dell’Istituto penitenziario e con l’accompagnamento del garante dei detenuti Cavalieri, dall’uscita del carcere fino al rientro. Come spiega il magistrato nell’ordinanza, ciò è possibile perché il detenuto ha interamente espiato la pena relativa al reato ostativo di prima fascia (art. 74). Inoltre, sempre secondo il tribunale di sorveglianza, il detenuto oramai non risulta più collegato con la criminalità organizzata. Altro elemento che ha portato ad accogliere l’istanza presentata dall’avvocato Folli, è la condotta del detenuto che è risultata sempre corretta, partecipativa e caratterizzata da collaborazione con gli operatori del penitenziario, "tant’è - scrive il magistrato - che nell’ultimo programma trattamentale individuale approvato, è prevista la fruizione di permessi premio e, in relazione all’istanza in esame, è stato dato parere favorevole all’accoglimento". Ruolo fondamentale, ancora una volta, è quello del garante Cavaliere che ha dato la sua disponibilità per accompagnare il detenuto a fine di supporto e orientamento visto il lunghissimo periodo di detenzione sofferto da recluso. Il permesso premio è divenuto parte integrante e fondamentale del trattamento penitenziario: viene ad essere il primo importante collegamento con il mondo esterno e il possibile inizio di un percorso extra murario che può risolversi nell’applicazione di misure alternative alla pena e preparare l’eventuale reinserimento sociale. Il permesso premio come previsto dall’art. 30ter dell’Ordinamento penitenziario può essere concesso soltanto ai "condannati", cioè coloro che sono detenuti in espiazione di pena conseguente a sentenza di condanna passata in giudicato: si tratta dei detenuti cosiddetti "definitivi", che nell’esperienza comune sono contrapposti ai detenuti cosiddetti "giudicabili", ossia gli imputati in custodia cautelare. Sono inoltre esclusi dal beneficio dei permessi premio gli affidati al servizio sociale, i liberi controllati e i condannati in detenzione domiciliare. I permessi premio possono essere concessi ai condannati all’ergastolo, dopo almeno dieci anni. Una norma che rientra nel quadro dei benefici e misure alternative, perché la pena non è, o non dovrebbe essere, fatta di solo carcere. Cagliari: una parruccherìa per le detenute di Uta, il diritto alla bellezza anche in carcere sardiniapost.it , 20 luglio 2017 Una parruccherìa con lavatesta, specchi, pettini, spazzole, piastre e phon nonché shampoo, balsamo e lacca sarà inaugurata giovedì 20 luglio in occasione del quinto appuntamento con "Benessere, dentro e fuori", l’iniziativa che l’associazione Socialismo Diritti Riforme (Sdr) e il Centro Estetico "Dalle ceneri della Fenice" dedicano alle detenute della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. Organizzato con la collaborazione dell’Area Educativa dell’Istituto, il progetto è finalizzato alla valorizzazione dell’immagine femminile e all’attivazione di strategie per favorire la convivenza nella sezione destinata alle donne all’interno del Villaggio Penitenziario. In occasione dell’appuntamento oltre a Maria Franca Marceddu, medico estetico, saranno presenti Elisabetta Atzeni, socia onoraria Sdr che con una donazione ha permesso di acquistare l’attrezzatura, e le parrucchiere Monica Frau e Francesca Piccioni che offriranno gratuitamente taglio e piega alle detenute. Nel corso della mattinata sono previsti gli interventi dell’assessora regionale del Lavoro, Virginia Mura, e delle Pari Opportunità del Comune di Cagliari, Marzia Cilloccu. "Con l’arrivo dell’estate - afferma Maria Grazia Caligaris, presidente di Sdr - la vita dentro le strutture detentive diventa più pesante e noiosa. Le giornate trascorrono lente e talvolta le tensioni si moltiplicano. Disporre di uno spazio attrezzato come la parruccherìa può offrire un’occasione ulteriore di socialità e l’opportunità di promuovere un corso di formazione che possa aprire un futuro professionale a qualche donna privata della libertà. La donazione e la generosità di saloni di parrucchiere e di cosmesi ci hanno consentito di dare vita all’iniziativa". Radio Carcere. Gli ultimi due suicidi avvenuti nelle carceri di Ferrara e Avellino Ristretti Orizzonti, 20 luglio 2017 Gli ultimi due suicidi avvenuti nelle carceri di Ferrara e Avellino. La mobilitazione non violenta promossa dal Partito Radicale per il 16 agosto affinché il Governo approvi i decreti attuativi della legge delega sull’Ordinamento Penitenziario. Le futili polemiche nate dalla richiesta di rimozione del capo del Dap Santi Consolo. L’iniziativa politica di Marco Cappato e la richiesta di imputazione coatta per la morte di Dj Fabo. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/515151/radio-carcere-gli-ultimi-due-suicidi-avvenuti-nelle-carceri-di-ferrara-e-avellino-la Migranti. I costi e i benefici per l’Italia della politica di accoglienza di Roberto Sommella Corriere della Sera, 20 luglio 2017 L’Ue può attrezzarsi per fronteggiare l’emergenza profughi ma non può pensare che il nostro Paese diventi una gigantesca Calais europea. Che il nostro paese sia fondamentale per le operazioni di salvataggio dei migranti, lo dicono gli stessi numeri forniti dalla Commissione Europea. Nel 2016 le navi delle Ong che operano nel Mediterraneo Centrale hanno effettuato il 22% di tutti i salvataggi avvenuti nell’area. Ma chi si sporca di più le mani sono appunto la Marina Italiana e la Polizia di Frontiera (26%) e la Guardia Costiera italiana (20%), che insieme hanno condotto poco meno della metà dei salvataggi. I soccorsi da parte dei mercantili sono calati all’8% del totale, mentre le operazioni Ue Triton e Sophia hanno contato per il 25%. Inutile dire cosa accadrebbe se l’Italia interrompesse queste operazioni e chiudesse i porti. C’è qualcuno che può sostituirci? Evidentemente no. Come è chiaro che, comunque vada a finire la ripartizione dei richiedenti asilo in Europa, occorre analizzare i pro e i contro dell’immigrazione, nel tentativo di permettere a tutti di farsi un’idea sui costi, immediati, e i benefici, a lungo termine, dell’integrazione. Partiamo dai numeri, che sono quelli che contano di più per l’opinione pubblica. Tra il 2000 e il 2010, raccontano le statistiche delle Nazioni Unite, in Europa sono arrivati in media 1.200.000 immigrati su un totale di 500 milioni di abitanti dell’Unione. Fa poco più dello 0,2% della popolazione complessiva. C’è stato un picco, nel 2015, quando ne arrivarono circa un milione solo in Germania, come periodi di stasi durante la crisi dell’euro. Non si tratta di un’invasione. A patto che tutti facciano però la loro parte, a cominciare dai paesi dell’est Europa, per finire con la Francia, inflessibile nel rispedire a Ventimiglia decine di migranti perché non sono rifugiati. Sono molte le incongruenze. Pensate che a Cona, minuscolo centro del veneziano di 190 anime sono ospitati 1.500 rifugiati, il triplo di quelli accolti in Estonia, presidente di turno dell’Unione, che peraltro per le proporzioni è un paese tra i più solidali. Ma l’Italia non è l’Estonia. Secondo i dati Unhcr, lo scorso anno nel nostro paese Italia sono giunte oltre 180 mila persone: tutti concordano che quest’anno si batterà il non invidiabile record. E in 5.022 hanno invece perso la vita nel Mediterraneo. Il nodo vero è quello delle richieste d’asilo, perché sono gli estensori sono tutti da noi, in virtù delle regole di Dublino. Su 160.000 richiedenti, presenti in Italia e in Grecia, solo l’11% è stato ricollocato nell’Ue a fine aprile 2017 ai sensi del piano del Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker. E sono solo quattro (quattro) i migranti minori non accompagnati ricollocati, a fine maggio del 2017, nei paesi europei. Gli orfani poi sono un dramma nel dramma. Tra gennaio 2011 e dicembre 2016 sono sbarcati in Italia 62.672 minori abbandonati a sè stessi, provenienti principalmente da Eritrea, Egitto, Gambia, Somalia, Nigeria e Siria. Il loro numero è però cresciuto di sei volte tra il 2011 (4.209) e il 2016 (25.846); secondo Save The Children, ormai un migrante su sei è minorenne e spesso "diventa" invisibile perché si riaffida ai trafficanti, cercando di arrivare al Nord. In questo buco nero, tra il 2011 e il 2016, è finita la maggioranza dei 22.586 minori soli sbarcati in Italia. Anche i costi dell’accoglienza sono impressionanti. Secondo le cifre del ministero dell’Economia del 2016 l’Italia ha speso tre miliardi e 300 milioni di euro, di cui 3 miliardi di parte corrente. Queste cifre sono chiaramente destinate a salire per l’anno in corso. Ma sul piatto della bilancia va messo anche l’apporto che gli stranieri forniscono all’economia. I contributi Inps versati dai lavoratori stranieri nelle casse dell’Istituto di previdenza sono pari a circa 8 miliardi di euro. L’Inps, sempre secondo gli ultimi dati disponibili del Tesoro, ha un attivo da questi contributi di 4,5 miliardi di euro a fronte delle pensioni erogate sempre in favore dei lavoratori non italiani. Importante anche la parte fiscale. L’imponibile totale generato dai redditi dei lavoratori stranieri in Italia è di 45,6 miliardi di euro (dati del Tesoro del 2015) che ha generato 6,6 miliardi di euro di Irpef pagata. L’Unione Europea rappresenta il 7% della popolazione mondiale, produce il 25% del Pil globale e offre il 50% del welfare planetario. L’Europa è quindi miglior posto dove vivere: può attrezzarsi per fronteggiare questa emergenza ma non può pensare che l’Italia diventi una gigantesca Calais europea o peggio una Ellis Island dove si resta all’infinito. Migranti. "Aiutiamoli a casa loro è uno slogan o un’urgenza assoluta"? di Paolo Dieci* La Repubblica, 20 luglio 2017 Di fronte al flusso crescente di immigrati, si è diffuso il pensiero che sarebbe giusto e utile "aiutarli a casa loro". C’è chi lo sostiene a fini politici e chi in modo strumentale e xenofobo per cercare facili consensi, chi per senso solidaristico e di umanità. Quanto segue riprende alcune riflessioni delle Ong della rete "Link 2007". Uno sguardo alle contraddizioni mondiali, ad alcuni fattori che provocano le migrazioni, ai dati che parlano da soli e alla realtà italiana ed europea per cercare di dare un significato accettabile e comprensibile alla proposta di "aiutarli a casa loro", attenti al negoziato sul Migration Compact delle Nazioni Unite che nel 2018 indicherà percorsi comuni. Slogan con differenti significati. Di fronte al crescente flusso di immigrati, da tempo si è diffuso il pensiero che sarebbe giusto e utile "aiutarli a casa loro". C’è chi lo sostiene a fini politici, anche per togliersi dall’imbarazzo di non saper dare altre risposte e per scrollarsi di dosso le responsabilità, chi in modo strumentale e xenofobo per cercare facili consensi, chi per senso solidaristico e di umanità, auspicando che possa essere assicurata a tutti una vita dignitosa senza dovere emigrare. Quanto segue riprende alcune riflessioni delle Ong della rete ‘LINK 2007’ (sintetizzate nel documento Migrazioni e cooperazione internazionale per lo sviluppo, 2014) che da anni stanno approfondendo il tema per tradurlo in priorità di azione. Nel 2009, dopo la seconda conferenza nazionale sull’immigrazione, una delle Ong delle rete prese l’iniziativa di scrivere una lettera all’allora segretario federale della Lega Nord, Umberto Bossi, invitandolo a prendere sul serio, con coerenti provvedimenti, la proposta da lui lanciata di "aiutarli a casa loro". La lettera non ha mai avuto risposta né si è mai visto alcun atto che trasformasse la propaganda leghista, seguita presto da altri partiti, in una coerente ed efficace proposta attuativa. Di slogan si trattava allora e di slogan continua sostanzialmente a trattarsi. Vivere e prosperare a casa propria. Si tratta comunque di una proposta che, tolte le connotazioni di strumentalizzazione politica e di velata xenofobia che talvolta l’accompagnano, corrisponde al basilare principio che ogni persona dovrebbe poter vivere e prosperare a casa propria, senza essere costretta a cercare altrove la garanzia della sopravvivenza per sé e la propria famiglia in assenza di alternative all’estrema povertà. Occorre però approfondire la questione, per capirla nelle sue dimensioni reali e per individuare quali scelte politiche occorra adottare e quali decisioni e modalità devono accompagnarle. Migrazioni Sud-Nord e Sud-Sud. Nel mondo vi sono 244 milioni di migranti (2015), pari a circa il 3% della popolazione mondiale. I paesi del cosiddetto Nord hanno accolto negli anni circa la metà di tutti i migranti. Le migrazioni Sud-Nord si sono sviluppate particolarmente verso i paesi politicamente o economicamente ‘coloniali’ o alla ricerca di protezione in fuga da guerre, persecuzioni, siccità, disastri naturali o anche per tentare la fortuna ovunque possibile, nella speranza di migliorare la propria condizione, attratte anche dai bisogni di manodopera di economie in crescita. Esse sono diminuite negli ultimi anni a causa della crisi, parallelamente ad una progressione di quelle Sud-Sud. Queste ultime sono ormai maggioritarie e, per quanto riguarda i rifugiati, 9 su 10 sono accolti nei paesi del cosiddetto Sud del mondo. Mobilità internazionale. Con la globalizzazione si è ampliata la mobilità internazionale delle persone, come ovvia conseguenza dell’istruzione, delle conoscenze e della mobilità globale delle merci, dell’economia e della finanza. È favorita dal desiderio delle nuove generazioni di muoversi, aprirsi al mondo, conoscere altre realtà, vivere esperienze nuove, cercare nuove opportunità per sé e i famigliari, dare nuovo senso al lavoro e alla vita. Nell’insieme si tratta di cambiamenti epocali, a cui non siamo preparati e su cui la politica continua a rimanere cieca o superficiale, in particolare in Italia dove gli slogan abbondano senza mai definire politiche migratorie e di sviluppo lungimiranti e complessive, limitandosi ad affrontare come emergenze fenomeni da tempo strutturali. Gravi e crescenti disuguaglianze. Il mondo contemporaneo è caratterizzato da estreme e crescenti disuguaglianze, che si manifestano, con sempre maggiore ampiezza, tra paesi ricchi e paesi poveri e all’interno di entrambi. È vero che ci sono stati significativi miglioramenti sulla salute, l’istruzione, lo sviluppo economico ma è la forbice delle disparità tra ricchi e poveri che cresce ovunque, anche nei paesi industrializzati, con pochi ricchi sempre più ricchi e con classi medie che si stanno impoverendo avvicinandosi agli strati delle società che già vivono esclusioni sociali e gravi vulnerabilità. Più di un terzo della popolazione mondiale, almeno 2,5 miliardi di persone, vivono tra la povertà e la miseria, mentre l’1% più ricco dell’umanità possiede più ricchezza del restante 99% in condizioni che perpetuano e aggravano tale rivoltante disuguaglianza. Domina un capitalismo ipertrofico, clientelare, chiuso nei propri privilegi, distruttivo, insensibile alle esigenze di giustizia, venditore di falsi bisogni in contrasto con le esigenze di una economia umana indirizzata all’interesse collettivo. Fuga da guerre, persecuzioni, siccità. Le calamità causate dai cambiamenti climatici, siccità e inondazioni in particolare, stanno colpendo circa 350 milioni di persone costrette spesso all’abbandono definitivo delle proprie terre (più di 20 milioni, con una previsione al 2050 di 200-250 milioni). Altre 60 milioni di persone, spesso interi nuclei familiari, sono in fuga da guerre, repressioni, persecuzioni, alla ricerca di protezione all’interno del proprio paese (36,6 milioni) o altrove (17,2 milioni i rifugiati, 2,8 milioni i richiedenti asilo e altri non ancora registrati). Il 2% del PIL mondiale per uscire dalla povertà. Sono solo alcuni dati, che quantificano situazioni di forte squilibrio che spingono all’emigrazione e che, al tempo stesso ci interrogano. Sono infatti situazioni che dimostrano disuguaglianze e vulnerabilità strutturali che possono diventare esplosive anche perché sarebbe possibile adottare politiche e iniziative in grado di ridurle, sia rafforzando la prevenzione, il dialogo politico, il multilateralismo, sia modificando i sistemi che regolano l’economia e la finanza globale, sia intervenendo sulle povertà più estreme. Secondo l’Undp basterebbe il 2% del PIL mondiale, circa 1500 miliardi di euro, per assicurare una protezione sociale di base ai poveri del mondo intero. Il fattore demografico. L’invecchiamento della popolazione e il calo demografico in Europa produrranno in tre decenni una carenza di alcune decine di milioni di persone (lavoratori, produttori e contribuenti fiscali e previdenziali). Nello stesso periodo il resto del mondo continuerà a crescere, passando dai 7,5 miliardi ai 9,8 nel 2050. La sola popolazione dell’Africa raddoppierà gli attuali 1,2 miliardi di persone. La Nigeria sarà il terzo paese più popoloso al mondo con 440 milioni, superando gli Stati Uniti (ora 320 milioni). Africani saranno i dieci più giovani Stati del mondo, con età media intorno ai 20 anni (contro i 43 UE), determinando nel continente un bacino di circa 700 milioni di persone in età lavorativa tra i 14 e i 65 anni, in paesi in cui permangono gravi disuguaglianze e ampie sacche di povertà in cui si vive con poco più di 1 euro al giorno. L’Africa deve quindi offrire nuove opportunità di lavoro in modo diffuso. Se non riuscisse, la migrazione di decine, forse centinaia di milioni di persone verso le grandi città o verso paesi africani economicamente più forti o verso altri continenti, a partire dalla vicina Europa, sarà inevitabile. I molteplici fattori dell’emigrazione. I dati ci mostrano che nei paesi di immigrazione le comunità provenienti dalle zone più povere del mondo sono sottorappresentate. Anche in Italia, le più ampie presenze (2015) provengono da Romania (1,15 milioni), Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine, India, Moldavia, Bangladesh, Egitto, Perù, Sri Lanka, Pakistan (tra 400 e 100 mila, a scalare), mentre dai paesi più poveri le provenienze sono molto limitate. Poche miglia infatti i cittadini del Sudan, Sud Sudan, Repubblica centrafricana, Congo, Ciad, Niger, Guinea. Mali, Burkina Faso, nonostante le condizioni nettamente peggiori rispetto ai primi. Per emigrare alcune condizioni sono normalmente necessarie ed in particolare: essere consapevoli di volerlo e poterlo fare ed avere l’intraprendenza e i mezzi necessari per riuscirci. Emigra chi può permetterselo, in termini economici ma anche di maggiori conoscenze, salute e istruzione o di legami con persone che già l’hanno preceduto. Ad emigrare non sono principalmente, quindi, le popolazioni delle aree di ‘povertà assolutà, bensì quelle dei paesi a medio tasso di sviluppo e a ‘povertà relativà rispetto ai paesi industrializzati. I dati relativi all’Ue e ai paesi Ocse riproducono lo stesso schema. Anche le gravi crisi umanitarie quali siccità, carestie, inondazioni, provocano sfollamenti soprattutto all’interno dello stesso paese o, transitoriamente, nei paesi limitrofi, lasciando a minoranze più predisposte e intraprendenti la scelta migratoria più radicale. Migrazioni e Cooperazione allo sviluppo. Paradossalmente, nel caso in cui la cooperazione raggiungesse i propri obiettivi contribuendo a creare sviluppo nei paesi più poveri, è molto probabile una parallela crescita dell’emigrazione, almeno nel breve-medio periodo. L’uscita dall’estrema povertà e l’acquisizione di maggiore benessere economico e culturale favoriscono, infatti, le condizioni per potere immaginare, desiderare e realizzare l’emigrazione. Questo risultato evidenzia ancora una volta la complessità del rapporto tra gestione delle migrazioni internazionali e politiche di cooperazione allo sviluppo. Se dall’analisi dell’impatto della povertà sulle migrazioni si passa a verificare gli effetti benefici dell’emigrazione sulla povertà, la Banca Mondiale stima che un aumento del 10% nell’ampiezza della diaspora nei paesi di accoglienza determina un calo dell’1,9% nel numero di persone che vivono con meno di 1,5 dollari al giorno, per effetto dell’attenuazione del peso sociale ed economico della disoccupazione, che trova sbocchi nell’emigrazione, e dei flussi di rimesse finanziarie degli immigrati verso i propri paesi di provenienza, circa 500 miliardi di dollari, più del doppio di tutti gli stanziamenti per la cooperazione allo sviluppo (Ocse-Dac). Dall’Italia, 5 miliardi, dieci volte più delle risorse bilaterali per la cooperazione. Un dato impressionante e non adeguatamente valorizzato. Una relazione complessa. Le migrazioni possono avere anche ricadute negative sui processi di sviluppo, in particolare a causa del brain drain, "perdita dei cervelli", cioè dell’emigrazione di capacità e professionalità che sarebbero indispensabili per lo sviluppo. Paesi come il Ghana hanno perso il 60% dei medici formati nei decenni scorsi, con evidenti ricadute sulla qualità e sostenibilità del proprio sistema sanitario. O come la Somalia e l’Eritrea che, a causa dei conflitti interni o dell’oppressione, hanno visto fuggire medici, docenti, professionisti, amministratori pubblici. Ma si può trattare anche di "perdita di braccia" dovute all’abbandono delle campagne, dell’agricoltura, della cura dei suoli con conseguenti dannosi impatti ambientali. Nei paesi in conflitto, poi, le rimesse possono essere talvolta legate al rischio di esacerbare e prolungare gli scontri nelle aree d’origine sostenendo finanziariamente l’una o l’altra fazione; ma possono anche rappresentare un reale sostegno umanitario alle persone rimaste intrappolate senza potere trovare vie di fuga. Il rapporto tra povertà, migrazioni e cooperazione allo sviluppo è estremamente complesso e richiede valutazioni specifiche caso per caso. La complessità non va banalizzata. Quindi, pensare di poter applicare paradigmi semplicistici ("aiutarli a casa loro", per l’appunto) indirizzando la cooperazione allo sviluppo al contenimento dei flussi migratori, oltre ad essere inefficace, rischia di sviare l’attenzione che richiede invece approfondite analisi e strategie di sviluppo impegnative, coordinate a livello europeo e internazionale, sostenibili, con partenariati efficaci, di lunga durata e ad interesse e vantaggio reciproci, puntando su leadership credibili e stabili, coinvolgendo le comunità, combattendo ogni forma di corruzione, creando occupazione diffusa e dignitosa. Le risorse da impegnare dovranno essere ingenti. Per essere tali e per non correre il rischio della dispersione, dovranno rappresentare un vero e proprio investimento per il futuro dell’Africa e dell’Europa. Non solo ‘aiuto’ allo sviluppo ma cooperazione (così come la legge 125/2014 ha giustamente definito). Per un tale investimento saranno indispensabili forti partenariati, ampi e non limitati alle sole élite, attente valutazioni, definite programmazioni, severità nella gestione, trasparenza e verifiche, partecipazione dei territori e delle comunità, coerenza delle politiche in ambedue i continenti. La Cooperazione internazionale al centro. Aiuti e cooperazione allo sviluppo, quindi, in un più ampio quadro di cooperazione politica, economica, culturale, di sicurezza, associando la dimensione bilaterale e quella comunitaria; apertura dei mercati e trattati commerciali basati su rapporti equi, politicamente coerenti e reciprocamente vantaggiosi; infrastrutturazione sociale ed economica; integrazioni regionali. Occorre cioè decidere, senza ulteriori ritardi, di mettere la cooperazione internazionale al centro delle politiche dei prossimi decenni, a partire dalla cooperazione allo sviluppo, dandole dignità politica, dotandola di risorse e strutture funzionali ed operative, indirizzandola politicamente con visioni globali e di ampio respiro e un’azione coordinata dell’Europa. Una svolta politica a 180 gradi, ma necessaria. Sperando anche che il negoziato all’Onu per un Migration Compact globale porti all’assunzione di linee di azione e impegni condivisi da parte di tutti. *Presidente di Link 2007 Arabia Saudita. Tra esecuzioni, torture e arresti arbitrari di Michele Giorgio Il Manifesto, 20 luglio 2017 Si moltiplicano gli attacchi alla minoranza sciita e proseguono spedite le condanne a morte. Amnesty denuncia: torture usate per estorcere confessioni. In Arabia saudita sono presi di mira in particolare gli intellettuali, le attiviste dei diritti delle donne, i commentatori online, gli esponenti della minoranza sciita e i difensori dei diritti umani. Resta vietata l’esistenza di partiti, sindacati e associazioni a tutela dei diritti umani: nei mesi passati sono stati vari i casi di lavoratori arrestati per aver chiesto migliori condizioni di lavoro. I prigionieri politici sarebbero almeno 10mila ma sono definiti dalle autorità "terroristi". La polizia compie ogni anno centinaia di arresti arbitrari e Amnesty International denuncia l’uso sistematico della tortura per estorcere confessioni ai detenuti e l’imposizione di pene violente e umilianti. Come nel caso del poeta e artista palestinese Ashraf Fayadh condannato per "apostasia" a 800 frustate oltre a otto anni di carcere. Decine di condanne a morte sono state eseguite anche quest’anno; più di 150 persone erano state giustiziate nel 2016 e 158 condanne a morte erano state eseguite nel 2015. Si moltiplicano anche le intimidazioni e gli attacchi contro la minoranza sciita, di pari passo con la linea anti-iraniana di Riyadh. Camerun. Crimini di guerra e torture sistematiche con la scusa della lotta al terrorismo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 luglio 2017 In un rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha accusato le autorità del Camerun di crimini di guerra nella lotta contro il gruppo armato islamico Boko Haram. Dalle sue basi nel nord-est della Nigeria, a partire dal 2013 Boko Haram ha esteso la sua campagna mortale di attentati, rapimenti e uccisioni nei paesi confinanti e in particolare in Camerun, dove da allora ha ucciso almeno 1500 civili. La risposta del governo del Camerun è stata estrema: negli ultimi quattro anni centinaia di persone, sospettate di terrorismo spesso in assenza della minima prova, sono state torturate selvaggiamente in almeno 20 centri di detenzione, la metà dei quali non ufficiali e gestiti dai servizi segreti e dall’esercito. L’elenco dei luoghi di tortura comprende anche una scuola e una residenza privata. Il rapporto di Amnesty International, frutto della raccolta di oltre 100 testimonianze corroborate da fotografie, video e immagini satellitari, contiene un raccapricciante compendio di 24 metodi di tortura, tra cui "la capra" e "l’altalena", tecniche simili in cui il detenuto viene bloccato o appeso con gli arti legati e poi picchiato. La maggior parte delle torture ha avuto luogo in due centri di detenzione non riconosciuti ufficialmente: il quartier generale del Battaglione d’intervento rapido di Salak, nei pressi di Maroua, e una struttura diretta dalla Direzione generale delle ricerche esterne (i servizi segreti) situato nella capitale Yaoundé, ironicamente a due passi dal parlamento. Grazie agli specialisti del centro di ricerca Architettura forense, che già avevano collaborato con Amnesty International nella ricostruzione in 3D della prigione militare siriana di Saydnaya, è stato possibile avere un quadro chiaro del centro di detenzione di Salak e di una scuola di Fotolok riconvertita in base militare nel 2014. Dal 2016 gli alunni sono tornati nelle classi, ma la struttura ha continuato a fungere da base militare, luogo d’interrogatori e tortura, con enormi rischi per gli alunni trattandosi di un potenziale obiettivo militare. Particolare estremamente preoccupante, il rapporto sottolinea la presenza a Salak di personale militare statunitense e francese. I francesi, Amnesty International li aveva visti coi suoi occhi nel 2015 durante una visita nel paese mentre degli statunitensi - oltre a una serie di fotografie e a un video postati sulla pagina Facebook di un contractor Usa - hanno parlato oltre 10 ex detenuti. Un mese fa, Amnesty International ha scritto alle ambasciate di Francia e Usa in Camerun chiedendo conto della presenza di loro personale nel centro di detenzione di Salak e paventando la possibile complicità in detenzioni illegali e torture. La risposta dell’ambasciata statunitense è nel rapporto. Quella francese, per il momento, non è ancora arrivata. Marocco. 23 sahrawi condannati senza tener conto delle denunce di tortura amnesty.iy, 20 luglio 2017 Il 19 luglio la Corte d’appello di Rabat ha condannato 23 attivisti sahrawi a pene da due anni all’ergastolo in relazione agli scontri seguiti al violento smantellamento di un campo di protesta a Gdim Izik, nel Sahara occidentale, nel 2010. In quell’occasione erano stati uccisi 11 membri delle forze di sicurezza marocchine e due manifestanti sahrawi. Un primo processo in corte marziale, gravemente irregolare, si era chiuso nel 2013 con condanne simili. Nel luglio 2016 la Corte di cassazione aveva annullato il verdetto, non avendo riscontrato prove certe che collegassero gli imputati agli episodi di violenza loro ascritti. La Corte di Cassazione aveva pertanto ordinato lo svolgimento di un nuovo processo, di fronte a un tribunale civile. Il processo presso la Corte d’appello di Rabat si è chiuso con otto ergastoli e 11 condanne dai 20 ai 30 anni. Gli altri quattro imputati sono stati condannati a pene da due a sei anni e mezzo e dovrebbero essere rilasciati in quanto si tratta di periodi di carcere già scontati dal momento dell’arresto. Il processo in un tribunale civile avrebbe potuto essere l’occasione per mostrare equità di giudizio, rimediando alle irregolarità del primo processo. Invece, le reiterate denunce relative alle torture che gli imputati avrebbero subito durante gli interrogatori non sono state esaminate neanche in questa occasione. Afghanistan. Poliziotte addestrate da militari italiani alle tecniche di primo soccorso reportdifesa.it, 20 luglio 2017 Dopo circa 10 giorni di attività teoriche e pratiche si sono concluse le lezioni di primo soccorso dedicate alle agenti della Polizia Penitenziaria di Herat. L’Ente può contare adesso su 20 poliziotte abilitate alle procedure di primo soccorso con la possibilità di utilizzare in caso di emergenza i defibrillatori. Le venti poliziotte penitenziarie di Herat com i militari italiane mostrano il loro diploma di primo soccorso Il corso, tenutosi a Camp Arena, base italiana sede del Train Advise Assist Command West (Taac-W) attualmente su base Brigata alpina Taurinense, è stato sviluppato nell’ambito del programma formativo condotto dai Carabinieri dal Police Advising Team (Pat) e dal personale medico e paramedico di Esercito e Aeronautica Militare dell’ospedale da campo della base italiana (Role 2). Il programma comprendeva nozioni teoriche sui principi di base dell’anatomia umana nonché tecniche e procedure pratiche di intervento in caso di grave pericolo di vita, gravi attacchi cardiaco-respiratori e connesso uso del defibrillatore (BLS-D). L’obiettivo del corso, fortemente richiesto dalla direttrice, è stato quello di abilitare un primo gruppo di agenti che possano fare in futuro da istruttrici alle colleghe dell’Istituto penitenziario. Il colonnello Pazmhan, una delle prime donne ad essere diventata ufficiale di Polizia in Afghanistan, ha ringraziato i militari italiani per la continua vicinanza e solidarietà nei confronti delle donne afgane testimoniati anche dai numerosi progetti realizzati negli anni nel penitenziario femminile di Herat. Il generale di Brigata Massimo Biagini, comandante del Taac-W, incontrando il colonnello Sima Pazhman e una delegazione di frequentatrici del corso, ha confermato la disponibilità del contingente italiano a contribuire alla formazione e professionalizzazione delle giovani reclute delle quali ha sottolineato il coraggio e la determinazione. Le attività a favore delle donne afgane, realizzate nell’ambito dei progetti gender, si sviluppano in tutti i piani di addestramento (Train) e di consulenza (Advise e Assist), che attualmente sono svolti dagli advisors del Taac West a favore delle Forze di sicurezza afgane, al fine di renderle sempre più autonome nella gestione dello sviluppo professionale del proprio personale. Ulteriori obiettivi sono: formare nuovi istruttori ("train the trainers") e addestrare "specialisti" in materia di intelligence, di contrasto agli ordigni improvvisati, di impiego di mortai ed artiglierie, di controllo dello spazio aereo ed altro ancora, attraverso corsi mirati, seminari e simposi. Tutti gli sforzi sono focalizzati allo sviluppo organizzativo e della funzionalità delle Forze di sicurezza locali, per il raggiungimento di un adeguato livello di sostenibilità.