Orlando: in arrivo 12mila "braccialetti elettronici", pronto nuovo bando per gli acquisti Il Mattino, 1 luglio 2017 La Cassazione: l’indisponibilità del dispositivo elettronico non impedisce i domiciliari. Sono in arrivo 12mila braccialetti elettronici. A confermarlo è il ministro della giustizia Andrea Orlando rispondendo nel corso di una trasmissione di Radio Rai a una domanda sul caso dell’attore Domenico Diele che, accusato di omicidio stradale per avere investito e ucciso una donna, non è potuto andare agli arresti domiciliari a causa della mancanza del braccialetto elettronico che avrebbe dovuto indossare. "Si, stanno arrivando, è un bando - ha spiegato Orlando - Secondo me per un errore del legislatore, la competenza dell’acquisto è del ministero degli Interni, non della Giustizia. Ora c’è questo nuovo bando -ha ribadito - che si dovrebbe concludere entro qualche settimana". Nei giorni scorso il tema era stato sollevato da Donato Capece, segretario del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe: "Non c’era bisogno della mancata scarcerazione di un detenuto eccellente per sapere che le dotazioni dei braccialetti per il controllo dei detenuti ammessi ai domiciliari - costati allo Stato fino ad oggi 173 milioni di euro - è largamente insufficiente rispetto alle reali necessità". Il paradosso più evidente, secondo il Sappe, è che i ministeri di Giustizia e Interno han-no speso 110 milioni di euro in 10 anni per pochissimi braccialetti. Il problema della indisponibilità del braccialetto elettronico è finito anche all’esame della Corte di Cassazione, sia nel 2015 che alle Sezioni Unite nel 2016, Per la Cassazione l’indisponibilità dello strumento di controllo tecnico a distanza non può comportare la momentanea permanenza in carcere dell’indagato poiché non si tratta di "una prescrizione che inasprisce la misura" ma solo di una mera modalità di controllo. Conseguentemente una volta ritenuta idonea la misura degli arresti domiciliari "la applicazione ed esecuzione di detta misura non può essere condizionata da eventuali difficoltà di natura tecnica e/o amministrativa". È stata comunque risolutiva la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 28 aprile 2016. La questione, come quella di Diele, si era già posta in tutti quei casi, peraltro molto frequenti, in cui il dispositivo di controllo non era disponibile. L’assenza del congegno elettronico giustificherebbe da sola l’applicazione da parte del giudice della misura della custodia cautelare in carcere oppure quella degli arresti domiciliari "semplici" (senza braccialetto elettronico)? La giurisprudenza si era divisa in due opposti orientamenti: da una parte il ritorno in carcere, dall’altra il fatto che l’accertata indisponibilità del mezzo di controllo elettronico non può condizionare l’effettività della misura prescelta dal giudice quindi sospendendo la scarcerazione con la permanenza in carcere solo per la materiale indisponibilità del braccialetto elettronico. La conseguenza pratica della posizione assunta dalle Sezioni Unite nel maggio 2016 potrebbe pertanto essere riassunta nei seguenti termini: se il giudice motivatamente e ragionevolmente ritiene che l’imputato non offra sufficienti garanzie di affidabilità in relazione al rispetto delle prescrizioni connesse agli arresti domiciliari, tenuta in considerazione l’indisponibilità di attivazione del braccialetto elettronico, allora potrà disporre o mantenere la misura cautelare della custodia in carcere. Tortura, le parole che mancano nella legge di Michele Passione Il Manifesto, 1 luglio 2017 Lo scorso 26 giugno, nella giornata internazionale dedicata alle vittime di tortura, la Camera ha iniziato la discussione sul testo del reato che, finalmente, si vorrebbe approvare, a 31 anni dall’entrata in vigore della Convenzione Onu. Nei giorni scorsi, sulle pagine del manifesto il presidente di Amnesty Italia, pur criticando la definizione della nuova fattispecie, si è detto favorevole alla sua introduzione, per "porre fine alla rimozione della tortura, scrivendo finalmente quella parola indicibile nel codice penale". Non è una buona notizia. Non è questa la sede per un’attenta disamina delle aporie legislative, quanto, ci pare, l’occasione per segnalare due diverse ragioni che danno conto della nostra contrarietà alla tesi sostenuta da Antonio Marchesi. La prima. Nel corso del tempo la parola tortura è stata scritta in diverse sentenze (per i fatti di Asti, di Genova, e ancor prima per quelli di Padova, conseguenti alla liberazione del generale Dozier), pur nell’assenza del reato nel nostro Ordinamento. Se questa norma venisse approvata nessun giudice potrebbe nominare l’indicibile; una volta introdotto un reato o se ne afferma la sussistenza o si assolve, non vi sono alternative. Lo hanno scritto nei giorni scorsi, con buone ragioni, i magistrati genovesi che si sono occupati dei processi del G8. Pretendere il contrario storce il ruolo del giurista, e si risolve in un’eterogenesi dei fini. Ancora. Si è sostenuto che "lascia decisamente perplessi la formulazione da cui si desume la necessità, perché vi sia tortura, di più comportamenti". Perplessi? Eppure, riferendosi alla reiterazione delle condotte, in un volume collettivo sulla tortura lo stesso Marchesi scrisse nel 2015 che "le modifiche in questione rendono il testo inaccettabile, e pongono fine al nostro precedente dilemma". Il testo che verrà approvato afferma la liceità della tortura; una volta si può. Il divieto di tortura è un comando inderogabile, anche in tempo di guerra; uno dei quattro "core rights" della Convenzione dei diritti dell’Uomo. Dire la tortura è un compito arduo, come sostiene la filosofa Donatella Di Cesare. Il secondo motivo di contrarietà, dunque, non è solo di principio, ma è molto più pratico (chi scrive è un avvocato), poiché discende dalla formulazione involuta del testo, che lo rende inapplicabile, o al più riferibile ad ipotesi diverse da quelle per le quali 157 Paesi hanno ratificato la Convenzione. La tortura ha a che fare col potere, ed è anche per questo che oggi lo Stato si prepara a licenziare un testo che offende la dignità dell’Uomo. Così, nessuno è Stato. Il diritto vale anche per Dell’Utri? O è meglio che crepi in cella? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 1 luglio 2017 È anziano. I medici dicono che la sua salute non è compatibile col carcere. Il reato che ha commesso non sta nel codice penale. ma di tutto ciò non frega niente a nessuno. Marcello Dell’Utri deve uscire di prigione. Perché? Per un mucchio di ragioni. Perché è malato, innanzitutto, e rischia di morire. Perché è anziano. Perché è stato condannato a una lunga pena sulla base di un reato che non esiste nel codice penale. Perché il codice penale dice che nessuno può essere condannato se non per un reato espressamente previsto dalla legge. Perché la Corte Europea ha accertato che quantomeno fino al 1992 il reato per il quale è stato condannato Dell’Utri non esisteva nemmeno in giurisprudenza, e i fatti ai quali si riferisce la condanna sono anteriori al 1992. Servono altre spiegazioni? No, la detenzione di Dell’Utri è un abuso. Un abuso piuttosto clamoroso. Però quasi nessuno se ne occupa per la semplice ragione che molto prima che i tribunali emettessero le loro sentenze, il processo mediatico aveva già largamente condannato l’ex senatore. Per quale reato? I tribunali mediatici ne sanno poco di "concorso esterno in associazione mafiosa" (è questo il reato, non previsto dal codice, per il quale dell’Utri è detenuto) e quindi hanno trovato reati più semplici e comprensibili: avere fondato Publitalia, e poi avere fondato Forza Italia, essere stato l’uomo forte di Berlusconi e infine - non ultimo - essere siciliano. E quindi probabilmente mafioso. Questi fatti hanno creato un alone di colpevolezza intorno a lui, che è quasi impossibile disperdere. Chi prova a difendere Dell’Utri e i suoi diritti - in quanto detenuto, in quanto cittadino, in quanto persona - si trova immediatamente addosso l’accusa di amico dei mafiosi. Dell’Utri è in prigione da vari anni. Più di tre. I medici che lo hanno visitato hanno accertato che le condizioni sue di salute, in particolare una cardiopatia ischemica cronica, non sono compatibili con la vita in carcere. In aprile, i legali di Dell’Utri hanno presentato una nuova istanza al tribunale di sorveglianza per chiedere la detenzione domiciliare. La risposta è stata la fissazione dell’udienza al 21 settembre. Cinque mesi di tempo per aspettare cosa? Vedere se nel frattempo l’imputato muore e risolve il problema? Le prigioni italiane pullulano di casi di ingiustizia. Tante persone sconosciute stanno in carcere e non dovrebbero (sebbene i giornali, e parte della magistratura, insistano sul concetto che le celle sono vuote e che non esiste la certezza della pena). Molto spesso non è la certezza della pena, che manca, ma la certezza del reato. E allora perché indignarsi proprio per Dell’Utri? Non è uno come un altro? Si, è uno come un altro, ed esattamente per questo motivo io protesto. Perché Dell’Utri è al tempo stesso vittima - diciamo così - di un errore (anzi, di tanti errori), come molti altri, ma è anche vittima "privilegiata" di una sorta di accanimento. È un errore non applicare a lui la sentenza della Corte europea che lo scagiona. È un errore non tenere conto della sua età avanzata (ha quasi ottant’anni, proprio come quel detenuto che è morto giorni fa a Parma, ed era stato scarcerato solo quando era ormai in agonia), è un errore rinviare a settembre la decisione del tribunale sulle sue condizioni di salute. Ma è molto probabile che alcuni di questi errori siano stati commessi consapevolmente. Non dico con spirito di persecuzione, non credo. Dico sotto l’influenza dell’opinione pubblica, dell’antimafia professionale, del popolo viola diventato grillino, di Rosy Bindi e tanti altri. Cioè in una condizione di vera e propria intimidazione, nella quale la foga "giustizievole" supera il diritto, lo prevarica e l’umilia. A questa foga si oppongono forze molto esili. Ha alzato la sua voce il garante dei detenuti, Mauro Palma, ha alzato la sua il senatore Luigi Manconi, esponente molto combattivo della sinistra e - rara avis - esponete garantista. Il quotidiano Il Tempo ha avviato una raccolta di firme. E poi? I partiti politici osano sfidare il senso comune? Temo di no. È triste, tutto questo, molto triste. Triste per la sorte di Dell’Utri, sì, ma non solo. Padre prima di detenuto di Francesco Barresi Italia Oggi, 1 luglio 2017 Anche se agli arresti domiciliari si può accompagnare il figlio a scuola. Lo spiega la Corte di cassazione, nella sentenza 30349/2017 del 16 giugno scorso, che ha curato un caso particolare di un uomo, in detenzione domiciliare, che godeva di un ampio numero di ore di permesso per motivi di lavoro. L’uomo chiedeva formalmente l’autorizzazione al tribunale di Bologna di poter portare il figlioletto a scuola perché la compagna si sarebbe assentata per un periodo di sei mesi. Il magistrato di sorveglianza però, considerando il numero non indifferente di ore di cui l’uomo godeva, non ha accolto la richiesta. Da qui il ricorso in Cassazione che, esaminando nel dettaglio la situazione, ha accolto la richiesta dell’uomo ribaltando completamente il diniego della magistratura. Il motivo fondante, come si legge nel dispositivo, consiste nel fatto che l’ampliamento di ore richieste rientrano nel novero del diritto costituzionale di un padre nell’accudire il figlio e per improrogabili esigenze di vita. "Se l’imputato non può altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita", spiegano gli ermellini, "ovvero versa in situazione di assoluta indigenza, il giudice può autorizzarlo ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto per il tempo strettamente necessario per provvedere alle suddette esigenze ovvero per esercitare una attività lavorativa", bacchettando in sordina i magistrati per il ripetuto diniego. "Di tali coordinate ermeneutiche non ha fatto buon governo il giudice", sottolineano i giudici del Palazzaccio "nella parte in cui senza riportare con considerazioni adeguate né aderenti alla istanza né conformi a logica ha rigettato la richiesta fondandosi su di una aprioristica preclusione che sarebbe stata conseguenza delle autorizzazioni già concesse". Questo perché, spiegano con precisione i giudici di piazza Cavour, "doveva essere accertata la fondatezza della asserzione del detenuto domiciliare e l’impossibilità assoluta dell’altro genitore di far fronte a tale incombente per l’assenza cui aveva fatto riferimento il ricorrente, oppure l’impossibilità assoluta di avvalersi di persone di fiducia". Porto d’armi a un uomo disturbato, Stato condannato a risarcire i feriti di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 1 luglio 2017 Due milioni di euro alle vittime di Andrea Calderini che sparò ai passanti nel 2003 e uccise una vicina di casa e la moglie, prima di suicidarsi. Quattordici anni fa fu uno dei più assurdi episodi di violenza metropolitana mai vissuti da Milano: Andrea Calderini, 31enne sposatosi da appena tre mesi, dopo aver ucciso in bagno la 22enne moglie Helietta Scalori, il 5 maggio 2003 assassinò anche la vicina di casa Maria Stefania Vinassa De Regny e, prima di suicidarsi in camera da letto, dalla finestra dell’appartamento accanto a un teatro cominciò a sparare alla cieca sui passanti, ferendone tre e in particolare un avvocato e una donna paralizzata da due colpi alla spina dorsale. Tutto usando una pistola per la quale Calderini, a dispetto delle proprie turbe mentali e denunce giudiziarie, era riuscito a farsi rilasciare un regolare porto d’armi. Ora proprio per quella licenza il Tribunale civile di Milano condanna il ministero dell’Interno, quale responsabile civile in solido con il poliziotto che materialmente sbrigò la pratica, a risarcire con oltre 2 milioni di euro i feriti, assistiti dai legali Daniela Damiano e Gianpaolo Di Pietto: sentenza che si salda ai processi penali nei quali il poliziotto, come lo psichiatra e il medico militare autori di due certificati, erano stati condannati a 1 anno e 10 mesi per concorso colposo negli omicidi. Il maggior risarcimento è destinato alla donna, della quale la giudice della X sezione civile Adriana Cassano Cicuto considera "la natura delle lesioni patite" (cioè la paralisi), "il radicale mutamento delle condizioni di vita, la consapevolezza dell’irreversibilità", tanto più "tenuto conto della giovane età nella quale avrebbe dovuto pervenire (in condizioni di integrità psico-fisica) alla massima esplicazione dei propri progetti". Tutte condizioni "invece frustrate e compromesse in via definitiva, e che per tali motivi giustificano" un danno non patrimoniale di 1,3 milioni. Poi ci sono i danni patrimoniali, a cominciare dai 376.000 euro di "rimborso delle spese per l’acquisto di una nuova casa consona alla nuova tragica situazione e alla conseguente eliminazione delle barriere architettoniche", e "per l’acquisto di una auto adatta". Poi pesa il costo dell’"assistenza infermieristica necessaria per tutta la prevedibile durata della vita della signora", stimato in 200.000 euro. Nell’avvocato invece, che fisicamente si è ripreso dopo due anni, "i consulenti hanno accertato un grado di sofferenza prossimo ai livelli massimi", per un danno non patrimoniale di 156.000 euro e patrimoniale di 120.000 per "l’incidenza negativa (anche sulla gestione della clientela) dell’inabilità". Toscana: il Garante dei detenuti "realizzare i cambiamenti necessari entro giugno 2018" gonews.it, 1 luglio 2017 "Stati particolari del carcere". Così il garante regionale dei diritti dei detenuti, Franco Corleone, ha voluto intitolare il seminario che questa mattina, venerdì 30 giugno, si è tenuto in Consiglio regionale. "Stati particolari - ha spiegato - perché in Toscana la situazione è veramente particolare. Abbiamo un provveditore regionale a mezzo servizio, Giuseppe Martone è stato infatti chiamato a reggere il provveditorato della Campania e una situazione critica della direzione di Sollicciano che in un anno ha visto cambiare cinque direttori e di San Gimignano dove la direzione è a scavalco". Inoltre, Corleone ha evidenziato che "sono inapplicate le norme di legge del regolamento" e che però, nota positiva, "ci sono risorse disponibili" sebbene rimanga il problema di "non capire chi decide come utilizzarle". La chiusura degli Opg è stata rivendicata da Corleone con soddisfazione: "In un anno ho avuto la responsabilità (il Governo gli aveva affidato l’incarico di commissario unico per il definitivo superamento degli Opg, ndr) e il piacere di portare alla chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici in Italia e di aprire sette residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems)". Adesso però c’è "la necessità di aprire la seconda struttura a Empoli". Tra le priorità da realizzare entro giugno 2018, per portare a compimento la sua "missione", Corleone ha ricordato sia la necessità di alcuni "interventi strutturali" negli istituti di Arezzo, Sollicciano, Pisa, Pistoia, Livorno e San Gimignano, sia azioni dal punto di vista qualitativo come "l’affettività in carcere", il "femminile al Gozzini come modello diverso di luogo di detenzione" o il "teatro stabile a Volterra" e un ripensamento della "detenzione minorile, perché forse il carcere non è più una forma adeguata per i minori". La proposta di Corleone è quella di "rendere partecipi i detenuti nelle scelte che riguardano la loro vita". "Distribuiremo loro - ha detto - un questionario per raccogliere idee e suggerimenti e analizzeremo i rapporti disciplinari e sugli eventi critici e faremo assemblee in carcere per illustrare le nostre proposte". Corleone ha ribadito: "Di fronte agli obiettivi che ci siamo fissati e nel momento in cui noi garanti regionali siamo chiamati a costituire una rete nazionale che dia risposte a livello internazionale sul tema dei profughi e dei centri per il rimpatrio, in Consiglio regionale si pensa di eliminare il garante dei detenuti". L’aula ha approvato una risoluzione con la quale il Consiglio si impegna ad elaborare una normativa, attraverso l’Ufficio di presidenza, per una figura di garanzia unica dei diritti della persona. Il nuovo organismo comprende difesa civica, difesa dei diritti dei minori e dei detenuti. Il presidente del Consiglio regionale Eugenio Giani ha preferito non intervenire al seminario. A margine dell’incontro ha motivato così la sua scelta: "Siamo nella fase di ristrutturazione - ha detto Giani - delle strutture che dal Consiglio regionale ci portano a vedere queste problematiche. Unificheremo le funzioni, il personale e potenzieremo la capacità di lavoro sui detenuti, sui minori e in generale, sulla tutela civica. È in corso di discussione in Consiglio regionale un disegno di legge, approvato dall’Ufficio di Presidenza e inviato all’esame delle commissioni". Il provvedimento in questione sarà illustrato in commissione Affari istituzionali mercoledì 5 luglio. La giornata di lavoro proseguirà alle 15 con l’incontro "Il terzo settore nelle carceri in Toscana": una riflessione sul ruolo e l’impegno delle organizzazioni di volontariato, cooperative sociali, fondazioni ed enti no-profit che in Toscana operano in carcere per la promozione dei percorsi di reinserimento delle persone detenute, ex detenute o sottoposte a misura alternativa. Calabria: il Sappe "sempre più grave la situazione delle carceri" lametino.it, 1 luglio 2017 "È sempre più grave la situazione delle carceri calabresi, soprattutto a causa delle carenze di personale e di mezzi, a cui si aggiunge, a volte, anche la cattiva gestione". Lo affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale. "Per rendersi conto della situazione in cui è tenuta la regione - spiegano - basta pensare che il rapporto medio nazionale agenti/detenuti si attesta sullo 0,75% (dato rilevato al 30/10/2015), mentre quello della regione Calabria è appena dello 0,65%. Tale situazione si è ulteriormente aggravata a causa della mancanza di assunzioni e dei molti pensionamenti (oltre 1000 a livello nazionale) avvenuti nel corso del 2016. È opportuno evidenziare che al Sud i pensionamenti sono anche proporzionalmente maggiori, a causa dell’età più elevata del personale che vi presta servizio. Infatti, il dato relativo ad aprile 2017 dimostra come percentuale derivante dal rapporto agenti detenuti sia scesa, in Calabria, allo 0,58%, rispetto alla media nazionale dello 0,74%. Secondo la pianta organica del ministero della Giustizia - aggiungono - la dotazione della regione Calabria dovrebbe essere di 1531 unità per tutti i ruoli, a fronte di una forza presente attualmente di poco inferiore. In realtà, per riportare gli organici calabresi nella media nazionale bisognerebbe avere un organico di circa 1900 unità, quindi, oltre 350 in più rispetto a quello previsto dall’Amministrazione penitenziaria. Ecco spiegata la ragione per cui a Palmi ci sono circa 9000 giornate di congedo non fruite, a Reggio Calabria, spesso, si hanno difficoltà a portare i detenuti in Tribunale e, quando si riesce, lo si fa con ore di ritardo, a Crotone ed Arghillà non si riesce a predisporre il piano ferie. L’amministrazione penitenziaria, in questi anni, ha aperto nuovi reparti detentivi, come a Catanzaro e Rossano (reparto dedicato agli AS2, detenuti per reati di terrorismo), nuovi istituti, come ad Arghillà e Laureana di Borrello, ha aumentato i posti detentivi ma non il personale di polizia penitenziaria. In Calabria, cosa di non poco conto, ci sono circa 950 detenuti appartenenti al circuito Alta Sicurezza, i quali necessitano di maggiori controlli e spostamenti in diversi istituti, a causa dei tanti processi cui sono imputati. Nonostante tale situazione - concludono - a Crotone, Rossano e Cosenza manca anche il funzionario comandante di reparto". Parma: muore un altro ergastolano 80enne, ai domiciliari da pochi giorni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 luglio 2017 Il 17 giugno scorso è avvenuto il decesso, come ci ha riferito l’esponente Radicale Rita Bernardini e confermato il Garante dei detenuti parmense Roberto Cavalieri. Gaspare Raia era detenuto nel carcere di Parma. Era un ergastolano quasi ottantenne malato, considerato, però, compatibile con la carcerazione. Da più di 25 anni in carcere, era affetto da più patologie e per via di una complicanza è stato ricoverato all’ospedale di Parma ai primi di giugno. Poi il 17 giugno scorso non ce l’ha fatta più ed è morto. La magistratura gli ha concesso gli arresti ospedalieri per facilitare le cure. Siamo venuti a saperlo solo oggi grazie ad una segnalazione giunta all’esponente del partito radicale Rita Bernardini. Gaspare Raia era stato condannato all’ergastolo al termine del processo legati dall’operazione "Omega" che nel 1996 aveva portato all’arresto di 80 componenti delle principali famiglie mafiose del trapanese. Insieme a lui erano finiti all’ergastolo altri 26 imputati, accusati di circa 70 tra omicidi e tentati omicidi che coprono un ventennio e comprendono le vittime della guerra di mafia degli anni Ottanta, quella tra i Rimi e i Badalamenti, la faida di Partanna tra i clan Accardo e Ingoglia, quella di Alcamo tra i Greco e i Milazzo, fomentata dai corleonesi di Riina, il conflitto tra i dissidenti della "stidda" e le fazioni di Cosa nostra. L’istituto di Parma è un carcere di alta sicurezza noto per ospitare detenuti al 41 bis come Bernardo Provenzano (deceduto nel luglio dello scorso anno), Raffaele Cutolo (il fondatore della Nuova Camorra Organizzata), Totò Riina e Massimo Carminati che è in attesa di giudizio. Più volte Il Dubbio ha denunciato la situazione critica legata all’invecchiamento della popolazione carceraria (soprattutto quelli in 41 bis) e soprattutto il problema legato all’assistenza sanitaria. Ora, non solo persistono le condizioni critiche, ma per mancanza di spazi sono stati trasferiti dei detenuti al reparto di isolamento. Denuncia gravissima da parte del garante locale Roberto Cavalieri. Nel corso della visita al penitenziario dedicata al reparto 41 bis, ai settori sanitari, di isolamento ed alla media sicurezza, il garante ha potuto registrare una impennata preoccupante delle presenze. Su un totale di 600 detenuti, 315 sono reclusi nel reparto di media sicurezza (con una presenza maggioritaria di stranieri) su una disponibilità effettiva del reparto di 280 posti. Cavalieri denuncia che l’eccesso di presenze ha costretto la direzione a collocare i detenuti nel reparto di isolamento anche se questi non sono sottoposti ad alcun regime disciplinare o sanitario. Nel contempo l’autorità del penitenziario della città ha chiesto all’amministrazione penitenziaria lo sfollamento di almeno 30 detenuti in altre carceri. Nei settori sanitari rimane critico - come già denunciato a Il Dubbio - il meccanismo della lunga durata dei ricoveri e dell’alto numero di assegnazioni a Parma, da parte della Amministrazione penitenziaria, di persone che necessitano di ricovero nel reparto sanitario interno che però non presenta disponibilità di posti e costringe la reclusione di persone ammalate nelle celle dei reparti ordinari. Sotto il profilo organizzativo - spiega sempre il garante - lo scarso numero di uomini della Polizia penitenziaria rende complessa l’assicurazione dei servizi anche se si è potuto appurare che, per quanto possibile, sono attivi servizi trattamentali (corsi, teatro, cinema, etc.) anche nel periodo estivo. Sempre Cavalieri spiega che i processi di carcerizzazione, a Parma quasi esclusivamente dovuti ad eventi legati alla microcriminalità e ai crimini comuni, la lentezza dei meccanismi della giustizia e l’assegnazione al carcere cittadino di detenuti provenienti anche da altre città, ha determinato un incremento del numero delle presenze che richiama ora l’amministrazione penitenziaria ad una urgente necessità di intervento. Il monitoraggio svolto dal Garante sulle presenze di stranieri indica che nel biennio 2015- 2016 ad esempio i cittadini nigeriani condotti in carcere, quasi tutti per reati legati allo spaccio e traffico di droga o allo sfruttamento della prostituzione compiuti in città, sono stati complessivamente 91 per una detenzione media di 6 mesi. Sotto il profilo economico, tenendo conto di una media di costo giornaliero di 150 euro a detenuto, questi dati secondo il garante si traducono per lo Stato in una spesa di oltre 1,7 milioni di euro per il periodo indicato. Il Garante Cavalieri invita ad una riflessione sul senso del carcere e sulla sua efficacia che sembrano rimanere legati alla esclusiva necessità di isolare persone dimenticando il ruolo e la finalità rieducativa della pena. Infine conclude con una richiesta rinnovando l’attenzione alle autorità "affinché si scelgano strategie e politiche di inclusione sociale quali azioni preventive ed alternative al crimine per le persone che vivono ai margini della società evitando così percorsi penitenziari sicuramente esigenti in termini di spesa pubblica". Palermo: i detenuti diventano caregiver, per la prevenzione del suicidio nelle carceri Redattore Sociale, 1 luglio 2017 Sottoscritto un protocollo operativo nelle carceri siciliane. Previsti "caregivers e peer supporter": detenuti che possano sostenere altri detenuti in particolari situazioni di rischio insieme a uno specifico staff multidisciplinare composto da operatori dell’istituto penitenziario e dell’Asp. Asp, Ucciardone, Pagliarelli e Casa circondariale di Termini Imerese insieme per la prevenzione del suicidio nelle carceri palermitane. Valutazione all’ingresso, monitoraggio e gestione del rischio e del disagio sono le attività principali di ciascuno dei tre protocolli operativi territoriali sottoscritti dal manager dell’Azienda sanitaria, Antonio Candela, rispettivamente con la direttrice dalla casa circondariale Pagliarelli, Francesca Vazzana, con la direttrice della casa di reclusione Ucciardone, Rita Barbera, e con la direttrice della casa circondariale di Termini Imerese, Nunziella di Fazio. In particolare, in caso vengano evidenziate o insorgano all’ingresso o durante la carcerazione situazioni o fattori di rischio, è immediatamente attivato uno specifico staff multidisciplinare composto da operatori dell’istituto penitenziario e dell’Asp. Nel protocollo sono anche previste "modalità e tecniche per la preparazione degli stessi detenuti alle funzioni di caregivers e peer supporter", cioè di detenuti "formati" che possano essere da supporto e sostegno di altri detenuti a rischio suicidio o di atti autolesionismo. "In coerenza con le linee guida emanate dall’assessorato regionale alla salute il 21 aprile scorso - ha spiegato Candela - nel documento sono previste azioni specifiche di intervento in grado di intercettare e trattare con tempestività stati di disagio psicologico, di disturbo psichico o di altre fragilità. L’obiettivo è di mettere in atto misure e forme di prevenzione del rischio suicidio o di atti di autolesionismo". "Dopo il passaggio delle competenze di assistenza e cura al servizio sanitario nazionale - ha spiegato Candela - l’Asp di Palermo è particolarmente impegnata nelle carceri del proprio territorio. Abbiamo, tra l’altro, previsto e già attivato la presenza mensile per complessive 364 ore di psicologi e per 350 ore di psichiatri". Santa Maria C.V. (Ce): carcere in emergenza, dopo la carenza idrica quella elettrica Corriere del Mezzogiorno, 1 luglio 2017 Prosegue lo stato di agitazione degli agenti della penitenziaria in servizio al carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove in questi giorni, alla cronica carenza idrica, si è aggiunto anche il problema del malfunzionamento dell’impianto elettrico. A denunciarlo il presidente nazionale dell’Unione sindacati polizia penitenziaria (Uspp) Giuseppe Moretti in una nota inviata tra gli altri al Ministro Orlando e al Capo del Dap, in cui definisce "scandalosa e vergognosa la situazione che ci viene segnalata presso la Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere, dove, nonostante i ripetuti impegni da parte della politica, non si è mai pervenuti alla risoluzione dei vari problemi". "Urgono - prosegue Moretti - interventi di stabilizzazione e assegnazione di nuovo personale di Polizia Penitenziaria al fine almeno di garantire livelli di sicurezza funzionali in considerazione della critica situazione determinata dal caldo e per consentire il regolare svolgimento del piano ferie estivo". Per Ciro Auricchio, segretario regionale campano dell’Uspp, "quanto sta avvenendo al carcere di Santa Maria Capua Vetere è l’ennesima dimostrazione di disinteresse da parte degli organi istituzionali preposti. Chiediamo al sindaco Antonio Mirra un immediato intervento; l’annosa questione idrica va risolta nel più breve tempo possibile". Fossano (Cn): Johnny lo Zingaro non si presenta al lavoro, è evaso dalla semilibertà La Stampa, 1 luglio 2017 Come tutti i giorni è uscito dal carcere di Fossano con altri tre detenuti, come lui in regime di semilibertà e ammessi al lavoro esterno. Questa mattina, però, Giuseppe Mastini, noto col nome di Johnny Lo Zingaro, non è mai arrivato alla scuola di polizia penitenziaria di Cairo Montenotte, al confine tra le province di Cuneo e Savona. Svanito nel nulla, come recita la canzone che all’inizio degli anni Novanta i Gang hanno dedicato all’ergastolano, 57 anni, una lunga scia di sangue alle sue spalle e il coinvolgimento anche nell’inchiesta sulla morte di Pier Paolo Pasolini. I tre compagni non hanno saputo, o forse voluto, dare spiegazioni. E così da questa sera il Biondino, altro nome con cui il criminale è passato alle cronache, il primo omicidio quando aveva solo undici anni, è di nuovo un evaso. La prima volta era stata trent’anni fa esatti, nel 1987. Approfittando di una licenza premio per buona condotta, Mastini fu protagonista di sanguinose scorribande che impegnarono le forze dell’ordine in una vera e propria caccia all’uomo, tra furti d’auto e rapine, il sequestro di una ragazza, Silvia Leonardi, l’omicidio di una guardia giurata, Michele Giraldi, e il ferimento di un brigadiere dei carabinieri, Bruno Nolfi. Arresosi nelle campagne di Mentana, nel 1989 Johnny Lo Zingaro, un omaggi alle sue origini sinti, vero e proprio terrore della Roma criminale degli anni Ottanta, finì all’ergastolo, assolto - per insufficienza di prove - soltanto dall’accusa di avere ucciso l’allora console italiano in Belgio Paolo Buratti in un tentativo di rapina nella sua villa di Sacrofano (Roma). Da allora aveva scontato la sua pena in diversi penitenziari: Voghera (Pavia) Badu e Carros in Sardegna e, appunto, Fossano, dove nell’ultimo periodo era stato ammesso al lavoro esterno. Le forze di polizia, che hanno avviato le ricerche dell’ergastolano alla cui carriera criminale è stato dedicato anche un film, hanno allestito posti di blocco in Piemonte e in Liguria. L’Osapp, organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, accusa intanto con il suo segretario generale, Leo Beneduci, "il degrado a cui sono giunte le istituzioni penitenziarie, soprattutto laddove il buonismo fuori luogo applicato ad oltranza nei confronti dei detenuti, quale che ne sia la pericolosità, arreca danno dapprima ai poliziotti penitenziari del tutto abbandonati a se stessi e poi agli inermi cittadini costretti a subire le conseguenze delle disfunzioni penitenziarie". E chiede l’istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare, "che faccia finalmente luce sulle disfunzioni e sugli sprechi dell’attuale politica penitenziaria nazionale nonché sui danni arrecati dagli attuali vertici dell’Amministrazione penitenziaria centrale". Perugia: interrogazione del M5S al ministro Orlando sulla situazione del carcere di Tiziana Ciprini tizianaciprini.it, 1 luglio 2017 La protesta del personale del carcere di Capanne, a Perugia, è ufficialmente arrivata in Parlamento: Filippo Gallinella e Tiziana Ciprini (del M5S) hanno infatti depositato un’interrogazione al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, nella quale si legge che "le cause di tale protesta vanno ricercate sia nel mancato adeguamento degli stipendi del personale operante nel carcere, sia nell’insufficiente quantità di personale demandato a gestire i detenuti; la pianta organica, secondo quanto si apprende dalle dichiarazioni dei rappresentati sindacali del personale penitenziario, prevede 298 unità, a fronte della 215 realmente effettive, con inevitabili lacune anche nei servizi amministrativi, di dipartimento, di amministrazione penitenziaria e di servizi presso il provveditorato regionale". Il presidio a Capanne - I problemi Il personale, scrivono i due parlamentari, "ormai esasperato, non riesce più a far fronte ai turni di lavoro né ad usufruire dei riposi che, per esigenze di servizio, vengono spesso annullati, creando una situazione di malessere e disagio, che si somma alle problematicità legate all’accorpamento dei provveditorati, Toscana ed Umbria: l’aumento del numero di detenuti da accogliere, specie quelli provenienti dalla Toscana, e la necessità di gestire anche detenuti psichiatrici di altre regioni, detenuti che hanno esigenze e necessità ben diverse dal resto della popolazione carceraria". La Rems - Secondo Gallinella e Ciprini, poi c’è "la questione dei detenuti psichiatrici merita, inoltre, una riflessione attenta, poiché spesso essi non riescono a trovare una giusta collocazione e un corretto trattamento in Umbria. Anche le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) infatti, che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari, non sono presenti in numero adeguato sul territorio né dotate della quantità e tipologia di personale adatto". Il recupero In questa difficile situazione, denunciano i due parlamentari del M5S, "il carcere di Perugia, che è considerato una struttura dinamica in cui i detenuti svolgono attività di recupero e puntano ad una riabilitazione nella società, rischia di fallire di fronte a questa, ormai costante, emergenza; la minaccia del personale penitenziario è quella di proseguire la protesta in maniera "continuata", mettendo a repentaglio la sicurezza della struttura", chiedono al ministro "se sia conoscenza dei fatti esposti e se, nell’ambito delle proprie competenze, non intenda intervenire per trovare una prima soluzione, anche temporanea, alla difficile situazione del personale penitenziario del carcere di Capanne e, allo stesso tempo, individuare una soluzione che garantisca, nel lungo termine, stabilità ed efficienza del servizio penitenziario della struttura perugina". Sondrio: serata benefica con cena in carcere e pasta gluten free di Nadia Toppino storiedicibo.it, 1 luglio 2017 Cibo e carcere, cibo e persone detenute, cibo dietro le sbarre: la cena d’estate nella casa di reclusione di Sondrio. In un articolo del dicembre scorso (2016) raccontavo del mio incontro con la direttrice del carcere di Sondrio e dell’avvio dell’attività del pastificio interno, nel quale sono impiegati i ragazzi detenuti. L’articolo terminava con queste parole: "A breve ritornerò nella "base di Sondrio" sia per assaggiare di persona i prodotti sia per organizzare un corso di cucina un po’ fuori dalle righe, anzi, "fuori dalle sbarre". Lo chef è già pronto, io pure, la direttrice avvisata, insomma… a presto". Ogni promessa è debito, diceva qualcuno. Ed io avevo promesso a me (e ad altri!) che questo evento si sarebbe fatto. Ed eccomi qui, qualche mese dopo, a raccontare di una cena in carcere che ha visto 120 ospiti (tra persone detenute ed esterni) consumare una cena "stellata" preparata da uno chef di fama internazionale e servita dai ragazzi detenuti, nel cortile interno del carcere di Sondrio. Iniziamo dal "perché" di questa cena, anzi dai perché, visto che le motivazioni pullulano. Punto primo: non di sicuro il motivo principale, ma quello che egoisticamente mi dà soddisfazione, ossia il dare seguito agli eventi del progetto "Storie di cibo dietro le sbarre", anche in modo "insistente", visto che come ha ricordato la direttrice: "era un po’ di tempo che letteralmente la perseguitavo… perseguitavo con grande cuore!!! per proporle una cena in carcere". Punto secondo: arricchire la serata della Festa d’Estate del 21 giugno, che coincide con la festa della musica e prevedeva un concerto Jazz, con una parte culinaria, che potesse anche far conoscere (e degustare) la pasta prodotta nel pastificio che da qualche mese, grazie all’opera della direttrice e di alcuni sponsor finanziatori, è attivo all’interno della Casa di reclusione: Pasta 1908. Punto terzo: di sicuro il più importante, realizzare la "Stanza della Familiarità", un luogo appartato e intimo dove i detenuti potranno incontrare i loro parenti. Come specifica la direttrice Stefania Mussio: "Un progetto che mi sta a cuore e che coltivo grazie alla generosa disponibilità dell’architetto Carlo Mazza che ha coinvolto diversi altri imprenditori. Realizzeremo una stanza colloqui per i figli dei detenuti, affinché possano stare in un contesto meno duro, meno forte e meno invasivo, e magari vivere quei momenti in un’atmosfera apparentemente diversa e più tranquilla". E continua: "Vi posso assicurare che i bambini ci sono e vederli ai colloqui lascia un sentimento pesante e forte, come fosse un paradosso… e allora grazie alla generosità dei partecipanti alla serata realizzeremo tutto questo, perché anche per le persone detenute è necessario progettare in maniera positiva". E tra le persone generose, la direttrice in apertura di serata cita e ringrazia lo chef Gianni Tota, mio grande amico che appena ha ricevuto la mia proposta di una giornata all’insegna del "cucinare in carcere con alcuni ragazzi detenuti, preparando un menù semplice ma di effetto", ha accettato entusiasta. Perché così è lui, generoso ed entusiasta del suo lavoro, soprattutto quando può essere utile agli altri. E così lo ha presentato la direttrice alla platea: "Uno chef definito in tanti modi, dei Vip e del Dalai Lama, ma che nonostante il successo, non ha perso umiltà e generosità. Questa mattina è arrivato in treno con la sua valigia e i suoi coltelli, e si è subito messo all’opera". La giornata infatti è stata intensa e attiva nella cucina del carcere. Lo chef e 3 dei ragazzi detenuti hanno lavorato per preparare i piatti del menù così composto: antipasto con insalata di pollo alla francese (con insalata ghiaccio, scaglie di grana, maionese, pomodorini cherry); pasta 1908 con vellutata di pomodoro e un cuore freddo di stracciatella; parmigiana di melanzane scomposta; tiramisù alle fragole. Questi piatti sono stati illustrati agli invitati dallo chef Gianni Tota nei suoi saluti iniziali, misti a qualche considerazione e pillola di lezione culinaria: "La cucina porta al successo, è quello che vediamo tutti i giorni in televisione. A me al di là del successo, piace contribuire ed essere utile a qualcuno o qualcosa con la mia cucina. Qui ho lavorato con dei ragazzi fantastici, ho conosciuto le loro storie di errori, di sbagli, ma in cucina tutti lavorano sodo, la cucina unisce e la brigata funziona solo se tutti si danno da fare, questo è successo oggi nella cucina del carcere di Sondrio". La serata è trascorsa degustando i piatti serviti a tavola dai ragazzi detenuti e poi godendosi un concerto jazz dal vivo. I ringraziamenti finali da parte della direttrice hanno visto un lungo elenco di generosi donatori che hanno reso possibile la realizzazione della serata e di conseguenza la raccolta fondi per il progetto della stanza della familiarità. Quasi commossa Stefania Mussio ha esternato la sua stima per questa città: "Quello che ho ricevuto a Sondrio non l’ho mai ricevuto in 23 anni di lavoro. Sappiamo bene di cosa sono capaci i valtellinesi quanto a generosità silenziosa". Oltre alla donazione per la cena, la generosità di presenti si è dimostrata anche nell’acquisto della pasta 1908, quella prodotta nel pastificio interno e venduta in punti vendita da Tirano a Torino. Queste le parole di Alberto Fabani, operatore della cooperativa Ippogrifo responsabile del progetto del pastificio: "Oggi siamo su una produzione di 40-50 kg di pasta secca e di 15 kg di fresca al giorno, con un dipendente detenuto che lavora nel pastificio. L’obiettivo da qui a 4 anni è arrivare a 4 dipendenti detenuti, e ampliare la commercializzazione ed estenderla alla ristorazione". I saluti finali, sulle note jazz di un pezzo di Frank Sinatra, sono stati un Arrivederci a presto, ad un altro evento come questo, e magari, perché no, a una serata di presentazione del libro di prossima pubblicazione Storie di Cibo dietro le sbarre, nel quale, come promesso alla direttrice, ci sarà un posticino, e anche più di un posticino, dedicato a questa magnifica storia di cibo. Orgogliosa e felice di aver contribuito e partecipato a questa serata, consiglio a tutti di provare la pasta 1908, ed inviare qui la propria ricetta…chissà che non ne esca anche un "Ricettario dietro le sbarre". Eboli (Sa): l’Ass. "Mi girano le ruote" regala oltre 100 libri ai detenuti dell’Icatt cilentonotizie.it, 1 luglio 2017 Sabato 1 luglio ore 15.00, presso l’Icatt di Eboli, Istituto a Custodia Attenuta per il Trattamento delle Tossicodipendenze, l’Associazione di Promozione Sociale "Mi girano le ruote" di Campagna, editore del mensile sociale "Diversamente Liberi" confezionato dietro le sbarre, consegnerà circa 100 libri raccolti per regalargli in beneficenza agli ospiti della struttura e dare loro una seconda vita. Una sorta di "banco editoriale" che dà nuova vita ai libri usati. L’obiettivo dell’iniziativa, in linea con le attività socio-culturali che l’Associazione, guidata da Vitina Maioriello, sta già curando all’interno del penitenziario eburino in perfetta collaborazione sinergica con la Direttrice Rita Romano, è quello di arricchire gli scaffali della biblioteca dei detenuti, stimolarli alla lettura ed avere un rapporto più consapevole con l’ambiente, la natura, le tradizioni e il sociale dopo aver scontato la propria pena per reinserirsi a pieno nella società. Sono testi su argomenti e materie di varia natura - dichiara la Presidente Maioriello - vogliamo contribuire al benessere dei detenuti. Per questo motivo si è deciso di arricchire il patrimonio della loro biblioteca, un luogo simbolo di promozione culturale, particolarmente speciale per la sua ubicazione, rendere più serena e costruttiva la loro permanenza rendendo più variegata la scelta dei libri con l’auspicio che, grazie allo strumento della lettura, si aprano a nuove visioni del mondo, superino i pregiudizi, riscoprano valori umani e sociali. Sono libri che provengono dall’esterno, quindi, non si tratta di una semplice biblioteca ma di un vero e proprio luogo di scambio, un canale di comunicazione quindi tra il carcere e la società civile che cercherà, da un lato di stimolare i detenuti ad esprimere i propri pensieri, le proprie emozioni portandoli "oltre il muro" del carcere, dall’altro permetterà alle persone libere, grazie ad una maggiore conoscenza della realtà penitenziaria, di superare barriere e pregiudizi. Convinti che la lettura e la scrittura in carcere possono essere strumenti validi per aiutare il detenuto nel suo percorso personale di consapevolezza, vogliamo aiutarli ad esprimere, tramite questi mezzi, il proprio vissuto a partire dal confronto con il libro ed il suo autore. Spoleto (Pg): la paranza in scena "bambini di talento prima di diventare boss spietati" di Anna Bandettini La Repubblica, 1 luglio 2017 Stasera e domani al Festival di Spoleto lo spettacolo tratto dal romanzo di Roberto Saviano ambientato tra i ragazzini di camorra di Napoli. Mentre già si lavora al film. Sono ragazzini di undici, quindici anni e vivono come mossi da una furia, in una dolorosa assenza di gioia infantile. Maraja, Pesce Moscio, Dentino, Lollipop, Drone... minacciano, maneggiano le armi, sparano. Sono baby boss: piccoli animali violenti che vogliono trovare il proprio posto nel mondo subito, anche misurandosi, sfrontati e strafottenti, con la morte. La paranza dei bambini, l’ultimo bestseller (Feltrinelli) di Roberto Saviano, il primo romanzo, più di 300 mila copie, racconta il nuovo fenomeno camorristico di Napoli (il nome marinaro nel gergo della malavita sta a indicare i giovani criminali) in una storia shakespeariana, con personaggi inquietanti nel loro disagio e nella percezione della vita e della realtà che restituiscono, ragione per cui è diventato in pochi mesi uno spettacolo e già si parla anche di un film. Sulla scena La paranza dei bambini, scritto dallo scrittore con Mario Gelardi che ne è anche il regista, prodotto da Mismaonda con Marche Teatro, e in collaborazione con Amref, si vedrà oggi e domani al Festival di Spoleto, al teatro San Simone, dopo alcune anteprime al Nuovo Teatro Sanità di Napoli. E proprio lì è nato lo spettacolo, in questo piccolo spazio d’arte che conta tantissimo alla Sanità, il rione del racconto di Saviano e da cui provengono gli attori - Vincenzo Antonucci, Luigi Bignone, Carlo Caracciolo, Antimo Casertano, Riccardo Ciccarelli, Mariano Coletti, Giampiero de Concilio, Simone Fiorillo, Carlo Geltrude, Enrico Maria Pacini - ragazzi che il regista Gelardi ha coinvolto nel teatro trasmettendo loro una passione e forse anche un mestiere. Saviano, bella questa continuità tra la realtà e lo spettacolo. "Sì. Considero il Nuovo Teatro Sanità un luogo di resistenza, e senza un centesimo di denaro pubblico. Un riferimento del rione. Le porte sono sempre aperte, nonostante le "stese", i colpi di pistola e di mitra, ci sono corsi di teatro gratuiti per i bambini del quartiere che nel cuore di una delle città più caotiche d’Italia imparano a rispettare il silenzio, a condividere gli spazi, a misurarsi con il loro perimetro… Anche se non diventeranno attori, nella loro formazione fanno un’esperienza indispensabile". Che rione è la Sanità che lei racconta? "È un quartiere complesso, ricco di storia, meraviglioso e che allo stesso tempo somiglia a una favela: Palazzo dello Spagnolo, le catacombe, il cimitero delle Fontanelle... Invito chi sta per organizzare un viaggio a Napoli ad andarci, perché lì si vive ancora una realtà vera, non folkloristica. Stava provando a rinascere proprio quando è arrivato il potere delle paranze". Cosa è cambiato rispetto alla camorra di "Gomorra"? Tra i suoi due libri è trascorso poco più di un decennio. "Quello che è successo, ed è drammaticamente interessante, è che si è creato uno spazio in cui le paranze sono riuscite a dominare, ragazzi piccolissimi dai 10 ai 19-20 anni. Sfruttando le famiglie in crisi per le collaborazioni con la giustizia, la repressione, gli arresti dei vecchi capi, hanno iniziato ad appaltare ai giovani il controllo violentissimo del territorio, vicolo per vicolo, gestendo le piazze di spaccio, tenendo i contatti con i fornitori di coca. Lì sta anche la differenza tra la camorra dell’hinterland, Scampia, la camorra vesuviana o giuglianese e quella del centro storico. E ci sono riusciti perché i vecchi clan all’inizio non potevano mostrare alle altre famiglie che non erano stati in grado di controllare il proprio territorio, che se lo erano fatto scippare dai bambini. Fermare i bambini uccidendoli avrebbe significato per le famiglie comunicare la propria sconfitta. Li hanno così lasciti fare, salvo aspettare che crescessero, per ammazzarli dopo. Ma la camorra è la prima e forse unica organizzazione italiana a puntare tutto sui giovani". Tragico. Ma perché proprio così piccoli? "Perché nei quartieri più disagiati di Napoli la dispersione scolastica è altissima. Come cambi la prospettiva di vita senza studio, senza tessuto economico in grado di assorbire nuove risorse umane? Dieci anni fa i ragazzini del sistema camorristico, i "muschilli", erano di supporto, avevano compiti marginali, ora gestiscono armi, spaccio, potere, soldi. Sono boss". Lei li ha conosciuti? "Sì e studiati attraverso le loro chat, intercettazioni e la cosa che più mi ha fatto soffrire è che spesso sono ragazzi di talento, perfino geniali. Gestire una piazza di spaccio, vuol dire tenere a bada costi, orari di lavoro, presidi di sicurezza, corruzione, percentuali... Immaginate se ci fosse stato un paese in grado di far scegliere loro la strada della legalità. Quanto talento sprecato". Soddisfatto dello spettacolo, dove Napoli pare una Sin City da graphic novel? "Moltissimo. Dà l’impressione che tutto sia un gioco, cosa che restituisce il senso delle vite dei paranzini. Spiega perfettamente come a 15 anni ti senti un eroe immortale, punto e basta. E ti illudi di poter tornare indietro se sbagli. Invece si ritrovano una pallottola in corpo o in carcere per 20 anni". Tante sue opere sono diventate teatro. Come mai? "Il teatro è la possibilità di guardare le persone negli occhi, sentirne i respiri, condividere le emozioni. Il teatro è un luogo che oggi ha un sapore di dissidenza, perché ti prendi un’ora di tempo in cui non guardi il telefonino, il silenzio, lasci fuori i disastri e fai un’esperienza condivisa. Oggi quando tutto sembra possibile a distanza, il teatro è uno spazio di vicinanza". E il cinema? È vero allora che "La Paranza dei bambini" diventerà anche un film? "Sì, con Claudio Giovannesi e Maurizio Braucci lo stiamo scrivendo, e finora abbiamo messo giù quanto basterebbe per tre film. Quando si tocca questa materia tracimano storie, esperienze… si diventa incontenibili". Lei adesso vive più a New York o in Italia? "Divido la mia vita tra estero e Italia. Scelgo i posti disponibili ad accogliermi. Non tutti i paesi sono disposti a farlo". Migranti. L’ultimatum di Gentiloni a Macron: "Aiutaci o vinceranno i populisti" di Francesca Schianchi La Stampa, 1 luglio 2017 Vertice a Berlino. Juncker: Italia eroica. Ma nel governo spuntano i primi malumori sulla linea dura. "Siamo di fronte a numeri crescenti che, alla lunga, potrebbero mettere a dura prova il nostro sistema di accoglienza". All’indomani del grido d’allarme lanciato alla Commissione europea, con l’ipotesi di chiudere i porti italiani alle navi di Ong straniere, è ai leader europei che il premier Paolo Gentiloni si rivolge per convincerli a intervenire al più presto sulla questione migranti. A Berlino, a margine del vertice preparatorio del G20 di Amburgo della settimana prossima, il pressing italiano è soprattutto sul presidente francese Emmanuel Macron: perché gli altri grandi Paesi affacciati sul Mediterraneo, Francia per prima ma anche la Spagna, si facciano carico dell’accoglienza nei propri porti di navi cariche di migranti. Ma il capo di Stato transalpino frena: "Non bisogna confondere i piani: c’è un problema di rifugiati politici, e poi c’è il tema dei migranti economici". "I flussi migratori non si arrestano: se non ci aiutate, il rischio è che alle prossime elezioni in Italia trionfino i populisti", cerca di sensibilizzare gli altri Gentiloni, ricordando il peso del tema migranti sull’opinione pubblica italiana. "Il messaggio è quello di un Paese che non viola le regole, ma che è sotto pressione e chiede il contributo concreto dei colleghi europei", fa sapere alla Merkel e Macron per primi, ma anche all’inglese May, lo spagnolo Rajoy, l’olandese Rutte, la norvegese Solberg, i vertici delle istituzioni Ue, il presidente del consiglio Tusk e della Commissione, Jean-Claude Juncker, il più sensibile nel riconoscere che "dobbiamo compiere sforzi per sostenere Italia e Grecia, due nazioni eroiche". "Abbiamo internazionalizzato le operazioni di salvataggio, ma l’accoglienza resta di un Paese solo", lamenta il presidente del consiglio proponendo soluzioni: la revisione della missione Frontex, più risorse per le operazioni in Libia, impulso ai ricollocamenti e intesa dei singoli Paesi con le ong per scongiurare il temuto "pull factor". Ma, soprattutto, una collaborazione fattiva da parte di chi, come noi, affaccia sul Mar Mediterraneo, Francia e Spagna, perché si facciano carico di accogliere nei propri porti una parte delle navi delle ong. Il problema è che Madrid sull’argomento non ci sente; Macron era sembrato più disponibile, con quelle sue dichiarazioni pubbliche sull’Italia che "non abbiamo ascoltato sulla crisi dei migranti", poi però solo nei giorni scorsi ci sono stati 150 respingimenti a Ventimiglia. E ieri è sembrato prendere le distanze, distinguendo tra gli arrivi: "L’80 per cento dei problemi posti da Gentiloni viene da migranti per motivi economici". Come se fosse facile, in mare, distinguere i profughi con diritto di asilo dagli altri. Il ministro Marco Minniti, principale sostenitore nel governo della linea dura, predica che "il tempo delle parole si è consumato" e ora i leader europei devono rispondere coi fatti: "Il modo migliore per affrontare la questione è tentare di governarla". Mettendoci la faccia, rivendica: quello che sta facendo anche a costo di qualche mugugno nel governo, dove la sua linea securitaria non è sempre vista di buon occhio dal collega della giustizia Andrea Orlando, rappresentante della sinistra Pd, né dal ministro degli Esteri Angelino Alfano, che ripete spesso come servano soluzioni sicure ma anche solidali. Tra l’altro, mormora qualcuno nell’esecutivo, aver spinto l’allarme fino alla minaccia della chiusura dei porti è rischioso: se l’Ue non facesse nulla, difficilmente si potrebbe attuare una misura del genere, e si perderebbe a quel punto credibilità. Ma il governo punta a capire presto se l’ultimatum sortirà effetti: ieri Gentiloni ha fissato una dead-line nel vertice dei ministri dell’interno europei a Tallinn, il 6 e 7 luglio, augurandosi che lì ci sia "lo sbocco concreto degli impegni presi". Anzi, qualcosa potrebbe succedere anche prima: visto che la scelta di deviare qualche nave in altri porti del Mediterraneo può essere fatta anche unilateralmente dai Paesi interessati, si sta lavorando a un vertice ristretto dei soli ministri di Italia, Francia, Germania. Droghe. "Costretto a comprare dai pusher la cannabis per curarmi" La Repubblica, 1 luglio 2017 L’appello di un malato di sclerosi. La denuncia del barese Nicola Loiotile: "Dopo la prescrizione medica passano anche mesi prima di ricevere i farmaci". L’appello al governatore pugliese Michele Emiliano: "Permetteteci di coltivarla in casa". In nove anni di battaglie contro i "dolori e gli spasmi" della sclerosi multipla Nicola Loiotile, 48enne di Bari, è riuscito a trovare sollievo soltanto con la cannabis terapeutica, che ha scoperto a giugno dell’anno scorso. Ma la "burocrazia" e le "difficoltà di alcuni medici a comprendere i benefici" dell’erba lo costringono anche a mesi di astinenza dall’unica terapia che lo ha aiutato davvero a stare meglio. E dopo notti passate tra "incubi e paura", a Nicola capita di sentire l’esigenza "di rivolgersi al mercato illegale", acquistando un prodotto non controllato e che in alcuni casi lo ha fatto "stare peggio". "Come me - spiega - ci sono tanti altri pazienti in Puglia, anche malati terminali e gli epilettici, obbligati a dover alimentare il mercato nero perché i passaggi della burocrazia ci costringono a stare mesi senza la cannabis: per questo a volte ci capita di andare a cercarla altrove, sperando di poter stare finalmente meglio. Ma spesso capita di trovare cannabis di pessima qualità, che ci fa sentire molto male". Nicola spiega che dovrebbe "assumere ogni giorno, perché prescritto dal medico, un grammo di Bediol, che mangio, e due grammi di Bedrocan che inalo con il vaporizzatore". "Quando assumo la cannabis ne sento subito i benefici – dice. Riesco a muovermi con più facilità, avevo cominciato a usare una sola stampella. E poi mi torna il buon umore, la notte dormo bene e l’incontinenza scompare. Non è bello alla mia età dover mettere il pannolone". "Ma - aggiunge - se sto tre o quattro giorni senza terapia, ricomincia il mio calvario". Nicola riferisce che le "prescrizioni gli consentono di avere la copertura per un mese". E che ogni volta, "prima di ottenere nuovamente i farmaci, passano circa dieci giorni". "Questo avviene - rimarca - nel migliore dei casi, perché mi è capitato di stare anche tre mesi e mezzo senza entrambi i farmaci. E adesso aspetto da due mesi il Bedrocan". Nicola, che fa parte dell’associazione ‘La piantiamò di Racale (Lecce), formata prevalentemente da malati per facilitare l’uso della cannabis terapeutica, ricorda le battute di alcuni medici "prevenuti: c’è molta ignoranza sull’argomento - spiega - e molti dottori ci scherzano su e ironizzano perché secondo loro vogliamo una droga". "Le uniche informazioni passano soltanto fra noi malati che studiamo molto la cannabis, che per noi è soltanto un farmaco", assicura Nicola ripensando a quando assumeva l’Interferone e a come lo faceva stare male. Mentre gli "unici effetti collaterali" della cannabis che ha riscontrato riguardano una sensazione di "secchezza nella bocca: basta bere un po’ d’acqua - spiega - per farla passare". Fino a poco tempo fa, inoltre, Nicola doveva andare ogni mese a Gallipoli (Lecce) dal medico prescrittore, chiedendo "favori ad amici e parenti per essere accompagnato". E anche se adesso per la provincia di Bar, ci sono tre medici che prescrivono il farmaco, il "problema rimane - spiega - perché ottenuta la prescrizione bisogna andare alla farmacia ospedaliera, che a propria volta ordina il prodotto da una farmacia esterna privata". "Non è un sistema che funziona - evidenzia - e dovrebbero permetterci di piantarla". Invece, commenta amaramente, "mi resta solo tanta rabbia perché penso che potrei vivere meglio nonostante la mia malattia". Per questo ora Nicola lancia un appello "al presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, a intervenire per porre rimedio a un meccanismo che sta condannando noi malati a una vita di sofferenze". Stati Uniti. Muslim ban in vigore e pene più dure per i migranti illegali di Marina Catucci Il Manifesto, 1 luglio 2017 Ingresso negli Usa solo per chi lavora, studia o ha parenti "stretti", concetto fortemente limitato. La Camera taglia i fondi alle "città santuario" che proteggono e accolgono gli immigrati. Dopo mesi di battaglie legali, proteste e modifiche, il Muslim Ban, l’ordine esecutivo voluto da Trump che temporaneamente impedisce l’ingresso negli Usa ai cittadini provenienti da sei nazioni prevalentemente musulmane (Libia, Iran, Somalia, Sudan, Siria e Yemen), è entrato in vigore, anche se solo parzialmente. Secondo il bando potranno entrare negli Stati uniti soltanto i cittadini provenienti da questi sei paesi che dimostreranno di avere un legame in America, una relazione con qualche organizzazione americana (ad esempio per ragioni di studio), un interesse lavorativo o un ricongiungimento famigliare. E qua arriva la maggior parte dei problemi. Si parla di "famiglia stretta" ma bisognerebbe accordarsi sui termini, su cosa significhi il concetto che - a quanto pare - per Trump comprende genitori, figli, suoceri, fratelli, cognati, coniugi, ma esclude fidanzati, nonni, nipoti, zii e cugini di persone che vivono attualmente negli Stati Uniti. Non sono mancate le reazioni: oltre alle manifestazioni che si sono svolte nelle principali piazze degli Stati uniti, lo Stato delle Hawaii ha chiesto ad una corte federale di chiarire la portata della sentenza della Corte suprema sull’ordine esecutivo del presidente. Il motivo d’urgenza depositato al tribunale federale di Honolulu è, in effetti, una sfida alla definizione dell’amministrazione Trump di chi può essere escluso dagli Usa: cosa costituisce un rapporto familiare stretto? In una dichiarazione, il procuratore generale delle Hawaii, Douglas Chin, ha detto che il suo Stato chiede chiarimenti sul perché il governo federale non possa applicare i controversi divieti contro "tutti quei familiari che non vengono reputati abbastanza vicini". Il fatto è che specialmente i nonni spesso sono la vera linea di continuità familiare nelle relazioni tra migranti: nipoti che vengono mandati a raggiungerli, nonni che rimasti soli si ricongiungono con i nipoti americani. Ma questa raffinatezza di valutazione che include conoscenza ed empatia non è parte dell’amministrazione Trump. L’idea di un gfiglio che viene mandato a vivere dagli zii per sottrarlo ad una vita difficile là dove è nato non entra nell’orizzonte cognitivo di chi ha prodotto questo decreto chiaramente discriminatorio, xenofobo, islamofobo. E la mobilitazione, questa volta, non è stata emotiva ma pragmatica: sin dal pomeriggio nei principali aeroporti internazionali americani si sono ricostituiti gli sportelli legali volontari organizzati dalle associazioni per la difesa dei diritti civili. Militanti o anche semplici cittadini si sono presentati per offrire assistenza a chi è in difficoltà, riportando di nuovo la fotografia di un tessuto sociale migliore dei loro rappresentanti. L’ordine esecutivo di Trump resterà in vigore in questa forma almeno fino ad ottobre, quando la Corte esprimerà il proprio parere sulla costituzionalità del decreto cercando di capire se è in contrasto col Primo Emendamento che garantisce la libertà religiosa. Come se non bastasse c’è stato un nuovo giro di vite contro gli immigrati e le città che li proteggono, con l’approvazione di due nuove leggi da parte della Camera: la prima sospende i finanziamenti federali alle "città santuario", ossia le circa 300 città americane - da San Francisco a New York - che offrono protezione e assistenza ai loro cittadini illegali; la seconda aumenta le pene per gli stranieri espulsi che ritornano negli Stati Uniti. Trump ha invitato il Senato a fare altrettanto, cosa più difficile: per far passare a legge è necessario l’appoggio dei democratici in modo da arrivare ai 60 voti necessari. Il segretario della sicurezza nazionale, John F. Kelly, è venuto in aiuto lodando i disegni di legge, ma ad aprile un giudice della corte di San Francisco aveva già bloccato temporaneamente l’ordine esecutivo emesso da Trump che avrebbe congelato miliardi di dollari di fondi federali destinati alle città santuario. E il mese scorso il ministro della Giustizia Jeff Sessions aveva ridimensionato l’ordine, riducendo i parametri per definire le città santuario e la somma dei fondi federali che le città potrebbero perdere per non aver condiviso informazioni sullo status di immigrazione dei propri cittadini con le autorità federali. L’Onu: in Siria è stato usato il gas Sarin di giordano stabile La Stampa, 1 luglio 2017 Rivelate le conclusioni della missione dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche. La missione dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, Opac, è giunta a conclusione che il 4 aprile a Khan Sheikhoun, nella Siria settentrionale, è stato usato il gas Sarin o qualcosa di "simile". La missione ha intervistato testimoni ed esaminato campioni di sangue delle vittime, alcune della quali decedute e ha concluso che un "gran numero di persone" erano state esposte "al Sarin o qualcosa di simile". La rappresaglia degli Usa - Ora una commissione Onu cercherà di stabilire chi è il responsabile dell’attacco nella cittadina, vicino a Idlib, che ha causato oltre 90 morti e centinaia di feriti. Gli Stati Uniti, e gran parte dei Paesi occidentali, sono convinti che sia stato il regime di Bashar al-Assad. Il 7 aprile Washington ha lanciato un attacco di rappresaglia sulla base aerea di Shayrat, con 59 missili Tomahawk. Nei giorni scorsi la Casa Bianca ha accusato Assad di "preparare un altro attacco". La tesi di Damasco e Mosca - Damasco e Mosca sostengono invece che la nube tossica si è sprigionata dopo un raid con armi convenzionali su un centro comando dei ribelli, che veniva usato anche come deposito di sostanze utilizzate per fabbricare armi chimiche rudimentali, ma dagli effetti simili ai gas nervini, come alcuni pesticidi. L’inchiesta dell’Onu dovrà ora stabilire chi ha ragione. Offensiva contro l’Iran - Le rivelazioni sul rapporto dell’Opac arrivano in una fase che vede Washington all’offensiva contro l’Iran e i suoi alleati, in procinto di creare un grande asse sciita da Teheran a Beirut. L’ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, Nikki Haley, ha accusato l’Iran di aver "violato ripetutamente" la risoluzione Onu di ratifica dell’accordo del 2015. Secondo Haley, il "ripetuto lancio di missili balistici, un provato contrabbando di armi", l’acquisto di tecnologia missilistica e violazioni al divieto di viaggiare imposto a ufficiali militari iraniani dimostrano il mancato rispetto da parte di Teheran dei suoi obblighi internazionali. Filippine. Un anno tragico di presidenza Duterte di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 1 luglio 2017 Oggi ricorre il primo anniversario della presidenza nelle Filippine di Rodrigo Duterte durante la quale è stata scatenata una lotta senza quartiere a spacciatori e tossicodipendenti che ha causato migliaia di morti. "In un anno di presidenza delle Filippine Rodrigo Duterte e la sua amministrazione sono stati responsabili di una vasta gamma di violazioni dei diritti umani, intimidazioni e arresti di personalità critiche, e hanno instaurato un clima privo di legge" ha dichiarato in un comunicato Amnesty International. Dalla più alta carica del paese, Duterte ha esplicitamente approvato la violenta campagna governativa contro la droga che ha causato migliaia di esecuzioni extragiudiziali, persino più di quante se ne contarono durante il regime omicida di Ferdinando Marcos dal 1972 al 1981. "Duterte è salito al potere con la promessa di porre fine alla criminalità. Invece, migliaia di persone sono state uccise da, o per conto di, una polizia che agisce al di fuori della legge, su ordine di un presidente che non ha mostrato altro che disprezzo per i diritti umani e per coloro che li difendono", ha dichiarato James Gomez, direttore di Amnesty International per il Sudest Asiatico e il Pacifico. Lo scorso febbraio, Amnesty International aveva pubblicato un drammatico rapporto in cui denunciava come la polizia si fosse trasformata in un’impresa criminale, uccidendo persone per lo più povere sospettate di consumare o vendere droga, assoldando sicari, impossessandosi dei beni delle persone uccise, collocando false prove sui loro cadaveri e rimanendo del tutto impunita. L’organizzazione per i diritti umani aveva sottolineato con preoccupazione l’assenza di qualsiasi credibile indagine su quelle esecuzioni extragiudiziali di massa, equiparabili persino a crimini contro l’umanità. La risposta al rapporto di Amnesty International del segretario alla Giustizia era stata agghiacciante: "Quelli non erano esseri umani". A maggio, quando la situazione dei diritti umani delle Filippine è stata sottoposta all’Esame periodico universale del Consiglio Onu dei diritti umani, oltre 40 stati hanno espresso preoccupazione per l’ondata di esecuzioni extragiudiziali e il progetto di ripristino della pena di morte per i reati di droga, in violazione degli obblighi assunti dal paese nei confronti del diritto internazionale. Amnesty International ha chiesto al governo filippino di invitare ufficialmente a visitare il paese il Relatore speciale Onu sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie e arbitrarie e ha sollecitato il Consiglio Onu dei diritti umani ad avviare un’indagine sulla "guerra alla droga". Una guerra contro i poveri - La cosiddetta "guerra alla droga" di Duterte ha pressoché completamente preso di mira le persone delle zone più povere delle città. I corpi pieni di sangue vengono lasciati nelle strade, a volte marchiati col segno dello spacciatore, come a suggerire che siano state le loro azioni a condurre inevitabilmente alla morte. La polizia prende soldi in nero per eseguire gli omicidi, o paga sicari per farlo, sulla base di liste di nominativi preparate dalle autorità locali. Invece di chiamarla a rispondere del suo operato, Duterte si è impegnato a proteggere la polizia, affermando recentemente che non permetterà che alcun soldato o poliziotto vada in carcere per aver "distrutto l’industria della droga". In un caso assai noto, riguardante la morte del sindaco di Albuera e del suo compagno di cella, l’accusa nei confronti degli agenti di polizia sospettati di aver sparato è stata ridotta da omicidio premeditato a omicidio preterintenzionale. "Il governo di Duterte evita a ogni livello di assumersi le responsabilità. Non ci sono indagini credibili a livello nazionale e non c’è collaborazione col Relatore speciale Onu. La procuratrice del Tribunale penale internazionale potrebbe avviare un’indagine preliminare sugli omicidi di massa e, data la totale impunità in atto, questa opzione migliore", ha sottolineato Gomez. La pena di morte - Il disprezzo del governo di Duterte per il diritto internazionale si è manifestato in tutta evidenza col tentativo di reintrodurre la pena di morte per i reati di droga. Poiché le Filippine sono vincolate al rispetto del Secondo protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici, si tratterebbe di un atto illegale. Mettere a morte persone per reati di droga è essa stessa una violazione del diritto internazionale. "Nell’anno in cui le Filippine hanno la presidenza dell’Associazione delle nazioni del sudest asiatico e dovrebbero di conseguenza incoraggiare gli altri stati ancora mantenitori ad abolire questa pena crudele e irreversibile, Duterte sta guidando la regione nella direzione sbagliata con gravi conseguenze per le vite umane. Il Senato delle Filippine deve respingere questo tentativo di riportare il paese nel passato e lasciar cadere la proposta di legge sulla pena di morte una volta per tutte", ha dichiarato Gomez. Minacce ai difensori dei diritti umani - In questi 12 mesi, il presidente Duterte ha anche minacciato di "uccidere" gli attivisti per i diritti umani e, in un discorso fatto nel palazzo presidenziale nel maggio 2017, di "decapitare" i difensori dei diritti umani che criticano la situazione del paese. La principale voce critica del paese, la senatrice Leila de Lima, è in stato di detenzione. "C’è il pericolo che l’assenza di legge si diffonda ancora di più. Quando i diritti umani e lo stato di diritto vengono messi da parte, la polizia si dà al crimine e la povera gente ne paga le conseguenze. Le forze di sicurezza hanno il dovere di attenersi alle norme e agli standard internazionali sui diritti umani. Se non lo fanno, si comportano esattamente allo stesso modo di coloro che dovrebbero contrastare", ha commentato Gomez. La legge marziale - La mortale campagna antidroga del governo ha distratto l’attenzione da altre questioni di grande importanza. Il 23 maggio Duterte ha dichiarato due mesi di legge marziale nell’isola meridionale di Mindanao, dopo che le forze di sicurezza erano state colte di sorpresa dall’attacco di gruppi armati che avevano preso possesso della città di Marawi. Sulla base del diritto internazionale, le misure d’emergenza devono essere limitate nella durata e nella portata e non possono essere usate come scusa per ignorare i diritti umani.