Sovraffollamento carcerario, settemila detenuti "in più" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 luglio 2017 Il 35% dei carcerati è in attesa di giudizio. I nuovi dati sul sistema penitenziario elaborati dalla Radicale Rita Bernardini. Ci sono almeno 4.500 posti inutilizzabili per inagibilità. Su 190 strutture, 25 hanno un’eccedenza tra il 155% e il 193%, maglia nera a Lodi. Sovraffollamento del 113,3% secondo i dati ufficiali, ma se si sottraggono i posti inagibili la percentuale reale risulta più alta. Percentuale altissima dei detenuti in attesa di giudizio, che è pari al 35%. Detenuti tossicodipendenti che sono tornati ad aumentare e percentuale altissima, pari al 77%, di detenuti che convivono con disturbi psichiatrici che sorgono durante il periodo di detenzione. A fotografare l’attuale realtà del sistema penitenziario è l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini. Il Dubbio, prendendo spunto dagli ultimi dati messi a disposizione dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nei giorni scorsi ha denunciato che rimane confermato il trend del sovraffollamento nelle carceri. Su 50.241 posti regolamentari, risultano 56.919 detenuti. Ciò significa che abbiamo una eccedenza, rispetto alla capienza regolamentare, di ben 6678 detenuti. "Nei 190 istituti penitenziari - scrive l’esponente Radicale - attualmente in funzione sono detenute 56.919 persone in 50.241 posti regolamentari, ma i posti disponibili sono molti meno di quelli indicati come regolamentari. Ci sono almeno 4.500 posti inutilizzabili per ristrutturazioni o inagibilità: ecco così che la percentuale effettiva del sovraffollamento "nazionale" sale al 124,4%. Nell’ultimo anno la popolazione detenuta è aumentata di 2.847 persone, il che vuol dire - denuncia Rita Bernardini - che se si mantenesse questo trend a metà del prossimo supereremo le 60.000 unità avvicinandoci pericolosamente ai numeri che determinarono la sentenza Torreggiani: 25 carceri hanno un sovraffollamento fra il 155% e il 193%. La maglia nera del sovraffollamento spetta a Lodi". Continua ad essere altissima, pari al 35%, la percentuale dei detenuti in attesa di giudizio; l’effetto della nuova legge n. 47 sulla custodia cautelare varata il 16 aprile 2015, è stato pari a zero. Dei 19.973 detenuti in attesa di giudizio, ben 9.614 sono in attesa di primo giudizio. Gli stranieri in carcere sono in totale 19.432 pari al 34,1% della popolazione detenuta. Nelle visite che costantemente il Partito Radicale fa nelle carceri risulta la quasi totale assenza dei mediatori culturali, il che determina per gli stranieri che non conoscono la nostra lingua la totale mancanza di cognizione di quale sia loro posizione giuridica. Le donne detenute sono in tutto 2.403, pari al 4,2%. Le donne detenute assieme ai loro bambini sono in tutto 49 con 58 figli al seguito. Infine l’esponente del Partito Radicale parla dei casi psichiatrici in carcere: il 77% dei detenuti convivono con un disturbo mentale, dai disturbi della personalità alla depressione, fino alla psicosi. Se fuori dal carcere i disturbi psicotici si riscontrano nell’ 1% delle persone, dietro le sbarre la percentuale sale al 4%. Per il 41bis il Garante dei diritti c’è di Francesco Maisto Il Manifesto, 19 luglio 2017 Il fatto è uno, ma vale per la generalità dei detenuti. Se un detenuto parla con un familiare, il "parlare con" si definisce colloquio, e se parla poi con il Garante dei detenuti è un colloquio come gli altri o no? Secondo l’Amministrazione carceraria è un colloquio assoggettato a restrizioni, come se il Garante fosse un congiunto e quindi, potendo il detenuto in regime di carcere duro in 41 bis, fare un solo colloquio al mese (a fronte dei 6 ammessi per i detenuti comuni) deve scegliere tra un congiunto o il Garante. È stata necessaria una argomentata ed importante ordinanza del 27 giugno 2017 del Giudice Gianfilippi, su reclamo di un detenuto in 41 bis del carcere di Terni, per decidere che non si tratta di un colloquio come altri; che deve essere disapplicata la disposizione ministeriale e che quel detenuto può parlare con il Garante della Regione Umbria, prof. Anastasia che aveva posto inutilmente un quesito al Dap. Che la legge penitenziaria del 1975 abbia subito tante e tali restrizioni, modificazioni e distorsioni da renderne necessaria una organica revisione, come previsto dall’art. 1, comma 85 della recente legge 23 giugno 2017, n.103, non è un mistero, ma, in attesa dei Decreti, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria dovrebbe avere le risorse intellettuali per armonizzare la normativa vigente rispetto alle disposizioni di rango inferiore. Ma così non è stato. Lo statuto del Garante, per l’istituzione nel nostro ordinamento, è stato perfezionato progressivamente nel tempo. Il D.L. 30 dicembre 2008, n. 207, con l’ art. 12-bis, comma 1, lett. a), ha modificato l’art.18 della legge penitenziaria prevedendo che "I detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui e corrispondenza con i congiunti e con altre persone, nonché con il garante dei diritti dei detenuti, anche al fine di compiere atti giuridici"., e, con la lett.b), ha modificato l’art.67,l-bis) attribuendo ai "garanti dei diritti dei detenuti comunque denominati" il potere ispettivo alla pari di altre autorità istituzionali. Ma l’ art. 2, comma 25, lett. a), L. 15 luglio 2009, n. 94 ha modificato l’art. 41 bis, comma 2-quater, prevedendo "b) la determinazione dei colloqui nel numero di uno al mese da svolgersi ad intervalli di tempo regolari ed in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti", laddove si tratta, all’evidenza, di colloqui con i familiari. Peraltro, il comma 2 dell’art.41 bis chiarisce che sono ammesse solo le restrizioni "necessarie per il soddisfacimento delle esigenze di ordine e di sicurezza e per impedire i collegamenti con l’associazione", ponendo un vincolo funzionale tra prevenzione speciale e restrizioni. Insomma, ogni altra restrizione è sostanzialmente inutile. Imperterrito nella linea restrittiva, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria trascura il Diritto di reclamo previsto dall’art. 35 o.p., modificato dalla legge 10 del 2014 ("I detenuti e gli internati possono rivolgere istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa: al garante nazionale e ai garanti regionali o locali dei diritti dei detenuti", alla pari di altre autorità istituzionali, come, ad esempio, il magistrato di sorveglianza. È fin troppo ovvio che chi parla con il Garante non effettua un colloquio in senso tecnico, ma espone un reclamo orale. L’ordinanza del Giudice Gianfilippi deve essere dunque segnalata, non solo per l’acutezza delle argomentazioni, ma anche perché mette a fuoco tre livelli fondamentali per la riforma di un carcere civile e secondo la nostra Costituzione: la tutela dei diritti dei detenuti, il corretto rapporto tra Giurisdizione e Amministrazione, lo statuto attuale dei Garanti dei detenuti. Ingiustizia carceraria e storie interessanti di Massimo Bordin Il Foglio, 19 luglio 2017 La battaglia perché perfino ai mafiosi vengano garantiti dei diritti, non può fare dimenticare, oggi che è l’anniversario della strage di via D’Amelio, quanto questi personaggi si sentissero forti e impuniti. Gli articoli di Damiano Aliprandi su Il Dubbio sono belli e soprattutto utili. Tutti i giorni Aliprandi, seguendo le mosse dei garanti regionali dei detenuti o quelle di Rita Bernardini e dei radicali, parla di qualche ingiustizia carceraria e finisce per raccontare storie interessanti, come ieri quella del vecchio ‘ndranghetista che sta al 41 bis in gravi condizioni, ricoverato a Parma in un reparto, riadattato a carcere speciale, dell’ospedale. Insieme sono lì detenuti Riina e Farinella. Di Riina sappiamo tutto, Farinella è pure un personaggio interessante. Era uno dei tre capi mandamento, tre non trecento, cui fu revocato il 41 bis da Conso che per quell’atto si ritrovò imputato nel processo sulla trattativa. Le imputazioni di Farinella all’epoca non giustificavano quel regime carcerario, poi si precisò il suo ruolo di mafioso e da più di vent’anni è detenuto al 41 bis. Strano modo di beneficiare di questa famosa trattativa. Un altro caso di 41 bis sempre a Parma, ma stavolta nel carcere propriamente detto, è quello di Piddo Madonia, temuto capomafia del nisseno, detenuto da un quarto di secolo ora è semi cieco. La battaglia, giusta a parere di chi scrive, perché a costoro, perfino a costoro, verrebbe da dire, vengano garantiti dei diritti, non può fare dimenticare, oggi che è l’anniversario della strage di via D’Amelio, quanto questi personaggi si sentissero forti, feroci e soprattutto impuniti. Non poterono continuare a esserlo grazie al risveglio dello Stato, che oggi nei dibattiti verrà messo sul banco degli imputati dove ancora si trovano, non metaforicamente, quelli che li arrestarono. Separazioni delle carriere, già raccolte 55 mila firme di Simone Santucci Italia Oggi, 19 luglio 2017 Magistratura, la proposta di legge delle Camere penali. Sono circa 55.000 le firme raccolte dall’Unione delle camere penali italiane in favore della proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per la separazione delle carriere nella magistratura. Partita all’inizio del mese di maggio la campagna, una delle più vaste della storia recente dell’avvocatura, ha quindi già raggiunto con quattro mesi di anticipo la soglia delle 50.000 necessarie per la presentazione del ddl in parlamento. Tra le forze politiche la proposta Ucpi ha trovato l’adesione di uno schieramento trasversale di esponenti tra i quali figurano anche il vicepresidente della camera Giachetti, il segretario della Lega Salvini, il ministro degli affari regionali Costa, il presidente della commissione esteri della camera Cicchitto, il governatore della Regione Liguria Toti e gli ex ministri Terzi di Sant’Agata e Marzano che si aggiungono ad associazioni e partiti come la Fondazione Luigi Einaudi, il Partito Radicale e il Partito Liberale. "Nonostante il risultato raggiunto la campagna di raccolta proseguirà anche d’estate, nelle piazze e nei tribunali di tutta Italia. Abbiamo dimostrato come questo tema sia sensibile non solo per l’avvocatura ma anche per migliaia di cittadini estranei alle tematiche che attengono la giustizia. Non solo. Grazie a una campagna di comunicazione attraverso i social siamo riusciti a coinvolgere moltissimi giovani, un dato particolarmente importante e che dimostra come il tema sia sentito dalle nuove generazioni", ha commentato Anna Chiusano, vicepresidente del comitato promotore della raccolta che al vertice vede il presidente dei penalisti Beniamino Migliucci e tra i componenti giuristi come Gaetano Pecorella e Marcello Gallo. Il disegno di legge Ucpi mira non solo a distinguere nettamente le carriere tra giudici e pubblici ministeri ma promuove, inoltre, la costituzione di due consigli superiori della magistratura distinti, uno per quella giudicante e uno per quella inquirente. "Solo così", ricorda Migliucci, "si potrà veramente dare attuazione all’articolo 111 della Costituzione che stabilisce la terzietà del giudice all’interno di un vero giusto processo, esattamente avviene in gran parte degli ordinamenti europei dove la separazione delle carriere è la regola e non l’eccezione". Più di cento sono le camere penali italiane coinvolte nella raccolta che prosegue, anche in questi giorni, in numerose località d’Italia. "Emblematico è il dato che riguarda i territori: sono circa 7 mila le firme raccolte solo nella Sicilia, la regione che ha totalizzato più consensi. Seguono in questa classifica l’Emilia Romagna, il Lazio e la Campania che hanno raccolto, da sole, oltre 15.000 sottoscrizioni. Riguardo le città spicca il primato di Brindisi che, da sola, ha totalizzato oltre 2.500 firme mentre molti centri minori come Modena, Tivoli, Nola, Santa Maria Capua Vetere, Patti e Messina viaggiano sopra le mille firme a testa" ha dichiarato Giuseppe Belcastro, coordinatore del Comitato organizzatore delle camere penali. Il bilancio della raccolta e le prossime iniziative politiche saranno poi oggetto del congresso straordinario Ucpi del 6, 7 e 8 ottobre che quest’anno sarà organizzato dalla camera penale di Roma, la città, tra i grandi centri, che ha raccolto più sottoscrizioni in questi primi due mesi di raccolta. "Sarà l’occasione per approfondire non solo il tema della separazione delle carriere ma anche gli altri numerosi fronti che riguardano la politica e l’ordinamento giudiziario grazie al contributo di esponenti della politica, del giornalismo, della cultura e dell’accademia" dichiara il presidente della camera penale di Roma Cesare Placanica. "Codice Antimafia, no all’arbitrio", gli avvocati in trincea a Salerno Petronilla Carillo Il Mattino, 19 luglio 2017 Fronte comune nel giorno di astensione dalle udienze Migliucci: siamo 400mila. "Riportare urgentemente la materia della prevenzione e delle ablazioni del patrimonio nell’area di operatività dei principi del giusto processo, della legalità e della presunzione di innocenza, principi ignorati sull’onda di irrazionali spinte populistiche che finiscono con l’introdurre all’interno dell’ordinamento pericolosi elementi di totale arbitrio". Chiedono questo, in sintesi, gli avvocati penalisti iscritti all’Unione Camere Penali Italiane. E lo chiede, nel suo discorso, anche il presidente Beniamino Migliucci mentre, Michele Sarno, presidente della sezione locale, incita gli avvocati a fare sbarramento alla politica lasciando intendere la sua volontà di istituire un movimento: "Siamo in 400mila e abbiamo possibilità di bloccare la politica". Proprio in vista della modifica del codice delle leggi antimafia e delle norme sulla "confisca allargata", che estenderebbe l’applicazione dell’istituto anche ai reati contro la pubblica amministrazione, si sono tutti incontrati ieri a Salerno per fare fronte comune nel giorno dell’astensione dalle udienze. E lo hanno fatto non soltanto gli avvocati penalisti ma, soprattutto, illustri giuristi come Vincenzo Maiello della Federico II di Napoli, Vittorio Manes Università "Alma Mater studiorum" di Bologna, Giovanni Verde della Luiss di Roma e Beniamino Migliucci presidente Unione Carne -re Penali Italiane, coordinati dal direttore de Il Mattino Alessandro Barbano; quindi Giovanni Maria Flick ex ministro e già presidente della Corte Costituzionale, Michele Cerabona responsabile Osservatorio Misure Patrimoniali Ucpi, Giovanni Flora vicepresidente Unione Camere Penali, moderati dal direttore de II Tempo Gian Marco Chiocci. Posizioni dure sono state espresse da tutti in merito alla "confisca delle garanzie" nell’ambito della riforma del codice antimafia. Per Maiello "Le misure di prevenzione sono una negazione alla limitazione di responsabilità". Per il professore napoletano, in pratica, "per definizione per le misure di prevenzione non si è colpevoli, non si deve aver realizzato un reato ma si finisce schiacciati su una rilevazione poliziesca della ricostruzione del reato". Per Manes, invece, "le misure di prevenzione sono uno strumento facile da usare veloce e poco costoso. Si basa sulla ricostruzione del pm ma non sulla prova in senso tecnico che potrebbe dare all’avvocato la possibilità di dibattimento reale". Una posizione simile è anche quella di Giovanni Maria Flick "dalla mia esperienza traggo un bilancio molto negativo. I tanti controlli che abbiamo fatto per prevenire la corruzione hanno generato un sistema barocco di espedienti inutili che non hanno portato a nulla di concreto, mi riferisco, ad esempio, alla confisca per equivalente che abbiamo cominciato a distribuire come il cacio sui maccheroni. Mi domando se tutto questo è frutto dell’ignoranza della politica o della strumentalizzazione, da parte di qualcuno, di quell’ignoranza. Il tempo del tecnicismo è finito: ora è tempo di concretezza. Abbiamo delle grosse responsabilità, sia come accademia, che come magistrati ma anche come avvocati". L’ex ministro rivolgendosi in particolare alle toghe le incita a "non occuparsi solo della separazione delle carriere: occorre avere il coraggio di denunciare". In merito al disegno di legge di modifica del codice delle leggi antimafia e delle norme sulla "confisca allargata", è forte la denuncia. "Come diceva Giovanni Falcone il sospetto non è l’anticamera della verità: la corruzione non si combatte solo con la repressione ma con la prevenzione". L’accordo tra Orlando e Anm per fregare le toghe onorarie di Marco Palombi Il Fatto Quotidiano, 19 luglio 2017 Cos’è l’austerità? Anzi: cos’è la svalutazione interna via austerità che ci chiede l’Europa? È un mondo in cui chi faceva già un lavoro precario, sottopagato e senza tutele dovrà farlo in condizioni ancora più miserabili. Nel caso che raccontiamo, il tutto è reso ancor più bizzarro dal fatto che il datore di lavoro è lo Stato e che il governo pro tempore abbia deciso di avvilire 5mila suoi collaboratori con l’avallo (e qualcosa in più) del sindacato dei magistrati, l’Anm, divenuto da qualche tempo più dialogante col potere politico. Parliamo, infatti, dei cosiddetti magistrati onorari (carica a cui si accede tramite un concorso per titoli): 1.400 giudici di pace (finora gli unici a guadagnare cifre decenti), circa 2.000 giudici onorari di tribunale (Got) e circa 1.800 viceprocuratori onorari (Vpo). Nella forma attuale esistono dalla fine degli anni 90: Got e Vpo dovevano durare tre anni, ma a forza di proroghe sono ancora in mezzo a noi. Problema: senza di loro si fermerebbe la malandata macchina della giustizia, visto che a loro sono appaltati tutti i casi "minori" al modico prezzo di 73 euro netti a udienza, cioè al giorno, col caro vecchio regime del cottimo. Problema: l’Italia è già stata condannata in sede europea perché questi lavoratori, di fatto a tempo determinato, sono trattati come autonomi non avendo diritto a ferie, malattia, maternità, pensione. La situazione è simile a quella delle decine di migliaia di precari della scuola che, alla fine di un lungo contenzioso, il governo è stato poi costretto ad assumere dalla Corte europea con tutti i disguidi e i ricorsi seguiti alla cosiddetta "Buona scuola". Stavolta il governo ha deciso di muoversi per tempo: non assumendo, per carità, c’è l’austerità; né abolendo l’istituto dei magistrati onorari, ché altrimenti bisognerebbe assumere magistrati di carriera che costano sei volte di più e c’è l’austerità. No, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha proposto una riforma della magistratura onoraria in cui si dice che quello è un doppio lavoro, un lavoretto, un’attività a tempo perso: retribuzione massima, per i fortunatissimi, a 900 euro al mese per due udienze a settimana. Tradotto: due giorni per preparare i fascicoli (fino a 30 per udienza) e due in Tribunale o in Procura. Il tutto col divieto di esercitare la professione di avvocato, la più "vicina" alla preparazione di questi lavoratori, nel distretto giudiziario in cui fanno il "lavoretto" per Andrea Orlando & C. Siccome, però, col tetto ai compensi gli attuali Vpo, Got e giudici di pace lavorerebbero meno lasciando nelle peste le toghe di carriera, a via Arenula hanno avuto l’ideona: aumentarli da 5mila a 8mila. Stessa spesa, uguale produttività, zero problemi con l’Ue, pensano al ministero (una pia illusione). Il testo è talmente penalizzante che quando la delega al governo fu approvata, i capi delle Procure - che qualcosa del sistema giustizia sanno - si sono spaventati: così se ne andranno tutti. Ne è nata una lettera aperta di 108 procuratori della Repubblica al ministro: "Senza l’attività dei magistrati onorari gli uffici verrebbero a trovarsi in situazione di grave crisi e di notevoli difficoltà nel far fronte ai propri compiti... con gravi ripercussioni sulla stessa possibilità di celebrazione di molti procedimenti pendenti". Per capirci, basta un dato. I giudici italiani risultano, statistiche alla mano, i più produttivi d’Europa grazie a un trucco: dal numero delle loro sentenze non sono scorporate quelle scritte dai Got. La proposta dei capi delle Procure italiane era l’istituzione del cosiddetto "ufficio del processo", stabilizzando così Vpo e Got nelle funzioni attuali (senza cioè "promuoverli" magistrati di carriera). Il ministro Orlando, dopo l’incontro coi procuratori, si disse favorevole : "Ma voglio il parere politico dell’Anm e quello del Consiglio di Stato", disse. E i pareri arrivarono. I giudici amministrativi hanno dato un giudizio in chiaroscuro sulla proposta, ma non un niet definitivo. Quello è arrivato dal sindacato dei magistrati: le toghe sono (a ragione) convinte che ogni euro impegnato dal ministero per i colleghi "onorari" sarà prima o poi chiesto a loro in termini di stipendio. È la lotta di classe ai tempi dell’austerità. A fine aprile - appena insediato il nuovo presidente Eugenio Albamonte (della corrente di sinistra Area) - l’Anm ha bocciato la proposta dei capi delle Procure: "Va escluso che i magistrati onorari in servizio possano essere stabilizzati" e pure nell’ufficio del processo serve al massimo "una figura ausiliaria senza funzioni giudiziarie". Il ministro Orlando s’è adeguato, salvo rifugiarsi in un escamotage un po’ cialtrone: la riforma entrerà in vigore a scaglioni da qui a 16 anni... E così tra governo e magistrati, dopo un anno burrascoso, è scoppiata la pace. E gli onorari? Hanno scritto questo: "L’Anm sa che siamo un espediente per consentire di contenere l’organico dei magistrati di carriera e garantire loro il trattamento economico attuale che, diversamente, non sarebbe sostenibile". Sergio Mattarella ha firmato il decreto attuativo l’altro ieri. Ecco cos’è l’austerità. La mafia del fuoco: pressioni alla politica e affari dei clan, ecco perché l’Italia sta bruciando di Roberto Saviano La Repubblica, 19 luglio 2017 Dietro gli incendi non c’è un disegno eversivo o una regia unica. Ma una serie di ragioni che mettono lo Stato in ginocchio. Si evocano piani eversivi per nascondere la realtà dei territori abbandonati. È la bonifica criminale per eccellenza: con le fiamme si fa spazio a discariche e ad aree in cui si potrebbe stoccare di tutto. Il territorio è in balìa di se stesso senza alcuna seria possibilità di prevenzione, previsione, monitoraggio e intervento. L’Italia brucia. Le domande che vengono poste sono ogni estate sempre le stesse e da sempre restano inevase: perché brucia tutto? Com’è possibile? Chi sono i responsabili? Perché non si spegne in tempo? I cieli italiani sono rossi di fiamme e non per mero caso. Ma nemmeno, come ho sentito dire al governatore della Campania Vincenzo De Luca, per un disegno eversivo o un attacco alle istituzioni. Se l’Italia brucia i motivi sono molteplici e assolutamente contro-intuitivi. "Con questo caldo basta una cicca di sigaretta per incendiare tutto", "È responsabilità di piromani", "Si dà fuoco a poveri animali che poi correndo incendiano intere foreste": leggende metropolitane, menzogne cui è facile credere e che facilmente si raccontano per trovare soluzioni che non implicano approfondimento. L’Italia brucia per cento motivi: vogliamo provare a elencarli tutti? Quasi impossibile. L’Italia brucia per bloccare le concessioni edilizie che le organizzazioni criminali usano per ricattare le amministrazioni pubbliche e gli imprenditori. Sì proprio così, credevate forse che bruciare servisse a incenerire pini, noci e ulivi per far spazio a palazzotti e ville abusive? Questo accadeva 20 anni fa. Dopo la legge- quadro per la lotta agli incendi boschivi non si può edificare per 15 anni e quindi cosa fanno i clan? Appena vengono a sapere che una zona può diventare edificabile, bruciano per bloccarla. Il messaggio è: prima di decidere se rendere edificabile o meno un terreno bisogna mettersi d’accordo con noi o negoziare un prezzo con noi, altrimenti con il fuoco blocchiamo tutto. Questa è la pratica. Ma la legge, come spesso accade, lascia spazio a strategie in grado di poterla aggirare perché "Le zone boscate ed i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all’incendio per almeno quindici anni". Se così recita la legge, sapete cosa spesso accade e soprattutto a sud? Che non vengono definiti, i territori bruciati, zona boscata o pascolo, ma zona agricola. E per le zone agricole la legge non entra in vigore. Quindi bruci e puoi costruire. Bruciare è la bonifica criminale per eccellenza: si brucia per fare spazio a discariche e ad aree in cui si potrebbe stoccare di tutto. Si brucia perché così le discariche abusive si consumano e bruciando alberi si ha più spazio per poter scavare e creare nuove discariche. L’Italia brucia perché le agenzie private, che forniscono sicurezza e monitoraggio del territorio, vengano ingaggiate e preferite alla sicurezza pubblica. Se non si appalta la sicurezza di un’area boschiva a specifiche agenzie private, la vendetta è il fuoco. Ma l’Italia brucia anche per molti altri motivi, privati e di rivalsa personale. Il fuoco viene appiccato, come mostrano le recenti indagini dei carabinieri, anche per un permesso edilizio non concesso, un divieto di caccia applicato ad aree adibite alla caccia per anni. Ed ecco che il fuoco diventa per organizzazioni criminali, gruppi di pressione e singoli cittadini la soluzione, e lo diventa perché è ormai chiaro che lo Stato non ha possibilità di far fronte all’emergenza. Chiunque voglia oggi esercitare un’azione di ricatto sa che con il fuoco può farlo. E non si tratta di piromania che è una patologia, ovvero ossessione verso il fuoco, ma di calcolo, di freddo calcolo. Spostare il problema altrove è il solito gioco furbo della politica. Addirittura ho sentito il sindaco di Catania parlare di "regia unica dietro tutti gli incendi" adducendo come prova di questa sua tesi non fatti, ma sensazioni. Non vorrei fare facile ironia, ma mi tornano in mente le parole del Procuratore della Repubblica (sempre) di Catania sulle Ong, su alcune delle quali disse di nutrire sensazioni negative, quasi a Catania dai rubinetti uscissero sensazioni al posto dell’acqua. Questa sembra una digressione polemica, invece serve proprio a mostrare come la politica (in senso lato) abbia sempre tutto l’interesse a spostare il problema altrove per continuare a non dare risposte e soprattutto per allontanare da sé ogni possibile responsabilità. E all’Italia che brucia la risposta è "disegno eversivo", "regia unica", "attacco alla politica" e non politica distratta, assente, incapace. Quando il territorio viene devastato dalle fiamme, la politica tende a rispondere in due modi, o trattando gli incendi alla stregua di calamità naturali (come terremoti o eruzioni, e davvero il Vesuvio sembrava stesse eruttando) o come cospirazioni, menti occulte e braccia manipolate da regie massoniche. In realtà, come al solito, le dinamiche sono diverse, più complesse, ma anche alla fine riconducibili a una certa razionalità, certo criminale, ma spiegabile senza scomodare complottismi di sorta. Quindi nonostante la notizia attiri molti click, e tutti i media possibili l’abbiano riportata, non esistono gattini infiammati che correndo devastano intere aree boschive, niente autocombustione o sigarette accese, ma inneschi chimici preparati ad arte e posizionati laddove è più difficile arrivare. E posizionati a favore di vento (come fatto sul Vesuvio). I luoghi comuni sugli incendi sono moltissimi. Il credere anche che sia facile poterli spegnere. Ma come? Il Vesuvio brucia e non si può spegnere il fuoco con l’acqua del mare? Bè, l’acqua spegne le fiamme, ma nulla può contro il combustibile, quello solo la schiuma può neutralizzarlo. Ma con il mare così vicino perché non usare quell’acqua a disposizione? L’acqua marina, poiché salata, può causare desertificazione, quindi non è possibile utilizzarla in aree su cui si prevede un lavoro di riqualificazione boschiva. Per paradosso la cenere concima e l’acqua marina che spegne le fiamme rende sterile il terreno. Ho provato a sfatare solo alcune delle bufale più diffuse sull’origine dei roghi perché da cittadino non accetto che mi si raccontino fandonie, ma la realtà è che il fuoco è strumento economico di "bonifica criminale". Ogni zona ha i suoi gruppi criminali che bruciano. Bande che vogliono ottenere appalti in cambio della sicurezza delle zone boschive (o mi dai l’appalto o brucio tutto); clan che attraverso il fuoco rendono inedificabili i terreni da cui vogliono ottenere percentuali sulle concessioni edilizie e i lavori di costruzione; e ancora con il fuoco le organizzazioni trasformano parchi nazionali in spazi ideali per le discariche abusive (da materiale plastico a stoffe, rifiuti speciali il cui smaltimento comporta oneri che le aziende aggirano appaltando alla camorra). Dal Vesuvio alla riserva degli Astroni, ormai distrutta per oltre un terzo, da Roma alla Maremma, alla Costiera Amalfitana, l’Italia brucia come ogni estate con la differenza, significativa, di un dato allarmante che dovrebbe imporre alla politica una seria autocritica: in un solo mese, da metà giugno a oggi, in Italia è andato in fumo tutto quel che è bruciato nell’intero 2016. Quindi nessuna regia unica o piano eversivo, ma solo ciò di cui non si vuole parlare, mai: il fuoco come declinazione - l’ennesima - dell’economia criminale che può esistere perché il territorio è in balia di se stesso senza alcuna seria possibilità di prevenzione, previsione, monitoraggio e intervento. E poi c’è chi, sempre per evitare di affrontare il problema dalla prospettiva più razionale, tira in ballo il tema della militarizzazione del corpo forestale, mostrando il camaleontismo tipico della politica che prima denuncia gli sprechi e poi, quando si prova ad arginarli, trova che il metodo è sbagliato solo perché sotto quel decreto non c’è la propria firma ma quella della forza politica antagonista. Meglio dire "sbagliato aver militarizzato la Forestale" (nonostante le competenze non si siano perse), che impegnarsi per concedere ai Carabinieri Forestali maggiori strumenti per la prevenzione e ragionare sui mezzi mancanti per far fronte alle fiamme. Ora, in un Paese come l’Italia, dove i grandi ambiti di investimento e riciclaggio delle mafie sono oltre al narcotraffico proprio edilizia e rifiuti, trattare gli incendi alla stregua di calamità naturali è da dilettanti della politica. Già immagino chi dirà: ma come non vedi quanto l’Italia sia colma di turisti? Perché non dai alla politica e alla gestione del territorio il merito di aver fatto da pull factor per il turismo internazionale. Come è possibile - mi domando io, invece - che chi parla di turismo non abbia capito che l’Italia è meta residuale? Che non potendo andare altrove per timore di attacchi terroristici si viene in Italia dove peraltro, causa incendi, in Sicilia e in Toscana sono state evacuate strutture turistiche? L’assalto turistico non avviene perché è migliorata l’accoglienza, perché sono migliorati i trasporti (provate a raggiungere Puglia o Calabria in treno...), ma perché altrove per paura non si va più. Oggi di fuoco si parla perché non è possibile ignorare quello che sta accadendo, ma non un politico che abbia descritto la situazione in maniera realistica. Anche il fuoco è usato per scopi elettorali, ma dopo aver cavalcato il disagio e l’indignazione non sarà più un argomento spendibile perché non porta voti: gli eco-reati sono percepiti come secondari rispetto alla disoccupazione, salvo poi non fare mai i conti con l’impossibilità di avere una economia florida in un Paese in cui l’economia criminale è in continua espansione. E se oggi la colpa è dei piromani, della militarizzazione del Corpo forestale, se oggi c’è un piano eversivo, se c’è una regia unica, domani in mancanza di bufale, fake news, pre e post verità, resterà solo puzza di bruciato, devastazione e silenzio. E dove c’è silenzio crescono i clan. Alla prossima estate, ai prossimi incendi. Gli incubi attuali dei torturati al G8 di Genova di Stefano Valenti Il Manifesto, 19 luglio 2017 Sedici anni fa le proteste contro il vertice. Torture, impunità e risarcimenti statali risibili. "Dai un calcio al G8" era intitolato il torneo che vedeva fronteggiarsi Attac Italia e Attac Francia il 18 luglio 2001 in Piazza Fontana Marose a Genova. Con tutte quelle reti una partita ci stava bene. Quando erano arrivati i poliziotti Attac Francia vinceva 2 a 1. Per questo, nella speranza i "nostri" pareggiassero, gli agenti avevano chiuso un occhio e consentito continuasse la partita. Un clima di relativa disponibilità come quello che si respirava il giorno successivo in occasione del corteo dei migranti, mi racconta Roberto Mapelli - presidente dell’associazione culturale Punto rosso e presente a Genova 2001 con Attac Italia. Poi il buio. Il 20 luglio Roberto Mapelli, fermato per identificazione, finisce nella caserma di Bolzaneto insieme a Mark Christopher Harrison. Entrambi sono stati malmenati, tanto che l’Harrison, ripetutamente colpito alla testa, fatica a reggersi in piedi e finisce col perdere i sensi. Al loro arrivo una persona in divisa grigia grida "frocio di merda, comunista bastardo, appena entri ti spacco la faccia". Mapelli è il primo a salire i tre gradini di Bolzaneto e ad attraversare due file di agenti tra insulti e sputi. All’ingresso è condotto in una stanza con Mark Harrison, Roberto Michele, due ragazze tedesche e un ragazzino italiano. E a riceverli due energumeni dall’accento romano in divisa. Urla, canti fascisti, confusione, euforia nei corridoi, carabinieri e poliziotti che corrono. "Bastardi", "ebrei", "troie" rivolto alle donne, sono il benvenuto. Chi chiede di andare in bagno nel percorso per arrivarci riceve calci e pugni dagli agenti. Gli energumeni iniziano dal ragazzino, vestito di nero, un black block a loro dire. Gli battono la testa al muro, lo colpiscono alla nuca, con la fronte che, a ogni colpo, batte contro la parete, fin quando il ragazzino crolla a terra dove continua a ricevere colpi in testa e alle costole. Hanno tutti avuto incubi nei mesi successivi i torturati di Genova, mi dice Mapelli a proposito di quel che è rimasto. E terribili per molti sono ancora i contatti, sebbene occasionali, con le forze dell’ordine, che generano attacchi di panico. Chi è morto suicida anni dopo, chi ha avuto un aneurisma che ha portato alla paralisi, chi ha subito traumi cronici gravi con conseguente abbandono della professione, chi ha interminabili incubi, chi disturbi post traumatici da stress e depressioni. Due terzi dei dimostranti di Genova era alla prima grande manifestazione, ricorda Mapelli, e molti, la maggioranza, in manifestazione non ci vanno più. La repressione ha funzionato e di quei giorni si parla per le violenze e non per le decisioni ratificate e che hanno dato origine al nostro presente. E anche di questo si è parlato ieri sera in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli in occasione di "Pensare Genova luglio 2001". Per quanto riguarda le conseguenze processuali di quelle giornate, il governo italiano ha riconosciuto le proprie colpe nei confronti di sei cittadini torturati nella caserma di Bolzaneto il 21 e 22 luglio 2001 e gli verserà 45 mila euro ciascuno per danni morali e materiali e spese processuali. Lo ha reso noto la Corte europea dei diritti umani in due provvedimenti in cui "prende atto della risoluzione amichevole tra le parti" e stabilisce di chiudere i casi. Conta poco che appena sei dei 65 cittadini italiani ed europei abbiano accettato questa transazione. Certamente - come riferisce Laura Tartarini, legale di una ventina di persone tra le vittime della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto - "Quella che offre lo stato è una cifretta. Ha accettato chi, tra cui due dei miei assistiti, ha necessità economiche e personali. Per gli altri il ricorso continua". L’avvocato afferma "sono passati 16 anni e non mi stupisco che alcuni di loro decidano di accettare l’offerta. Ma lo stato si sta comportando in modo davvero poco consono, tanto che gli accordi in sede civile davanti ai giudici di Genova ancora non si trovano. Questo accordo certo non rappresenta una soddisfazione morale". "Alcune delle parti civili costituite per il processo sui fatti di Bolzaneto" racconta Sara Busoli, avvocato di alcune di queste nel processo G8/Bolzaneto, "hanno fatto ricorso, in due successive tornate, alla Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo). Nel dicembre 2015 e gennaio 2016 il Governo italiano ha fatto pervenire due analoghe proposte per il regolamento amichevole della vertenza proponendo sostanzialmente di rinunciare al ricorso in cambio di un risarcimento forfettario a ciascuno dei ricorrenti". E, continua l’avvocato, "Nella proposta il governo rappresentava il fatto che oramai era in via di approvazione una legge per perseguire il reato di tortura e che per altro lo stato italiano avrebbe adempiuto ai suoi doveri attraverso adeguate indagini e provvedimenti successivi che avrebbero condotto all’identificazione e la condanna dei responsabili ad una pena proporzionata ai delitti commessi. Alcuni dei ricorrenti hanno, legittimamente, ritenuto di accettare la transazione, chiudendo definitivamente un capitolo triste e doloroso della loro vita. Altri, direi la maggioranza, hanno scelto di continuare l’azione intrapresa rifiutando la transazione, ritenendo che qualunque proposta poteva essere presa in considerazione soltanto dopo l’effettiva approvazione della legge e dopo la verifica del contenuto effettivo della medesima. Il comportamento tenuto dallo stato e dai suoi rappresentanti fino a quel momento - dice Busoli - non testimoniava certo a favore della loro credibilità. Mi pare che l’iter della legge sulla tortura e i contenuti proposti, diano purtroppo loro ragione. Al contrario, casi come quelli di Cucchi e Aldrovandi hanno dimostrato quale fosse e quale sia lo stato delle cose e le relative vicende giudiziarie hanno ribadito le medesime risposte da parte dello stato". Il giornalista Lorenzo Guadagnucci, picchiato alla Diaz da uomini che ancora non hanno un nome, è uno di quelli che ha rifiutato il risarcimento. "Ho rifiutato" ha dichiarato "perché il ricorso alla Corte di Strasburgo non l’ho fatto per avere un risarcimento economico ma perché credo che il governo italiano debba fare i conti con le proprie responsabilità, che sono avere negato giustizia alle vittime di Genova, non avere preso sul serio gli abusi commessi, non avere fatto nulla per prevenire il ripetersi di tali violazioni in futuro". "Per quanto mi riguarda" conclude Sara Busoli, "rappresento nel ricorso alla Cedu quattro parti civili già costituite nel processo penale in Italia e nessuno di loro ha accettato la transazione. Tre di loro venivano dalla Diaz, la quarta era giovanissima all’epoca ed è stata portata a Bolzaneto quasi per caso. Lei è quella che mi ha stupita di più. Mi ha chiesto tempo per pensare, poi mi ha chiamata quasi scusandosi per il fatto che proprio non le sembrava giusto accettare". Caso Yara. Tutto quello che non quadra nella condanna di Bossetti di Vittorio Feltri Libero, 19 luglio 2017 Troppa fiducia in chi ha maneggiato il Dna e la negazione di ulteriori accertamenti: impossibile essere certi della colpevolezza. Condannare un povero cristo è l’esercizio più facile del mondo, tanto è vero che le galere, in particolare quelle italiane, sono piene di gente con le pezze al culo. Massimo Bossetti si è beccato addirittura l’ergastolo in appello dopo esserselo beccato in primo grado, perché non è stato capace, per mancanza di mezzi, di opporsi ai panzer dell’accusa. La quale ha speso una vagonata di milioni allo scopo di smascherare colui che ha ucciso Yara nella pianura bergamasca, e si è fissata sul carpentiere avendone isolato il Dna, cui ha attribuito il valore di un dogma divino. Con questo ragionamento bigotto: se sulle mutandine della ragazzina è stata rintracciata una particella del muratore, significa che questi è l’assassino. La cieca fiducia dimostrata dai giudici nella scienza è lodevole. Deplorevole invece la fiducia altrettanto cieca che essi continuano ad avere in chi maneggia strumenti scientifici. Nel caso specifico, al prelievo del Dna e agli esami hanno contribuito i cosiddetti Ris, che non sono altro che carabinieri, brave persone, integerrime, utili, disponibili ma che con le provette e gli alambicchi dei laboratori non c’entrano un tubo. Difatti se un giovane spicca nella ricerca non si arruola nell’arma, ma rimane in Università. Come si fa allora a considerare i Ris infallibili, la bocca della verità alla quale attingere elementi illuminanti circa la soluzione di un giallo? Di certo è importante disporre di ufficiali attrezzati in campo scientifico, ma è una follia pensare che il Dna da loro raccolto sia elevato a prova regina atta a sbattere un imputato nelle patrie galere per tutta la vita. Il quale imputato ha il diritto di chiedere la ripetizione degli accertamenti tecnici onde verificare non siano stati commessi degli errori. Gli esperti invece sostengono, col parere positivo della corte, che le vecchie e uniche analisi sono inconfutabili, per cui è superfluo ripeterle. È una assurdità. Se un esame non è replicabile è un indizio vago, non una prova. Chi rischia l’ergastolo sulla base di una congettura merita di essere rispettato nelle sue richieste di conferma. Ma l’appello, per motivi misteriosi, ha respinto l’istanza del disgraziatissimo Bossetti. Se l’avesse accettata avrebbe fugato il dubbio che la vexata quaestio del Dna sia una bufala, un clamoroso granchio. Come si giustifica l’ostinazione delle toghe a negare al carpentiere il sacrosanto desiderio di difendersi con qualsiasi documento? Non riusciamo a capirlo. Personalmente ho avuto una esperienza significativa. Alcuni anni orsono feci gli esami del sangue, roba routinaria, e con mia grande sorpresa vidi che i risultati erano sballati, quelli di un candidato a morte improvvisa. Li ripetei immediatamente e ne attesi l’esito con grande apprensione. Erano perfetti, certificavano uno stato di salute invidiabile. Eppure in entrambe le circostanze mi ero rivolto a specialisti di primo livello. Il problema è uno solo. In ogni categoria abbondano sia gli ottimi che i pessimi professionisti. Succede tra i geometri e gli ingegneri, tra i medici e gli infermieri, tra i giornalisti poi il numero dei cretini è esorbitante, pertanto supponiamo che vi siano dei pirla anche nelle caste dei magistrati e degli scienziati. Mia nonna affermava che l’ora del coglione piglia tutti. Perché dovrebbe risparmiare toghe e camici bianchi, inclusi quelli che coprono la divisa dei fedeli nei secoli? Ecco perché noi semplici cronisti siamo indignati che lo sfigato artigiano edile sia stato murato vivo senza avere la possibilità di difendersi appieno. Non è umano, non è civile, anche se conviene. Difatti se l’esame bis del Dna si rivelasse impossibile, Bossetti dovrebbe essere assolto per assenza di prove. E ciò getterebbe nel più tetro sconforto investigatori e inquirenti, privati del capro espiatorio da immolare sull’altare della giustizia sommaria, i cui costi milionari gravano sul groppone dei cittadini. Per stabilire l’innocenza del povero Massimo non c’è per altro bisogno di genetisti. È sufficiente aver letto i giornali. Secondo le carte, il rude Bossetti si sarebbe presentato davanti alla palestra con gli abiti da lavoro, imbrattati di calcinacci, e avrebbe ammaliato Yara non soltanto col suo fascino da carpentiere, ma anche esibendo un mezzo di trasporto irresistibile: un camioncino carico di cazzuole e arnesi simili. La ragazza, attratta dal suddetto carpentiere e dalla sua vettura tipica dei conquistatori, avrebbe accettato il corteggiamento dello stesso Bossetti, e sarebbe salita sul potente furgone, illusa di vivere un momento di felicità. Non si sarebbe neppure ribellata, nonostante la propria ritrosia. Forse conosceva già il seduttore? Neanche per sogno. Sui cellulari non vi è una sola telefonata tra i due. Ad onta di ciò, Massimo avvia il motore e compie chilometri e chilometri con la preda seduta accanto a lui, mite e senza accennare alla fuga. Come egli ha fatto a tener buona e calma la bambina e al tempo stesso a guidare? Da notare che lungo il percorso esistono vari semafori. Yara non ha tentato di scendere per darsela a gambe. Cari lettori, vi sembra probabile? Pur di screditare il muratore si è detto che costui era incline a raccontare balle, a visionare siti porno, ad abbronzarsi con la lampada, come se questi squallidi dettagli abbiano qualche attinenza col delitto. Questa è la sostanza di un processo che suscita repulsione. I figli di Bossetti sono stati massacrati. Essi agli occhi del popolo hanno un padre omicida, una mamma leggerotta, una nonna zoccola e un nonno cornuto. Bella storia edificante che esalta la civiltà giuridica del nostro Paese. In conclusione. Si infligge l’ergastolo a una persona colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio? Ma se la corte è rimasta in camera di consiglio per 15 ore si vede che qualche dubbio c’era. Toccherà alla Cassazione cancellare questa indecenza. Nuova perizia medica, Dell’Utri fa un passo verso la scarcerazione Corriere della Sera, 19 luglio 2017 Sì del giudice a verificare la salute dell’ex senatore di Fi. La difesa: risultato positivo, è in condizioni molto gravi. È troppo presto per parlare di una svolta determinante nel difficile percorso giudiziario di Marcello Dell’Utri, ma di sicuro la decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma di sottoporlo a una nuova perizia medica è una buona notizia per l’ex senatore di Forza Italia che sta scontando sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa in condizioni di salute talmente "gravi", dicono i suoi difensori, da essere in incompatibili con la detenzione in cella. Se siano davvero così gravi, e in quale misura esattamente, lo dovranno stabilire i medici incaricati dai giudici. Il fondatore di Publitalia, 75 anni, da maggio 2016 è rinchiuso nel carcere romano di Rebibbia dove fu trasferito da quello di Parma in cui era stato rinchiuso a giugno 2014, due mesi dopo l’arresto a Beirut. Gli agenti della polizia libanese misero fine alla sua fuga rocambolesca in Libano arrestandolo nella notte tra l’11 e il 12 aprile 2014 in una delle lussuose stanze del famoso hotel Phoenicia della capitale. Da quando le sue condizioni generali si sono aggravate a causa di una cardiopatia, Dell’Utri è in una cella singola piena zeppa di libri, compresi quelli per gli esami della facoltà di storia alla quale si è iscritto sperando di laurearsi. A lanciare l’allarme sulla sua salute è stato il medico dell’istituto di pena romano che in una relazione del 10 maggio scorso ha delineato un quadro clinico grave a causa di patologie plurime concludendo che la situazione era "non compatibile" con il regime carcerario. Preoccupata anche una delegazione del Garante nazionale per detenuti che, dopo una visita a Rebibbia, aveva chiesto ai giudici di occuparsi in "tempi ragionevoli" del caso. "Stare in carcere con le patologie cardiovascolari che ho è incompatibile. C’è una palese incompatibilità e voglio essere trattato come una qualsiasi altra persona e non da politico, non da prigioniero politico", aveva dichiarato Dell’Utri a La7. La reazione del ministro della Giustizia non si era fatta attendere. Andrea Orlando alla stessa rete aveva detto che "Dell’Utri non è un prigioniero politico, prigionieri politici in uno Stato di diritto non esistono, non c’è nessuna rappresaglia di uno Stato democratico contro un singolo". I difensori presentarono un’istanza per chiedere che al loro assistito fosse concessa provvisoriamente la detenzione domiciliare e che fosse sottoposto a una nuova perizia, stavolta da parte di esperti nominati dai giudici. Nelle mani avevano una consulenza medica di parte secondo la quale l’ex braccio destro di Silvio Berlusconi andava rimesso in libertà al più presto perché "è una bomba ad orologeria", dichiarò uno dei periti riferendosi a quello che, secondo lui, era un concreto rischio di vita. L’istanza fu rigettata dal magistrato di sorveglianza il quale, però, dispose che il caso fosse trattato a settembre prossimo in un’udienza apposita, che poi è stata anticipata a giovedì scorso quando la Procura generale. La Ue: prescrizione da riscrivere di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2017 La Corte Ue entra a gamba tesa su uno dei cardini del nostro diritto penale, la prescrizione. E, con le conclusioni dell’Avvocato generale depositate ieri nel caso Taricco (causa C-42/17), prende una posizione netta: chi commette un reato deve anche potere sapere, sulla base del principio di legalità, la condotta penalmente rilevante, la sanzione relativa, ma anche il limite di tempo entro il quale il procedimento potrà essere iniziato a suo carico. Però, ed è questo il passaggio più rilevante, quando entro il termine previsto il procedimento è iniziato, allora la persona interessata non deve più potere contare sulla prescrizione iniziale che ormai si è interrotta. A quel punto, deve prevalere sul diritto interno un concetto uniforme di interruzione della prescrizione, secondo il quale ogni atto d’imputazione oppure ogni atto che ne rappresenta la prosecuzione, interrompe il termine, cancellandolo, e sostituendolo con un nuovo termine di durata identica, calcolato a partire dal compimento dell’atto interruttivo. Soluzione abbastanza dirompente, se calata nel nostro ordinamento. Sotto una pluralità di punti di vista. A partire dalla prevalenza del diritto comunitario, come interpretato dalla Corte, su quello nazionale su un punto cardine del diritto penale sostanziale, portando a una disapplicazione in possibile contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale. Forti infatti erano state le perplessità della stessa Corte costituzionale che, per la seconda volta nella storia, si era rivolta appunto alla Corte Ue per un chiarimento sulla necessità della disapplicazione. Necessità che adesso sono ribadite dalle conclusioni dell’Avvocato generale. Che alla fine torna a ribadire quanto affermato nella sentenza dei giudici europei che nel 2015 ha dato origine a tutta la vicenda. Allora, la Corte europea affermò l’inefficacia della disciplina italiana della prescrizione, in particolare per quanto riguarda il regime della sospensione: a venire compromessa sarebbe stata infatti la possibilità di infliggere sanzioni effettive e dissuasive per i casi di truffa in materia di Iva. Le conclusioni dell’Avvocato generale ora sono molto chiare sul punto. E precisano che le maggiori garanzie all’imputato, offerte dall’ordinamento italiano non possono compromettere il livello di tutela previsto dalla Carta né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione. Affermazioni tanto più pesanti, se si tiene conto che, tra pochi giorni, entrerà in vigore una riforma della prescrizione che non si allinea comunque a quanto detto dall’Avvocato generale, legando semmai il prolungamento della sospensione in appello e Cassazione alla condanna nel grado di giudizio precedente. Ad attenuare, sul piano pratico, la portata delle affermazioni c’è la parte delle conclusioni dedicata alla nozione di gravità della frode Iva che renderebbe necessaria la disapplicazione delle misure sulla prescrizione. Nella sentenza Taricco, ammettono le conclusioni, non esiste una definizione di gravità, tuttavia si può fare riferimento a quanto affermato in sede di negoziati in vista dell’approvazione della direttiva sulla tutela degli interessi finanziari dell’Unione, dove vengono definiti gravi quegli illeciti che hanno un nesso con almeno due Stati membri e che hanno come conseguenza un danno complessivo superiore a 10 milioni di euro. Se la sentenza della Corte Ue confermerà, come di solito avviene, le conclusioni dell’Avvocato generale, la questione tornerà a essere affrontata dalla Corte costituzionale. Che, nell’ordinanza n. 24 di quest’anno, ha già lasciato trapelare la possibilità di utilizzo dei cosiddetti contro-limiti, soluzione anch’essa dirompente, che sterilizzerebbe però la portata delle pronunce Ue. L’avvocato non può minacciare l’azione di responsabilità di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2017 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 18 luglio 2017 n. 17720. L’avvocato non può minacciare il magistrato, mentre il procedimento è in corso, di chiedere un risarcimento in base alla legge sulla responsabilità delle toghe, inducendolo ad astenersi. Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 17720, avallano la sanzione disciplinare dell’avvertimento, con la quale il Consiglio nazionale forense, aveva "punito" un avvocato per la violazione dell’articolo 53 del codice deontologico che impone la correttezza nei rapporti con i magistrati. Nel caso esaminato il legale aveva "avvertito" il giudice di pace - in ritardo su un’istanza di revoca di una sanzione amministrativa - che avrebbe chiesto il risarcimento danni previsto dalla legge sulla responsabilità delle toghe (allora la 117/88). Il magistrato si era "intimorito" e aveva deciso di astenersi dal procedimento anche se non c’era alcuna ragione per farlo. L’avvocato riteneva di non meritare la "punizione" del Cnf per una serie di ragioni: l’articolo 53 del codice di autoregolamentazione, tra i vari comportamenti imposti nel rapporto giudice-magistrato, non prevede l’ipotesi finita nel mirino dei probi viri; inoltre la richiesta di risarcimento, per la quale c’erano gli estremi, era stata solo prospettata senza passare a vie di fatto e, per finire, il giudice non era affatto tenuto a fare un passo indietro. Secondo l’incolpato il presupposto per un’eventuale provvedimento disciplinare poteva essere solo nell’infondatezza della richiesta di risarcimento ma non fondarsi sui tempi e sui modi. Per il Cnf e per la Cassazione non è così. Non importa che il codice deontologico non citi espressamente il caso dell’avvocato che chiede il risarcimento alla toga mentre il procedimento è in corso. Il principio di stretta tipicità dell’illecito "vigente" nel diritto penale non si applica, infatti, nel disciplinare forense dove non è previsto un elenco tassativo dei comportamenti vietati ma solo l’enunciazione dei doveri fondamentali come la lealtà, la correttezza, il decoro ecc. Secondo l’articolo 53 del codice di autoregolamentazione i rapporti con i magistrati devono essere improntati alla dignità e al rispetto delle reciproche funzioni. Una previsone a 360 gradi che consente di bollare come scorretto il comportamento in questione. Mentre il processo è pendente, il giudice non può essere "minacciato", giusti o censurabili che siano i suoi provvedimenti. La conclusione della sentenza impugnata è corretta: il codice disciplinare non serve a reintegrare un danno ma a prevenire condotte non etiche. È irrilevante che la minaccia non sia stata seguita dall’azione e che il giudice non fosse tenuto ad astenersi. Anzi è proprio nel raggiungimento di un obiettivo che non poteva essere raggiunto con mezzi leciti che sta il comportamento incompatibile con il minimo di correttezza e di decoro che deve contraddistinguere l’attività di un legale. Il Consiglio nazionale forense "reprime" dunque uno dei comportamenti "temuti" dalle toghe che, attraverso il Consiglio superiore della magistratura, aveva denunciato i possibili condizionamenti che potevano derivare dall’annuncio di richieste di risarcimento "in corsa". Prodotti surgelati nel menù? Non segnalarlo è un reato di frode in commercio di Carlotta Garancini Corriere della Sera, 19 luglio 2017 Avete presente quell’asterisco accanto al nome del piatto che nei menù dei ristoranti rimanda in basso alla pagina, alla dicitura "prodotto surgelato"? Una sentenza recente della Cassazione ricorda ai ristoratori che conviene sempre indicare l’utilizzo di surgelati in cucina o comunque comunicarlo al cliente. Non farlo, costituisce un reato punibile con una multa. La Terza Sezione Penale ha confermato la condanna in appello di un ristoratore di Milano che aveva presentato ricorso, contestando il reato di frode. La punizione? Duecento euro di multa, il pagamento delle spese legali e processuali e altri 2mila euro da versare alla Cassa della Ammende. La cassazione ha ribadito che non serve che il surgelato arrivi in tavola: anche solo detenere pesce o carne surgelati, ma non segnalarlo agli avventori equivale a una tentata frode in commercio e dunque a una multa se, al momento del controllo, i freezer sono pieni. Eppure i ristoratori non dovrebbero stupirsi: la giurisprudenza in materia è chiara da sempre e dice che: "Anche la mera disponibilità di alimenti surgelati, non indicati come tali nel menù, nella cucina di un ristorante, configura il tentativo di frode in commercio, indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore". Ferrara: giovane ucraino trovato morto in cella, le risposte dall’autopsia La Nuova Ferrara, 19 luglio 2017 Disposto l’esame sul corpo del giovane ucraino. L’ipotesi è quella del suicidio. Entro breve poteva tornare in libertà. L’ira in palestra per il caffè "troppo caldo". Un caffè "troppo caldo". Questa la scintilla che ha fatto scattare la rabbiosa reazione di Roman Horoberts, ucraino di 30 anni residente a Occhiobello, domenica mattina in una palestra della città. Reazione che, per una serie di eventi successivi, l’ha portato in carcere a Ferrara dove è stato trovato impiccato a un paio di jeans appesi ad una grata lunedì mattina, poco dopo le 7. La bevanda l’aveva presa nella tarda mattinata da una macchinetta della palestra McFit, in via Reggiani, zona via Bologna, e forse se l’era versata addosso tutta o in parte o l’aveva bevuta troppo in fretta. L’incidente col caffè bollente sembra banale, eppure Horoberts sarebbe andato in escandescenze tenendo un comportamento che ha lasciato sbalorditi i presenti. Ha infatti iniziato a colpire il distributore automatico inducendo i testimoni a chiamare le forze dell’ordine. Gli agenti della volante giunta sul posto gli hanno chiesto i motivi del suo comportamento e, come spiega un comunicato della questura che ricostruisce sommariamente il fatto, a loro il giovane ha confermato quanto era appena avvenuto. Invitato a lasciare la palestra Horoberts, però, avrebbe offeso e minacciato gli operatori. È stato arrestato per resistenza, oltraggio a pubblico ufficiale e minacce aggravate dopo essere stato accompagnato in questura. In carcere era in cella assieme a un altro detenuto. Probabilmente all’Arginone non ci sarebbe rimasto più di un giorno, perché già lunedì era prevista la direttissima, un’udienza che avrebbe potuto restituirgli la libertà (con sentenza contestuale o processo successivo) come spesso avviene nei casi in cui vengono contestati reati di questo tipo. Da quanto si è appreso Horoberts non aveva neanche un passato che avrebbe potuto compromettere l’uscita di cella. Ma poche ore prima di presentarsi davanti al giudice un agente incaricato del controllo sui detenuti lo ha trovato senza vita con i jeans stretti attorno al collo. Il compagno di cella, a quanto si sa, non si sarebbe accorto di nulla. Gli atti urgenti dell’inchiesta sono stati svolti dal magistrato di turno, Isabella Cavallari, che ha disposto l’autopsia. L’esame deve stabilire la causa di morte e la condizione del corpo al momento del decesso (per verificare anche la possibilità di altri scenari oltre a quello del suicidio, l’unico al momento ipotizzato). L’inchiesta passerà poi al magistrato titolare, Giuseppe Titta Ferrante. Le indagini sono state delegate ai carabinieri. Tra i punti che richiederanno un approfondimento potrebbe esserci lo stato mentale di Horoberts. Uno degli aspetti da chiarire è se l’uomo avesse avuto problemi psicologici importanti, un altro riguarda il suo comportamento sia in palestra che dopo (appare sproporzionato rispetto all’accaduto). Poteva giustificare un accertamento di tipo sanitario anche prima dell’arresto? Ferrara: suicidio in carcere, Pd e Sappe chiedono chiarimenti sull’accaduto estense.com, 19 luglio 2017 In un’interrogazione viene richiesta la convocazione del direttore della casa circondariale. Dopo il suicidio di un giovane ucraino nel carcere di Ferrara, sono il Pd ferrarese e il Sappe a chiedere chiarimenti sull’accaduto e sulla situazione della casa circondariale di via Arginone. Il Pd, oltre a esprimere cordoglio per il giovane detenuto deceduto e vicinanza agli assistenti di Polizia Penitenziaria "che nelle settimana scorse sono stati oggetto di violenza da parte di alcuni detenuti", ha presentato attraverso il consigliere comunale Alessandro Talmelli un’interrogazione all’assessore competente "perché organizzi un incontro con il direttore del carcere di Ferrara per capire quali sono state le dinamiche dell’accaduto e quali provvedimenti sono stati adottati perché tali fatti non si ripetano più". Inoltre, sempre nell’interrogazione, viene richiesta la convocazione della commissione consiliare competente alla quale invitare il direttore del carcere di Ferrara e la Garante dei Diritti dei detenuti per relazionare in merito ai fatti accaduti e "per approfondire se sono salvaguardate la dignità dei detenuti e degli operatori di polizia penitenziaria che quotidianamente vivono la Casa circondariale di Ferrara". Gianni Durante e Francesco Campobasso, rispettivamente segretario generale aggiunto e segretario nazionale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria) puntano il dito sulla miriade di eventi critici che da svariato tempo tiene banco nelle carceri italiane. I due sindacalisti tengono a ribadire che molti eventi critici vengono evitati grazie alla prontezza del personale di polizia penitenziaria che interviene sempre con professionalità. In riferimento al carcere di Ferrara, i due sindacalisti ribadiscono che l’attenzione è elevata con segnalazione alle autorità amministrative per la definizione delle vicende che hanno interessato negli ultimi due mesi la casa circondariale di via Arginone. Avellino: si impicca in cella, inutili i soccorsi tempestivi per rianimarlo di Gianmaria Roberti lacittàdisalerno.it, 19 luglio 2017 Si è impiccato, lasciando una lettera per spiegare le ragioni del gesto. Nuovo suicidio in carcere: a togliersi la vita un 44enne detenuto nel carcere di Bellizzi Irpino, indagato per maltrattamenti in famiglia. L’uomo era fratello di un vice questore della Polizia di Stato. Si tratta del 26esimo suicidio dietro le sbarre dall’inizio dell’anno. "Critiche condizioni delle carceri: ancora sovraffollamento e carenza di risorse a complicare il lavoro di per sé già complesso nelle carceri campane - denuncia Ciro Auricchio, segretario regionale del sindacato Uspp. I suicidi, così come le risse, le continue aggressioni al personale di Polizia penitenziaria, sono tutti segnali di un sistema che è in forte crisi". "Chiediamo un incisivo intervento ed un reale confronto - aggiunge il sindacalista - tra tutte le istituzioni coinvolte, dall’Amministrazione penitenziaria, alla Sanità Penitenziaria e gli Enti territoriali affinché attraverso dei tavoli inter-istituzionali, con il coinvolgimento se del caso anche le locali Prefetture, siano ripristinate condizioni di ordine e normalità nelle nostre carceri. Bisogna restituire dignità sia ai detenuti ospiti che agli operatori, ormai stanchi e privi di riferimenti a supporto". Lecce: nasce reparto psichiatrico in carcere, unico della regione immediato.net, 19 luglio 2017 Sarà il primo e unico reparto del genere in Puglia, e uno dei più grandi in Italia, dedicato alle persone ristrette in carcere, quindi private della libertà ma non del diritto alla salute, oltre ad essere anche un modello avanzato di collaborazione tra Azienda sanitaria, Ente regionale e Amministrazione penitenziaria. Questa mattina in Presidenza, a Bari, è stato sottoscritto un protocollo operativo per l’attivazione della Sezione Intramuraria per la Tutela della Salute Mentale della Casa Circondariale di Lecce, il primo reparto cioè di Psichiatria, all’interno di un carcere, con ben 20 posti letto. Il protocollo è stato sottoscritto dal presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, dal direttore generale della Asl Lecce Silvana Melli, dal direttore della Casa circondariale di Lecce Rita Russo e dal direttore del dipartimento Salute Mentale della Asl di Lecce, Serafino De Giorgi. "Sono contento di poter annunciare la sottoscrizione di questo accordo tra Asl di Lecce e amministrazione penitenziaria - ha detto il presidente Emiliano al termine della conferenza stampa - perché è un ulteriore tassello che la Regione mette nella gestione della sanità di coloro che vivono in carcere, con particolare attenzione verso quelli che soffrono di turbe psichiatriche manifestate prima o dopo la carcerazione. La nostra regione ha fatto uno sforzo enorme con l’apertura di due Rems. Ma ciò che ha fatto la Asl di Lecce in questi giorni è notevole perché attivare un reparto di psichiatria significa poter aiutare l’amministrazione penitenziaria ad intervenire quando il disagio si manifesta. La Regione Puglia ha fortemente creduto in questa sperimentazione e crediamo che la Asl di Lecce possa diventare un’eccellenza, proprio grazie all’esperienza già accumulata in questo settore, nella relazione tra Asl, carcere e territorio". "La Carta dei servizi sanitari della Casa circondariale di Lecce, che abbiamo presentato anche questa mattina, ne è una riprova - ha concluso Emiliano - definendo diritti e doveri del detenuto, garantendone anche il benessere psico fisico. La Carta prevede un vero e proprio poliambulatorio all’interno del carcere con servizi sanitari, ambulatori, radiologici e persino un accenno di telemedicina". "La nostra Regione - ha detto il direttore del Dipartimento regionale Politiche della salute Giancarlo Ruscitti - ha aperto due Rems che sono due luoghi in cui poter collocare persone che una volta sarebbero finite all’ospedale psichiatrico giudiziario, e che invece oggi hanno una chance maggiore di riabilitazione e di poter tornare nei limiti a una vita normale. Ma mancava una parte che riguarda l’inizio del disagio, l’identificazione del disagio, la diagnosi, il trattamento che non sempre ha bisogno di una residenzialità. Purtroppo il numero di persone con disagio psichiatrico è in incremento, anche perché legato a tutto ciò che succede nelle carceri. C’è un numero di suicidi crescente all’interno della popolazione carceraria che è profondamente cambiata in questi anni. Quello che stiamo facendo a Lecce con l’amministrazione penitenziaria è un tentativo anche di migliorare il trattamento di queste persone che oggi finalmente trovano una risposta all’interno della situazione detentiva in cui sono collocati". "La Asl di Lecce è stata scelta - ha sottolineato il direttore generale Silvana Melli - come prima sperimentazione di un reparto psichiatrico per quei soggetti che erano ricoverati in OPG, quindi questo è il superamento degli ospedali psichiatri giudiziari. Questa sperimentazione è scaturita da un lavoro molto accurato che è stato fatto dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria insieme alla Regione e alla Asl con la direzione del dipartimento salute mentale. Il reparto - ha concluso la Melli - sarà attivato il 18 settembre prossimo". "Siamo unici, come Regione Puglia, ad aver completato tutta la filiera assistenziale per i detenuti, soggetti autori di reato con patologia mentale - ha detto il direttore Dipartimento di Salute mentale Serafino De Giorgi - la sezione ha senso se è integrata con il territorio e con l’ospedale, ed è integrata. Il Dipartimento di salute mentale garantisce la continuità del trattamento, che è un po’ la mission del Dipartimento rispetto ai dettati della conferenza unificata Stato Regione. Vorrei sottolineare che la sezione di psichiatria - ha concluso De Giorgi - è fuori dalle sezioni detentive ma è dentro il carcere. Le esigenze di salute devono andare di pari passo con le esigenze custodiali. In questo senso noi rispettiamo il mandato dell’attività giudiziaria che ci chiede di contemperare le esigenze di cura con le esigenze di controllo". "È un’idea vincente" per la direttrice della Casa circondariale di Lecce Rita Russo, l’apertura di questa sezione di psichiatria che servirà ad ospitare i detenuti con acuzie per le malattie psichiatriche. "Avranno un’equipe dedicata che si occupa solo della loro patologia. Penso che anche questa sia un’idea vincente soprattutto perché consente a queste persone di migliorare la qualità della loro vita". La Casa circondariale di Lecce contiene attualmente 970 detenuti. Attualmente si sta aprendo una sezione attenuata a Monteroni per altri 60 posti letto. Infine è in programma un ulteriore padiglione con altri 200 posti letto. Nel corso della conferenza stampa è stato presentata anche, a completamento dell’offerta sanitaria, la Carta dei servizi sanitari realizzata da ASL Lecce e Amministrazione Carceraria. Un ulteriore strumento per la tutela della salute dei detenuti che attraverso la Carta, potranno conoscere, non solo tutte le prestazioni e i servizi offerti, ma anche i propri diritti e i propri doveri. Brevi note sul Protocollo operativo Il Protocollo Operativo disegna il perimetro in cui è chiamato ad operare il personale sanitario, sia riguardo alle procedure assistenziali sia rispetto alla gestione e alla sicurezza della sezione stessa. La sezione infatti è un vero e proprio "reparto ospedaliero" dotato di 20 posti letto, con 2 camere singole e 18 camere doppie, locali idonei allo svolgimento delle attività sanitarie, di quelle tecnico-amministrative di supporto e delle attività di socializzazione. La sezione è ospitata al primo piano dello stabile un tempo destinato ai "semiliberi", mentre al piano terra sono sistemati due studi medici, ricavati là dove si svolgevano i colloqui con magistrati e avvocati. L’accoglienza e la presa in carico delle persone affette da disturbi psichiatrici rappresenta da un lato il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, dall’altro la capacità della sanità pubblica di estendere il proprio campo d’azione oltre i canonici luoghi della salute. La sezione leccese, del resto, può accogliere - grazie alle modalità e ai criteri regolati dal protocollo - i pazienti psichiatrici provenienti da tutti gli Istituti Penitenziari pugliesi, ai quali mette a disposizione procedure diagnostico-cliniche e progetti terapeutici per ogni singolo paziente. La dotazione di personale consente che l’attività sanitaria si svolga in maniera efficace ed efficiente. Quattro medici psichiatrici assicurano per sei giorni la settimana una copertura in turnazione di 12 ore; un dirigente psicologo è presente per sei giorni la settimana nella fascia oraria mattutina e pomeridiana, a seconda delle esigenze; un tecnico della riabilitazione psichiatrica assicura le sue prestazioni in base alle necessità dettate dal progetto terapeutico; il personale infermieristico e di assistenza conta su 12 infermieri e 5 operatori socio-sanitari, presenti in turnazione 24 ore su 24. Inoltre, alle attività sanitarie partecipano altre figure professionali, anche se non in modo esclusivo, come i medici di continuità assistenziale che assicurano la copertura quotidiana dei turni notturni, prefestivi e festivi, oppure i medici specialisti convenzionati interni, che garantiscono consulenze mediche e continuità dei programmi sanitari. Cifre del disagio mentale tra i detenuti. Fondamentale è la fase di gestione delle emergenze-urgenze psichiatriche, che vanno dai trattamenti sanitari obbligatori alla contenzione fisica, dall’aggressività e violenza alle condotte autolesive e ai tentativi di suicidio. Una condizione di estrema fragilità che le statistiche rendono evidente. Secondo la Società Italiana di Medicina e Salute Penitenziaria, infatti, più di 42 mila detenuti italiani - circa il 77% degli oltre 54 mila totali - convivono con un disagio mentale: dai disturbi della personalità alla depressione, fino alla psicosi. Problemi gravi che possono portare a conseguenze estreme, come i circa 7mila episodi di autolesionismo registrati ogni anno nelle carceri italiane, o i 43 casi di suicidio e gli oltre 900 tentativi nel solo 2014. Un fenomeno complesso, quest’ultimo, che a Lecce viene contrastato con un protocollo specifico - siglato nel marzo scorso tra ASL e Direzione della Casa Circondariale - finalizzato a prevenire e gestire proprio il rischio suicidario. La dimensione suicidaria viene affrontata in tutta la sua complessità, per la natura stessa di un evento che può essere determinato da diverse cause e fattori: biologici, psicologici, sociali e culturali. Una "costellazione di variabili", compreso il disturbo psichico, che possono combinarsi nel tempo e avere effetti devastanti che, invece, vanno ridotti e neutralizzati. Il suicidio, secondo i dati dell’OMS, è un fenomeno che riguarda ogni anno un milione di persone nel mondo e ha una marcata incidenza tra i detenuti. Tra di essi, infatti, circa il 50 per cento ha un disturbo della personalità, il 10 un disturbo psichiatrico importante, il 30 soffre di disturbo da abuso di sostanze. Perciò viene curata in modo particolare la formazione del personale, così come l’impiego di nuovi strumenti, a cominciare dallo screening diagnostico riguardante sia i cosiddetti "nuovi giunti" sia, retrospettivamente, la popolazione carceraria già presente e formata da detenuti in attesa di giudizio e condannati. Il suicidio, secondo i dati dell’OMS, è un fenomeno che riguarda ogni anno un milione di persone nel mondo e ha una marcata incidenza tra i detenuti. Tra di essi, infatti, circa il 50 per cento ha un disturbo della personalità, il 10 un disturbo psichiatrico importante, il 30 soffre di disturbo da abuso di sostanze. Perciò viene curata in modo particolare la formazione del personale, così come l’impiego di nuovi strumenti, a cominciare dallo screening diagnostico riguardante sia i cosiddetti "nuovi giunti" sia, retrospettivamente, la popolazione carceraria già presente e formata da detenuti in attesa di giudizio e condannati. Quanto sia delicato questo terreno, lo certificano le cifre dell’Istituto Superiore di Studi penitenziari, da cui emerge che il tasso dei tentativi di suicidio, rispetto alla popolazione generale, è più alto di 6 volte nei detenuti condannati e di 7,5 in quelli in attesa di giudizio. Ora grazie al nuovo Protocollo Operativo, la Sezione Psichiatrica potrà realizzare concretamente una rete assistenziale specialistica psichiatrica. Con l’attivazione della Sezione Intramuraria per la Tutela della Salute Mentale per le persone ristrette presso la Casa Circondariale di Lecce, la ASL completa infatti la "filiera assistenziale" disponibile per questa specifica tipologia di utenza, un vero e proprio PDTA (Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale), secondo il modello promosso dalla Conferenza Unificata Stato-Regioni, probabilmente unico nella realtà nazionale. Infatti, alla Sezione sono collegate: 1) Equipe di Psichiatria Penitenziaria (2 Psichiatri e 4 Infermieri Professionali) che svolge la sua attività all’interno delle sezioni detentive. Gli obiettivi di salute mentale e la "mission" dell’U.O. di Psichiatria Penitenziaria del DSM della ASL di Lecce sono articolati sulle seguenti direttrici/azioni: attivazione di un sistema di sorveglianza epidemiologica interventi di individuazione precoce dei disturbi mentali formazione ed aggiornamento degli operatori cura e riabilitazione dei soggetti interessati, attraverso la presa in carico con programmi terapeutici-riabilitativi personalizzati e attivazione della rete socio-sanitaria allo scopo di garantire la continuità degli interventi prevenzione del rischio suicidario attraverso procedure specifiche di screening e trattamento attivazione di protocolli di collaborazione tra area sanitaria e area trattamentale. Dalla sua attivazione (2008) sino al 1 settembre 2015 il servizio di psichiatria penitenziaria ha svolto la propria attività ambulatoriale tutti i giorni feriali dal lunedì al venerdì per 6 ore al giorno; successivamente, grazie ad interventi dedicati della Regione Puglia, la dotazione di personale è stata incrementata, così da poter rispondere in maniera più appropriata alle aumentate necessità cliniche e alle maggiori richieste provenienti sia dalla Direzione della Casa Circondariale sia dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Direzione nazionale). Organizzazione: Presenza oraria degli operatori (H-12 nei giorni feriali e H-6 nella giornata del sabato). Nel 2015 sono stati trattati nr. 335 detenuti, per un totale di nr. 2624 prestazioni di cui: - visite psichiatriche = 1560 - colloqui psicologici = 1064 2) Equipe di Psichiatria Giudiziaria Territoriale, ex DGR n. 1496 del 25 giugno 2015 (1 Psichiatra, 1 Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica, 1 Assistente Sociale), attivata con i finanziamenti dedicati che la Regione Puglia ha messo a disposizione della ASL Lecce. L’Equipe è dedicata alla presa in carico dei pazienti psichiatrici autori di reato ed anche alla implementazione di percorsi terapeutico-riabilitativi da sviluppare sul territorio di competenza. Questa Equipe avrà la competenza su - Persone destinatarie di misura di sicurezza detentiva ed inseriti presso le REMS (Residenze per la Esecuzione delle Misure di Sicurezza); - Persone destinatarie di misura di sicurezza non detentiva ed inserite presso le CRAP (Comunità Terapeutico-Riabilitative Psichiatriche) dedicate; - Gestione e monitoraggio delle Persone ancora internate in Ospedale Psichiatrico Giudiziario; - Gestione e monitoraggio ambulatoriale e residenziale delle Persone con problemi psichiatrici, autori di reato, non soggette a misure di sicurezza. Brevi note sulla Carta dei Servizi In aggiunta e a completamento dell’offerta sanitaria, ASL Lecce e Amministrazione Carceraria hanno realizzato la Carta dei servizi sanitari. Con questo ulteriore strumento informativo, viene reso possibile il dialogo tra il detenuto/a e il personale sanitario del Presidio sanitario territoriale, con l’obiettivo di incentivare un rapporto di fiducia, correttezza e sincerità. Esattamente come avviene tra medico e paziente in una qualsiasi struttura sanitaria. Assume perciò una particolare rilevanza la figura del medico del carcere, che oltre a prendersi cura della salute dei detenuti/e, si occupa anche della redazione di relazioni sanitarie che interessano la Direzione del carcere, i Magistrati ecc. Il medico, inoltre, partecipa anche al consiglio di disciplina per quanto di sua competenza. La Carta dei Servizi ha una doppia e fondamentale funzione, essendo mezzo di informazione da un lato e strumento di tutela dall’altro. Essa informa gli utenti della struttura in merito alle prestazioni sanitarie fornite; indica ruoli e competenze delle figure professionali coinvolte; comunica orari e modalità di accesso alle prestazioni; declina le regole di comportamento necessarie. La Carta dei servizi viene consegnata ad ogni detenuto/a al momento del suo ingresso in struttura e viene affissa nella bacheca di ogni sezione detentiva. I familiari dei detenuti/e hanno diritto di riceverne una copia. È strumento utile per gli operatori della struttura, per i servizi esterni di riferimento (Aziende ASL.), per le Associazioni di volontariato che collaborano con la struttura. Nella Carta sono particolarmente evidenziati i fattori qualità. Requisiti, indicatori e standard che permettono ad ogni detenuto di ottenere informazioni in modo chiaro e facilmente, di essere ben informati su prestazioni diagnostiche e trattamenti sanitari forniti, di poter prenotare con procedure semplici e rapide, di ottenere referti chiari e poter partecipare a incontri di educazione sanitaria. Tra i servizi offerti, oltre all’assistenza psichiatrica, somministrazione di farmaci, continuità assistenziale, visite mediche programmate e d’urgenza, visite specialistiche, esami diagnostici, trattamento tossicodipendenza e alcool-dipendenza, certificazioni mediche, idoneità lavorativa, educazione sanitaria e prevenzione. Per la tutela della salute delle detenute è previsto un percorso specifico di prevenzione (con incontri di promozione della salute), diagnosi precoce (Screening senologico per la diagnosi del tumore alla mammella, in età compresa tra 25 e 69 anni; esame cervice uterina) e cura, segnatamente per patologie femminili, assistenza ginecologia, test di gravidanza o interruzione volontaria di gravidanza. La Carta dei Servizi, insomma, è un agile vademecum comprendente diritti e doveri. Anche un Codice Etico nel quale vengono enucleati i principi fondamentali posti a presidio dei servizi sanitari e a garanzia dei pazienti-detenuti: eguaglianza, imparzialità, umanizzazione, continuità, partecipazione, diritto di scelta, riservatezza e gratuità. Tutto ciò è stato reso possibile grazie all’impegno strategico e programmatico della Direzione Generale ASL Lecce (Dr.ssa Silvana Melli), della Direzione del Dipartimento di Salute Mentale (Dott. Serafino De Giorgi) e dei Dirigenti e Collaboratori dell’Area Gestione del Personale, che hanno promosso e portato a termine le procedure concorsuali per le assunzioni del personale necessario alla attivazione delle Unità sopra indicate, unitamente al potenziamento delle altre Unità Operative del Dipartimento di Salute Mentale. Dopo anni di blocco, sono stati assunti 15 Medici Specialisti in Psichiatria, già assegnati ai Centri di Salute Mentale ed ai Servizi Psichiatrici Ospedalieri del territorio della ASL Lecce. Roma: insegnare in carcere, dopo 20 anni dico che le difficoltà vengono dal mondo esterno di Giovanni Iacomini Il Fatto Quotidiano, 19 luglio 2017 Scelsi molto presto, fin da ragazzo, di voler fare il professore. Oltre alla passione per lo studio e la voglia di restare in qualche modo sui libri, c’era che non mi sentivo adatto al lavoro autonomo e quello dell’insegnante mi pareva il più indipendente tra i lavori dipendenti. Sopra di te hai solo il preside, che in fin dei conti non è altro che un collega. Così si diceva, prima che facesse breccia l’idea del Direttore scolastico (Ds) manager. Poi è successo che i vice-presidi, oggi detti "collaboratori della dirigenza", hanno aumentato di molto le proprie funzioni nel frequente caso dei Ds "reggenti" e sono aumentate le competenze del segretario, oggi assurto a Direttori dei Servizi generali e amministrativi (Dsga). Finendo a insegnare in carcere, la subordinazione si estende verso altre figure. Ancor più che alle autorità scolastiche, spesso lontane o addirittura assenti, si deve continuamente render conto del proprio lavoro alla Direzione e all’Area educativa del carcere, che ha un educatore espressamente incaricato per l’istruzione in carcere. Discorso a parte va fatto per la Polizia penitenziaria, laddove ci si deve relazionare (incontrando quasi sempre grande disponibilità e spirito di collaborazione, va detto) non solo col Comandante ma anche con i suoi ispettori, assistenti e, in taluni casi concreti, con ogni singolo agente che ha il potere di permettere o non permettere una determinata attività o un certo passaggio (ma qui finiamo in un discorso di destrutturazione del potere e delle relative responsabilità che meriterebbe una approfondita trattazione a parte). In sostanza, dipendiamo da due ministeri (Istruzione e Giustizia, ai quali, in alcune sezioni particolari, si aggiunge il ministero dell’Interno) con tutte le relative sotto-diramazioni. E lavoriamo senza il supporto di tutto il personale amministrativo, tecnico, ausiliario (Ata) a disposizione degli istituti scolastici, dovendo sbrigare tutte le pratiche con i nostri mezzi, con la nostra dedizione, con il volontariato. Senza libri, che neppure i rappresentanti delle case editrici vogliono regalarci (sapendo che i nostri alunni non hanno i soldi per acquistarli), provvediamo noi a fare fotocopie, talvolta a nostre spese, su dispense autoprodotte. Nonostante tutto ciò, il lavoro all’interno del carcere è a dir poco stimolante, soprattutto per chi come me insegna discipline giuridiche. Non ho mai voluto, né dovuto informarmi sui casi giudiziari dei miei studenti; vuoi o non vuoi, prima o poi, i fascicoli e le istanze personali passano per le mie mani e diventano casi pratici di studio per approfondite lezioni in classe. Il fatto è che, trattandosi di persone con limitati diritti di libertà e di comunicazione con l’esterno, si è sempre sul punto di essere coinvolti in una congerie di storie, rapporti familiari, dinamiche lavorative, cambi di vita. L’insegnante, se non ha la capacità di porre dei limiti e ricondursi fermamente all’interno delle proprie mansioni, rischia di scivolare in improbabili ruoli di avvocato, consulente, confessore, amico, paladino, medico. A parte questo, le difficoltà che si incontrano nascono tutte fuori classe. Estenuanti collegi docenti, spesso bloccati su pagellini, pentamestri, adozione libri, tempi dei colloqui con i genitori. Quanto di più lontano dalla specificità dell’insegnamento in carcere (diverso anche dalla scuola per adulti). E ancora: consigli di classe, riunioni per materie, scrutini, il tutto affrontato con la riserva mentale del tipo di "utenza" con cui abbiamo a che fare e che nessuna direttiva ministeriale accenna di voler compiutamente prendere in considerazione. Lavori che finiscono per bloccarsi a causa di docenti invecchiati, demotivati, bistrattati da tutti i lati. Alla fine, il momento migliore è proprio quello svolto in classe, in quelle 18 ore settimanali che potrebbero sembrar poche a tutti coloro che non sanno come ci si senta esposti, sguarniti (in quanto molto coinvolti), mettendosi in discussione davanti agli studenti, a maggior ragione trattandosi di adulti. Roma: in carcere da 22 anni, ottiene il dottorato di ricerca in Sociologia La Repubblica, 19 luglio 2017 A raccontare ora la sua storia è il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasia, al quale Alessandro L. aveva inviato una lettera nella quale raccontava anche di essere "il primo detenuto in un carcere italiano ad aver conseguito un dottorato di ricerca senza essere mai uscito dal carcere". Ininterrottamente detenuto dal giugno del 1995, Alessandro si è laureato con lode in Sociologia all’Università degli studi di Roma "La Sapienza" nel gennaio del 2013, discutendo la tesi "Il lavoro rende liberi. Etnografia del ‘mondò carcere", pubblicata l’anno seguente da Gruppo Albatros "Il filo". Dopo la laurea ha deciso di proseguire gli studi universitari accedendo al corso di dottorato di ricerca in Sociologia e scienze applicate attivato dall’Università di Roma La Sapienza. Fino ad arrivare, lo scorso 23 febbraio, alla discussione della dissertazione finale "Rieducazione, formazione e reinserimento sociale dei detenuti. Uno studio comparativo ed etnografico dei detenuti rientranti nella categoria "Alta Sicurezza" in Italia: percorsi di vita, aspettative e reti sociali di riferimento". "È davvero un bel traguardo", commenta il garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio Stefano Anastasia, sottolineando la difficoltà di raggiungere un simile obiettivo per chi è detenuto. "Se studiare all’interno del carcere è complicato - spiega Anastasia, che è docente universitario - seguire un corso di dottorato lo è ancora di più. Complimenti ad Alessandro, quindi, che è riuscito a portare a termine un percorso così arduo con grande determinazione. Ora mi auguro che il suo risultato raggiunto possa rappresentare un’occasione di riflessione sul tema dell’accesso agli studi per le persone detenute. Sarebbe certamente se l’amministrazione penitenziaria si attrezzasse per garantire agli studenti che intendono intraprendere un percorso formativo post laurea, idonei strumenti di studio e ricerca, anche informatici". Diari dal carcere, va in scena a Trieste "La Bela Vita", a cura di Pino Roveredo friulionline.com, 19 luglio 2017 "La Bela Vita", spettacolo teatrale a cura di Pino Roveredo, andrà in scena mercoledì 19 luglio alle 21, raccontato dalla compagnia Instabili. L’appuntamento è a ingresso libero e si svolge all’interno del Parco di San Giovanni a Trieste, nell’ambito di Lunatico Festival. La Bela Vita presenta - con toni umani, poetici, drammatici ed ironici - delle storie di vita vissuta all’interno di un carcere, all’insegna della considerazione che "la vita non è bella in carcere, ma anche in carcere si vive". Il testo di Pino Roveredo (vincitore del Premio Campiello nel 2005 per il libro di racconti "Mandami a dire") descrive gli avvenimenti quotidiani e i sentimenti che si provano in una prigione: un’esperienza realmente vissuta dall’autore, in gioventù come detenuto, e poi come operatore sociale e Garante delle detenute e dei detenuti del Friuli Venezia Giulia nelle carceri. Il testo è una sorta di "diario collettivo" di vari carcerati. I detenuti raccontano la loro pena, i ricordi, i sentimenti e affetti lontani. La vita che scorre lentamente, tra incontri con i famigliari in parlatorio, battute ironiche e momenti drammatici. Lo spettacolo è già stato portato in scena alcuni anni fa al Politeama Rossetti con una compagnia di detenuti. Questa volta tocca agli Instabili, la compagnia teatrale nata all’interno dei laboratori condotti al Sert. Sono ragazzi, senza ambizione artistica/teatrale, che sfidano la paura, il timore di calcare la scena raccontando la loro storia in maniera "maleducata". L’arte teatrale diventa salvifica, un veicolo per allontanare i ragazzi dalle loro fragilità, dal loro male di vivere. Teatro-carcere: Vito Minoia relatore della Scena penitenziaria italiana e internazionale Ristretti Orizzonti, 19 luglio 2017 Al Congresso mondiale dell’Iti-Unesco il 20 luglio a Segovia, Spagna. Importante appuntamento in programma il 20 luglio in Spagna a Segovia quando, nell’ambito del 35° Congresso mondiale dell’ITI International Theatre Institute - Unesco, Vito Minoia, presidente del Cntc Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, interverrà riassumendo identità e significatività del fenomeno italiano della Scena penitenziaria in relazione agli aspetti altamente qualitativi di ordine etico ed estetico delle sperimentazioni in atto. Motivo di vanto per il Cntc, poiché l’invito rivolto dall’ITI-Unesco a Minoia corona l’impegno da questi ampiamente profuso nel corso degli anni nel settore. Lo conferma il bilancio altamente positivo riscontrato a chiusura della IV Giornata Nazionale del Teatro in Carcere, promossa dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, con il sostegno del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. L’iniziativa è organizzata dal 2014, in concomitanza con il World Theatre Day (Giornata Mondiale del Teatro), promossa dall’ITI Worldwide-Unesco (International Theatre Institute) e dal Centro italiano dell’ITI con la collaborazione della Rivista europea "Catarsi-Teatri delle diversità" e dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. L’edizione quest’anno è ulteriormente cresciuta: la diffusione sul territorio nazionale, con una importante partecipazione, ha visto la promozione di 99 eventi in 17 Regioni italiane differenti e il coinvolgimento consapevole di migliaia di cittadini in attività volte a favorire il reinserimento sociale delle persone recluse attraverso iniziative che producono un sensibile abbassamento del rischio di recidiva. Hanno aderito complessivamente 54 istituti penitenziari e 42 altre istituzioni quali Università, Istituzioni scolastiche, Teatri, Enti Locali, Associazioni culturali, Uffici di Esecuzione Penale Esterna. (Il programma conclusivo dell’evento è consultabile al link teatrocarcere.it). Altro risultato rilevante e meritorio di nota, è la realizzazione di alcune iniziative fuori dall’Italia: precisamente in Tunisia, Stati Uniti, Francia e Argentina. L’esito positivo dell’edizione 2017, conferma la proficua e importante collaborazione tra il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, frutto del Protocollo d’Intesa sottoscritto nel 2013 e rinnovato nel 2016, che li vede congiuntamente coinvolti, insieme all’Università Roma Tre, anche nell’organizzazione di altre importanti iniziative, tra le quali la Rassegna Nazionale di Teatro in Carcere "Destini Incrociati", che quest’anno, per la sua quarta edizione, con il riconoscimento del Ministero dei beni e delle attività Culturali e del Turismo, si terrà a Roma in autunno. Terrorismo. L’Italia approva la legge per combattere la radicalizzazione di Lorenzo Vidino La Stampa, 19 luglio 2017 Rafforzamento dell’intelligence e prevenzione in rete. Dal testo esce la nuova strategia che mira a impedire che giovani musulmani nati e cresciuti nel nostro Paese voltino le spalle alla nostra società e si radicalizzino. L’Italia è stata finora brava e fortunata nel confrontare la minaccia del terrorismo jihadista. Brava perché ha risposto con un sistema normativo adeguato (figlio della lotta al terrorismo di altre matrici ed alla mafia) e con un eccellente lavoro del nostro Antiterrorismo. Fortunata perché non ha visto gli alti livelli di radicalizzazione degli altri Paesi europei e perché nessuno dei pochi radicalizzati nostrani è andato al di là delle mere intenzioni di colpire sul nostro territorio. Non ci si può però cullare sugli allori e si capisce che, proprio in una fase in cui il numero delle seconde generazioni musulmane e dei nuovi arrivi da Paesi islamici sono in crescita esponenziale, le cose potrebbero cambiare per il peggio, portandoci a vedere le drammatiche dinamiche viste in Francia, Belgio o Inghilterra. É proprio per questo che ieri è stata approvata alla Camera la prima strategia italiana di prevenzione della radicalizzazione. Si tratta di un approccio nuovo per il nostro Paese, ma rodato in tutta Europa e in molti Paesi mediorientali, dove è opinione comune che una strategia basata solamente sulla repressione sia incompleta. Monitoraggio, inchieste, lavoro d’intelligence, arresti ed espulsioni sono la spina dorsale del contrasto al terrorismo. Ma è poco realistico pensare che si possa sempre stanare il prossimo commando o individuare il prossimo lupo solitario prima che colpiscano. É per questo che alla repressione sono ormai da anni affiancate misure di prevenzione della radicalizzazione. Si cerca cioè di evitare che giovani musulmani siano attratti dalle sirene del Califfato o di de-radicalizzare soggetti che già lo sono stati, in casi estremi anche foreign fighters di ritorno o condannati per terrorismo da poco rilasciati. La nuova legge introduce questo approccio anche in Italia. Inizialmente proposta dagli onorevoli Manciulli e Dambruoso, che da anni a vario titolo si occupano della materia, la legge ha subito varie modifiche durante l’iter parlamentare. Dal testo esce la nuova strategia che, coordinata centralmente da un organo apposito e da un comitato parlamentare, ma implementata a livello locale, pone in essere una serie di iniziative volte a impedire che giovani musulmani nati e cresciuti nel nostro Paese voltino le spalle alla nostra società e si radicalizzino. Si vuole dunque contrapporre al messaggio jihadista non solo un contrasto poliziesco, ma un vero e proprio muro culturale, coinvolgendo varie parti dello Stato (fondamentale per esempio il ruolo della scuola) e della società civile (in primis comunità islamiche, ma anche il mondo dell’accoglienza e le società di Internet). La legge dedica giustamente un’attenzione speciale alla radicalizzazione su internet e nelle carceri. Ma i fronti su cui lavorare sono molteplici. Ed è chiaro che la legge porta una parte della responsabilità della prevenzione della radicalizzazione a tutta la società e non solo alle forze dell’ordine o di intelligence. È una rivoluzione culturale per il nostro Antiterrorismo, che si deve aprire maggiormente all’interazione con vari partner non usuali, ma anche per la nostra società tutta, che proprio perché non ha ancora visto le drammatiche dinamiche di radicalizzazione e polarizzazione sociale viste Oltralpe, deve adoperarsi perché non si replichino anche nel nostro Paese. Migranti. "Ius soli, pronti a fiducia di scopo". Si offre il salvataggio da sinistra di Daniela Preziosi Il Manifesto, 19 luglio 2017 Fratoianni: noi all’opposizione dura, ma è una legge di civiltà, Gentiloni ci ascolti. Un’ottima offerta da accogliere, per Monica Cirinnà e Sergio Lo Giudice, della minoranza dem. "Al Senato siamo pronti a una fiducia "di scopo", per uno scopo giusto e nobile: riuscire ad approvare una legge di civiltà". Il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni lo annuncia al Tg3 e subito dopo convoca la stampa al senato. La sua proposta potrebbe sparigliare: sullo ius soli il suo partito è disponibile a votare la fiducia a un governo avversario. Sarebbe una prima assoluta nella legislatura nata nel 2013. "Il rinvio a settembre dello ius soli è inaccettabile", spiega, "si affossa una legge giusta attesa da migliaia di bambini che sono nati in Italia, che vivono nel nostro paese accanto ai nostri figli, che studiano nelle nostre scuole". Per farlo "è stata montata una campagna impressionante sull’immigrazione, che nulla c’entra con la cittadinanza". Un’ora dopo anche Romano Prodi parlerà di "un caso politico montato senza senso logico". Per questo Sinistra Italiana si rivolge direttamente al premier Gentiloni e al governo: "In questi anni siamo stati sempre opposizione", mai votata la fiducia. Ma stavolta il gioco vale la candela: una legge "giusta" non deve finire su un binario morto. La mossa peraltro potrebbe fare scoppiare le contraddizioni della maggioranza, oggi che Alfano ha dichiarato "la collaborazione con il Pd conclusa". Anche per questo è un peccato che l’offerta arrivi solo dopo che Gentiloni ha escluso il voto di fiducia. Almeno per l’immediato. Per SI non sarà un cambio di linea. Fratoianni chiarisce che del governo "non condivide nulla" e che "il giorno dopo riprenderemmo a fare opposizione". Anzi da subito la senatrice Loredana De Petris annuncia che i suoi "si opporranno con tutti i mezzi a che la legge venga tolta dal calendario. Non è il governo ad avere la facoltà di rinviare la discussione in aula, è la conferenza dei capigruppo e l’aula del senato", "troppe ipocrisie, i senatori Pd si assumano le loro responsabilità". D’altro canto ormai la strada dell’esecutivo è tutta in salita, e per alcuni dei provvedimenti in arrivo alle camere si prospettano turbolenze. Soprattutto da ora: proprio la vittoria morale sullo ius soli ha galvanizzato e ricompattato le destre, e certificato l’esistenza in vita del partito di Alfano. Ma intanto c’è lo "spettro" della legge che si aggira al Senato. Dal Pd filtra l’intenzione di evitarne la calendarizzazione: Lega e Fratelli d’Italia annunciano barricate, Forza Italia si accoda, la destra di governo promette di votarla ma in cambio di emendamenti che renderebbero la cittadinanza molto difficile da ottenere. La mossa di SI viene accolta con favore dai "fratelli" di Mdp. E restituisce la parola alla minoranza Pd: "Un’ottima offerta da accogliere" per Monica Cirinnà e Sergio Lo Giudice. Una disponibilità "apprezzata" anche dal presidente dei senatori Pd Luigi Zanda, anche se "il quadro dei numeri al senato resta assai difficile". Fratoianni, che ha sette senatore, anticipa l’obiezione: "Non sta a noi tenere il pallottoliere, ma gli alibi sono finiti, basta scaricabarile". Ce l’ha anche con Renzi, che quando ha capito che il provvedimento poteva essere una mossa poco furba per la sua campagna elettorale, ha fatto un’inversione a U ed ha chiesto a Gentiloni di sbrigarsela da solo. Per il segretario Pd il capitolo sembra chiuso: "Lo ius soli per me è un principio sacrosanto. È un dovere non solo un diritto. Il governo ha scelto di non mettere la fiducia e io sto al fianco di Paolo Gentiloni senza nessuna polemica", dice. Sulla vicenda si schiera anche la presidente della camera Laura Boldrini, ieri impegnata in una riflessione a tutto campo durante la tradizionale cerimonia della consegna del Ventaglio da parte della stampa parlamentare. Il tema dell’immigrazione è "centrale", dice, ma "l’integrazione non avviene con la bacchetta magica, lo Stato deve indicare il percorso e i migranti devono seguirlo". Quanto allo ius soli, "impedire a chi nasce in un paese o a chi fa corsi di studi di sentirsi parte di quella società è impedire l’integrazione, mi auguro che il provvedimento sia approvato entro la fine di questa legislatura". Immediata la reazione da Forza Italia: "La terza carica dello Stato non dimentichi il suo ruolo di garante di tutte le forze politiche". È solo un assaggio di quello che potrebbe accadere se il provvedimento tornasse in aula, come a parole Gentiloni ha promesso. Ritorno comunque difficile. Prima della pausa estiva sarebbe possibile ("Basta armonizzare i provvedimenti", taglia corto De Petris), ma il Pd è intenzionato a evitarlo. Alla ripresa sarà ancora più proibitivo. Inizieranno i distinguo di una sessione di bilancio in piena campagna elettorale. E i senatori di Alfano, ragiona Ettore Rosato (Pd), "prima votavano tutto per paura delle elezioni anticipate", ora invece no: "Qualcuno si vuole accasare alla Lega". Migranti. Il traffico umano verso l’Italia che vale 400 milioni all’anno di Federico Fubini Corriere della Sera, 19 luglio 2017 Diversi studi mostrano come il divieto di migrare alimenti il fiorente business del trasbordo di immigrati. Un po’ come accadeva con gli alcolici ai tempi di Al Capone. All’inizio della Grande depressione, Al Capone incassava circa 60 milioni di dollari l’anno dalla produzione e vendita clandestina di alcolici. È l’equivalente di 800 milioni attuali e per ogni cent il boss sapeva esattamente chi ringraziare: i membri del Congresso che nel 1919 avevano votato il diciottesimo emendamento, quello che vietava di distillare e distribuire alcol in America e apriva così l’era del proibizionismo. La mafia aveva ricevuto un monopolio in dono. L’industria criminale - È inutile cercare un Al Capone nel grande traffico clandestino di questi anni, quelli di persone dirette in Italia. Non esiste quel boss, perché fra l’Africa e il mare se ne trovano a centinaia. Tutti più piccoli del capo mafia di Chicago, ma altrettanto feroci. Una stima del Corriere fissa in almeno 400 milioni di dollari i ricavi da contrabbando e estorsione legati al flusso di migranti e rifugiati fino al punto di sbarco dalla Libia. Si tratta di un calcolo provvisorio e per difetto, perché non tiene conto delle tangenti ai posti di blocco e del lavoro forzato a cui decine di migliaia di persone sono soggette durante il viaggio. Quella cifra però pone una domanda ai partiti in Italia e ai governi in Europa: qual è il diciottesimo emendamento in questa tragedia? Deve esistere da qualche parte un proibizionismo che alimenta le mafie attraverso il deserto e il mare, impone sofferenze ai migranti e costi evitabili ai Paesi che li ricevono. L’assenza di canali d’accesso legali e sorvegliati per chi vuole cercare lavoro in Europa ha prodotto un’industria criminale da (almeno) 400 milioni l’anno. Anziché proteggere l’Italia, quel divieto alimenta gli sbarchi e accresce la pressione sulle coste. I costi delle rotte - La stima si basa su ciò che si conosce dei costi di viaggio e del fenomeno, feroce e diffuso, dei sequestri lungo la strada. Un quadro delle spese per arrivare a imbarcarsi emerge per esempio dalle interviste condotte nei mesi scorsi da Medici per i diritti umani (Medu). Quest’ultima è un’agenzia indipendente sostenuta dall’Unione europea e della Open Society Foundation, che ha chiesto a mille rifugiati quanto avessero versato ai trafficanti. Come mostra il grafico in pagina, le cifre variano ma il costo medio dall’Africa occidentale sembra attorno a 825 dollari dall’origine fino al barcone; dall’Africa orientale, è più caro: in media attorno ai 3.750 dollari. Le due rotte non hanno la stessa intensità. La via orientale è quella di chi viene da Eritrea, Somalia, Sudan o persino dal Bangladesh, nel complesso poco meno del 25% delle persone sbarcate in Italia nel 2016. Su circa 200 mila rifugiati quest’anno, il prelievo imposto su di loro dai trafficanti per il trasporto può avvicinarsi a 190 milioni di dollari. A questi si aggiungono circa 125 milioni estorti per le rotte dall’Africa occidentale. Da Paesi come Mali, Senegal, Gambia, Costa d’Avorio o Nigeria arriveranno con tutta probabilità quest’anno almeno 150 mila persone, in base del primo semestre 2017. Per loro i costi sono inferiori, ma su numeri più alti. In totale l’estorsione sui percorsi fino all’imbarco frutta così almeno 315 milioni di dollari. Ovviamente, senza contare il costo della "protezione" da versare a più riprese alle bande armate locali lungo la strada. Scrive Mark Micallef, autore di un rapporto per la "Global Initiative against Transnational Organized Crime": "Migranti e rifugiati sono semplicemente divenuti una materia prima da sfruttare per i gruppi armati che esercitano il controllo di fatto sul territorio libico". Il riscatto - Un aspetto raccapricciante nell’industrializzazione dei traffici riguarda i sequestri in viaggio. Molte migliaia di persone sono già state catturate in questi anni e torturate fino a quando i familiari nel Paese d’origine non hanno pagato. Risulta da una recente indagine fra 2.700 rifugiati da parte dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni, un’agenzia Onu, che il 52% degli uomini e il 33% delle donne erano stati catturati lungo la rotta in Africa. Spesso si chiede alle persone di telefonare a casa mentre vengono tormentate con cavi elettrici, per far sentire le urla ai familiari ed estorcere un riscatto. Secondo il rapporto di Micallef, per il rilascio i sequestratori chiedono fra tremila e cinquemila dollari. In base ai numeri noti, potrebbero dunque passare di mano in questo modo altri 80 milioni l’anno. Proibizionismo - Siamo così a 400 milioni e ovviamente non è finita. Un riflesso delle sevizie subite nel viaggio emerge nel numero crescente di persone che in Italia ottengono per questo motivo il permesso per "protezione umanitaria" (diversa dal diritto d’asilo): sono stati quasi ventimila nel 2016, di cui almeno la metà proprio a causa dei traumi subiti lungo la strada. È dunque probabile che sia loro che anche il 60% dei richiedenti asilo ai quali viene negata qualunque tutela - sono migranti economici - non affronterebbero mai la rotta libica se esistessero canali d’accesso regolamentati. Magari con visti a tempo (e pagati) per cercare lavoro, vincolati ad accordi di rimpatrio con il Paese d’origine e possibilità di riconoscimento biometrico della persona. L’Italia allora vedrebbe crollare gli sbarchi. Dopotutto anche Franklin Delano Roosevelt, nel 1933, festeggiò la fine proibizionismo con un Martini corretto al Gin. Migranti. L’Europa ha un’unica scelta: politiche nuove per l’Africa di Stefano Passigli Corriere della Sera, 19 luglio 2017 Non è infatti possibile ignorare che a fianco degli effetti economici il fenomeno dei migranti, contribuendo al rafforzarsi di movimenti estremisti nei singoli Stati e al disgregarsi della vocazione unitaria dell’Ue, ha anche preoccupanti effetti politici. L’intensificarsi del fenomeno migratorio verso l’Europa può essere affrontato come un problema immediato cui cercare una soluzione di breve periodo, o analizzato in un’ottica di lungo termine. Nel breve, anzi brevissimo, periodo molte forze politiche e numerosi paesi (ai quali con Macron si unisce ora la Francia), nonché la stessa Unione Europea, fondano le proprie politiche di accoglienza sulla distinzione tra profughi e migranti economici. Ma se dal brevissimo termine passiamo ad un’analisi di più ampio respiro tale distinzione non può sostenere valide politiche da parte dell’Unione Europea o dei suoi singoli stati. I dati pubblicati il 21 giugno dal Dipartimento Affari Economici e Sociali dell’ Onu sulle prospettive di crescita della popolazione mondiale, e in particolare di quella africana, non lasciano dubbi in proposito. Nel 1950 la popolazione mondiale era di 2.5 miliardi di persone, di cui 221 milioni africani. Oggi la popolazione mondiale è di oltre 7.5 miliardi con oltre 1.25 miliardi di africani. Nel 2050 i dati stimati dall’Onu indicano 9.8 miliardi di persone di cui oltre 2.8 miliardi di africani, e nel 2100 oltre 11 miliardi di popolazione mondiale di cui quasi 4.5 miliardi in Africa. In altre parole, mentre in Europa, nelle Americhe, e persino in Asia la popolazione si manterrà stabile o addirittura in lieve calo, in Africa pur rallentando il tasso di crescita l’aumento di popolazione renderà inevitabile che i flussi migratori diventino incontenibili e diretti innanzitutto verso l’Europa. Questi dati demografici indicano che, in assenza di politiche che modifichino alla radice la crescita della popolazione africana, il fenomeno migratorio non potrà che intensificarsi sempre più, e che la distinzione fra profughi e migranti economici non può costituire un valido discrimine. L’unica possibilità per l’Europa di convivere con, o meglio sopravvivere a, un fenomeno di simili proporzioni non è certo quella di chiudere inutilmente le proprie frontiere, ma neanche quella di credere sulla scorta dei dati dell’Inps ad un benefico effetto - forzatamente solo a breve termine - del fenomeno migratorio. Non è infatti possibile ignorare che a fianco degli effetti economici il fenomeno, contribuendo al rafforzarsi di movimenti estremisti nei singoli stati e al disgregarsi della vocazione unitaria dell’Unione Europea, ha anche preoccupanti effetti politici. Occorre insomma affrontare il fenomeno nei suoi aspetti fondamentali di lungo periodo, da un lato sollecitando Stati Uniti e Cina ad unirsi all’Unione Europea in un grande piano economico per lo sviluppo dell’Africa, e dall’altro promuovendo nel continente africano il diffondersi di una cultura che permetta efficaci politiche di controllo delle nascite. In questo compito fondamentale sarà il ruolo delle grandi religioni e delle loro chiese. La Chiesa Cattolica non può, se vuole efficacemente aiutare la condizione degli ultimi, rifugiarsi in politiche meramente assistenziali senza cambiare la propria posizione in materia di controllo delle nascite. In un continente in cui alle antiche credenze animistiche va sostituendosi sempre più un Islam privo di gerarchie ecclesiali, ed anzi diviso tra interpretazioni diverse e tra di loro in conflitto della dottrina coranica, l’esempio della Chiesa Cattolica sarà determinante. In Italia, il ministro Minniti svolge egregiamente il proprio compito di governo degli attuali flussi, da un lato negoziando a livello europeo un nuovo codice di comportamento per le navi delle Ong e soluzioni in grado di superare l’errore compiuto dal governo Renzi nell’accettare che gli accordi Frontex prevedessero l’Italia come paese di primo ingresso in Europa anche in caso di arrivo su navi battenti altra bandiera, e dall’altro promuovendo in Libia accordi in grado di controllare per quanto possibile i flussi di migranti. Al contrario, mentre il Governo si impegna al meglio, le forze politiche si stanno dividendo - più per ragioni elettorali che di principio - sull’adozione dello jus soli quale base della cittadinanza senza una adeguata consapevolezza dei problemi a più lungo termine che le dimensioni del fenomeno comportano. Potremmo limitarci a ricordare che tradizionalmente lo jus sanguinis si confà a paesi di emigrazione e lo jus soli a paesi di immigrazione, aggiungendo che nel caso italiano sono però auspicabili accorgimenti che ne limitino l’impatto immediato e lo rendano politicamente meno dirompente, pena il creare le condizioni per un suo immediato rigetto da parte di una possibile diversa futura maggioranza politica. In realtà occorre sottolineare che ancora una volta le nostre forze politiche peccano di miopia, scontrandosi su un problema immediato senza vedere che i numeri suggeriscono impietosamente che senza drastiche politiche del mondo sviluppato a favore del continente africano, e senza un altrettanto deciso cambiamento nell’atteggiamento delle chiese sul controllo delle nascite, l’attuale assetto politico, economico e sociale dell’Europa verrà radicalmente modificato. Droghe. Liberalizzazione della Cannabis, nuova battuta d’arresto per il ddl Gazzetta del Mezzogiorno, 19 luglio 2017 Nuova battuta d’arresto per il ddl sulla cannabis legale ad un anno dall’avvio in Parlamento del dibattito. Ieri è saltato il voto in Commissione sul testo base in attesa di decidere se mandare in aula il ddl Cannabis legale o solo la parte della legge relativa all’uso terapeutico, mentre i Radicali protestavano davanti Montecitorio con una vera e propria lezione di auto-coltivazione di cannabis. "In questo modo vogliamo sollevare l’attenzione pubblica e fare pressione sul Parlamento per scongiurare compromessi al ribasso", spiega Riccardo Magi secondo il quale "portare avanti l’iter legislativo solo sulla cannabis terapeutica significherebbe infatti ignorare la richiesta di diritti e libertà che viene dal Paese e tradire gli oltre 60mila cittadini che hanno firmato la nostra legge di iniziativa popolare Legalizziamo". Il Pd con Forza Italia, Mdp, Alternativa Popolare e Sinistra Italiana hanno votato per il rinvio. Soltanto il M5s e la Lega hanno chiesto il voto immediato sul testo di partenza. E hanno attaccato duramente il rinvio. Daniele Farina di Sinistra Italiana-Possibile, relatore per la commissione Giustizia della legge sulla legalizzazione, spiega: "Ad oggi non c’è una ipotesi comune di testo unificato, e la relatrice della commissione Affari sociali, Miotto, ha presentato un testo esclusivamente sull’uso medico. Così non si va da nessuna parte e per superare questa impasse ho depositato un testo che rielabora la proposta di legge presentata dall’inter-gruppo parlamentare per la legalizzazione della cannabis assumendo anche l’uso medico come proposto dalla collega Miotto. In questo modo sono finiti gli alibi: la settimana prossima si voti il testo base di un provvedimento che comunque è calendarizzato per l’Aula a settembre per iniziativa di Sinistra Italiana-Possibile". Anche il senatore e sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, coordinatore dell’inter-gruppo parlamentare per la legalizzazione della cannabis, propone questa strada e chiama il Pd: "ci dia una mano in Commissione a portare al voto il testo dell’intergruppo Cannabis Legale. Poi, l’aula deciderà in modo trasversale" sostiene. Protestano i 5 Stelle che con la Lega ha chiesto il voto immediato sul testo di partenza: "si è perso tantissimo tempo visto che la visione della relatrice Miotto è già nota da tempo e ha rifiutato ogni possibile passo avanti per trovare un testo condiviso". Turchia. Restano in carcere la direttrice di Amnesty e altri cinque difensori dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 luglio 2017 In piena notte, dopo un’intera giornata di udienze, è arrivata la conferma della detenzione preventiva per Idil Eser, direttrice di Amnesty International Turchia, e altri cinque difensori dei diritti umani arrestati il 5 luglio mentre prendevano parte a un corso di formazione. Altri quattro difensori dei diritti umani sono stati rilasciati su cauzione ma dovranno, a loro volta, rispondere della kafkiana accusa di aver "commesso reati per conto di un’organizzazione terroristica senza farne parte". Oltre a Idil Eser, restano in carcere Günal Kursun, avvocato dell’Associazione Agenda per i diritti umani; Özlem Dalkiran, dell’Assemblea dei cittadini; Veli Acu, dell’Associazione Agenda per i diritti umani; Ali Gharavi, consulente in strategie informatiche; e Peter Steudtner, formatore su non violenza e benessere delle persone. Vanno ad aggiungersi a Taner Kiliç, presidente di Amnesty International Turchia, arrestato il 6 giugno e incriminato, tre giorni dopo, per "appartenenza all’Organizzazione terroristica Fethullah Gülen". I quattro difensori dei diritti umani rilasciati su cauzione sono Ilknur Üstün, della Coalizione delle donne; Nalan Erkem, avvocata, dell’Assemblea dei cittadini; Nejat Tastan, dell’Associazione osservatorio sull’uguaglianza dei diritti; e Seyhmuz Özbekli, avvocato. La procura turca ha avuto 12 giorni a disposizione per riconoscere l’ovvia innocenza dei 10 difensori dei diritti umani. E invece la persecuzione politica nei loro confronti continua. Secondo le bizzarre accuse rivoltele, Idil Eser attraverso il suo lavoro per Amnesty International avrebbe avuto legami con tre organizzazioni terroristiche diverse e antagoniste tra loro. La richiesta della procura di rimandarla in detenzione preventiva fa riferimento a due campagne di Amnesty International, non promosse dalla sezione turca dell’associazione e una delle quali svolta prima che Idil Eser entrasse a far parte di Amnesty International Turchia. L’accusa contro Ilknur Üstün della Coalizione delle donne, rilasciata su cauzione, è che avrebbe chiesto finanziamenti a "un’ambasciata" per un progetto su "uguaglianza di genere, partecipazione ai processi decisionali politici e pubblicazione di rapporti". In Turchia stare dalla parte dei diritti umani è diventato un reato, non da oggi ma ancor di più da oggi. Invece di continuare a fare come se niente fosse, sarebbe bene che i leader mondiali premessero sulle autorità di Ankara perché vengano ritirate le ridicole accuse nei confronti dei difensori dei diritti umani e tutti siano rimessi in libertà immediatamente e senza alcuna condizione. Tra le iniziative in programma nei prossimi giorni, giovedì 20 a Roma Amnesty International Italia svolgerà un flash-mob in piazza del Colosseo a partire dalle 18.30 mentre per lunedì 24 le associazioni per la difesa della libertà di stampa hanno promosso un twitter-storm per ricordare l’inizio del processo a 17 giornalisti del quotidiano indipendente Cumhuriyet. Libia. Onu: detenuti di Haftar a rischio torture ed esecuzione Askanews, 19 luglio 2017 Il Commissario Onu per i diritti umani si è detto "profondamente preoccupato" per le persone fatte prigioniere dalle forze guidate dal generale Khalifa Haftar, dopo i combattimenti a Bengasi, perché "potrebbero essere a rischio di tortura e persino di esecuzione sommaria". È quanto ha detto il portavoce del Commissario Onu, Liz Throssell, in una nota diffusa oggi. "La nostra preoccupazione nasce dalle notizie riguardo il coinvolgimento delle Forze speciali, un’unità dell’Esercito nazionale libico, e in particolare del suo comandante, Mahmoud al-Werfalli, nelle torture inflitte a detenuti e nell’esecuzione sommaria di almeno 10 uomini fatti prigionieri", ha precisato la portavoce, ricordando i casi emersi dallo scorso marzo a oggi. "Invitiamo l’Esercito nazionale libico a condurre indagini complete e imparziali su queste accuse e lo invitiamo anche a sospendere dall’incarico Mahmoud al-Werfalli in attesa delle conclusioni dell’indagine", è l’appello contenuto nella nota. Stati Uniti. La storia di Justine, la maestra di yoga uccisa da un agente sotto casa di Viviana Mazza Corriere della Sera, 19 luglio 2017 Ha chiamato la polizia, perché aveva sentito una donna urlare in strada ma la 40enne australiana è stata colpita a morte. L’agente le ha sparato dal finestrino dell’auto. Le nozze erano previste tra un mese, e lei non vedeva l’ora, tant’è che aveva già preso il cognome del futuro marito. Ma i parenti di Justine Damond sono dovuti arrivare ieri a Minneapolis prima del previsto: per il suo funerale. Quarant’anni, australiana, maestra di yoga e di meditazione, Justine è la 661esima persona uccisa dalla polizia in America quest’anno e la quinta in Minnesota, secondo le stime. È accaduto sabato, poco prima di mezzanotte nel quartiere benestante dove Justine Damond viveva con il compagno, che quella sera era assente per lavoro: era stata lei stessa a chiamare il 911, il numero della polizia, perché aveva sentito una donna urlare in strada e temeva la stessero violentando. L’errore di Justine - scrive il quotidiano "The Australian" - è stato di avvicinarsi, in pigiama e disarmata, al finestrino del poliziotto al volante: "Una cosa che qualunque australiano avrebbe fatto". Ma l’agente seduto accanto al guidatore, Mohamed Noor, 31 anni, somalo-americano, le ha sparato all’addome. Forse aveva scambiato il cellulare che Justine teneva in mano per una pistola. Ma non è dato saperlo, perché le body-cam, le telecamere che i due poliziotti indossavano erano spente, benché fossero tenuti per regolamento ad accenderle prima o immediatamente dopo l’uso della forza. La tragedia è finita sulle prime pagine dei giornali australiani con titoli come "Incubo Americano". E ha riportato i riflettori dei media statunitensi sulle sparatorie della polizia. Il Minnesota, uno Stato liberal delle praterie vicino al Canada e ai Grandi Laghi, è stato già scosso di recente dall’uccisione di Philando Castile, afroamericano fermato alla guida della sua auto con un fanalino di coda rotto e ucciso poco dopo davanti alla fidanzata e alla figlia di quattro anni da un poliziotto ispanico. Castile aveva detto all’agente di possedere un’arma per evitare di avere problemi, e stava prendendo un documento di identità come gli era stato chiesto, quando il poliziotto ha sparato: è stato prosciolto, anche se licenziato. Stavolta la dinamica razziale è capovolta, nota sul "New York Daily News" il commentatore Shaun King; e chiede: forse adesso che la vittima è bianca e il poliziotto di colore e musulmano, l’America si accorgerà che la "cultura delle armi" deve finire? Alcuni incluso il figlio adottivo di Justine Damond, puntano il dito contro l’addestramento dei poliziotti (l’agente Noor aveva ricevuto due lamentele e una denuncia in appena due anni di servizio), ma il problema è anche più ampio. Anche se in Minnesota, i dati sul crimine sono al punto più basso negli ultimi 50 anni, se sei un poliziotto in America ci sono buone ragioni per essere nervoso: in media 150 agenti muoiono ogni anno sul lavoro, spesso uccisi con armi da fuoco. Ogni volta che vanno in pattuglia, sanno che ci sono là fuori 265 milioni di pistole e fucili, circa uno per ogni adulto. È così sorprendente che a volte la polizia si senta in guerra con coloro che ha giurato di proteggere? Due donne, la sindaca democratica Betsy Hodges, che aveva fortemente voluto l’uso di body-cam, e il capo della polizia Janeé Harteau, sono ora sotto i riflettori. Le indagini sulla morte di Justine Damond, che è stata già definita un omicidio, sono condotte dal dipartimento per la sicurezza pubblica di Minneapolis, indipendente dalla polizia. Ma i parenti lamentano di sapere ancora poco o nulla sulla dinamica. Intanto, altre quattro persone sono state uccise in America dalla polizia dalla notte in cui è morta Justine.