Nuovi voucher? Un freno al lavoro dei detenuti di Daniele Biella Vita, 18 luglio 2017 La denuncia di Silvia Polleri, che da 14 anni promuove innovazione sociale dietro le sbarre e nel 2015 ha fondato Ingalera, il ristorante gourmet all’interno del carcere di Bollate: "siamo oltre i 5 cinque dipendenti, con le regole attuali non possiamo richiedere i nuovi buoni". Mesi di battaglie tra voucher sì e voucher no. Poi, dal 10 luglio 2017, ecco i "nuovi voucher". Che, appena sfornati, oltre a presentare prime difficoltà di attuazione (leggi qui) si spera risolvibili, hanno già ottenuto un effetto paradossale: complicare la vita a chi dà lavoro alle persone detenute, fondamentale viatico per un successivo efficace reinserimento in società al termine della pena. "Altro che complicare, noi i nuovi voucher non possiamo proprio utilizzarli", denuncia Silvia Polleri, fondatrice della cooperativa sociale "Abc La sapienza in tavola" e da ben 14 attiva nel carcere di Bollate per promuovere politiche e azioni socio-lavorative all’avanguardia, tra cui Abc catering, una delle prime esperienze in Italia di catering di qualità gestito da detenuti, e soprattutto Ingalera, ristorante gourmet che dal 2015 sempre dietro le sbarre della Casa circondariale di Bollate apre le porte a persone provenienti da tutto il mondo. Iniziamo dai numeri. A quante persone detenute date lavoro? Quattordici - all’80 per cento soggetti svantaggiati - di cui sette a tempo indeterminato, in particolare al ristorante. Per chi lavora al catering, invece, è un lavoro occasionale dato che facciamo una media di cinque uscite al mese, in articolo 21: si tratta comunque di un’occasione straordinaria per l’ingresso nel mondo del lavoro. Perché i "nuovi voucher" rappresentano un problema? Proprio per i lavoratori del catering, i nuovi voucher sono inutilizzabili. Mi spiego: il vecchio modello paradossalmente andava bene perché esprimeva la giusta occasionalità e garantiva sia il lavoratore che lo Stato, a livello di Inail come di Inps. Quelli nuovi, invece, hanno una regola che ci penalizza: sono utilizzabili da chi ha al massimo cinque dipendenti a tempo indeterminato. Ma noi ne abbiamo sette, e quindi allo stato attuale non possiamo utilizzarli. Un controsenso… Lo è, anzi è un vero e proprio scandalo. Se la legittima idea iniziale è contrastare forme di lavoro che non rispettano i diritti del lavoratore, è impensabile però non tenere conto di situazioni come la nostra. Saranno magari il 10 per cento del totale, ma vanno considerate. Noi da sempre cerchiamo il rispetto delle regole, anche per insegnarlo poi a chi le ha infrante in passato come gli stessi detenuti, ma così ci vengono messi i bastoni tra le ruote. Quali alternative avete, allo stato attuale? Il lavoro nel catering è saltuario e va regolato come tale. Ci sarebbe il contratto a chiamata, invece, si applica a chi è minore di 25 anni o maggiore di 55, ma la gran parte delle persone detenute sta nella fascia d’età in mezzo. Mentre la prestazione occasionale classica, con ritenuta d’acconto, non tutela dal punto di vista dell’Inail. Siete obbligati quindi a non dare più lavoro a queste persone? Per ora ho un residuo di 1100 euro dei vecchi voucher validi fino al 31 dicembre 2017, è poco ma ne faccio tesoro. Non ho potuto prenderne di più perché erano finiti, e a quanto ho capito anche perché se gli ultimi se li sono accaparrati le aziende. Nel frattempo sto chiedendo informazioni su come muoversi a Legacoop e altri soggetti. Cosa chiederebbe al ministero del Lavoro? Una deroga per i casi come i nostri. Avere più di cinque persone assunte a tempo determinato è un merito, non un demerito. Non va penalizzato chi offre lavoro. In carcere non arriva mai l’estate di Don Gino Rigoldi Corriere della Sera, 18 luglio 2017 Passano gli anni e continuo a incontrare dietro i muri del carcere Beccaria giovani che nessuno vuole vedere. Sono loro la mia umanità, invisibile ai più, capace di spiegare quali sono alcuni dei problemi di oggi e di darmi indicazioni, ispirazioni e motivazioni per trovare il modo di riabilitarli davanti a loro stessi e al mondo esterno. È riconoscendo la loro storia che possiamo provare ad aiutarli a ripartire. La relazione ha inizio nel momento in cui chiamo un ragazzo per nome, per rompere il circolo vizioso che impedisce le possibilità di cambiamento. Questo mi suggeriscono i miei oltre 40 anni da cappellano al Beccaria, questo lo dicono sia la Costituzione che i Vangeli. Arrivano in carcere ognuno con la propria storia. Cambiano i reati, i Paesi di provenienza, ma i ragazzi provengono quasi sempre da famiglie povere, quando ci sono. Ecco perché hanno bisogno di adulti ben presenti: di persone che, guardandoli, ne riconoscano l’esistenza. C’è sempre una possibilità di cambiamento. Spesso si dà per scontato che abbiano avuto qualcuno accanto che si è preso cura di loro: e che quindi una possibilità l’abbiano avuta. Tuttavia le loro storie parlano di solitudine e di una vita all’insegna dell’arte di arrangiarsi. Sono giovani che hanno poca stima di sé, spesso rifiutati da chi hanno incontrato nella loro vita. In questo vuoto hanno cercato di farsi spazio nel modo più facile, probabilmente l’unico che è stato offerto loro. Diventano qualcuno nel momento in cui si sentono riconosciuti. Sono ragazzi che si sentono orgogliosi quando trovano il modo per essere stimati. Hanno bisogno di relazioni e affetti, di sentirsi apprezzati come persone. Noi adulti non possiamo fermarci ad un giudizio superficiale o ignorarli, come se bastasse chiuderli dentro il carcere per eliminare il problema e la nostra responsabilità. Credo che sia compito nostro ribaltare il giudizio che li etichetta. È nostra responsabilità aiutarli a ripartire, se non da zero, almeno dal carcere. Perché è grave il giudizio di chi nella loro vita vede soltanto le carte in regola per essere e rimanere delinquenti. Con il mio lavoro ho da sempre cercato di cambiare quello che sembra essere un esito inevitabile. Di aiutarli non solo a cercare, ma a creare sé stessi partendo dai bisogni concreti della vita reale: una casa, un lavoro, dei soldi per vivere e per studiare. Sono le condizioni minime per provare a disegnare un futuro diverso, senza le quali uscire dal "giro sbagliato" è davvero complicato. Il carcere marchia e fuori non esiste risarcimento. Io credo che spetti a noi mostrare che il tempo è dalla loro parte. E che noi siamo i primi sostenitori del loro riscatto. "Un cambiamento di prospettiva: dalla vittima alla riparazione" di Marta D’Auria riforma.it, 18 luglio 2017 È il titolo di un progetto elaborato dall’Associazione Spondé e finanziato con i fondi dell’Otto per mille battista. Ne parliamo con Maria Pia Giuffrida "Un cambiamento di prospettiva: dalla vittima alla riparazione", è un progetto dell’Associazione Spondé - parola greca con la quale si fa riferimento al sacrificio offerto per sancire l’esito positivo di una trattativa di pace, finanziato con i fondi dell’otto per mille dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (Ucebi). Il titolo del progetto richiama un cambio di paradigma. Di cosa si tratta? Ne parliamo con Maria Pia Giuffrida, tra le fondatrici dell’associazione, già dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria e presidente dell’Osservatorio permanente sulla giustizia riparativa e la mediazione penale, istituito presso il Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap). "La "prospettiva riparativa" in primo luogo mette al centro di tutto la responsabilità: chi ha commesso reato deve assumersi la responsabilità non solo rispetto alla norma infranta ma anche rispetto al danno fatto alla persona o a più persone che sono vittime. Dunque, cambia la prospettiva: da una giustizia retributiva e rieducativa in cui il trattamento penitenziario è centrato unicamente sulla volontà e sul bisogno del reo di uscire dal carcere o dal sistema dall’esecuzione della pena generale, si passa ad una giustizia relazionale. La direttiva di Strasburgo del 2012 afferma che il reato non è solo la frattura di una norma ma anche quella di una relazione, e dice con forza che la giustizia riparativa va implementata nel rispetto dei bisogni della vittima. La giustizia riparativa dunque tende a ricostruire dei legami, un pezzo di cittadinanza: si tratta di una vera rivoluzione copernicana". In cosa consiste il progetto che è cominciato a settembre 2016 e si concluderà entro la fine del 2017? "Il progetto intende dare seguito alla direttiva di Strasburgo del 2012 sui diritti delle vittime che invita gli stati membro a creare degli sportelli di ascolto e di accompagnamento delle vittime secondo un’ottica generalista. Mi spiego: in molti paesi, tra cui l’Italia, esistono dei centri per le vittime che vengono organizzati per tipologia di crimine; quello che invece cerchiamo di fare è di coprire un vuoto, offrendo uno spazio di ascolto garantito e protetto a quanti sono stati vittime di reato, anche a prescindere - come dice la direttiva europea - dalla volontà di procedere alla denuncia. In questo primo anno, il progetto prevede la formazione del personale di sportello. Le richieste di partecipazione al progetto sono state numerose, segno dell’attenzione che comincia a risvegliarsi anche nel nostro paese". Che tipo di accoglienza riceve questo cambio di paradigma all’interno del contesto del sistema carcerario italiano? "Credo che su questa "nuova" prospettiva ci sia molta enfasi, ma una scarsa conoscenza perché si tende ancora una volta a farne un automatismo. Sostengo che la giustizia riparativa è un percorso autonomo dalla retribuzione: i criteri fondanti della riparazione stanno infatti nella responsabilizzazione di chi ha commesso il fatto ma anche nella volontarietà da parte di chi ha commesso il fatto di intraprendere un percorso, e nella volontarietà e libertà da parte di chi ha subito il reato di accettare o meno questa possibilità riparatoria. Tutto si gioca quindi sulla libertà assoluta che presume una corretta informazione delle parti su cos’è la giustizia riparativa, che non può essere ridotta ad un meccanismo teso a sfoltire le carceri, ad esempio. In linea generale, comunque registriamo interessamento sia da parte degli operatori (assistenti sociali, educatori, polizia penitenziaria, direzioni degli istituti), sia da parte dei detenuti, che inevitabilmente sono interessati in termini strumentali alla riparazione. In questo caso occorre rimettere al posto giusto la responsabilità e la libertà e, se la dimensione strumentale riesce ad essere riassorbita in una volontà precisa del reo, allora si comincia a disegnare un percorso riparativo". Laddove c’è stato un percorso di giustizia riparativa, quali effetti ha visto? "Ho seguito nelle carceri italiane tanti casi di persone che hanno commesso diversi tipi di reato (dal sequestro di persona all’omicidio) e hanno intrapreso un percorso di giustizia riparativa: avviene una rivoluzione! Quando il detenuto comincia ad accogliere la possibilità di incontrare la vittima, o i familiari della vittima, di guardarli negli occhi, avviene in lui un importante cambiamento: è chiamato a farsi carico delle proprie responsabilità. Il counseling, che è un percorso lento, permette al detenuto di raccontarsi in un modo che possa essere accolto dalla parte di chi ascolta. C’è oggi certamente un’affabulazione intorno al racconto, che non giudico, e occorre destrutturare una serie di verità portando il reo a considerare la vittima e i suoi bisogni. Quando questo accade, avviene il cambiamento". I delitti dei migranti e il cortocircuito delle nostre paure di Francesco Merlo La Repubblica, 18 luglio 2017 Quando un maschio bianco e italiano stupra una donna io non mi sento colpevole. E a nessuno venne in mente di trattare come assassini di bambine tutti i muratori della Lombardia quando Bossetti, che faceva il muratore nel Bergamasco, fu arrestato con l’accusa di aver rapito e ucciso una bambina. Perché invece gli immigrati sono tutti responsabili dei delitti commessi da un singolo immigrato? Perché nell’immigrazione non distinguiamo le persone ma la percepiamo come una massa indistinta, senza nessuna differenza, direbbe San Paolo, tra "vasi d’ira" e "vasi di misericordia", tra buoni e cattivi, tra innocenti e colpevoli? Ieri a Milano un poliziotto è stato accoltellato da un immigrato sbandato e violento, non dall’immigrazione. Sembra niente, ma il verme maligno che può far marcire questo paese spaventato è tutto qui, nel sociologismo ideologico che semplifica e generalizza, che astrae e dunque persegue non il singolo delinquente ma il colore della sua pelle, la sua nazionalità, la collettività da cui proviene, il Dio a cui si affida. È un’aberrazione dell’odio prendere un colpevole e con lui fare colpevole una razza, una etnia, una religione o quell’immensità di umanità che è l’immigrazione. Dunque ieri la cronaca ci ha raccontato il delitto di un balordo di 28 anni, un’età come un’altra, che infatti non ci è arrivata addosso come un fastidio, non ha fatto suonare l’allarme. Nessuno se l’è presa con i nati negli anni ottanta e non è stata ordinata una retata tra i 28enni di Milano. Quel nome invece, Saidou Mamoud Diallo, ci è arrivato come un prurito da grattare via. E quando, la riga dopo, abbiamo letto che girava con un coltello, l’oscuro biasimo che ormai coviamo dentro ci ha confermato il pregiudizio e ha reso trionfante il conformismo estenuato dell’invasione barbarica a Milano, delle orde di extracomunitari che ci accoltellano alle spalle e dei fighetti di sinistra che li accolgono: "Ma portateli a casa vostra, accomodateli in salotto". E cosa può avere in tasca un ghanese di nome Saidou se non un coltello? Nella paura collettiva il coltello e il nome Saidou sono come l’asola e il bottone, come l’usura e l’ebreo nel Mercante di Venezia, come il mafioso e il siciliano nella Torino che vietava l’ingresso ai cani e ai meridionali. L’identikit insomma è perfetto, Saidou non presenta punti deboli, la sua povera biografia è avvincente per i giornali che ogni giorno ingrandiscono e proiettano le ossessioni del Paese e spesso spacciano l’astio per pensiero critico. Saidou ha infatti precedenti penali e avrebbe dovuto essere espulso il 4 luglio scorso secondo il questore di Sondrio. Dunque Saidou diventa tutta l’immigrazione, non un individuo concreto con una storia a delinquere semplice e al tempo complessa, non un balordo armato di coltello come tutti gli altri balordi, non un mascalzone matto di caldo. Saidou è invece un tipo uscito dalle caverne ideologiche della paura, dal giornalismo che avvelena il sottosuolo dell’anima; è un diavolo violento e forsennato perché nero, è un accoltellatore di poliziotti perché immigrato. È l’incarnato di un’ossessione. Ovviamente non credo affatto che Saidou sia una vittima della società, un poveraccio da proteggere, un fratello da abbracciare, e non capisco perché non si sia riusciti a espellere questo immigrato delinquente. So bene che l’immigrazione porta nelle nostre città disperati che dormono nei parchi, nelle stazioni, nelle strade, alimentando l’antica bava dell’italianissima ferocia criminale che insanguina le città, l’orribile spruzzo di una violenza che è quotidiana, ubiquitaria, non solo metropolitana e non solo meridionale. Ma è anche vero che l’Italia in tutto il suo territorio usa quest’ umanità dolente, e che ci sono lavoratori immigrati giovani e vecchi, donne e bambini mal pagati, maltrattai, invisi, temuti e discriminati. Quando poi ho letto ieri la scemenza farneticante che "Saidou è la prova che abbiamo bisogno di cacciarli invece di dar loro lo ius soli" ho davvero capito che siamo alla dissoluzione di un formidabile modello di scontro politico, che era alimentato dalla faziosità intelligente e magari pure dalla fegatosità, e oggi si nutre invece di deformazioni razziste e di trasfigurazioni ideologiche. C’è infine un dettaglio che sarebbe persino umoristico se la cronaca non fosse straziante ed è quel "volevo morire per Allah" che Saidou ha pronunziato subito dopo l’arresto. Si sa che per spaventare un bambino basta la parola "strega" e per far piangere un uomo che ha conosciuto il terremoto basta dondolare il suo letto. Ebbene la parola Allah pronunziata da un immigrato accoltellatore pizzica la corda più tesa della paura, quella del terrorismo per sentito dire, del terrorismo annunziato. È enorme la potenza della paura: come avvenne a Torino in piazza San Carlo, può persino far scoppiare la bomba che non c’è. Tre ragioni per fermare le porte girevoli toghe-politica di Carlo Nordio Il Messaggero, 18 luglio 2017 Il vicepresidente del Csm, Legnini, e il Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Albamonte, in due interviste in successione sul Messaggero hanno enunciato un principio sacrosanto: che il magistrato entrato in politica non può più rientrare nei ranghi e reindossare la toga. È l’epilogo di un percorso lungo e sofferto: ma è un epilogo da apprezzare, ma purtroppo insufficiente e tardivo. Tardivo, perché la credibilità della magistratura, anche a causa di questo sfrenato andirivieni è ormai scesa a precipizio. E insufficiente perché non affronta in radice il problema: che un magistrato in servizio (e secondo noi anche dopo) non dovrebbe mai candidarsi a cariche elettive, e questo per tre motivi. Primo. L’Italia ha una storia di conflittualità quasi esasperata tra toghe e politica. Le ragioni sono molte e risalgono al 1992 quando si è passati da una repubblica partitica a una repubblica giudiziaria. Intendiamoci: non è stata la magistratura a eliminare una classe dirigente che si era esaurita nell’incapacità e screditata nella corruzione: i processi ne hanno solo celebrato i funerali. Ma da quel momento le toghe hanno colmato - come si dice - "oggettivamente", un vuoto di potere, che non hanno più mollato. L’ingresso in campo di Berlusconi, con la sua impallinatura attraverso un avviso di garanzia notificato a mezzo stampa, ha gettato benzina sul fuoco. Eda allora, con alti e bassi, le indagini continuano a condizionare Parlamento, Regioni e Comuni, dove nessuno firma più nulla per paura di finire nel registro degli indagati. In questa infernale confusione, che ha frantumato il principio della divisione dei poteri, consentire a un magistrato, che magari ha acquisito notorietà e prestigio attraverso inchieste sui personaggi politici, di sostituirsi a questi ultimi, significa dare il colpo di grazia alle nostre già vacillanti istituzioni. Secondo. La candidatura di un magistrato - a maggior ragione se ha raggiunto la notorietà di cui sopra - lo esporrebbe a una sorta di rilettura di tutta la sua precedente condotta professionale. Naturalmente nessuno pensa - e ci mancherebbe altro - che un giudice abbia strumentalizzato, cioè prostituito, la sua funzione, per prepararsi un "buen retiro" in parlamento o al governo. Nondimeno la sola eventualità che qualche anima cattiva possa insinuare questo perfido sospetto dovrebbe suggerire di eliminarne il pericolo. Terzo. Il magistrato che sfrutti - naturalmente con le più nobili intenzioni - tale notorietà per candidarsi, altera il principio della concorrenza leale, o quantomeno della parità delle condizioni di partenza. Decolla avvantaggiato solo per aver fatto, a suo tempo, il proprio dovere. Si dirà che anche un cantante, un calciatore o un artista possono godere di questa situazione di favore. È vero. Ma nessuno di loro ha mai inquisito o incatenato un concorrente. Certo, si può replicare che alcuni magistrati possono fare, o aver fatto, politica in modo anche più subdolo, orientando o strumentalizzando maliziosamente le proprie inchieste senza nemmeno esporsi nell’agone elettorale. Ma a parte il fatto che addurre un inconveniente non significa risolvere il problema, resta la circostanza che l’ufficializzazione della candidatura non farebbe che avvalorare gli eventuali sospetti di una precorsa e sacrilega baratteria di partito. In ogni caso questo pericolo mortale andrebbe affrontato con riforme ben più incisive di quella timidamente ora prospettata (che pur rappresenta un passo avanti): dalla separazione delle carriere, alla trasparenza dell’azione penale, alla gestione delle intercettazioni, via via fino al funzionamento dello stesso Csm. Ma questo, direbbe De Gaulle, è un vasto programma. Albamonte (Anm): "Davigo? Populismo". Critiche espresse per riscuotere un po’ di consenso di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 18 luglio 2017 Presidente Eugenio Albamonte, il suo predecessore alla guida dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, dice che le accuse di "populismo giudiziario" che gli avete mosso dopo l’uscita dalla Giunta dell’Anm sono ridicole. Che cosa risponde? "Che lui sta delegittimando il Consiglio superiore della magistratura, cioè la nostra casa comune e il principale caposaldo della nostra indipendenza. Arrecando un danno non solo ai magistrati, ma anche alle istituzioni preposte a garantirne l’autonomia". Addirittura! "Certo, perché questi attacchi all’organo di autogoverno rischiano di saldarsi con altri. Le pulsioni delegittimanti interne ed esterne alla magistratura potrebbero mescolarsi contribuendo a peggiorare la situazione, anziché migliorarla". Ma non si può criticare il modo in cui il Csm procede alle nomine dei dirigenti degli uffici giudiziari? "Certo che si può, ma un conto è criticare singole scelte, un altro è generalizzare le accuse e trascinare nelle polemiche l’istituzione in sé. Dire, o lasciare intendere, che tutte le nomine sono sbagliate è come dire che tutti i politici sono ladri: sono letture massimaliste che possono riscuotere un po’ di consenso esasperando il malcontento della base, però false. Così non si contribuisce a costruire, ma solo a distruggere". Sarebbe questo il "populismo giudiziario" di cui accusate Davigo e la sua corrente? "Non so se sia la definizione esatta. Di certo siamo di fronte a una lettura populista del funzionamento del Csm, al pari di quella sul funzionamento della politica, che non contribuiscono a risolvere i problemi del nostro autogoverno né quelli dei partiti". E l’idea, attribuita sempre a Davigo, che non esistono innocenti bensì soltanto colpevoli che non sono stati scoperti? "Di recente ha provato a smentire e precisare, tuttavia io l’ho ascoltato personalmente, anche in televisione, e non mi è sembrato di cogliere i distinguo e i chiaroscuri di cui parla adesso. Pure in questo caso si scivola su frasi a effetto che intercettano un pezzo di opinione pubblica, ma noi come magistrati abbiamo il dovere di rispettare le sentenze; gli imputati assolti, e lo dico da pubblico ministero, sono innocenti e basta. Dopodiché ognuno può avere le proprie convinzioni personali, ma se si fanno prevalere si esce dal campo giudiziario e si entra in quello del giudizio etico, del tutto soggettivo. Imboccando una deriva che rischia di avallare l’ipotesi del complotto ogni qualvolta un’iniziativa giudiziaria colpisce un esponente politico o un operatore economico. Non va bene". Tornando al merito delle questioni sollevate da Davigo e dalla sua corrente, lei non pensa che le nomine al Csm siano lottizzate, poco trasparenti e incomprensibili? "Io penso che prima di tagliare i giudizi con l’accetta bisogna valutare i singoli casi e confrontarsi con i profili dei candidati, altrimenti si compie lo stesso errore che rimproveriamo a chi commenta i provvedimenti giudiziari senza conoscere regole e procedure". Qui ci sono almeno due casi specifici: le possibili nomine di un ex parlamentare del Pd a procuratore di Pordenone e di un ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia a procuratore di Napoli. Il Csm, l’Anm e la corrente di Area, quella di sinistra a cui appartiene anche lei, sono accusati di predicare bene e razzolare male, violando le stesse regole che proponete… "Noi abbiano proposto che i magistrati entrati in politica non assumano incarichi giurisdizionali Sorrisi Piercamillo Davigo, a sinistra, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, stringe la mano al suo successore Eugenio Albamonte al momento di rindossare la toga, ma per farlo serve una legge che al momento non c’è; anche per introdurre un periodo di "decantazione" fra l’incarico fuori ruolo e l’assunzione di funzioni direttive serve una nuova regola che dev’essere ancora approvata. Mi stupisce che fra giuristi non si riescano a comprendere queste distinzioni fondamentali fra leggi auspicate e leggi vigenti, che abbiamo l’obbligo di rispettare". Nel merito delle due nomine, qual è la sua posizione? "Io non credo che l’Anm debba interferire nell’attività del Csm, lì ci sono già i rappresentanti delle correnti eletti, Tra noi c’era l’impegno a sostenersi in modo leale anche dopo il ricambio degli incarichi compreso quello del gruppo di Davigo. Non penso affatto che sulle nomine tutto funzioni alla perfezione, anzi, ci sono molte cose da rivedere. L’Anm ha avviato un confronto critico con il Csm proprio per individuare nuove regole che contribuiscano a recuperare la fiducia dei magistrati dalle istituzioni. E abbiamo intenzione di proseguirlo anche senza Davigo". Ce l’ha ancora con lui; non è che si sente tradito dall’uscita della corrente di Davigo dalla Giunta dopo la conclusione del suo turno di presidenza? "Durante questa esperienza di recuperata unità all’interno dell’Anm si è creato un rapporto, anche personale, di stima reciproca, e c’era l’impegno a sostenersi in modo leale anche dopo il ricambio negli incarichi. Noto con stupore e un po’ di amarezza che quell’impegno non è stato rispettato". Tortura, da una buona idea a una cattiva legge di Renato Quadrato Gazzetta del Mezzogiorno, 18 luglio 2017 Da pochi giorni la tortura è reato anche in Italia. Un colpevole ritardo, perché la proibizione dei questo atto di barbarie risale alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo emanata a Parigi il 10 dicembre 1948 ("Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumani o degradanti", art. 5). E si ritrova nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali approvata a Roma il 4 novembre 1950 ("Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti", art. 3). Nel 1984 gli Stati aderenti all’Onu, "animati dal desiderio di aumentare l’efficacia della lotta contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti nel mondo intero", come si legge nel prologo, hanno avvertito la necessità di una Convenzione ad hoc. Ebbene, solo dopo anni, quasi trenta, dalla ratifica nel gennaio 1988 di questo trattato, il nostro legislatore si è deciso ad approvare una legge volta a reprimere uno dei crimini più odiosi. Si è così colmato un vuoto normativo scandaloso, essendo la tortura un delitto brutale, ripugnante, perché, come rivela il suo etimo, dal tardo latino torquere, che significa "torcere", consiste nell’atto di torchiare le membra a taluno, praticato per estorcere confessioni, dichiarazioni, testimonianze o anche solo per mera brutalità. E tormenta erano gli strumenti adoperati: l’armamentario con il quale il carnefice infliggeva sofferenze atroci al malcapitato, straziandone il corpo e l’anima. Inserito dunque nel Codice penale tra i "delitti contro la persona", l’articolo 613 bis recita: "Chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in una situazione di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da 4 a 10 anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". A leggerla così com’è stata redatta, la norma non può non risultare assai deludente. La sua formulazione, frutto di evidenti e scialbi compromessi, appare vaga, ridondante, ambigua, censurabile soprattutto nel lessico. Un testo pessimo, insomma. A cominciare dalle battute iniziali, dall’alternativa "violenze o minacce gravi crudeltà", affidata alla congiunzione "ovvero": un’alternativa illogica e strampalata perché la crudeltà implica la violenza, sia fisica sia psicologica. Sarebbe stato sufficiente l’impiego della sola parola crudeltà evitando il precedente riferimento alle violenze e minacce gravi, le quali, previste nel dettato della norma alternativamente alla crudeltà, potrebbero risultare già di per sé atti idonei alla configurazione del reato. E, a seguire, lascia perplessi il richiamo al trauma psichico "verificabile", e cioè da riscontrare, constatare: una circostanza difficile da appurare, soprattutto a distanza di molto tempo dai fatti accaduti, e che immette nel processo di accertamento del fatto criminoso un elemento di valutazione rimesso a perizie. Ma i dubbi, e le riserve, sul testo non si fermano qui. Riguardano anche il seguito della norma, l’inciso in cui si condiziona ("se") la punizione del delitto quando "il fatto è commesso mediante più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". A parte la riapparizione dell’"ovvero", incomprensibile nell’alternativa "più condotte" - "trattamento inumano e degradante", non è accettabile che, a rendere perseguibile il reato, debbano ricorrere "più condotte". Con la conseguenza che un singolo atto, pur se particolarmente efferato, potrebbe non essere punito. Amareggia notare che il legislatore non sia stato capace di varare una legge adeguata. Sarebbe stato sufficiente riprodurre, sia pure con qualche ritocco, il testo della Convenzione Onu del 1984, che all’articolo 1 dispone: "il termine "tortura" designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime ad esse inerenti o da esse provocate". Un documento equilibrato nel definire il crimine, la cui formulazione suscita però qualche appunto solo nel tratto finale. Possono infatti qualificarsi "legittime", e cioè conformi alla legge e dunque lecite, sanzioni che cagionino "dolori o sofferenze"? Ma nonostante i precetti delle varie convenzioni internazionali, la tortura è, e rimane, una triste realtà del nostro tempo. Si continua a praticarla in vari luoghi del mondo. Ne è una prova il libro di Philip Gourevitch ed Errol Morris, "La ballata di Abu Ghraib" (2008), che racconta la "storia agghiacciante" della "più grande e famigerata" delle prigioni di Saddam Hussein: un luogo "sinonimo di inferno in terra", una fabbrica di torture diventata "il cuore di tenebra del nostro presente", in cui "i prigionieri... venivano quotidianamente picchiati, denudati, umiliati, privati di dignità e diritti, a volte uccisi". Ma la tortura non è delitto qualunque. Non è solamente vessazione fisica. È anche mortificazione della persona, della sua identità, della sua humanitas. "L’uomo - scrive Seneca in una delle sue Epistole a Lucilio (95.33), - è cosa sacra all’uomo" (homo, sacra res homini). Orbene, nel nostro Paese mancava una legge che vietasse la tortura. Urgeva quindi un provvedimento che colmasse una lacuna gravissima nel nostro ordinamento giuridico. Ma la legge approvata dal Parlamento si è rivelata una opportunità sciupata: una delle tante "occasioni mancate" nel "festival delle riforme". Delitto Yara, confermato l’ergastolo a Bossetti di Fabio Poletti La Stampa, 18 luglio 2017 Il muratore e sua moglie scoppiano in lacrime alla lettura della sentenza. Gli avvocati difensori: "Andiamo in Cassazione". Il legale di parte civile: "Giustizia è fatta". Ci vogliono 15 ore, più che in primo grado, per dire che Massimo Bossetti è colpevole. Lui piange, stringe i denti e incassa l’ergastolo. La moglie del muratore di Mapello Marita Comi piange. Come la madre Ester Arzuffi che non ha perso un’udienza. O la gemella Letizia che tra le lacrime promette che la battaglia non è finita: "Andiamo in Cassazione è sicuro...". Anche l’avvocato Claudio Salvagni che pure ci aveva sperato durante questa interminabile camera di consiglio incassa la batosta: "È morto il diritto ma non ci arrendiamo. Si va in Cassazione. Quindici ore per partorire questo topolino...". Di tutt’altro tenore il commento dell’ avvocato di parte civile, Enrico Pelillo: "Giustizia è stata fatta". A provare a smontare la sentenza di primo grado definita "granitica", ci aveva provato fino all’ultimo Massimo Bossetti. Leggendo tre paginette scritte fitte prima che i giudici entrassero in camera di consiglio. "Questo è il più grave errore giudiziario di questo secolo. Il vero o i veri assassini di Yara in questo momento stanno ridendo di me e della giustizia. Non sono io l’assassino mettetevelo in mente". Un invito soprattutto ai giudici popolari. Ma anche a chi, da certi giornalisti da sempre appiattiti sull’accusa, al pubblico che anche oggi in attesa della sentenza davanti a uno spritz discute di dna nucleare e dna mitocondriale e di riprese satellitari, si è fidato del ritratto del perfetto colpevole che gli hanno dipinto addosso dal momento dell’arresto con manette e telecamere. Qualcuno tra il pubblico fa il sarcastico e ancora gli crede: "Ah si bravi ‘sti giudici". Anche di questo si lamenta Massimo Bossetti, l’invidiabile abbronzatura che gli hanno addebitato come colpa, jeans d’ordinanza e camicia blu alla moda, gli occhi troppo azzurri e una vita da muratore insospettabile e dunque assai sospetta. "Quando sono stato arrestato c’era bisogno dell’esercito? C’era bisogno di umiliarmi facendomi inginocchiare a terra? Mi sono sentito come una lepre accerchiata, pronta ad essere spolpata dai cacciatori". C’è molta enfasi nelle sue parole. Si gioca un ergastolo. Ma il giudice Enrico Fischetti lo richiama due volte a non dilungarsi e a non ripetersi. Forse con un po’ troppo zelo. Naturale per un giudice abituato a grandi processi. Come quello per la strage di Brescia per cui mandò assolti tutti e cinque gli imputati, due dei quali condannati all’ergastolo da altri giudici in Cassazione. Sul Dna trovato sui leggins di Yara si è giocato tutto. L’accusa aveva incassato l’ergastolo in primo grado. I suoi difensori avevano insistito che venisse ripetuto l’esame. Massimo Bossetti lo richiede prima della sentenza: "Quel Dna è sbagliato. È un errore. Rifate la prova del Dna e vedrete che i risultati mi daranno ragione". Non lo accontentano. Ma se non bastasse, a sua difesa Massimo Bossetti mette in campo la famiglia. A partire da sua moglie Marita che non si è persa un’udienza seduta dietro a lui e alla quale il muratore di Mapello si affida come se fosse una testimone inoppugnabile: "Chiedetelo anche a lei... Avrebbe capito subito guardandomi negli occhi". Ai figli ha promesso che sarebbe tornato a casa presto. Di Yara parla come se fosse un’altra figlia. Parole importanti. Tutte quelle che ha trovato in questa mezz’ora che alla fine non serve a nulla: "La violenza non fa per me. Chi ha ucciso Yara è un pazzo, un sadico e io non lo sono. Yara aveva davanti una vita e tanti sogni da realizzare. Neppure un animale avrebbe meritato una fine così. Non oso immaginare il dolore dei famigliari di Yara. Voi siete liberi di credermi o di non credermi, Ma non abbiate paura di cercare la verità. L’unico sentimento che mi tiene in vita è l’amore per la mia famiglia. Io non ho mai fatto male a nessuno". Alla fine non gli hanno creduto. Consulta. L’accusa modificata riapre i riti speciali di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2017 Corte costituzionale - Sentenza 17 luglio 2017 n. 206. Se nel corso dell’istruttoria dibattimentale il pubblico ministero modifica l’imputazione per il "fatto diverso" che ne emerge, l’imputato deve essere rimesso in termini per i riti alternativi, patteggiamento compreso. La Corte costituzionale con la sentenza 206depositata ieri chiude il cerchio sulla "risistemazione" dell’articolo 516 del codice di procedura penale, già oggetto di interventi negli anni scorsi (sentenze 265/1994; 184/2014; 333/2009; 139/2015). La questione è se, in presenza di una modifica della qualificazione dei fatti contestati, modifica resa necessaria dalle circostanze e dalle testimonianze emerse nell’istruttoria dibattimentale. all’imputato debba essere riconosciuta la facoltà di aderire ai riti alternativi - facoltà preclusa dal momento dell’apertura del dibattimento. Fino a qualche anno fa la risposta al quesito era stata negativa, vertendo sul rapporto tra premialità e deflazione processuale e sul "rischio processuale" che l’indagato assumerebbe nel momento in cui decide di affrontare il processo in dibattimento. Argomenti superati, chiosa però oggi il giudice delle leggi, perché, in primo luogo, "l’esigenza della corrispettività fra riduzione della pena e deflazione processuale non può prendere il sopravvento sul principio di eguaglianza né tantomeno sul diritto di difesa" (richiamando la sentenza 237/2012). Inoltre, il patteggiamento in quanto "forma di definizione pattizia" si presta a essere adottato in qualsiasi fase del procedimento, ricorrendone ovviamente i presupposti (quale è la modifica dell’imputazione). Quanto al rischio processuale che l’imputato assumerebbe scegliendo di affrontare il dibattimento, questo non può spingersi fino ad assorbire la trasformazione dell’accusa, evento la cui portata "resta ancora del tutto imprecisata al momento della scadenza del termine utile per la formulazione della richiesta" di patteggiamento. Consulta. La tenuità fallimentare "batte" la recidiva di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2017 Corte costituzionale - Sentenza 17 luglio 2017 n. 205. La tenuità del danno provocato nel reato di bancarotta "vince" sulla recidiva reiterata. La Corte costituzionale con la sentenza 205, depositata ieri, corregge l’effetto paradossale secondo cui la mini bancarotta provocata da un recidivo verrebbe punita peggio di un grave dissesto causato dall’incensurato. L’effetto era dovuto all’articolo 69, quarto comma, del codice penale - come riformato dalla legge 251/2005 - che stabilisce il divieto di prevalenza dell’attenuante della tenuità fallimentare (articolo 219, terzo comma, Rd 16 marzo 1942, n. 267) sulla recidiva reiterata, articolo 99, quarto comma, del codice penale. Il caso che aveva determinato la rimessione riguardava una condanna per bancarotta fraudolenta documentale a due anni di reclusione, per avere l’imputato "indicato una giacenza di cassa inesistente, e non aver riportato in contabilità le somme prelevate per il proprio sostentamento". Fatti tenui, sancisce la Corte, ma l’effetto sul computo della pena della ex Cirielli, è "in chiaro contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione, perché condurrebbe, in determinati casi, ad applicare pene identiche per violazioni di rilievo penale enormemente diverso: il recidivo reiterato responsabile di bancarotte fraudolente ultramilionarie, al quale siano applicate le circostanze attenuanti generiche, verrebbe punito con la stessa pena prevista per il recidivo reiterato autore di episodi di modesta gravità, con limitati o nulli pregiudizi concreti ai creditori". La recidiva reiterata, spiega la Corte riflette invece "i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo". Da qui la dichiarazione di incostituzionalità parziale dell’articolo 69 del codice penale. Linee guida ignorate, per l’anestesista è omicidio colposo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2017 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 11 luglio 2017 n. 33770. Neppure la nuova legge sulla responsabilità medica salva l’anestesista che non controlla la corretta ossigenazione del paziente durante un intervento, ignorando le raccomandazioni delle linee guida. E il nesso tra la negligenza del camice bianco e la morte deve considerarsi provato anche se il decesso avviene quasi un mese dopo l’intervento. La Corte di cassazione (sentenza 33770) respinge il ricorso di una dottoressa contro la condanna per omicidio colposo, dopo la morte di una paziente dovuta al tempo eccessivo in cui era rimasta in deficit di ossigeno durante un’operazione al setto nasale. L’anestesista aveva "sottovalutato" anche la segnalazione di allarme del macchinario. Il camice bianco negava però l’esistenza di un nesso causale tra la sofferenza respiratoria e la morte per insufficienza respiratoria, avvenuto 25 giorni dopo l’operazione. Secondo l’imputata la "relazione" tra il suo comportamento e la morte della paziente era stato interrotto da una serie di infezioni sopraggiunte nel reparto di terapia intensiva. L’intempestiva maggiore ossigenazione poteva non essere stata la sola ragione del decesso, e quindi il comportamento del medico doveva essere inquadrato nella colpa lieve, come previsto dalla cosiddetta legge Balduzzi (articolo 3 della legge 189/2012). Inoltre la difesa contestava il no dei giudici di merito al confronto tra il consulente del Pubblico ministero e quello di parte: un faccia a faccia che, secondo la ricorrente, avrebbe potuto ribaltare le sorti del processo. La Cassazione chiarisce intanto che, per la giurisprudenza di legittimità né i confronti né gli accertamenti del perito hanno un carattere decisivo. Nello specifico poi la "svolta" non ci sarebbe stata: il consulente di parte aveva dalla sua circostanze "vaghe" mentre il perito del Pm puntava sugli esami (necroscopico e autoptico) per dimostrare la conseguenza fatale della prolungata carenza di ossigeno. Né il nesso causale poteva essere interrotto, come voleva la difesa, dalla "complicazione" delle infezioni prese nel reparto di terapia intensiva, perché non sono, purtroppo, un imprevisto. Le infezioni non possono - si legge nella sentenza - "costituire il rischio nuovo e incommensurabile del tutto incongruo rispetto alla condotta originaria al quale la giurisprudenza annette valore interruttivo del rapporto di causalità". I giudici ricordano che l’"infezione nosocomiale" è uno dei rischi tipici che va messo in conto quando si resta un tempo non breve nei reparti di terapia intensiva, dove queste "complicazioni" sono tutt’altro che rare a causa delle condizioni di grave deperimento dei pazienti. Una considerazione che sgombra il campo dall’ipotesi, della "colpa lieve": il comportamento dell’imputata è stato gravemente negligente. Ma anche volendo prescindere dal grado di colpa, precisano i giudici, l’imputata non ha comunque osservato le "salvifiche" linee guida, le sole che consentono al sanitario di non rispondere penalmente grazie alla colpa lieve. Per i giudici della quarta sezione penale la ricorrente sarebbe colpevole anche alla luce della nuova legge sulla responsabilità medica. A "inchiodarla" è proprio la mancata osservanza delle linee guida. L’articolo 590-sexies introdotto dall’articolo 6 della legge 24/2017 consente di non punire il medico che rispetta le raccomandazioni delle linee guida anche quando lo fa con imperizia. Inammissibile la richiesta di riesame insita nel ricorso per Cassazione. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2017 Ricorso per Cassazione - Motivi del ricorso - Errore logico-giuridico solo apparente - Domanda di riesame in sede di legittimità - Inammissibilità. È inammissibile il ricorso per Cassazione, proposto contro la sentenza d’appello, fondato su un motivo di impugnazione con il quale il ricorrente si limiti a riformulare, contrariamente alle apparenze formali, le medesime censure già precedentemente sollevate davanti al giudice della sentenza impugnata. Infatti, non è ammissibile il ricorso proposto alla Suprema corte che sia fondato sugli stessi motivi che in secondo grado sono stati motivatamente respinti: l’insindacabilità delle valutazioni adeguatamente e logicamente motivate dal giudice del gravame così come la genericità delle doglianze lamentate, che denunciano solo in apparenza un errore logico-giuridico, celano in realtà una aspecifica domanda di riesame della decisione impugnata che è vietata in sede di legittimità. Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 13 luglio n. 34335. Ricorso per cassazione - Rilettura degli elementi di prova inammissibile in Cassazione - Sostanziale richiesta di riesame - Inammissibilità. I motivi di ricorso per cassazione, in quanto rivolti a ottenere una rilettura degli elementi di prova che non è consentita in sede di legittimità sede, sono inammissibili. Le censure concernenti asserite carenze argomentative del giudice di appello sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell’episodio e dell’attribuzione dello stesso all’imputato, non sono, infatti, proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura motivazionale della decisione risulti sorretta da un logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata. Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 5 aprile 2017 n. 17144. Ricorso per cassazione - Valutazione probatoria inammissibile in Cassazione. Il sindacato di legittimità deve essere circoscritto al discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell’assenza, in essa, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, oppure fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o ancora connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente e caratterizzati da autonoma forza esplicativa o dimostrativa. Dunque, è inammissibile il ricorso che si limiti sostanzialmente a proporre una lettura alternativa del materiale probatorio posto a fondamento della decisione impugnata, dilungandosi in considerazioni di ordine fattuale che non possono trovare ingresso nel giudizio di legittimità, non potendo demandare alla Suprema corte un riesame critico delle risultanze istruttorie. Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 21 dicembre 2016 n. 54193. Ricorso per cassazione - Vizio ex art. 192 c.p.p. - Inammissibile in sede di legittimità - Chiamata in correità - Valutazione di riscontri esterni - Configurabilità del reato tentato - Atti preparatori e esecutivi - Idoneità causale - Valutazione ex ante - Irrilevanza del caso fortuito. È inammissibile il motivo di ricorso per Cassazione che censura l’erronea applicazione dell’art. 192 c.p.p., comma 3, quando sia fondato su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio, e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi logici tassativamente previsti dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lettera e), riguardanti la motivazione del giudice di merito in ordine alla ricostruzione del fatto. Infatti, i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lettera e), non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lettera c), nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità. Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 29 novembre 2016 n. 51631. Ferrara: 22enne si impicca in cella il giorno dopo l’arresto La Nuova Ferrara, 18 luglio 2017 Tragedia al carcere dell’Arginone: suicida un giovane detenuto fermato domenica per furto e resistenza. La tragedia è accaduta ieri mattina nel carcere dell’Arginone, il suicidio di un giovane di 22 anni che si è impiccato in cella usando i jeans che indossava, fissati alla grata approfittando del fatto che il compagno di cella stava ancora dormendo. Il ragazzo di nazionalità ucraina era stato arrestato domenica e proprio ieri doveva comparire in tribunale al processo per direttissima. Dalla prima ricostruzione era stato fermato per furto, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale domenica e vista l’entità del reato avrebbe potuto uscire già all’udienza di ieri. Dalla prima ricostruzione, vani i soccorsi degli agenti di polizia penitenziaria e del personale medico intervenuti, mentre la notizia è stata resa nota dagli stessi sindacati di polizia penitenziaria, Sappe e Osapp. Leo Beneduci, segretario Osapp precisa che si tratta del 59° morto in carcere in tutta Italia dall’inizio dell’anno, il 25° per suicidio. "È un dato per noi inaccettabile - ha detto Beneduci - la situazione carceraria resta critica, anche la popolazione detenuta, oltre alle drammatiche condizioni di lavoro degli agenti. Anche quest’ultimo grave episodio dimostra quanto sia inadeguata l’amministrazione penitenziaria e che non c’è più niente di normale nella gestione delle carceri in Italia". Anche Giovanni Battista Durante, segretario generale Sappe e Francesco Campobasso, segretario nazionale, spiegano che la situazione nelle carceri italiane è critica, anche se aggiungono "ogni anno sono più di mille tentativi di suicidi di detenuti, la maggior sventati grazie agli agenti di polizia penitenziaria, purtroppo non è stato il caso di questo ragazzo a Ferrara". E sul carcere di Ferrara, sottolineano i segretari Sappe, "l’attenzione è elevata e molte sono le segnalazioni alle autorità amministrative sulle vicende che hanno interessato negli ultimi due mesi il carcere di via Arginone". Da quanto si apprende, il ragazzo era stato arrestato domenica in città e ieri nella tarda mattinata sarebbe dovuto comparire in tribunale per il processo. Emerge anche il fatto che, in precedenza, aveva già tentato il suicidio a casa sua. La procura cittadina - il pm di turno Isabella Cavallari - ha aperto una inchiesta e affidato gli accertamenti ai carabinieri. Avellino: 40enne detenuto per droga si impicca in cella irpinianews.it, 18 luglio 2017 Nuovo suicidio di un detenuto in un carcere italiano, a poche ore dalla notizia di una analoga morte nel carcere di Ferrara. "Nella mattinata di oggi, presso la Casa Circondariale di Avellino, un detenuto di 40 anni ristretto per il reato di detenzione e spaccio di sostanza stupefacenti si è impiccato nella propria cella. Lo stesso è stato prontamente soccorso dagli agenti penitenziari in servizio prestando il primo soccorso, ma purtroppo non c’è stato nulla da fare". Ne dà notizia Emilio Fattorello, segretario nazionale per la Campania del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Interviene, da Roma, anche il segretario generale del Sappe, Donato Capece: "Il suicidio di due detenuti in due giorni è semplicemente allarmante. Un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta dello Stato e dell’intera comunità. Il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere. Questo nuovo drammatico suicidio di un altro detenuto ad Avellino evidenzia come i problemi sociali e umani permangono, eccome!, nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati. È proprio in questo contesto che viene affrontato il problema della prevenzione del suicidio nel nostro Paese. Ma ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione". "Negli ultimi negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 21mila tentati suicidi ed impedito che quasi 168mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze", conclude il leader nazionale del primo Sindacato del Corpo. "Il dato oggettivo è che la situazione nelle carceri resta allarmante. Altro che emergenza superata". Parma: 86enne in regime di 41bis dopo un ictus "può solo affidarsi ai medici" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 luglio 2017 Il Garante dei detenuti Cavalieri: "Il detenuto ha 86 anni e soffre di un decadimento cognitivo e fisico importante. non resta che aspettare che i sanitari ne chiedano un nuovo ricovero". È ricoverato con Riina e Farinella in regime duro nel "repartino" dell’ospedale di Parma. Ha 86 anni, soffre di demenza senile e ha avuto diversi ictus, ma viene mandato via dall’ospedale e rimandato nel carcere duro dell’istituto di Parma. È uno dei tre detenuti al 41 bis insieme a Totò Riina e Farinella - ricoverati sempre in regime duro presso il cosiddetto "repartino" dell’ospedale di Parma per via delle loro gravi patologie psicofisiche. Parliamo del ‘ndranghetista Domenico Oppedisano, che dal 2010 è in regime di 41 bis. Non era però uno che ordinava gli omicidi. Secondo una dichiarazione del magistrato Nicola Gratteri - uno dei maggiori esperti della ‘ndrangheta, Don Mico (così viene chiamato Oppedisano) vendeva piantine al mercato e per un momento storico è stato il capo crimine della ‘ndrangheta, ma non faceva affari, era semplicemente il custode delle regole. "Era il custode delle 12 tavole della ‘ ndrangheta - dichiarò Gratteri. Chi fa business, chi fa affari nella ‘ndrangheta, non vende piantine e non gioca a San Luca con Osso, Mastrosso e Carcagnosso". Resta comunque il fatto che le sue condizioni sono gravi. Tant’è vero che la Cassazione, nel 2016, aveva annullato il provvedimento con il quale gli era stato prorogato il regime del 41bis sottolineando le sue gravi condizioni fisiche. Ma la sentenza fu impugnata e il regime gli era stato comunque prorogato. Il Garante dei detenuti del comune di Parma Roberto Cavalieri, raggiunto da il Dubbio, ha rilasciato la seguente dichiarazione: "II ritorno in carcere dal ricovero ospedaliero presso il nosocomio dell’Ospedale Maggiore di Parma di un detenuto 41 bis ricoverato da tempo perché bisognoso di attenzioni mediche degne di un ospedale, obbliga ad una seria riflessione sul confine tra pena/ detenzione e diritto alla salute. Il carcere di Parma ha una vocazione sanitaria nel senso che è presente una sezione dove sono ricoverati detenuti ammalati e che dovrebbero permanere in attesa di una stabilizzazione delle loro condizioni sanitarie. Ma così non è, perché le degenze risultano essere lunghe anni soprattutto per i detenuti del 41bis". Roberto Cavalieri poi prosegue andando sullo specifico: "Ora riferendomi a questo detenuto che ha 86 anni e soffre, a quanto mi riferiscono i sanitari, di un decadimento cognitivo e fisico importante c’è da chiedersi quale sia la corretta strategia e politica sanitaria da applicare e se questa sia equiparabile a quella che si riceve in un centro di assistenza per anziani o in un ospedale. Ad esempio tra i diritti degli anziani è sacrosanta la conservazione delle capacità cognitive residue promuovendo l’autosufficienza per quanto possibile. Come viene declinato questo diritto in un regime come il 41 bis? Quale è il senso della malattia e della vecchiaia in una istituzione totale come il carcere? Personalmente non ho una risposta ma l’interrogativo è ancora più forte se si prende atto che non vi è alcuna capacità di riflessione sul tema né da parte della pubblica amministrazione (sanità e penitenziaria in primis) né da parte della politica". Il Garante, infine, conclude amaramente: "Nel frattempo al detenuto in questione non resta altro che affidarsi alle cure mediche di sanitari che verificheranno più volte al giorno lo stato del deperimento sino a quanto non si richiederà un nuovo ricovero ospedaliero d’urgenza e l’assistenza nei bisogni primari come l’igiene personale e la somministrazione del pasto non sarà assicurato da un piantone magari nigeriano (assunto dalla amministrazione penitenziaria perché parla e capisce male l’italiano) e pagato meno di 10 Euro a giornata". Genova: rientro in polizia per i condannati della "macelleria messicana" del G8 di Marco Preve La Repubblica, 18 luglio 2017 Finiti i cinque anni di interdizione per i dirigenti responsabili dei falsi della scuola Diaz. Alla Cedu lo Stato racconta la "mezza verità" di sanzioni disciplinari quasi beffarde. Domani saranno passati 16 anni dall’inizio del summit del G8 di Genova del 2001. Ma pochi giorni fa il calendario annotava un’altra data importante: ai primi di luglio sono infatti scaduti i cinque anni di interdizione dai pubblici uffici ai quali erano stati condannati, come pene accessorie, alcuni dei 25 tra alti dirigenti della polizia e capireparto della celere condannati per i pestaggi, i falsi verbali e le prove fasulle relativi all’irruzione nella scuola Diaz. Alcuni dei protagonisti della vicenda che, scrissero i giudici di Cassazione "hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero" starebbero in queste ore per indossare nuovamente la divisa della polizia. Altri lo hanno già fatto. La scadenza si intreccia con un passaggio molto duro dell’ultima sentenza, relativa ai fatti della Diaz, con cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha nuovamente condannato l’Italia per l’assenza del reato di tortura (la legge, tra mille contestazioni, è stata approvata pochi giorni fa). Un passaggio che stigmatizza una delle molte "mezze verità" raccontate dal Governo italiano ai giudici europei. Tra gli imminenti rientri ci sono quelli di tre figure di primo piano, seppur con responsabilità diverse. A cominciare da Pietro Troiani, il vicequestore che portò materialmente dentro la Diaz le due bottiglie molotov, trovate e sequestrate nel pomeriggio in un’aiuola di corso Italia, che nei verbali costruiti ad arte si trasformarono nelle armi "trovate sul posto" che inchiodavano i black bloc. Un altro condannato che sarebbe pronto a tornare in servizio è Gilberto Caldarozzi, un passato da cacciatore di mafiosi e capo del Servizio centrale operativo al momento della condanna definitiva. Caldarozzi ha lavorato per le banche e poi è stato chiamato come consulente della sicurezza a Finmeccanica dal suo vecchio capo, il presidente del colosso di stato, Gianni De Gennaro. E anche se sono passati cinque anni è da vedere se lascerà il suo nuovo incarico Filippo Ferri, il più giovane dei dirigenti condannati, figlio dell’ex ministro e fratello del sottosegretario alla giustizia, capo della squadra mobile di Firenze al momento in cui scattò l’interdizione. Ferri è attualmente responsabile della sicurezza del Milan e per alcuni mesi riconquistò le prime pagine dei giornali per essere diventato l’angelo custode di Mario Balotelli e poi, nel 2015, per essere stato scortato allo stadio del capoluogo toscano da una pattuglia della locale Digos. Tra gli altri possibili rientri anche quelli di altri condannati per i falsi verbali (le accuse per le lesioni gravi vennero prescritte anche se restano valide per i risarcimenti civilistici) Salvatore Gava ex dirigente di squadra mobile che oggi lavora per Unicredit, attività manageriale starebbe svolgendo anche un altro condannato per la Diaz, quel Fabio Ciccimarra che è stato condannato in appello (prescritto in Cassazione) per sequestro di persona per i fatti del G7 di Napoli alla Caserma Raniero, sempre nel 2001, e ancora Spartaco Mortola ex capo della Digos di Genova. Altri condannati ottennero però dal Tribunale del riesame il beneficio dell’affidamento ai servizi sociali per i mesi da scontare, procedura che cancella l’interdizione. Senza parlare poi dei capisquadra del reparto mobile, ovvero i responsabili della "macelleria messicana" secondo la definizione del loro vicequestore Massimiliano Fournier, i quali, dovendo rispondere "solo" di lesioni gravi e prescritte, dalla polizia non se ne sono mai andati via. Come tutti gli agenti picchiatori che, nonostante la presenza dei migliori investigatori quella notte alla Diaz, non vennero mai identificati. E poi c’è il caso del caposquadra Massimo Nucera condannato a 3 anni e cinque mesi per falso e lesioni (queste ultime prescritte) che a natale del 2013 era stato condannato dal Consiglio provinciale di disciplina della polizia ad una sospensione dello stipendio di un mese ma un anno dopo l’allora capo della polizia Alessandro Pansa la ridusse a 47 euro. Chissà cosa avrebbero scritto nella loro sentenza i giudici della Cedu se avessero saputo dell’esiguità, quasi beffarda, della sanzione. Qualche dubbio però devono comunque averlo avuto a leggere la sentenza recentemente pubblicata, che rappresenta la seconda pesante condanna dell’Italia incapace, per decenni, di sanzionare i torturatori e i superiori che li coprono, come nelle vicende Diaz e Bolzaneto. I giudici che hanno disposto un risarcimento per un gruppo di manifestanti picchiati e arrestati alla Diaz scrivono: "Quanto alle sanzioni nei confronti dei funzionari di polizia il Governo italiano ha informato la Corte, senza per altro fornire dettagli, che tutto il personale implicato è stato sottoposto a misure disciplinari che hanno portato ad una sospensione dal servizio per periodi determinati, in concomitanza con sanzioni pecuniarie proporzionate al salario individuale.… alcuni sono stati sanzionati con l’interruzione del servizio o con il blocco delle carriere". Inutile ricordare che le uniche sanzioni disciplinari di cui si ha conoscenza sono quelle che per legge può infliggere - per un massimo di sei mesi di sospensione - la Corte d’Appello ai poliziotti che ricoprono il ruolo di agenti di polizia giudiziaria e i 47 euro con cui si punì un poliziotto che finse di aver ricevuto una coltellata. Quanto al blocco delle carriere, i principali condannati come Franco Gratteri e Giovanni Luperi raggiunsero le posizioni apicali della polizia di mentre il processo nei loro confronti era ancora in corso. Milano: l’Anm contro gli avvocati "troppi scioperi, ora basta" La Repubblica, 18 luglio 2017 Prevista una nuova giornata di astensione dalle udienze dopo le iniziative contro la riforma del processo penale. I magistrati: "Grave disservizio che pone in pericolo il valore condiviso del giusto processo". La replica: "Battaglia contro norme che incidono sui diritti di tutti". Nei mesi scorsi la protesta contro la riforma del processo penale e il ddl Orlando, ora quella contro la volontà di estendere le misure di prevenzione previste per i reati di stampo mafioso agli indiziati di reati contro la pubblica amministrazione. Fatto sta che contro gli scioperi che da mesi agitano gli avvocati si fa sentire a Milano l’Associazione dei magistrati. L’Anm di Milano con un documento, sollecita "le istituzioni e le organizzazioni", tra cui in particolare l’Unione delle Camere penali, ad "adoperarsi affinché cessino gli stati di agitazione", dopo che nei mesi scorsi i legali hanno dato vita a 5 settimane di astensione dalle udienze contro la riforma del processo penale e un’altra giornata di sciopero - la 25esima in quattro mesi - è stata annunciata per domani. A metà giugno, anche il processo al governatore Roberto Maroni slittò. L’Anm in una nota spiega di non voler entrare "nel merito delle ragioni della protesta" che si è svolta "nel rispetto delle norme di legge", ma chiarisce che le cinque settimane di scioperi, tra marzo e giugno, hanno causato alla "amministrazione della giustizia" e alla "cittadinanza del distretto di Milano" un "grave disservizio che pone in pericolo il valore condiviso del giusto processo". Nel documento l’Anm sottolinea che nella sola settimana del 22-25 maggio "sono stati rinviati quasi tutti i processi penali collegiali nonché due terzi di quelli monocratici e delle udienze preliminari con imputati non in custodia cautelare". Nella nota, firmata dal segretario dell’associazione milanese dei magistrati, Andrea Ghinetti, e dal presidente Riccardo Atanasio, si manifesta la necessità di "una serena discussione" con gli avvocati nell’interesse della giustizia. Ma gli avvocati non ci stanno e rivendicano le ragioni di una protesta - spiegano in una nota diffusa per rispondere alle accuse - "contro norme che incidono sui diritti di tutti". "Crediamo - dicono dal consiglio direttivo della Camera penale di Milano - che le reali ragioni di disservizio non possano essere ricondotte a battaglie finalizzate proprio a far valere i principi del giusto processo, trovando, invece, fondamento in una legislazione fuori controllo, volta ad ottenere consenso politico, senza alcun investimento in termini di risorse e di buona organizzazione delle strutture giudiziarie esistenti. Non possiamo non ricordare come una nota ricerca commissionata da Unione delle camere penali all’istituto Eurispes nel 2009 abbia verificato come la grande maggioranza delle cause di rinvio dei processi sia da ricondurre proprio a carenze organizzative e strutturali dell’amministrazione della giustizia. E come i dati del ministero di Giustizia, a proposito di prescrizione, confermino una situazione a macchia di leopardo, che evidenzia sacche di inefficienza che prescindono certamente dagli effetti delle legittime manifestazioni di protesta degli avvocati". "Accogliamo - concludono - con favore l’invito al dialogo e al confronto, più volte ricercato a livello locale con alterne fortune, soprattutto se essi verteranno sul tema della salvaguardia dei diritti di tutti, specie dei più deboli, nel processo penale". Milano: detenuti, disabili e migranti, la voglia di riscatto passa dalle sartorie di Felice Florio Il Giorno, 18 luglio 2017 Detenuti e disabili confezionano abiti e borse rincorrendo una normalità a lungo sognata. Dare una possibilità a chi si trova in difficoltà. Accade in cinque sartorie sociali, dove detenuti e disabili confezionano abiti e borse rincorrendo una normalità a lungo sognata. Catherine, Yunusha, Sanna e Ousana, tre storie che si intrecciano. Ogni lunedì, mercoledì e venerdì mattina si lasciano alle spalle i centri di d’accoglienza che li ospitano per andare a lavorare nella sartoria sociale di Cinisello Balsamo. "Yunusha viene dal Senegal. Cappellino da rapper e auricolari: all’inizio non se li toglieva mai, non ascoltava e non parlava con nessuno", racconta Michele Gennaccaro, social business manager di Bper Banca, "ora è uno dei motori della sartoria". Le oltre 30 persone coinvolte dal 2016, anno di partenza del progetto, provengono da quattro continenti e sono di tre religioni diverse. Nel milanese, ci sono cinque sartorie che danno lavoro a chi si trova ai margini della società. I disabili psichici non lasciano il centro diurno di psichiatria di via Procaccini ma è il laboratorio di sartoria del civico 14 ad essersi trasferito da loro. "È nato nel 2005, l’obiettivo iniziale era la terapia di gruppo attraverso il cucito", dice Consuelo Granda, presidente della cooperativa. Si sono specializzati in abiti da sposa, vestiti e giacche. I fiori all’occhiello sono la mantella Viceversa, indossabile come cappotto corto da un lato e giacca alle ginocchia dall’altro, e le borse del progetto Ri-abiti, realizzate riciclando sacchi di patate e vecchi indumenti. Finora il laboratorio ha assunto 20 persone a rischio di marginalità sociale. "Il carcere non è certo l’orizzonte, ma una tappa nella quale l’uomo può inciampare", dice Elisabetta Ponzone. Lei è l’ideatrice di Borseggi, laboratorio di sartoria nel carcere maschile di Opera (il più grande d’Italia, 1267 detenuti di cui molti in 41 bis). Nasce nel 2012 "e non disponendo di un capitale, abbiamo iniziato comprando una cosa per volta. Le prime stoffe le ho prese dall’armadio della nonna", continua Elisabetta Ponzone. Poi racconta la storia di un suo sarto detenuto: "Xiaoling sta per sostenere l’esame di terza media. Come suo figlio, che è fuori. In carcere va a scuola e lavora, in laboratorio abbiamo portato dizionari e quaderni". L’anno prossimo frequenterà le superiori. Altro carcere, stessa storia, Sartoria di San Vittore. "Qui ci sono 25 donne", dice Alice Della Morte, commessa del punto vendita. Solo il negozio fattura 80mila euro l’anno, "facciamo abiti da sposa su misura che costano 2mila euro circa, prodotti ad hoc per le aziende". Pezzo forte? "Realizziamo toghe per magistrati e avvocati. È dal 2008 che le facciamo. Costo 350 euro. A Milano ci sono pochissimi rivenditori, ma la richiesta è lievitata perché due anni fa sono diventate obbligatorie per legge". Il filo dell’integrazione milanese è avvolto intorno al rocchetto: c’è anche Taivé, sartoria-stireria delle donne rom in zona Lambrate. Sono in otto, provenienti da Serbia, Kosovo, Romania e Macedonia. "Partire dalle donne significa partire dalla loro forza e creatività, dalla centralità della donna rom nell’ambito dell’economia familiare" recita il rapporto della Caritas Ambrosiana che cura il progetto. Fermo (Ap): il Garante dei detenuti "carcere sovraffollato e poco spazio lo sport" Corriere Adriatico, 18 luglio 2017 Il garante dei diritti Nobili a Fermo per verificare da vicino al situazione. Con le visite a Marino del Tronto a Fermo si è conclusa la serie di sopralluoghi negli istituti penitenziari marchigiani, effettuata dal Garante dei diritti, Andrea Nobili, prima della pausa estiva. Attraverso gli incontri con direttori, polizia penitenziaria e detenuti, è stato possibile delineare il quadro complessivo a livello regionale, nell’ambito dell’azione di monitoraggio messa costantemente in atto dall’autorità di garanzia. "Nel complesso - sottolinea Nobili - la situazione non presenta criticità allarmanti, anche se è necessario un costante impegno a garanzia dei diritti dei detenuti, a partire dalla fondamentale attività trattamentale. Tuttavia, per quanto riguarda Fermo sono da evidenziare un aumento della popolazione detentiva e problemi legati alla dimensione strutturale dell?istituto di media sicurezza". Attualmente i detenuti presenti nello stesso istituto fermano sono 61 su una capienza regolamentare di 41 posti. La zona dove vengono ospitati prevalentemente i soggetti in attesta di giudizio risulta essere di dimensioni non consone alle necessità. Ancora spazi limitati per i detenuti in semilibertà, anche se il disagio viene avvertito in forma minore, essendo gli stessi per la maggior parte del tempo fuori dall’istituto perché impegnati in attività lavorative. La richiesta più pressante è, comunque, quella di spazi idonei per le attività trattamentali e soprattutto per quelle di carattere sportivo. "Una novità importante - evidenzia il Garante - riguarda l’applicazione, dallo scorso mese di maggio, della vigilanza dinamica, che si basa su un rapporto più aperto con i detenuti e con una loro conoscenza più approfondita. Un’impostazione sicuramente positiva, ma che richiede organici e strutture adeguati, atti a garantire gli interventi securitari e trattamentali da mettere in essere". I sopralluoghi negli istituti penitenziari marchigiani riprenderanno nel prossimo mese di settembre. Nuoro: il recupero dei detenuti con la giustizia riparativa di Alessandro Mele La Nuova Sardegna, 18 luglio 2017 Da Badu e Carros a Mamone, iniziativa della coop sociale Ut Unum Sint Don Borrotzu: "Tra loro c’è anche un uomo che era in carcere da 26 anni". "Giustizia riparativa": è stato il tema del nuovo appuntamento organizzato dall’associazione e dalla cooperativa sociale Ut Unum Sint. L’iniziativa è rivolta ad alcuni detenuti provenienti dagli istituti penitenziari di Badu e Carros e di Mamone, alle persone che usufruiscono delle misure alternative alla detenzione presenti abitualmente nel Centro di aggregazione sociale della parrocchia Beata Maria Gabriella e a tutti i volontari dell’associazione. Tre giornate di incontri e dibattiti articolate attraverso la costituzione di laboratori di riflessione a cura, a seguito dell’introduzione ai lavori di don Pietro Borrotzu presidente della cooperativa, di suor Annalisa Garofalo assistente sociale e Marina Fancello volontaria dell’associazione. Protagonisti assoluti i detenuti, posti al centro dell’iniziativa e delle varie discussioni, soprattutto nella seconda parte del seminario a cura di Patrizia Patrizi, psicologa e psicoterapeuta ad approccio strategico, professoressa ordinaria di Psicologia sociale e giuridica nel Dipartimento di scienze umanistiche e sociali dell’università degli studi di Sassari. Ben dodici persone tra assegnati a svolgere lavori di pubblica utilità, o affidate ai servizi sociali e i cosiddetti "messi alla prova" condannati per violazioni al codice della strada, hanno svolto nella parrocchia di Beata Maria Gabriella piccoli lavori di manutenzione e svolto da gennaio un percorso sulla giustizia riparativa. È stato svolto un lungo percorso di preparazione antecedente alle giornate di riflessione e tutti i partecipanti sono riusciti a parlare liberamente del reato commesso attraverso profondi esami di coscienza. "Siamo contentissimi del percorso dei ragazzi - afferma don Pietro Borrotzu - tra i quali erano presenti cinque detenuti a Mamone e sette nel carcere di Badu e Carros nel reparto di massima sicurezza, uno dei quali è uscito per la prima volta dal carcere dopo 26 anni, 22 dei quali trascorsi nel carcere nuorese. La parrocchia ha ricevuto subito l’accreditamento e questo può essere - conclude il parroco - un grande messaggio di coinvolgimento della comunità che ha un ruolo fondamentale in seno alla giustizia riparativa". In autunno si terrà un grande convegno sul tema proposto alla presenza di tutti gli attori del mondo giudiziario, si auspica dei detenuti e degli organi politici di interesse". "Giustizia riparativa" rappresenta l’espressione italiana che si pone come nuova frontiera per ripensare il sistema penale, in modo tale che non venga dimenticata l’esperienza concreta del reato e dell’impatto che esso provoca, soprattutto nella vittima. Questo nuovo approccio è diventato poi un vero e proprio movimento di pensiero che ha assunto una dimensione internazionale. La maggiore difficoltà di fronte a questo nuovo e diverso approccio della giustizia penale è di ordine essenzialmente culturale. La società odierna infatti rivolge attenzione immediata alla "giustizia retributiva" e alla "funzione retributiva della pena", dove questa sia una misura corrispondente al danno sociale che è stato provocato dall’azione criminale. Velletri (Rm): Us Acli in carcere, concluso progetto di attività motoria e corso di arbitri agoraregionelazio.com, 18 luglio 2017 Una partita di calciotto sotto il sole cocente di metà luglio, sudore e terra. Un buffet, la consegna degli attestati, strette di mano e anche qualche battuta che ha strappato un sorriso. Una mattinata normale, in un luogo alquanto particolare, è quella che hanno vissuto i vertici dell’Us Acli delle provincie di Latina e Roma il 13 luglio scorso, giornata conclusiva di un intenso percorso formativo avviato dall’associazione all’interno della casa circondariale di Velletri a partire dal mese di Aprile. Nel carcere, per poco più di tre mesi, l’Unione Sportiva Acli ha avviato tre diversi corsi teorico pratici: attività motoria di base, pallavolo, arbitraggio di calcio. Corsi che hanno coinvolto una cinquantina di detenuti tra quelli ospitati nella nuova ala dell’istituto, in cui i detenuti (circa 260) si auto gestiscono in una nuova e innovativa forma di detenzione. "In questa nuova ala, dove sono ospitati sia detenuti in attesa di sentenza che alcuni definitivi - ha spiegato la direttrice durante la finale del torneo di calcio a otto che ha visto impegnati gli arbitri neo diplomati - i detenuti sono liberi di uscire dalle loro celle per 12 ore al giorno. Ogni cella possiede una doccia e un cucinino con le sezioni che, a orari alterni, possono anche accedere alle zone comuni come palestra, aule studio, camminatoi e il campo da calcio. Il tutto con un controllo da remoto degli agenti penitenziari con i detenuti che si occupano per buona parte anche della gestione ordinaria di alloggi e parti comuni". Un vero e proprio esperimento sociale che da buoni frutti in previsione di un reinserimento e che è stato arricchito dal progetto targato Us Acli. Nella giornata conclusiva erano presenti Anna Maria Tufano, presidente provinciale dell’Us Acli, Francesco Paone che ha tenuto il corso di arbitro di calcio, Giulio Ciufferi allenatore di pallavolo che ha curato anche l’attività motoria di base, la psicologa Roberta Longo (coordinatrice del progetto) e il presidente delle Acli provinciali di Latina Maurizio Scarsella. "Si tratta di una giornata importante e significativa dal punto di vista umano - ha detto Scarsella dopo la consegna degli attestati - la nostra volontà, in accordo con la direzione del carcere, è quella di non abbandonare questa realtà, di studiare nuovi progetti così da poter tornare per apportare migliorie alle strutture, primo tra tutti quella del campo da calcio e perché no avviare altre sinergie che possano rendere la permanenza in questo luogo meno apatica ma soprattutto più rieducativa di quanto non già non lo sia". Felici e soddisfatti gli ospiti della struttura, che hanno ringraziato insegnanti e organizzatori riuscendo ad ironizzare, in alcuni casi, anche sui motivi che li hanno portati in un luogo dove la rieducazione e il rispetto delle regole rimane comunque l’obiettivo primario. Roma: Antigone "il 27 luglio presentazione pre-rapporto 2017 sulle carceri" overthedoors.it, 18 luglio 2017 E proposte per la riforma del sistema penitenziario. I numeri dei detenuti sono in costante crescita. In alcuni carceri si è tornati a scendere sotto la soglia minima dei 3mq per detenuto. Una situazione che avevamo già denunciato nel nostro Rapporto annuale #TornailCarcere. Alcuni carceri sono ancora senza acqua calda o spazi adeguati alle attività di risocializzazione. La possibilità di effettuare colloqui via skype è assente quasi ovunque. È quanto emerge dalle visite effettuate dal nostro Osservatorio nei primi sei mesi di quest’anno. Dati e informazioni raccolte nel nostro pre-rapporto 2017 sulle condizioni di detenzione che presenteremo il prossimo 27 luglio, alle ore 11.30, presso la sala stampa della Camera dei Deputati (via della Missione 4, Roma). Durante la conferenza stampa saranno inoltre presentate anche le proposte di Antigone per un nuovo ordinamento penitenziario alla luce della legge delega da poco approvata dal Governo. Dalle donne ai minori, dagli stranieri alla salute, dall’isolamento alle misure alternative, dal lavoro all’istruzione, dalla libertà di culto alla sessualità, dal diritto di voto alla gratificazione e identificazione del personale, venti proposte per riformare l’ordinamento penitenziario del 1975. Per accedere è necessario l’accredito che potrà essere richiesto direttamente alla Camera dei Deputati o all’indirizzo: ufficiostampa@associazioneantigone.it. Per gli uomini è obbligatoria la giacca. Roma: incontri della Lega Italiana Diritti dell’Uomo sui diritti delle persone detenute Ristretti Orizzonti, 18 luglio 2017 Pietro Buffa e Gabriella Stramaccioni inaugurano gli incontri Lidu sui diritti delle persone detenute. Istituzioni statali e società civile. Verso una concezione sistemica tra dialogo aperto e collaborazione attiva. La Garante dei detenuti del Comune di Roma, Gabriella Stramaccioni, e il Direttore Generale del personale e della formazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Pietro Buffa sono stati tra gli ospiti di una serata introduttiva ad un ciclo di incontri che la Commissione diritti della persona privata della libertà della LIDU onlus (Lega Italiana Diritti dell’Uomo) presieduta dall’architetto Domenico Alessandro De Rossi intende programmare per l’autunno prossimo. "Incontri che devono servire a studiare e approfondire i temi e le criticità in un’ottica di interventi sistemica che vuole essere la caratteristica di questa Commissione. Oggi occorre ancora riflettere su una particolare definizione della pena e forse questa è stata trovata proprio nel concetto dinamico di "amministrare la sofferenza", il sottotitolo del libro di Buffa. Se la pena è la sofferenza, quando si parla di amministrazione penitenziaria, si parla dell’amministrazione della sofferenza, che spinge necessariamente a capire come ci dobbiamo comportare, come portatori dei valori civili e umanitari della LIDU. Già quindi in partenza sapere che ci occupiamo di tematiche legate alla sofferenza, e avere la consapevolezza che la carcerazione è anche gestione della sofferenza, ci pone di fronte a una domanda. In particolare, il ruolo della LIDU e la sua collaborazione con il DAP, in che modo essa può avvenire. È più che evidente che il dialogo deve essere fondato su di una collaborazione qualificata. In tal senso la Commissione si è dotata di uno specifico Centro studi che elaborerà proposte, documenti, dibattiti e quaderni da porre a disposizione dell’Amministrazione. L’equilibrio tra le "parti" va trovato insieme, attraverso le diverse competenze della Commissione (medici, operatori, legali, sociologi) e le strutture stesse del DAP. Cercare di capire sempre più e sempre meglio quale sia il punto di riferimento. La sofferenza non può essere eliminata del tutto, ma si può arrivare a un accettabile e umano equilibrio". Così De Rossi ha presentato l’iniziativa e avviato i lavori che si sono avvalsi anche del contributo del professor Ruggero Lenci della facoltà di Ingegneria dell’Università La Sapienza di Roma, dell’architetto Leonardo Scarcella del Ministero della Giustizia, e della dottoressa Bruna Brunetti, già dirigente generale DAP e attuale vicepresidente della Commissione. Dall’incontro è emersa l’importanza di realizzare rete collaborativa tra le istituzioni dello Stato e la società civile e, in questo ruolo, ben si colloca l’apporto della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo che, forte del contributo di diverse competenze e professionalità, può svolgere significative azioni di apporto a sostegno della promozione dei diritti umani nell’ambito della esecuzione penale in molte delle sue diverse e articolate modalità. Antonio Stango, presidente della Lidu, ha messo in luce risultati importanti già conseguiti dalla Commissione sia nell’ analisi dei problemi sia nelle proposte formulate all’interno della Association Européenne des Droits de l’Homme (A.E.D.H) e, tra queste, un importante documento della che il presidente ha presentato nell’Assemblea dell’AEDH, svoltasi a Bruxelles a fine maggio. In quella sede, il presidente ha chiesto che la LIDU, attraverso il lavoro fornito dalla Commissione, sia l’hub di analisi e di trasmissione dei dati in materia dei diritti della persona privata della libertà. Tanto dalle parole di Pietro Buffa quanto da quelle di Gabriella Stramaccioni, che da pochissimo tempo ha assunto l’importante responsabilità di Garante delle persone private della libertà personale presso il Comune di Roma, è chiaramente emersa la criticità della situazione penitenziaria romana e si sono tracciate in prospettiva ipotesi di collaborazione. La Garante, rivolgendo un particolare saluto e ringraziamento per il tempestivo invito al presidente della Commissione De Rossi, ha assicurato la sua massima disponibilità a collaborare con la LIDU sviluppando tematiche sui diversi fronti. "La commissione intende aprire gli incontri ma anche a nuovi potenziali interlocutori con i quali poter estendere la rete di collaborazioni" ha aggiunto De Rossi portando i saluti alla Commissione di Faouzi M’rabet, dell’Istituto socioculturale della Tunisia di Roma e di S.E. Mustafa Rugibani ambasciatore della Libia presso la Santa Sede, interlocutori importanti per valutare criticità e interventi riguardanti detenuti provenienti dal Nord Africa. Fondata nel 1919 da Ernesto Nathan, già sindaco di Roma, La LIDU è oggi un’organizzazione di volontariato senza scopo di lucro (ONLUS) che ha sede a Roma e Comitati locali in tutta Italia. È membro associato di A.E.D.H e della Fédération Internationale des Ligues des Droits de l’Homme (F.I.D.H.) (liduonlus.it). Radio Carcere: tortura, parla il pm per i fatti di Genova Ristretti Orizzonti, 18 luglio 2017 Radio Carcere: tortura, parla il pm per i fatti di Genova: "Legge inefficace, lontana dal testo della Convenzione Onu e che lascia ampi spazi di impunità". Link: http://www.radioradicale.it/scheda/514726/radio-carcere-tortura-parla-il-pm-per-i-fatti-di-genova-legge-inefficace-lontana-dal Ieri si è celebrata la Giornata della giustizia penale internazionale frontierarieti.com, 18 luglio 2017 Mogherini (Ue): "garantire che gli autori dei reati più gravi siano assicurati alla giustizia". "L’Unione europea e i suoi Stati membri ribadiscono il loro pieno sostegno alla Corte penale internazionale e al rafforzamento di un sistema di giustizia penale internazionale votato a scoraggiare la commissione di reati, lottare contro l’impunità e garantire la protezione dei diritti delle vittime". Sono parole dell’alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, in occasione della Giornata della giustizia penale internazionale, che si celebra oggi. Il 17 luglio del 1998 veniva infatti adottato lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale. Questa giornata "celebra gli sviluppi e i risultati delle istituzioni di giustizia penale internazionale" e "ricorda che dobbiamo continuare a lavorare, a livello nazionale e internazionale, per garantire che gli autori dei reati più gravi siano assicurati alla giustizia", ha dichiarato Mogherini. Perché "l’impunità genera maggiore odio, che porta ad atti di vendetta e a ulteriori sofferenze" e "la pace rimane un obiettivo irrealizzabile". L’Ue sostiene anche le "iniziative di giustizia di transizione e i meccanismi della giustizia internazionale relativi a specifici Paesi", come nel caso della Siria: l’Ue ha erogato 1,5 milioni di euro a favore del meccanismo internazionale, imparziale e indipendente per fornire assistenza nelle indagini e nell’azione penale nei confronti dei responsabili dei crimini più gravi in base al diritto internazionale. Nella mente del terrorista Focus, 18 luglio 2017 Uccidere decine di innocenti con una bomba, un coltello, un tir: come si può? La psicologia sociale ha qualche risposta. E sette proposte. Lanciarsi a tutta velocità con un’auto contro la folla, riempire un ordigno esplosivo di chiodi e biglie di ferro, uccidere con una lama, davanti a una telecamera, e consegnare alla Rete un messaggio di terrore. Come è possibile che tanta crudele disumanità non sia il risultato di una mente malata, di una patologica perversione degli istinti? Alla domanda ha cercato di rispondere una ricerca appena pubblicata dalla rivista scientifica Nature. Sandra Baez, dell’Università di Buenos Aires, e altri colleghi sudamericani, hanno esaminato 66 terroristi detenuti nelle carceri colombiane, confrontandone il profilo con un gruppo di controllo. Ogni criminale, responsabile di una media di 33 omicidi, è stato valutato sotto il profilo cognitivo, dell’aggressività e della capacità di riconoscere le emozioni (dove, come forse era da attendersi, ha mostrato difficoltà a distinguere rabbia, tristezza e disgusto). Ma la scoperta più interessante riguarda il giudizio morale. Per i terroristi, si è scoperto, è più "colpevole" chi fa per sbaglio cadere un vaso in testa a un passante, uccidendolo, di chi spara a una persona per ammazzarla ma riesce solo a ferirla. Invertendo così quel fondamento dell’etica comune per cui, nel valutare un’azione, non si può prescindere dall’intenzione di chi la compie. L’ipotesi della Baez è che i criminali studiati abbiano una distorsione del giudizio morale del tutto simile a quella dei bambini piccoli e dei pazienti con un danno neurologico ai lobi frontale e temporale del cervello. Sfortunatamente, la ricerca argentina restituisce più interrogativi che soluzioni: innanzitutto, i pluriomicidi esaminati avevano aderito a gruppi terroristici paramilitari per un movente economico e non ideologico; e, cosa più importante, non ci dice se gli stessi difetti etici siano presenti negli affiliati all’Isis, il gruppo che negli ultimi anni in Europa si è reso colpevole del maggior numero di stragi. Noi e loro. Di fatto, per quanto ci conforti pensare che la mente di un terrorista sia strutturalmente diversa dalla nostra come sembra suggerire lo studio sudamericano, altre ricerche testimoniano che i processi psicologici che guidano un individuo ad aderire all’Isis o ad Al-Qaeda sono invece profondamente umani, e poggiano su elementi comuni a tutte le etnie e culture. Quelli non sono pazzi: il loro cervello funziona come il nostro. Ma ciò, paradossalmente, è anche un vantaggio e ci fornisce un buon arsenale con cui combatterli, frutto di decenni di studi di psicologia sociale. Cominciamo con lo sfatare un mito: un terrorista non partecipa a un gruppo che semina terrore solo perché vuole circondarsi di gente violenta. Più spesso lo fa perché è alla ricerca di complicità, di riconoscimento, di rispetto e, magari, anche di uno scopo. Secondo Emile Bruneau, psicologo cognitivista dell’Università della Pennsylvania, un individuo non aderisce a un gruppo per il solo obiettivo "ufficiale" che quello si prefigge, che sia giocare a tennis, costruire una nuova Utopia o mettere bombe: molto più forte è il legame sociale, la necessità di sentirsi parte di qualcosa e simili a qualcuno. Ecco perché una regolare e partecipata frequentazione della moschea di riferimento è inversamente proporzionale alla possibilità di affiliazione a gruppi terroristici di matrice islamica: chi fa già parte di una comunità difficilmente ne cerca un’altra. Allo stesso tempo però il nostro cervello ci pone una grossa trappola: proprio mentre crea e trae piacere dal sentirsi parte di un "noi", simultaneamente ha bisogno di costruire anche un "loro". Non riusciamo a sentirci veramente uniti se in qualche modo non abbiamo definito anche la nostra diversità da tutti gli altri. È un processo naturale e normalmente innocuo: non significa, ovviamente, che vogliamo uccidere tutti quelli che giocano in un’altra squadra. È proprio grazie a questo meccanismo, tuttavia, che avviene la radicalizzazione. Ed estremisti, ideologi e predicatori sanno bene come usarlo: "Se riesci a provocare i non musulmani al punto da spingerli a guardare tutti i musulmani con paura e ostilità, allora quei musulmani che prima evitavano il conflitto possono cominciare a sentirsi emarginati e a prestare attenzione alla chiamata delle voci più radicali tra loro", scrivono gli psicologi sociali Stephen Reicher e Alexander Haslam su Scientific American Mind’s. Il cervello e le differenze. Lo stesso meccanismo funziona per tutti, islamici e non, fomentando per esempio tra gli occidentali quell’islamofobia che gli scienziati definiscono co-radicalizzazione. D’altra parte, dagli studi degli anni 50 di Muzaraf Sherif (tra i fondatori della psicologia sociale) fino a oggi, le ricerche e ultimamente anche le tecniche di neuro-imaging, che misurano l’attività cerebrale, hanno dimostrato quanto è facile per il nostro cervello privilegiare la divisione e la differenza. Se a un bianco viene mostrata l’immagine di una persona di colore, aumenta l’attività dell’amigdala, struttura legata all’emozione della paura, anche in totale assenza di pregiudizi razziali consapevoli. Ma ancor più forte, sorprendentemente, è lo stimolo legato all’appartenenza di gruppo; se la persona di colore fa parte del proprio gruppo, non si osserva alcuna particolare reazione nell’amigdala. Dall’ideologia alla violenza. Perché dall’ideologia si passi a compiere una strage occorre però ancora qualcosa. E cioè che arriviamo a concepire il nemico come totalmente "altro da noi". Cioè non facente parte del "mega gruppo" degli esseri umani. Infatti, spiega Bruneau, il nostro cervello è modellato sia per prendersi cura sia per uccidere, distinguendo tra chi è "dentro" e chi è "fuori" dal gruppo. Sullo Ius soli i numeri c’erano è stata una scelta politica di Paolo Delgado Il Dubbio, 18 luglio 2017 Renzi ha delegato al premier la decisione del rinvio a settembre. Renzi si è arreso, e la sconfitta stavolta è secca: dopo aver ripetuto per mesi che l’approvazione della legge sullo ius soli era una questione di principio sulla quale non si poteva derogare ha accettato uno slittamento a settembre che equivale a una pietra tombale. A nome dei centristi trionfanti il ministro Alfano garantisce che, quando la legge sarà stata "migliorata" il voto di Ap non mancherà. Sono chiacchiere. Prima di tutto perché quel "miglioramento" rischia di depotenziare la legge, sino a snaturarla. Poi perché una legge così modificata potrebbe non essere votata da Mdp, che ha ormai tutto l’interesse a smarcarsi dal governo e ancora più lo avrà dopo la pausa estiva. Infine perché, se anche gli "aggiustamenti" imposti dai centristi permettessero l’approvazione al Senato, la legge dovrebbe poi tornare alla Camera e con i tempi ridotti all’osso, le elezioni imminenti e in discussione una legga di bilancio che non sarà né facile né indolore le chances di approvazione definitiva della legge sulla cittadinanza sono, se pur non pari a zero, certamente ridotte all’osso. Il segretario del Pd ha cercato di salvare la faccia delegando al Presidente del Consiglio la scelta tra sfidare subito l’aula di palazzo Madama o rinviare a settembre. Una mossa di valore essenzialmente propagandistico. Il governo aveva già segnalato la sua scarsa passione per un voto ad alto rischio quando aveva evitato di chiedere l’autorizzazione a porre la questione di fiducia per lo ius soli come aveva invece fatto per il decreto banche e per quello sui vaccini. Come se non bastasse, aveva rimarcato ulteriormente rinunciando alla fiducia sui vaccini in modo da far slittare ulteriormente i tempi. Con il Pd in posizione pilatesca, la scelta del governo era scontata in partenza. Non è una retromarcia a costo zero. Salvini parla di "prima vittoria della Lega". In realtà si tratta della vittoria della destra riunificata: un passaggio chiave che spingerà verso il ricompattamento il centrodestra e indebolirà ulteriormente le quotazioni già in caduta libera del segretario del Pd. Nella sua strategia, inoltre, la difesa ferma dei diritti civili avrebbe dovuto compensare i dubbi seminati sul fronte sinistro dell’elettorato dalle scelte in materia di lavoro e politiche sociali. Senza lo ius soli e con solo la legge sulle Unioni civili da vantare, la diga diventa molto più fragile, tanto più dopo la scissione di D’Alema e Bersani. Gentiloni ha ammesso apertamente che a consigliare il rinvio non sono stati solo i tempi stretti, che comunque avrebbero consentito l’approvazione sia pur in extremis della legge, ma anche e in realtà soprattutto "le difficoltà emerse in alcuni settori della maggioranza". In soldoni, la legge non poteva essere discussa perché anche dopo la falcidie del super-canguro sarebbero rimasti un migliaio di emendamenti. La legge avrebbe corso il rischio di uscirne devastata e soprattutto una discussione di settimane avrebbe lasciato il Pd a rosolare sulla graticola troppo a lungo. Dunque non c’erano alternative al voto di fiducia, che però rischiava di non passare, provocando una disastrosa crisi di governo, con annesse elezioni in autunno, a spiagge aperte e legge di bilancio dietro l’angolo. Il rischio di crollo effettivamente c’era, però limitatissimo. La scioglimento anticipato delle Camere avrebbe messo in difficoltà i centristi più di chiunque altro. Che scegliessero di suicidarsi pur di affondare lo ius soli era possibile ma non probabile. La formula consistente nel fragoroso annuncio "Non voteremo quella legge", si sa, è il più ambiguo: può significare pollice verso ma anche sottrarsi al voto uscendo dall’aula, come ha fatto qualche settimana fa Mdp sui Voucher. L’uscita dall’aula, in casi come questi è un comodo espediente per "non votarè una legge senza procurare troppo danno. Infatti sabato, sul Quotidiano nazionale, campeggiava un’intervista del capogruppo di Ap alla Camera Maurizio Lupi, nella quale l’ex ministro richiamava proprio il precedente del voto Mdp sui Voucher. In realtà proprio questa era la propensione dei centristi, ed è difficile credere che governo e Pd non lo sapessero. Sinistra italiana aveva a sua volta fatto sapere che avrebbe abbandonato l’aula invece di votare contro la fiducia. In realtà, però, sia i senatori di Si che molti ‘ sciolti’ del Gruppo Misto sarebbero stati quasi certamente pronti anche a votare una ‘ fiducia tecnicà pur di assicurare il passaggio della legge sulla cittadinanza. La Svp, infine, aveva detto che il suo sì alla fiducia "non era scontato", formula che di solito denota in politica la disponibilità a trattare. Con adeguata preparazione, sempre necessaria in faccende così delicate la fiducia sarebbe probabilmente passata. In settembre, senza più l’incubo delle elezioni in autunno e con la legge di bilancio già in discussione, le cose saranno non più facili ma più difficili. Perché allora il Pd ha deciso una resa i cui costi saranno senza dubbio alti? Più per paura delle reazioni dell’elettorato che del voto dei senatori. La legge è stata lasciata nel cassetto per mesi nella convinzione che fosse meglio rinviare le prevedibili lacerazioni il più a lungo possibile. Nell’autunno scorso, il Pd si era opposto alla richiesta di calendarizzare subito il provvedimento per timore di ricadute negative sul referendum del 4 dicembre. Così di rinvio in rinvio la legge stava per arrivare in aula nel momento peggiore: con il panico da emergenza immigrazione alle stelle e un’opinione pubblica passata in maggioranza da favorevole a ostile allo ius soli. Renzi e Gentiloni non se la sono sentita di sfidare il doppio rischio di un’aula incerta e di una reazione negativa dell’elettorato a pochi mesi dalle elezioni. Ma in questi casi, spesso, il ripiegamento finisce per essere il classico rimedio peggiore del male. Ius soli: "è solo un rinvio". Ma non ci crede nessuno di Andrea Colombo Il Manifesto, 18 luglio 2017 Il dem Marcucci: non dobbiamo darla vinta ai piromani della paura. I piromani esultano. Il modo più rapido per capire come è andata la vicenda della resa sullo ius soli è spiare le reazioni di quelli che non volevano la legge: festeggiano come d’uopo dopo una battaglia campale vinta. L’armata renziana in rotta si consola mentendo a se stessa: "È solo un rinvio". Il signore del Nazareno, in privato, confessa di non sentirsi troppo coinvolto. Nell’enews di giornata neanche nomina la legge. La retromarcia mica la ha ordinata lui. È stato il fraterno amico Paolo Gentiloni a non sentirsela. Anzi, c’è il caso che il fattaccio serva a dimostrare che, mentre lui le cose le fa davvero, "gli altri" tutt’alpiù tirano a galleggiare. Sfidando il ridicolo il renzianissimo di palazzo Madama, Andrea Marcucci, esorta a non darla vinta ai "piromani della paura". Come se ad avergliela "data vinta" non fossero stati il suo partito e il governo che ne è espressione, spaventati più che dal rischio di non incassare la fiducia in aula dalle reazioni dell’elettorato che, secondo i sondaggi, è in larga maggioranza ostile a questa legge. Né potrebbe essere diversamente dopo che il governo stesso, con la minaccia di chiudere i porti, ha permesso che si diffondesse un panico da invasione e barbari alle porte. "A settembre, a settembre": lo ripetono tutti. I commentatori che si complimentano con la decisione di Gentiloni ma insistono perché non dimentichi l’impegno autunnale. Il Pd che finge di pensare davvero che tra un mese o poco più le cose saranno diverse. L’ala critica della maggioranza, cioè un Mdp di giorno in giorno, più scalpitante. La segretaria della Cgil Susanna Camusso che giudica la retromarcia "un atto di debolezza" e martella: "A settembre si voti e si approvi lo ius soli". Nessuno però si attarda a spiegare perché in settembre dovrebbe essere possibile quello che non lo è oggi. La realtà è opposta: a settembre tutto sarà ancora più difficile. Prima della pausa estiva i centristi di Ap non avrebbero osato provocare una crisi che avrebbe imposto le elezioni in ottobre, dando così corpo a uno dei loro peggiori incubi. Probabilmente avrebbero fatto propria la decisione dell’Mdp sui Voucher: avrebbero abbandonato l’aula per non votare la legge senza causare sfracelli. A settembre la paura del voto sarà dissipata e in ballo ci sarà una legge di bilancio tra le più sofferte e la cui approvazione è tutt’altro che assicurata. Facile prevedere che ciò sconsiglierà al governo e al Pd di irritare chicchessia. La sola soluzione sembra quella indicata dai centristi stessi, che dopo aver silurato la proposta di legge si dicono ora pronti a votarla in settembre, come ripetono un po’ tutti da Casini a Naccarato. Certo "dopo averla migliorata". Però dopo essere stata snaturata dai "miglioramenti" la legge dovrebbe tornare alla Camera. Con la fine della legislatura a un soffio e la legge di bilancio in aula credere che si faccia in tempo significa confidare nei miracoli. Brutale e sprezzante, il capo dei deputati azzurri Renato Brunetta dice la verità: "La legge è stata rinviata all’anno di San Mai". L’Arci concorda: "Sarebbe più onesto dire che se ne parlerà nella prossima legislatura". Ovvio quindi che la destra tripudi. Certo i toni sono diversi. Alfano fa il modesto sorride come chi ha appena intascato la posta intera: "Non è stata una vittoria nostra ma della ragionevolezza e del buon senso. Abbiamo apprezzato il comportamento di Gentiloni". Poi, già che c’è, passa a escludere l’ipotesi dei visti umanitari: "Non sono nel programma del governo". Matteo Salvini e FdI gareggiano a chi ruggisce più forte. "Se ci riprovano blocchiamo le Camere", minaccia il leghista. "Basta con il buonismo e il lassismo della sinistra", rincara Fratel La Russa col ghigno dei bei tempi. Anche Forza Italia ha scelto di spostarsi sulla linea dura. Non è solo Gasparri, che a sentirlo non si vede alcuna differenza con l’ex compagno di partito e corrente La Russa, "Abbiamo fermato una legge sbagliata. Ora bisogna chiudere i porti". Anche il capo dei senatori Paolo Romani, persona solitamente pacata, collega la legge sulla cittadinanza all’accoltellamento di un agente della Polfer, a Milano, da parte di un immigrato: "Un fatto inquietante che non può che colpire una popolazione già sottoposta alla fortissima pressione di un’immigrazione fuori di controllo". In questa sceneggiata di vincitori che si esaltano come se avessero respinto gli unni e di sconfitti che fingono di aver rinviato quel che hanno invece sepolto è stato dimenticato un particolare, che ricorda però la capogruppo di Sinistra italiana al Senato Loredana De Petris: "Non sta al governo decidere su un calendario deciso dalla conferenza dei capigruppo e approvato dall’aula". Significa che il Senato dovrà discutere e votare sul rinvio. E per il partito di Renzi non sarà possibile continuare a nascondersi dietro l’alibi del premier carente di coraggio. Migranti. L’Italia che si ribella all’accoglienza di Grazia Longo La Stampa, 18 luglio 2017 Su 8mila Comuni ben 5.500 hanno deciso di chiudere le porte. L’emergenza gravita così su 2.500 centri dove la quota di ripartizione è salita a 3 profughi ogni 1.000 abitanti. L’Anci: il Viminale intervenga. La fotografia è spietata: su 8 mila Comuni, 5500 non hanno aderito alla possibilità di accogliere migranti, per gli altri 2500 la quota di ripartizione è salita da 2,5 a 3 extracomunitari per ogni mille abitanti. Ma poiché è su questi 2500 centri che gravita l’emergenza - si sta per raggiungere la cifra di 200 mila sbarchi - la tensione è alle stelle perché i numeri superano il confine della quota fissata. "Ci rendiamo conto delle difficoltà, ma il Viminale deve rispettare le regole - afferma il delegato immigrazione Anci, Matteo Biffoni, sindaco di Prato - altrimenti la situazione diventa esplosiva. Occorre affidarsi l’un l’altro e se salta l’impianto diventa difficile andare avanti. Fondamentale poi è che il governo prosegua la sfida verso l’Unione europea. La sua assenza è una vergogna incredibile e il nostro Paese deve continuare a insistere per ottenere un aiuto concreto". Dal Viminale, intanto, ribadiscono la necessità di "un’accoglienza diffusa", mentre non c’è nessuna apertura all’ipotesi di dichiarare lo "stato d’emergenza". Prioritario invece il controllo delle frontiere in Libia. Il ministro dell’Interno Marco Minniti ne discuterà, lunedì prossimo a Tunisi, con rappresentanti dei governi di Francia, Germania, Svizzera e Austria, alla presenza del presidente libico riconosciuto dall’Onu Al-Sarraj e delegati di Ciad e Niger. "A Pordenone ne abbiamo già troppi". È lite con la Croce Rossa - Comune contro Croce Rossa: accade a Pordenone dove ci sono oltre 400 migranti in luogo dei 125 previsti dal ministero. Accanto all’accoglienza diffusa esiste un’ex caserma che funge da hub e attorno al quale vivono, in attesa di essere accettati, decine di senzatetto, che dormono nel fossato lungo la strada statale. Un flusso straordinario che ha portato qualche settimana fa l’amministrazione cittadina a promuovere la "Marcia dei doveri" - cui hanno partecipato centinaia di persone -, nella quale si evidenziava ai profughi che, assieme ai diritti verso chi ad esempio richiede asilo, esistono impegni e responsabilità precise nei confronti della comunità locale che li accoglie. Per cercare di fornire una risposta all’emergenza, la Croce Rossa ha deciso di aprire un ricovero: 24 posti letto e una cinquantina di pasti al giorno. Un’iniziativa privatistica che esula dall’azione coordinata dalla Prefettura. "Una decisione che noi contrasteremo con ogni strumento - ha assicurato il sindaco Alessandro Ciriani (Fratelli d’Italia) -: com’è possibile che in una città che ha già oltrepassato il limite della saturazione si agisca autonomamente e si affitti un locale in pieno centro e di fronte ad un parco per bambini? Chi lo controllerà? Non possiamo legittimare chi agisce fuori dai canoni istituzionali. Si apra altrove, nei tanti comuni che non hanno un solo migrante". Croce Rossa che non intende fare un passo indietro: "Ci danno degli irresponsabili - ricorda il presidente provinciale Giovanni Antonaglia -, ma se cercare di dare dignità umana a delle persone, fornendo loro da mangiare e un tetto dove dormire, significa questo, allora vogliamo essere irresponsabili per il resto della nostra esistenza. Nessuno si preoccupi dei fondi: facciamo servizi a pagamento tutto l’anno grazie ai quali abbiamo solidità per far fronte alle spese". Civitavecchia, la battaglia sul molo 28: "Non sbarcheranno qui" - Se mai ci fosse bisogno di rendersi conto di quanto sia esile il confine tra la polemica e la rivoluzione in materia di accoglienza migranti, basterebbe soffermarsi su quanto accaduto a Civitavecchia. È stato sufficiente che circolasse l’ipotesi di uno hotspot al molo 28 - possibilità smentita dal Viminale - per scatenare una levata di scudi trasversale. Dal sindaco agli albergatori è partito un "no" secco alla realizzazione di una struttura provvisoria di prima accoglienza per le procedure di identificazione. La levata di scudi si è registrata dopo il sopralluogo effettuato venerdì scorso da prefettura, questura e Protezione civile alla presenza del primo cittadino grillino Antonio Cozzolino. Immediata la sua reazione: "Civitavecchia non è nelle condizioni di diventare un hotspot e se il ministero dell’Interno continuerà con decisione su questa pericolosa strada, dovremo affrontare un’emergenza difficile, se non impossibile, da gestire". Cozzolino ribadisce inoltre l’impegno della città a favore dei migranti "aderendo al programma Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr) per il quale delibereremo a settembre". Sul piede di guerra anche il presidente di Federalberghi Roma, Giuseppe Roscioli: "Lo sbarco dei migranti costituirebbe un danno enorme, siamo in piena stagione e poi comunque l’accoglienza è su base volontaria". Ma le preoccupazioni, almeno stavolta, sembrano destinate a rimanere sulla carta. Dal Viminale garantiscono che "non è mai stata presa in considerazione l’ipotesi di uno hotspot, il sopralluogo è avvenuto per effettuare la verifica dei moduli organizzativi qualora fosse stato necessario far attraccare a Civitavecchia. Ma solo a livello teorico perché non si è mai pensato di alleggerire i porti siciliani dirottando le navi nel Lazio". In Sardegna centri quasi tutti pieni, si riaprono due carceri - Il suo "no" ai migranti qualcuno lo ha espresso con la potenza di un bomba e anche con un raid incendiario. In Sardegna è successo più di una volta: in Gallura, un agriturismo destinato a essere trasformato in centro di accoglienza è stato devastato da un ordigno e lo stesso, ma con un attentato incendiario, è avvenuto qualche mese fa non lontano da Oristano. Nell’isola, le quote dell’accoglienza previste dal ministero dell’Interno vengono superate e aggiornate a distanza di pochi mesi. E spesso i bandi delle prefetture non raccolgono nessuna adesione. Ora il nuovo caso riguarda la riapertura di due vecchi penitenziari: quello di Iglesias, nel Sulcis, e quello di Macomer, in provincia di Nuoro. Le celle, secondo l’idea del ministero, diventeranno presto la nuova casa per centinaia di migranti. Del progetto si parla da parecchio tempo ma tutto è fermo perché le contestazioni sono state fin da subito fortissime. "In realtà l’iter procede - assicura il sindaco di Macomer, Antonio Succu - Due settimane fa è stato fatto un sopralluogo all’interno del vecchio carcere. La commissione ha dato il suo primo via libera. Ora aspettiamo una decisione. Nell’ex penitenziario della nostra città dovrà diventare un centro per i clandestini destinati al rimpatrio. E io dico che preferisco che gli immigrati siano dentro a un carcere, controllati, piuttosto che in un classico centro di accoglienza, liberi di girare per la città". Da queste parti, dunque, i migranti li vogliono solo se rimarranno chiusi in cella. A Iglesias la protesta è stata ancora più dura. "Il ministero ci ripensi - ha ripetuto tante volte il sindaco, Emilio Gariazzo - Noi stiamo portando avanti un progetto di integrazione e non vogliamo che si riapra il carcere per i migranti. Se persistono l’altro progetto si blocca". Migranti. "Permessi temporanei a chi vuole lasciare l’Italia", ecco il piano che agita l’Ue di Vladimiro Polchi La Repubblica, 18 luglio 2017 Permessi umanitari temporanei, per circolare liberamente nell’area Schengen. Un lasciapassare per migliaia di migranti in attesa di raggiungere il Nord Europa. È questo il grimaldello con il quale l’Italia potrebbe tentare di scardinare il blocco delle frontiere Ue e decongestionare parte del suo sistema d’accoglienza. Una sorta di "arma finale", prevista da una direttiva europea e dalla Bossi-Fini, nel braccio di ferro in corso sull’emergenza migranti. Il piano è in questi giorni sul tavolo della Farnesina: uno strumento di pressione al quale nessuno vorrebbe arrivare. Tanto che il Viminale smentisce che sia un’ipotesi verosimile: "Non è una questione all’ordine del giorno del governo". "La riflessione invece va avanti da tempo - sostiene il viceministro degli Esteri, Mario Giro - tre sono attualmente le ipotesi allo studio. La prima è quella avanzata dalla comunità di Sant’Egidio: si tratta di ricorrere alla direttiva europea 55 del 2001, introdotta dopo la guerra dei Balcani per far fronte ai flussi di sfollati diretti in Europa, che consente a uno Stato di concedere permessi temporanei ai migranti. Questa strada apre le porte dell’Europa, ma va condivisa col Consiglio europeo. Le altre due invece permettono al nostro Paese di agire unilateralmente, o attraverso le commissioni territoriali per l’asilo, che tra le opzioni hanno anche quella di concedere solo un permesso umanitario temporaneo, o attraverso l’articolo 20 della legge Bossi-Fini, come fece nel 2011 l’allora ministro dell’Interno, Roberto Maroni, offrendo un permesso a migliaia di tunisini. Anche questi visti consentirebbero al titolare di circolare nell’area Schengen". Ma non impediscono agli altri Stati di tenere sigillate le frontiere, chiedendo di sospendere proprio Schengen. Per il viceministro Giro, questo è anche un modo per reagire alle chiusure dei partner europei: "I governi Ue ci vogliono far sentire in colpa perché stiamo salvando migliaia di persone, ma sono degli ipocriti. Il nostro Paese sta tenendo in equilibrio il valore della protezione della vita umana con il necessario pragmatismo nella gestione dei flussi migratori, e di questo non dobbiamo certamente sentirci in colpa". L’ipotesi di ricorre alla direttiva 55 era stata avanzata di recente anche dai Radicali, da Emma Bonino e dal presidente della commissione Diritti Umani del Senato, Luigi Manconi: "Dieci giorni fa ho consegnato personalmente una lettera al ministro dell’Interno, Marco Minniti, in cui sintetizzavo i termini dell’ipotesi di ricorso alla direttiva 55 del 2001 - racconta il senatore - il ministro ha preso la lettera, dicendo che avrebbe preso in considerazione quell’ipotesi. Quello che credo è che invece di investire energie in toni roboanti che evocano ipotesi illegali e velleitarie come bloccare i porti, questa proposta sia più credibile e realizzabile". E a quanti migranti potrebbero essere concessi questi permessi temporanei? I flussi non si fermano: nel 2017 sono già più di 90mila i rifugiati arrivati via mare in Italia. Per fine anno se ne prevedono circa 220mila. E non aiutano i ricollocamenti fermi a quota 7.500. La pressione resta dunque insostenibile e per questo circolano numeri da capogiro: fino a 200mila permessi da concedere. Ma il viceministro Giro precisa che "le cifre sarebbero in ogni caso molto più basse. Non solo. Resta il fatto che questa è solo una delle ipotesi in campo, come quella di attendere il prossimo giudizio della Corte di giustizia europea che su un ricorso della Croazia potrebbe far saltare il trattato di Dublino". La verità è che nessuno vuole arrivare a tanto, e l’ipotesi dei permessi di soggiorno umanitari temporanei resta per ora solo uno strumento di pressione da usare nella trattativa europea. Tanto che il Viminale continua a negare che l’ipotesi dei permessi a tempo sia anche solo al vaglio del governo. Ma non è escluso che la questione torni oggi sul tavolo del Consiglio Affari esteri dell’Ue a Bruxelles, chiamato a discutere di dossier libico ed emergenza migranti, mentre Angela Merkel ribadisce di essere contraria all’introduzione di un tetto numerico ai migranti in Germania: "Il tetto limite non lo accetteremo". Grandi (Unhcr): "Campi profughi in Africa per controllare le richieste d’asilo per l’Europa" di Marco Bresolin La Stampa, 18 luglio 2017 L’Alto Commissario della Nazioni Unite per i rifugiati: lavoriamo con Bruxelles a un piano di 40 mila arrivi. Un maxi-piano Ue di reinsediamenti per valutare le richieste d’asilo direttamente in Africa e portare in Europa chi ne ha diritto attraverso i corridoi umanitari. Ci sta lavorando la Commissione con il sostegno operativo dell’Unhcr, che è pronto a gestire uno schema "da 40.000 posti l’anno". Filippo Grandi, Alto Commissario Onu per i Rifugiati, ne ha parlato ieri a Bruxelles durante un pranzo con i ministri degli Esteri e Federica Mogherini. Una strategia che aiuterebbe a frenare le attraversate in mare, anche se non risolverebbe l’intero problema. Secondo le stime dell’Unhcr, i rifugiati che arrivano attraverso il Mediterraneo centrale sono "il 30-40% del totale. Per questo gli Stati europei - spiega Grandi - dovrebbero anche stabilire quote organizzate per l’immigrazione regolare". Come pensate di intervenire per portare in Europa i richiedenti asilo in modo sicuro? "Lavorando nei principali Paesi di transito, ma anche nella stessa Libia, nonostante lì ci siano parecchi problemi di sicurezza. Non c’è nulla di nuovo in questa attività, che già portiamo avanti da tempo a livello mondiale. Si tratterebbe soltanto di potenziarla. Noi siamo in grado di affrontare un piano da 40 mila trasferimenti l’anno in Europa. Bisogna spingere i richiedenti asilo che fuggono dai loro Paesi a rivolgersi a noi: dobbiamo diventare un’alternativa reale ai trafficanti". A oggi quanti reinsediamenti fate in Europa? "Pochi. A livello globale siamo sui 200 mila l’anno, ma la maggior parte riguardano gli Usa. O meglio, riguardavano: l’ultimo anno di Obama siamo arrivati a quota 85 mila, oggi siamo scesi a 50 mila. Un passo indietro che speriamo sia solo temporaneo. Dall’Europa ci attendiamo una proposta che preveda quote più ampie di reinsediamenti. La Commissione ci sta lavorando". Il problema è che i precedenti non lasciano ben sperare: il piano di redistribuzione dei richiedenti asilo da Italia e Grecia è fallito... "È vero, è stato un progetto abbastanza fallimentare. C’è un problema di solidarietà interna, ma anche di criteri. Attualmente possono partecipare solo i rifugiati che appartengono a una nazionalità con un tasso di riconoscimento delle domande pari al 75%. Questo va cambiato: le liste di candidati vanno fatte su base individuale, non secondo la nazionalità". Quali sarebbero i Paesi coinvolti dal vostro piano di reinsediamenti? "Molti di quelli in cui li facciamo già. Penso al Kenya e all’Etiopia, che ospitano i rifugiati somali. O all’Africa occidentale, per esempio: Niger, Burkina Faso, Ciad, Sudan… Non solo dobbiamo evitare che queste persone attraversino il Mediterraneo, ma anche che si mettano in marcia nel deserto. Intervenire in Libia è già tardi". Ma in Libia già oggi ci sono quasi 300 mila migranti: ci sarebbero le condizioni per allestire punti in cui vagliare lì le domande d’asilo? "È uno dei nostri obiettivi e infatti abbiamo deciso di aumentare la nostra presenza. Ma la situazione è molto complicata dal punto di vista della sicurezza. In Libia bisogna uscire dalla logica dei centri di detenzione e stabilire dei centri di accoglienza in cui aiutare queste persone a trovare delle soluzioni". Non tutti però hanno i requisiti per l’asilo: che fare con gli altri? "Bisogna far funzionare i programmi di rimpatrio. Finora sono gestiti su base bilaterale, servirebbe una maggiore coesione a livello europeo. Anche se tutto non si può risolvere con i reinsediamenti e i rimpatri…". Servono canali di immigrazione regolare? "Premetto che questa non è la mia materia, visto che io mi occupo di rifugiati. Però i Paesi europei dovrebbero trovare il coraggio di stabilire quote organizzate per le migrazioni regolari. Bisogna capire che la gente emigra comunque. E se non ci sono vie legali, continuerà a farlo nell’illegalità. Anzi, se l’unica via legale che offriamo è quella del diritto d’asilo, chiunque cercherà di infilarsi lì. Con il rischio di logorare il sistema". In Italia si parla della possibilità di rilasciare visti per ragioni umanitarie: ci sono le condizioni? "Non ne abbiamo parlato a Bruxelles, nessuno l’ha richiesto ufficialmente. Io sono a favore di un più equo sistema di sbarchi, per ridurre la pressione sull’Italia. Però qualsiasi iniziativa deve passare da un accordo collettivo. Le azioni unilaterali rischiano di non essere sostenibili". Belgio. Sulle carceri il richiamo del Comitato europeo per la prevenzione della tortura di Elisabetta Zamparutti* Il Dubbio, 18 luglio 2017 Durante l’ultima sessione del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, il Comitato ha adottato una serie di rapporti sulle visite periodiche effettuate nella Federazione russa (novembre/ dicembre 2016), a Cipro (febbraio 2017), in Croazia (marzo 2017) e in Slovenia (marzo/ aprile 2017) oltre che i rapporti sulle visite ad hoc in Albania (febbraio 2017) e alla base militare inglese a Cipro (febbraio 2017). Questi rapporti verranno ora trasmessi alle autorità dei rispettivi Paesi che decideranno se e quando renderli di pubblico dominio insieme alle risposte del Governo. Una decisione che potrà essere presa valutando la pubblicazione caso per caso o attraverso l’attivazione della "procedura di pubblicazione automatica". Questa procedura contribuisce significativamente alla trasparenza dei luoghi di privazione della libertà personale ma ad oggi è stata attivata solo dalla Moldova (nel 2011), dall’Ucraina (nel 2014) con la Bulgaria e il Lussemburgo (nel marzo del 2016). La sessione di luglio è stata particolarmente importante per l’adozione di una dichiarazione pubblica nei confronti del Belgio. Si tratta di un atto straordinario che necessita della maggioranza dei due terzi dei componenti il Cpt e che si adotta quando lo Stato in questione "non coopera o rifiuta di migliorare la situazione in base alle raccomandazioni del Comitato". Da quando è in vigore la Convenzione europea contro la tortura, cioè dal 1987, si è fatto raramente ricorso allo strumento della dichiarazione pubblica: nel caso della Turchia, per due volte, della Russia, tre volte e poi della Grecia e della Bulgaria. Nel caso del Belgio, ci si è trovati di fronte a "una persistente incapacità delle autorità ad assicurare un servizio minimo tale da garantire il rispetto dei diritti dei detenuti a fronte dell’agitazione sindacale del personale penitenziario". La situazione è considerata di "eccezionale gravità", si trascina da una dozzina d’anni e un anno fa ha raggiunto livelli tali da indurre le autorità belghe a fare appello alle forze armate perché aiutassero le direzioni delle carceri e quella manciata di agenti di polizia penitenziaria stremati. Pur riconoscendo che con il Belgio è in corso un dialogo ininterrotto, il Cpt, che non ha poteri cogenti, ha voluto ricorrere allo strumento più forte a sua disposizione per fare appello al "senso di responsabilità delle autorità belghe e di tutte le parti interessate, comprese le parti sociali, per trovare una soluzione rapida e adeguata" al problema. Le azioni sindacali "a volte decise senza preavviso e senza limiti nel numero degli agenti coinvolti e nella durata hanno conseguenze inaccettabili" : i detenuti si trovano costretti a stare chiusi quasi sempre, con disfunzioni nella distribuzione del cibo, nella possibilità di accedere ai passeggi, con condizioni igieniche critiche non potendo usufruire della doccia né dei servizi sanitari a cui si aggiunge l’interruzione dei rapporti con il mondo esterno, avvocati compresi. Insomma per il Cpt, la situazione è tale da poter dar luogo a trattamenti inumani o degradanti, o al deterioramento delle condizioni di vita, già considerate inaccettabili, di molti detenuti e mettere in pericolo la loro vita o salute e la sicurezza delle istituzioni. Una situazione che non ha pari nello spazio del Consiglio d’Europa poiché nel corso delle numerose visite condotte negli istituti penitenziari dei 47 Paesi membri nell’arco di 27 anni il Cpt non ha mai visto nulla di simile. Durante la sessione, si sono svolte anche le relazioni orali sulle recenti visite effettuate tra marzo e giugno 2017 con le visite periodiche in Belgio (marzo 2017), Turchia (maggio 2017) e Polonia (maggio 2017) e le visite ad hoc in Serbia (giugno 2017) e in Italia (giugno 2017) La visita in Italia si è tenuta dal 7 al 13 giugno e aveva ad oggetto la situazione nei centri per immigrati per cui la delegazione ha visitato gli hotspot di Lampedusa, Pozzallo e Trapani (Milo), nonché un’unità mobile hotspot a Porto Augusta. Inoltre, ha osservato una procedura di sbarco nel porto di Trapani. La delegazione ha inoltre visitato i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) a Caltanissetta, Ponte Galeria (Roma) e Torino, nonché la cella di sicurezza all’aeroporto di Roma Fiumicino. Mentre la visita ad hoc in Serbia, aveva invece ad oggetto la detenzione da parte della polizia e le condizioni dei detenuti in custodia cautelare. Un problema questo della custodia cautelare ampiamento trattato, insieme al sovraffollamento nella carceri, anche nell’ultimo Rapporto annuale del Cpt. Nonostante l’amnistia sia uno strumento legale a disposizione degli Stati, che però anche a Strasburgo pare sia una parola impronunciabile, è significativo che il problema del sovraffollamento carcerario sia stato affrontato in Albania dal Governo di Edi Rama anche con una grande amnistia che ha portato, nel gennaio 2017, ad alleggerire di oltre il 10% la popolazione carceraria con la scarcerazione di quasi mille persone. *Componente del Cpt per l’Italia Stati Uniti. La riabilitazione dei detenuti diventa virtuale di Eugenio Giannetta Avvenire, 18 luglio 2017 Dagli Stati Uniti arriva una nuova sperimentazione: esperti a confronto. Il futuro della realtà carceraria passerà dalla realtà virtuale? Potrebbe, ma al centro resta sempre l’uomo e la sua volontà o meno di intraprendere un tragitto di cambiamento e riabilitazione, oltre che di ritorno alla società. Fermo restando il percorso correttivo nelle sue forme tradizionali, sviluppato attraverso il lavoro o le attività di socialità e responsabilizzazione, una startup americana ha recentemente investito nello sviluppo del virtuale all’interno degli istituti di detenzione. Va da sé che il caso americano è differente da quello del resto del mondo, in particolare se si guarda al sistema italiano. La creatura di Raji Wahidy, Virtual rehab (da rehabilitation, riabilitazione), si concentra su istruzione, formazione, riabilitazione psicologica e riabilitazione correttiva. Commenta Mauro Palma, garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale: "Sono positivo riguardo l’utilizzo di tecnologie, un po’ meno sull’esportazione di un metodo nato nel riabilitativo medicale applicato a contesti diversi. Il medicale si rivolge a soggetti che hanno il desiderio di riabilitarsi, mentre nel caso della detenzione il nodo centrale è far acquisire questo desiderio come forma di cambiamento". Palma è poi cauto sulla possibilità che lo strumento possa prospettarsi in Italia: "La nostra gestione del carcere e della pena è molto diffidente. Abbiamo istituti in cui è raro anche l’utilizzo di Sky-pe per mettere i detenuti in comunicazione con la famiglia. Vediamo ancora la tecnologia non tanto come supporto e aiuto, ma come concessione fatta sotto forma di beneficio. L’unico utilizzo reale della tecnologia è nella sorveglianza". Relativamente alle tematiche cardine della riabilitazione virtuale, inoltre, Palma esprime perplessità in particolare sull’utilizzo del termine "correzione": "Lo sostituirei con il termine "responsabilità", ovvero quella di prendere in mano la propria vita. Senza responsabilità non c’è correzione". Se da una parte c’è una questione di diffidenza, dall’altra non va trascurato l’aspetto etico. A monte va affrontato un inevitabile mutamento del paradigma culturale alla base del confine tra punizione e riabilitazione, soprattutto in quella che è la percezione della società nell’assorbire il messaggio di una riabilitazione vista come maturazione, ovvero come esperienza istruttiva per ridurre l’eventuale rischio di pericolosità sociale e recidiva, come confermato anche da studi di settore dell’International centre for prison e dal Pew research center. Emanuela Saita, direttore del master in Psicologia penitenziaria della Cattolica, spiega dinamiche e possibilità di sviluppo della realtà virtuale all’interno del sistema carcerario: "Tutto ciò che viene "portato" in carcere deve rispondere ad un basilare criterio di sicurezza. Fatto salvo questo principio sarebbe utile l’utilizzo della realtà virtuale per aiutare i detenuti a familiarizzare con un contesto esterno al carcere", soprattutto rifacendosi all’ampia letteratura sull’argomento, dalla quale emerge, da parte di alcuni detenuti, una esigua capacità emotiva, che porta a una complicata percezione delle proprie e altrui emozioni. "Programmare una riabilitazione mediante la realtà virtuale - continua Saita - è di sicuro interesse, anche in ragione delle evidenze scientifiche circa la validità di queste tecniche riabilitative in molti contesti di disabilità, soprattutto motoria, cognitiva e sensoriale. Credo però sia precoce pensare di attivare una riabilitazione di questo tipo in Italia. Le ragioni sono molteplici: di sicurezza, ma anche di cultura organizzativa e sociale circa le modalità con cui la pena deve essere scontata. La realtà virtuale si basa su tecnologie in grado di creare ambienti che simulano quelli del mondo reale, questo è certamente importante, ma la tecnologia da sola non può aiutare il soggetto a rielaborare l’esperienza. Può essere un valido supporto, ma va sempre inserita in una dinamica relazionale che le persone possono cambiare. Il confronto con l’altro facilita, infatti, il cambiamento attraverso l’assunzione di una diversa prospettiva. Occorre tempo e supporto adeguato affinché la riabilitazione virtuale possa essere utilizzata nelle sue potenzialità riabilitative. Reale, altrimenti, il rischio che possa essere considerata poco più di un gioco". Al centro resta il tema della sicurezza e l’enorme differenza tra soggetti reclusi, questioni che rendono difficile proporre la medesima e standardizzata attività trattamentale: "La tecnologia è un mezzo che consente di raggiungere un fine, sta alle persone saperla utilizzare nei modi più opportuni. Certo, in futuro non potremo farne a meno in qualunque contesto". Vanno comunque tenute sotto controllo le potenzialità di crescita in ottica futura, come spiega con orgoglio il fondatore Raji Wahidy: "Ho iniziato a utilizzare la realtà virtuale in situazioni didattiche e ne ho osservato il grande valore nell’esperienza di apprendimento immersivo". Una domanda che spesso ci poniamo come esseri umani calati nel quotidiano rapporto con la tecnologia, è se questa può davvero cambiare il presente in cui siamo immersi e in questo caso specifico quello delle prigioni: "La tecnologia ha cambiato molte delle nostre vite negli anni. Le prigioni non sono diverse - prosegue Wahidy. Dobbiamo sfruttare gli avanzamenti della tecnologia per aiutare coloro che hanno più bisogno. Ho ricevuto molte lettere da famiglie di detenuti e dai detenuti stessi, apprezzando ciò che stiamo facendo con Virtual rehab. Hanno menzionato che questa tecnologia li aiuterà a relazionarsi con ciò che sta accadendo al di fuori del confinamento della prigione, perché dobbiamo anche pensare oltre le prigioni. Dobbiamo imparare a dare alle persone una seconda possibilità e, soprattutto, aiutarli a cambiare. Funzionerà con alcuni e non funzionerà per altri. Tuttavia, le statistiche dimostrano che quanto più istruiamo, tanto più è alta la probabilità che questi individui non ricadano; E di conseguenza avremo fatto eticamente qualcosa di buono per la nostra società". Afghanistan. la guerra dimenticata dai media negli inquietanti dati dell’Onu di Sara Volandri Il Dubbio, 18 luglio 2017 I primi sei mesi sono stati i più cruenti degli ultimi anni. Save The Children: "situazione drammatica e straziante per i minori". Una strage infinita, ormai lontana dai riflettori dei grandi media internazionali che hanno derubricato l’Afghanistan a "zona di conflitto ordinario". Eppure nel paese centroasiatico si muore ogni giorno, soprattutto civili, soprattutto nei primi sei mesi del 2017 i più sanguinosi degli ultimi anni. Secondo un rapporto diffuso ieri dalle Nazioni Unite sono almeno 1.662 i civili uccisi e 3.581 quelli feriti dallo scorso gennaio, oltre un quarto dei quali rappresentati da bambini (436 i minori morti e 1.141 i feriti). Il numero dei bambini che hanno perso la vita a causa del conflitto che dal 2001 il Paese è aumentato del 9% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Un’escalation inquietante, come denuncia Save the Children, l’Organizzazione internazionale dedicata dal 1919 a salvare la vita dei bambini in particolare nelle zone di guerra. "Negli ultimi anni abbiamo assistito a un drammatico deterioramento della situazione in Afghanistan: più combattimenti, più persone costrette ad abbandonare la propria casa, un impatto sempre più straziante sui bambini" ha dichiarato David Skinner, Direttore di Save the Children in Afghanistan, dove l’Organizzazione lavora dal 1976 con programmi umanitari e di sviluppo per la salute, l’educazione e la protezione dei minori. "L’incremento nel numero di minori morti e feriti a causa del conflitto è estremamente preoccupante e riflette il crescente pericolo affrontato dai giovani afgani". Quasi tutte le vittime sono civili rimasti uccisi in attentati terroristici compiuti da milizie talebane, ma anche da affiliati all’isis o ad al Qaeda. Il resto durante conflitti a fuoco e battaglie tra l’esercito di Kabul i ribelli islamisti. Attualmente in Afghanistan Save the Children fornisce assistenza a decine di migliaia di famiglie rimpatriate, supportando i bambini affinché vadano a scuola e frequentino programmi attitudinali e fornendo assistenza economica per l’acquisto di beni di prima necessità quali cibo, medicine e ripari. A contribuire in modo sostanziale all’aumento di morti e feriti tra donne e bambini, secondo i dati della Missione di Assistenza Onu in Afghanistan, sono stati il ricorso a ordigni esplosivi improvvisati (Ied) attivabili a pressione, le bombe suicide e le operazioni aeree in zone popolate da civili. In particolare il rapporto evidenzia che, nel periodo esaminato, i civili sono stati uccisi e feriti nel 40% dei casi da forze anti- governative per mezzo di ordigni esplosivi improvvisati, come accaduto a Kabul il 31 maggio, quando, durante un unico attacco, un camion bomba ha ucciso almeno 98 civili e ne ha feriti circa 500. "Questi attacchi ai civili devono cessare. Non solo feriscono e uccidono persone innocenti in modo orribile, ma causano indicibili traumi e sofferenze, specialmente nei bambini, portando a gravi problemi psicologici e con un impatto sul loro sviluppo nel lungo termine" ha aggiunto Skinner. "Assistere a un attacco mortale o dover fuggire dalla propria casa sono esperienze che possono accompagnare un bambino a lungo, a volte per sempre. Non dobbiamo sottostimare l’estensione del trauma subito dai bambini afgani e l’importanza di aiutarli nel recupero. Save the Children condanna ogni attacco che metta i civili, e in particolare i bambini, a rischio. Sollecitiamo tutti gli attori in Afghanistan affinché diano priorità alla protezione dei minori". Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari, il piano di risposta umanitaria per il 2017, che prevede 550 milioni di dollari, però, è finanziato solo al 27% e continuano a mancare circa 4 00 milioni. Iran. La scure dei giudici contro le (presunte) spie di Valerio Sofia Il Dubbio, 18 luglio 2017 Condannato a 10 anni Xiyue Wang, studente sino-americano, perché "infiltrato". Nei giorni scorsi arrestato anche il fratello del presidente Rohani. Continua l’offensiva giudiziaria delle autorità iraniane, che nei giorni scorsi avevano arrestato il fratello del presidente riformista Rohani accusato di reati finanziari. Stavolta la scure colpisce uno studente sino- americano della Princeton University, che è stato condannato a dieci anni di prigione con l’accusa di essere una spia. Una sentenza che alza la tensione con Washington, in una fase politica già molto delicata. Dello studente di storia trentasettenne, Xiyue Wang, nato a Pechino e con doppia cittadinanza, si erano perse le tracce alcuni mesi fa. Era regolarmente in Iran per una tesi di dottorato. È stato arrestato la scorsa estate mentre lavorava a una ricerca sulla storia della dinastia Qajar, che ha re- gnato nel 1794- 1925. L’ipotesi dell’arresto (noto alla famiglia e all’università che hanno tentato in questi mesi di mediare per ottenerne la liberazione) era circolata come possibilità, ma non c’erano state conferme fino all’annuncio ufficiale del portavoce del Ministero della Giustizia di Teheran, che ha confermato l’arresto e la condanna, parlando di Wang come uno degli "infiltrati americani" nel Paese, senza farne espressamente il nome. Ma poco dopo l’agenzia d’informazione Mizan, legata alla magistratura iraniana, ha fatto il nome raccontando che secondo gli in- quirenti il dottorando statunitense aveva una "rete di contatti" con le agenzie di intelligence statunitensi e britanniche, e nei suoi computer gli investigatori avrebbero scoperto 4.500 pagine di documenti iraniani. La sua condanna sarebbe legata a "un progetto di infiltrazione" in Iran che prevedeva la raccolta di "articoli riservati" da inviare anche al Dipartimento di Stato. "È innocente di tutte le accuse", ha ribadito il suo professore a Princeton, Stephen Kotkin, garantendo personalmente per lui e spiegando che i documenti che ha raccolto sono vecchi di cento anni. Il Dipartimento di Stato Usa ha chiesto "l’immediata liberazione di tutti i cittadini statunitensi ingiustamente detenuti in Iran". Oltre a Wang, in Iran sono prigionieri gli irano- americani Karan Vafadari, un gallerista, e Siamak Namazi, un uomo d’affari, con il padre 81enne Baquer Namazi.