Carceri in Italia: un ritorno al passato o si può sperare in un futuro più umano? Il Mattino di Padova, 17 luglio 2017 Ristretti Orizzonti, il giornale realizzato nella Casa di reclusione Due Palazzi, proprio in questo anno 2017, così difficile per le carceri, compirà vent’anni, vent’anni di battaglie per la tutela dei diritti delle persone detenute e delle loro famiglie, ma anche di un confronto profondo con tante vittime di reati, e ancora di un progetto con le scuole di autentica prevenzione, un modo davvero importante per mettere chi ha commesso reati di fronte alle sue responsabilità e chiedergli di portare agli studenti la sua testimonianza dando un senso anche alla sua esperienza più negativa. Questi vent’anni di lavoro hanno però anche fruttato, grazie a direzioni attente alla qualità della vita detentiva, condizioni più vivibili nella Casa di reclusione di Padova, a partire dalle telefonate in più alle famiglie (8 al mese invece di 4), preziose per quei figli, quelle compagne, quei genitori che ricevono davvero troppo poca attenzione dalle Istituzioni. Speravamo che quel clima di apertura e confronto con la società, che ha caratterizzato in questi anni il Due palazzi, e quella maggiore umanità, caratterizzata anche dalle telefonate in più e dalla possibilità di usare Skype per chi ha la famiglia lontana centinaia di chilometri (e questa sì è una modalità di scontare la pena non conforme alla legge, che prevede invece una detenzione nelle vicinanze dell’abitazione delle famiglie) venissero estesi alle altre carceri, e invece fonti diverse dicono che succederà il contrario, e che tutto tornerà anche a Padova alla squallida "normalità" di un Paese, l’Italia, che riserva alle famiglie dei detenuti un trattamento davvero miserabile (dieci minuti di telefonata a settimana, sei ore al mese di colloqui). Noi crediamo che le voci su questo ritorno al passato non siano vere, ma vorremmo essere rassicurati. Nei giorni scorsi c’è stato un incontro tra il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto, Enrico Sbriglia, e tutte le realtà della "società civile", associazioni di volontariato, cooperative, scuola, Università, organizzatori di iniziative culturali e sportive, che operano all’interno della Casa di reclusione. Un incontro chiesto con forza al Provveditore, perché chi da anni lavora in quell’Istituto negli ultimi tempi sente che il clima rischia di cambiare, e i problemi, come l’introduzione di droghe e cellulari, che ci sono stati a Padova come, purtroppo, ci sono in TUTTE le carceri d’Italia e d’Europa, finiscono però per diventare un pretesto per azzerare i cambiamenti importanti e necessari che ci sono stati in questi anni. Quella che segue è la lettera che indirizzano al Provveditore le persone detenute della redazione di Ristretti Orizzonti, che sono più che mai preoccupate di questo possibile "ritorno al passato", perché il passato delle carceri italiane non ha davvero molto di buono da recuperare. Gentile dottor Sbriglia, ci rivolgiamo a Lei, che ha sempre dimostrato attenzione e sensibilità nei confronti delle esigenze della popolazione detenuta. Siamo molto preoccupati per la descrizione che in più occasioni è emersa sui giornali a proposito della Casa di Reclusione di Padova e delle attività che si svolgono al suo interno. Quello che ci preoccupa di più non è tanto il fatto, sconcertante e spiacevole, che noi di Ristretti Orizzonti siamo stati esplicitamente accusati di aver fatto "pressioni" sulla Direzione per ottenere dei cambiamenti nella qualità della vita detentiva, quanto il concreto rischio che la realtà della Casa di Reclusione, una delle poche che si muovono nella direzione voluta dalla Costituzione (e che a più riprese anche esponenti e dirigenti dell’Amministrazione Penitenziaria hanno lodato) venga riportata alla "normalità". La condizione "normale" delle carceri del nostro Paese è stata considerata dall’Europa "inumana e degradante". Ma veramente a quello dobbiamo tornare? L’Ordinamento penitenziario è ancora ampiamente inapplicato (soprattutto per quanto riguarda la condizioni minime di qualità della nostra vita in carcere), e ci si chiede invece se due o quattro telefonate in più al mese siano legali? Da una parte l’Amministrazione dichiara un grande impegno profuso per prevenire i suicidi e gli atti di autolesionismo in carcere, vengono emanate circolari, convocati tavoli di lavoro, organizzati convegni e seminari, per creare condizioni di detenzione più decenti e ridurre così il più possibile i suicidi, mentre dall’altra si parla di smantellare ciò che concretamente è stato fatto per migliorare la nostra vita qui dentro. Se volete affrontare seriamente la questione della prevenzione dei suicidi e degli atti di autolesionismo, vi assicuriamo che per noi detenuti è vitale mantenere i rapporti affettivi con i nostri cari, poter sentire la loro voce in un momento di sconforto o di vera e propria disperazione, poter condividere con loro una notizia o informarci su qualcosa che è successo a casa. O ancora, poter sentire i nostri figli, che magari abitano in regioni diverse e non possono fare centinaia di km per riunirsi nella stessa abitazione e rispondere ad una nostra telefonata di dieci minuti. Queste telefonate in più ci danno una boccata di ossigeno importante. Noi ci rivolgiamo allora a Lei affinché possa aiutarci a contrastare questa immagine distorta che è stata data del carcere di Padova, di chi ci vive, di chi lo amministra e di chi ogni giorno si impegna per sostenere il dettato costituzionale in questo istituto. Ci rivolgiamo a Lei perché siamo certi che capisce la nostra sincera preoccupazione, che è anche quella dei nostri compagni, di cui ci facciamo portavoce, e che vorremmo avessero i loro rappresentanti e fossero più coinvolti in un confronto e un dialogo serio con chi gestisce le carceri. Negli anni abbiamo sempre dialogato con l’Amministrazione, ci siamo scontrati anche, ma sempre lo abbiamo fatto alla luce del sole, rendendo pubblica ogni nostra iniziativa, ogni nostra battaglia. Se l’Amministrazione ha accolto alcune nostre proposte (ma a molte ha detto no), non è stato certo per una "pressione" politica o di chissà che genere; le persone che entrano in carcere come volontari, operatori, come cooperative che portano lavoro, sono la società civile e il ruolo della società civile in una democrazia è esattamente questo, far sentire la propria voce e quella delle persone detenute all’autorità che gestisce le carceri, che, quando è intelligente, è anche capace di ascoltare e poi valutare. Noi siamo stati pubblicamente ringraziati dalla dottoressa Castellano, che è stata direttrice del carcere più all’avanguardia nel nostro Paese, quello di Bollate, e ora è la massima dirigente delle misure di Comunità, per la nostra caratteristica di essere la "goccia cinese" che martella sulla testa dell’Amministrazione Penitenziaria perché non dimentichi mai che umanizzare le carceri è il suo compito principale, ed è possibile cominciare a farlo anche con le attuali leggi. A Padova questo è stato fatto in questi anni, e questi cambiamenti importanti noi chiediamo che siano salvati, e anzi estesi anche ad altre carceri,. Lo facciamo con tenacia, una tenacia che può anche dare fastidio, ma quando la tenacia ha come obiettivo la tutela dei diritti dovrebbe essere apprezzata e non bollata come "pressione" indebita. Desiderosi di incontrarLa, Le porgiamo i nostri più cari saluti. Le persone detenute della redazione di Ristretti Orizzonti Se le carceri italiane sono scuole di jihadismo di Giuliana De Vivo pagina99.it, 17 luglio 2017 In Italia dal 2009 teniamo d’occhio i detenuti considerati più pericolosi, ma non basta. Perché, dove manca chi parla arabo, i cattivi maestri hanno gioco facile. Lo scorso 6 luglio alcuni detenuti nelle prigioni britanniche considerati pericolosi esponenti del radicalismo islamico sono stati trasferiti in una sezione speciale del penitenziario di massima sicurezza di Frankland, contea di Durham, nel nord dell’Inghilterra, in regime di isolamento. Il piano del ministero della Giustizia inglese prevede l’apertura di altri due padiglioni ad hoc nelle strutture di Full Sutton, vicino York, e di Long Lartin, nel Worcestershire. Qui, nei prossimi mesi, finiranno gli altri tra i 28 carcerati ritenuti most subsersive extremist prisoners. Obiettivo: evitare che il periodo di detenzione si trasformi in occasione di propaganda nei confronti degli altri reclusi. Un pericolo, questo, di cui la giustizia italiana è da tempo cosciente. Già dal 2009 esiste, da noi, un sistema simile a quello delle jihadi jails appena partito oltremanica. E la relazione del Dis (Dipartimento informazioni per la sicurezza) dell’anno prima rilevava "una insidiosa opera di indottrinamento e reclutamento svolta da veterani nei confronti di connazionali detenuti per reati minori", descrivendo il fenomeno "in crescita negli ambienti carcerari". L’esigenza di equilibrio - L’attenzione sul problema è rimasta costante nel dibattito politico italiano. A febbraio 2015, quando a Palazzo Chigi c’era ancora Matteo Renzi, il guardasigilli Andrea Orlando disse durante un convegno della Fondazione Icsa (Intelligence culture and strategic analysis) dedicato a "Stato islamico e minaccia jihadista" che "le carceri sono luoghi in cui si può strutturare una visione estremista dell’Islam, con capacità di proselitismo". Aggiunse che quello stesso proselitismo rischiava di essere favorito da "una legiferazione animata da populismo penale che riduce l’area dei diritti e agevola l’individuazione degli occidentali come nemici dell’Islam". Il nodo dell’equilibrio tra un controllo serio necessario e il rischio che regole troppo rigorose favoriscano quella che lo studioso Olivier Roy definisce "islamizzazione della radicalità" è ben noto ai vertici dell’apparato giudiziario e di quello penitenziario: non sembra però essersi tradotto in nuove regole di sistema, ma più che altro in interventi spot variabili da istituto a istituto e sicuramente perfettibili. Il circuito dei pericolosi - Il protocollo di monitoraggio in vigore dal 2008 guarda anche all’esterno: il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per affinare il controllo preventivo del radicalismo tra i detenuti, ha avviato una comunicazione costante con il Comitato di analisi strategica antiterrorismo (Casa), del quale fanno parte anche polizia di stato, carabinieri, guardia di finanza e le agenzie di intelligence Aisi e Aise. All’interno, il Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria raccoglie e aggrega le informazioni provenienti dalle patrie galere: è anche in base a queste che oggi 365 detenuti rientrano nelle categorie dei "monitorati" (165), "attenzionati" (76) o "segnalati" (124). I primi sono quelli che mostrano forme evidenti di radicalizzazione e di propensione al reclutamento, nei secondi sono stati notati atteggiamenti di vicinanza al fondamentalismo islamico, i terzi sono considerati da tenere d’occhio perché entrati in contatto con gli appartenenti agli altri due gruppi. Viste così, le maglie del controllo appaiono stringenti. Va detto che tra tutti questi detenuti sono 44 quelli sottoposti, dal 2009, a un regime carcerario speciale, perché già condannati o sotto processo per terrorismo internazionale: rientrano nel circuito dell’As2, quello dell’alta sorveglianza, che consente contatti tra di loro nelle ore d’aria ma non con i detenuti al di fuori di questo regime. Oggi queste 44 persone sono tutte recluse in tre carceri italiane: Sassari, Nuoro e Rossano Calabro. A Sassari, per esempio, c’è il tunisino Hamadi ben Abdul Aziz ben Ali Bouyehia, inserito nella lista dei terroristi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, legato ad al-Qaeda e al gruppo sunnita curdo Ansar al-Islam per il quale faceva proselitismo a Milano. Nel capoluogo lombardo fu arrestato nell’ottobre 2002, è stato condannato in via definitiva nel 2009. A Nuoro c’è il macedone Vulnet Maqelara, noto alle cronache come Karlito Brigante (sì, aveva cambiato nome ispirandosi al film cult Carlito’s Way), arrestato dai carabinieri del Ros di Roma a marzo dello scorso anno mentre stava per partire per l’Iraq al fianco dell’Isis e condannato a otto anni di reclusione. I limiti del controllo - Il problema, però, è che l’indottrinamento funziona un po’ come la calunnia del Barbiere di Siviglia: il processo con cui il male si insinua nelle teste di chi, prigioniero, cerca delle risposte, è spesso sufficientemente sotterraneo da farsi notare solo quando quelle teste sono ormai del tutto obnubilate, in capaci di un pensiero davvero lucido. Il nostro Maqelara-Karlito Brigante ne è un esempio: dal 2004 in poi è entrato e uscito di cella diverse volte, sempre per reati comuni - dalle lesioni personali alla rapina, dall’aggressione a pubblico ufficiale alla detenzione di armi: un tipo poco raccomandabile, certo, ma non un jihadista. Eppure proprio durante una di queste detenzioni ha conosciuto Firas Barhoumi, 29enne tunisino che era già in Iraq come foreign fighter al momento dell’arresto di Karlito. È sotto l’influenza di Barhoumi, hanno ricostruito gli investigatori, che il criminale macedone si trasforma in un aspirante combattente dello Stato islamico. "Tutti quelli che abbiamo visto finora sono casi di elementi radicalizzatisi nelle carceri, dove si trovavano per altre ragioni", conferma il procuratore aggiunto Francesco Caporale, coordinatore del pool Antiterrorismo di Roma. "Ovviamente non tutti i comportamenti sospetti che rileviamo integrano il reato di terrorismo internazionale, ma abbiamo il vantaggio che questi segnali, riscontrati nella situazione intramuraria del carcere, portano a una segnalazione al prefetto qualora questi soggetti escano". A fronte degli altri 321 detenuti fuori dal circuito di alta sorveglianza ma comunque sotto osservazione, il bacino delle potenziali vittime di questo meccanismo è però ben più ampio. La popolazione carceraria di religione musulmana è la seconda dopo quella cattolica: l’11,4% dei detenuti in Italia. O meglio, questo è il dato ufficiale, ma in concreto sono molti di più, come fa notare, mettendo in fila i numeri, Claudio Paterniti Martello, sociologo della scuola di alti studi in Scienze sociali di Parigi e membro dell’osservatorio nazionale di Antigone: su 18.091 detenuti stranieri, 11.029 provengono da Paesi tradizionalmente di fede musulmana; tolti i 7.646 che dichiarano apertamente la propria confessione, ne restano altri 3.383. Potrebbero essere di diversa religione o atei, ma appare "poco probabile, dato che la secolarizzazione è fenomeno più europeo che d’altri Paesi", spiega Paterniti. Le falle del sistema - Perché non si dichiarano musulmani? Secondo Paterniti un fattore è la paura "degli ostacoli derivanti dallo stigma e dai pregiudizi associati a questa fede". Fra questi oltre 3 mila detenuti rinchiusi nel silenzio delle loro celle ci sono persone che percepiscono come una minaccia qualunque aspetto del sistema carcerario nel quale sono immersi 24 ore su 24. Pesa "la mancanza di figure di riferimento, spirituali e non". Ed è in questa mancanza che si saldano le due facce, la necessità del controllo e il rischio di rigidità. È banale ma spesso non ci si pensa: dove non si parla, chi vuole seminare ideologie di guerra ha gioco più facile. Secondo i dati del Dap, aggiornati a dicembre 2016, nelle oltre 200 carceri italiane operano in tutto 22 imam accreditati e 72 mediatori culturali. A Rebibbia, dove si è radicalizzato Karlito, non ci sono ministri di culto islamico. Idem a Rossano Calabro, Nuoro e Sassari, ma se il carcere calabrese può contare almeno su una mediatrice culturale volontaria, figure analoghe mancano del tutto negli istituti sardi. Nessun imam accreditato neanche a Genova, dove i detenuti stranieri - per lo più marocchini, tunisini e albanesi - sono quasi la metà del totale dei reclusi e dove l’unica mediazione è svolta da volontari non accreditati, con modalità d’ingresso più complesse e giocoforza meno costanti. Il che, scrivevano gli osservatori di Antigone dopo una visita nel marzo scorso, "comporta notevoli difficoltà nella gestione e assistenza della popolazione detentiva straniera". Senza un imam esterno la preghiera, autorganizzata dagli stessi detenuti, è diretta da uno tra loro che viene individuato come leader. Potenzialmente insidioso, se nessuno è in grado di tradurre quello che predica. Succede così all’Ucciardone, il carcere di Palermo dove passò anche l’attentatore di Berlino Anis Amri: neppure qui c’è un mediatore culturale. Nel dicembre 2015 il Dap ha sottoscritto un accordo con l’Ucoii (Unione delle comunità islamiche d’Italia) per l’ingresso di imam accreditati: al momento, però, si tratta di una sperimentazione in otto carceri, a Torino, Brescia, Verona, Modena, Cremona, Firenze e Milano (Opera e Bollate). Una scelta, osserva Paterniti, "mutuata dal modello francese, dove la presenza di seconde e terze generazioni radicalizzate è molto più massiccia che da noi, e dove esiste la figura dell’aumonier, un cappellano che oltre che cattolico può essere anche di altre confessioni: si cerca di neutralizzare il leaderismo di quei detenuti radicali che si presentano come veri interpreti della parola coranica. Oggi nelle celle francesi ci sono più aumonier musulmani che cattolici". L’inferiore presenza numerica e l’esperienza maturata negli anni di piombo sono da sempre considerati i due punti di vantaggio dell’azione antiterroristica italiana, come conferma ancora Caporale, il quale ammette però che "se all’epoca si tendeva a scegliere personale lontano dal mondo dell’eversione interna, oggi l’esigenza è trovare chi sia in grado di entrare in contatto diretto con questi detenuti". Il problema della lingua che "impedisce un controllo capillare" esiste, dunque. Oggi i mediatori culturali restano il 2,17% del totale del personale penitenziario. Le guardie, di cui pure da almeno un decennio si lamenta la carenza, sono il 90,1%. E quasi nessuno di loro parla arabo. 41bis: fino a che punto il bisogno di sicurezza può legittimare il regime detentivo speciale? di Marco Nestola giurisprudenzapenale.com, 17 luglio 2017 Sono passati ormai venticinque anni da quell’annus horribilis che è stato il 1992. L’anno delle stragi, quello degli attacchi del clan dei corleonesi contro lo Stato. È l’anno della violenza, delle bombe di Capaci e via D’Amelio e delle minacce. È l’anno della trattativa e del papello in cui Cosa Nostra presenta un elenco di richieste per porre fine alla stagione stragista. È l’anno in cui le elezioni politiche del 5-6 aprile lasciano l’Italia in una crisi drammatica e profonda, che getta discredito sulle vecchie élite politiche travolte dai primi avvisi di garanzia della stagione tangentopoli. È l’anno in cui Giulio Andreotti vede sfumare la propria elezione al Quirinale, al suo posto si insedia Oscar Luigi Scalfaro. Venticinque anni da tutto questo, e venticinque anni dall’introduzione del secondo comma dell’articolo 41-bis nella legge 26 luglio 1975 n. 354, fra le norme sull’ordinamento penitenziario. Una disposizione fortemente controversa, che rappresenta la risposta dello Stato italiano ai feroci colpi della mafia e che permette al Ministro della Giustizia, per sua iniziativa o su richiesta del Ministro dell’Interno, di sospendere "per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica" l’applicazione delle normali regole di trattamento penitenziario nei confronti di: condannati, imputati ed indagati, per i reati enunciati nel primo comma dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, cioè per mafiosi, terroristi ed altri criminali che hanno compiuto determinati reati con lo scopo di agevolare le attività mafiose. La sospensione delle "normali regole di trattamento" iniziò a colpire i più variegati diritti riconosciuti dall’ordinamento e le libertà dei detenuti subirono pesanti restrizioni: i colloqui, le telefonate, gli oggetti personali da detenere in cella, le ore d’aria, il peculio, la corrispondenza, tutto era limitato e differente, al fine, dichiarato, di evitare che "boss" e presunti tali comunicassero con le organizzazioni di appartenenza. La presa d’atto di una deleteria prassi creatasi attorno all’applicazione di un istituto, che devolveva alla amministrazione penitenziaria la possibilità di incidere pesantemente su dei diritti costituzionali, alcuni dei quali, coperti anche da riserva di legge, portò alla naturale conseguenza di numerose proteste da parte degli avvocati dei detenuti, sfociate in numerose questioni di costituzionalità davanti alla Consulta che nel solo 1993, ne affrontò 5. Ed è proprio questo il fulcro di questo lavoro: analizzare il 41bis O.P. a partire dalla sentenza 143 del 2013 della Corte costituzionale, importante non solo perché è, fino al momento, unica (avendo per la prima volta dichiarato parzialmente illegittimo l’articolo in esame) ma anche in quanto pone dei punti fermi circa la ponderazione di due interessi meritevoli di tutela che si trovano in conflitto in una data situazione. Nel caso in esame i due interessi, di portata costituzionale, che vediamo scontrarsi sono da una parte la protezione dell’ordine pubblico, e dall’altra l’inviolabilità del diritto di difesa. Csm, la sinistra cambia idea sugli ex del governo di Alessandro Mantovani Il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2017 La sinistra delle toghe era contro gli incarichi direttivi dopo il "fuori ruolo" ma vuole l’ex capo di gabinetto di Orlando. Era il 2013 e Area, la corrente di sinistra formata da Magistratura democratica e Movimento per la giustizia, era appena agli inizi. In un documento del 13 maggio, intitolato "Per una svolta nell’autogoverno", i direttivi delle due componenti scrivevano: "I magistrati provenienti dal Csm o da fuori ruolo non possono essere destinati ad uffici per i quali sia richiesta una valutazione discrezionale da parte del Csm". Un anno dopo nel programma per il Csm, al punto 9, Area sottolineava che "nelle nomine e nel conferimento degli incarichi debba assumere valore prevalente la valutazione dell’effettivo esercizio delle funzioni negli uffici giudiziari" rispetto agli incarichi fuori ruolo. Nel novembre scorso l’assemblea nazionale di Area si concludeva con una mozione in cui si legge che, per il ritorno di un magistrato alla toga dopo "un incarico fuori ruolo di scelta prettamente politica o che faccia apparire l’aspirante vicino alla politica", è "necessario un congruo periodo di attività negli Uffici". Insomma, non un incarico direttivo. Quelli però sono documenti politici, non sono leggi né circolari. Così la maggioranza di Area, nel Csm, si appresta a sostenere la candidatura a procuratore capo di Napoli di Giovanni Melillo, fino al marzo scorso capo di gabinetto del ministro della Giustizia Andrea Orlando e ora sostituto procuratore generale a Roma. La commissione del Csm che valuta le candidature si è spaccata a metà: tre voti per Melillo, foggiano, classe 1959, che è stato anche pm e procuratore aggiunto a Napoli e consigliere giuridico del Quirinale ai tempi di Carlo Azeglio Ciampi; tre voti per Federico Cafiero de Raho, anch’egli ex pm ed ex procuratore aggiunto a Napoli, la sua città, più anziano di Melillo e soprattutto attuale procuratore di Reggio Calabria, incarico direttivo di prim’ordine che l’avversario non può vantare. Al Plenum del Csm, che potrebbe decidere il 26 luglio, Melillo arriva da favorito anche grazie ad Area, la sua corrente. Secondo indiscrezioni dovrebbe dargli cinque voti, più il presidente e il procuratore generale della Cassazione Giovanni Canzio e Pasquale Ciccolo, sei su sette consiglieri laici di nomina politica e almeno uno di Magistratura indipendente, la corrente di destra. Per Cafiero invece voterebbero i cinque consiglieri di Unicost (centristi), due consiglieri di Mi e due di Area, Ercole Aprile e Piergiorgio Morosini. Sarebbero ancora incerti il consigliere laico del M5s Alessio Zaccaria e Aldo Morgigni, togato del gruppo di Piercamillo Davigo, Autonomia e indipendenza, nato per scissione da Mi. Negli organismi dirigenti di Area il confronto è teso, nella mailing list pure e si segnala uno scontro tra il procuratore di Bologna Francesco Caruso (anti-Melillo) e l’ex consigliere del Csm e attuale Avvocato generale Nello Rossi (pro-Melillo). Pesa, a favore dell’ex capo di gabinetto di Orlando, anche la situazione familiare di Cafiero, che ha un figlio adottivo avvocato penalista a Napoli. Il problema della possibile incompatibilità, prevista dalla legge, si era già posto nel 2009 quando Cafiero divenne procuratore aggiunto a Napoli. E fu superato anche perché Cafiero era aggiunto e non capo. Potrebbe porsi di nuovo, dicono dalle parti di Melillo, a danno se non altro dell’immagine della Procura. Un altro candidato dello stesso livello dei due sfidanti, da tutti riconosciuto, al Csm non l’hanno trovato. E l’immagine dell’ufficio, impegnato in inchieste collegate al caso Consip che investe così da vicino il potere renziano, difficilmente trarrà vantaggio dall’insediamento dell’ex capo di gabinetto del Guardasigilli. E chissà poi se il Senato approverà la nuova legge sugli incarichi "politici" dei magistrati nella forma licenziata dalla Camera lo scorso 30 marzo. Prevede, come volevano i documenti di Area e non solo, che dopo "incarichi di responsabilità in qualità di capi degli uffici di diretta collaborazione dei ministri e dei sottosegretari di Stato", tra gli altri, operi "il divieto di ricoprire incarichi direttivi o semi-direttivi per un periodo di un anno". Certo la norma non sarebbe mai retroattiva ma il procuratore Melillo non ci guadagnerebbe granché. Tortura, ora c’è la legge che la punisce, ma Genova la conosce dai tempi del G8 di Alessandra Ballerini La Repubblica, 17 luglio 2017 Una bellissima poesia di Wislawa Szymborska s’intitola e parla di "Torture". Racconta di questa abominevole partica antica e del corpo al quale viene inflitta che prova dolore e non trova riparo perché inesorabilmente c’è mentre l’anima si aliena da sè: "Tra questi paesaggi l’anima vaga, sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana, a se stessa estranea, inafferrabile, ora certa, ora incerta della propria esistenza, mentre il corpo c’è, e c’è, e c’è e non trova riparo". Ecco, all’indomani dell’approvazione della legge che introduce, dopo estenuanti discussioni e indegni compromessi, nel nostro codice penale il reato di tortura, penso che questa poesia contenga la definizione più esatta e spietata di tortura. Parola fino ad oggi impronunciabile almeno nel nostro ordinamento, ma che noi genovesi, che abbiamo assistito impotenti alla "macelleria messicana" della Diaz e alle indecenti violenze consumatesi nella caserma di Bolzaneto, dovremmo ben conoscere. A bene vedere, anche da noi, quella parola si compie, lacerando corpi e anime, con inquietante frequenza. E a farne le spese sono spesso i soggetti più deboli come dimostrano le indagini sulle violenze compiute dai carabinieri della Lunigiana ai danni di stranieri, prostitute e tossicodipendenti, picchiati con ogni strumento e abusati anche sessualmente. Ora, finalmente, quella parola è stata pronunciata anche dalle nostre istituzioni, di più, è stata scritta in una norma, l’art. 613 bis del codice penale, che però sarà, nella maggior parte dei casi, inadatta a punire chi quella parola agisce e dunque a prevenirne il suo indecente compiersi. La legge infatti, scritta in italiano indecifrabile, impone, perché possa configurarsi il reato, la previsione di una necessaria pluralità delle condotte violente (non una manganellata ma almeno due o tre), il riferimento alla verificabilità del trauma psichico (verosimilmente tramite certificati medico-legali di per sé costosi), l’ardua prova della "crudeltà" del torturatore e della minorata difesa del torturato e i tempi di prescrizione ordinari, limitando cosi notevolmente le possibilità per la vittima di vedere giustizia. Non solo: la tortura viene codificata come reato generico, vale a dire che può essere commesso da chiunque, anche dal marito o compagno maltrattante e non soltanto da un pubblico ufficiale (in quest’ultimo caso è prevista un’aggravante). Ciononostante, una speciale categoria di pubblici ufficiali, vale a dire le forze dell’ordine, si è immediatamente sentita chiamata in causa ed ha reagito all’approvazione della legge, con quella stessa arrogante violenza sottesa al crimine che la norma vorrebbe vietare e punire. Come mai, verrebbe da chiedersi, temono tanto una legge che vieta a chiunque di torturare il prossimo? Cos’hanno da temere? Di quali limiti alla loro libertà di azione su quei corpi in loro custodia si dolgono? Certamente è una legge scritta male, tuttavia non sono le divise a doversene lamentare ma semmai le vittime di tortura e chi le tutela. Come i magistrati che si sono occupati dei processi del G8 di Genova che in una lettera alla Presidente della Camera Boldrini hanno provato a spiegare che, con una simile norma, non si riuscirebbe a punire neppure i reati commessi dalle forze dell’ordine in quell’indimenticabile luglio genovese di 16 anni fa. Il rischio, con una legge scritta male, è quello di garantire, come, avvisa il Commissario per i diritti umani presso il Consiglio d’Europa Nils Muižnieks "scappatoie per impunità". E sono proprio queste scappatoie a preoccuparci, perché in Italia non solo la tortura è praticata fino alle estreme conseguenze ma vige l’insana prassi di espellere cittadini stranieri verso Paesi considerati "amici" nei quali la tortura viene agita con fiera ostentazione. Basti pensare all’Egitto di Al Sisi dove Giulio Regeni è stato sequestrato, torturato e ucciso nella (per ora) totale impunità e dove almeno tre persone al giorno subiscono la sua stessa sorte: qui le nostre autorità hanno rimpatriato coattivamente negli ultimi 12 mesi, ben 926 persone che anche da quelle torture fuggivano. Alla fine, come sempre, ha ragione la poesia "Nulla è cambiato. C’è soltanto più gente". Aste online, truffa per chi vende a prezzi bassi merce che non ha di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2017 Tribunale di Frosinone - Sezione 2 - Sentenza 4 aprile 2017 n. 576. Scatta il reato di truffa per chi metta in vendita su di un sito di aste online un prodotto - in questo caso un I-Phone 5 - ad un prezzo allettante, di cui non ha la disponibilità. Il Tribunale di Frosinone, con la sentenza 4 aprile 2017 n. 576, affrontando l’ennesimo caso di frode informatica, ha cosi condannato l’imputato-banditore a 4mesi di reclusione, e 34 euro di multa, concedendogli tuttavia la sospensione della pena all’esito di un giudizio prognostico positivo. La parte lesa ha affermato di essersi aggiudicato lo smartphone a seguito della partecipazione ad una asta su internet creata da un utente che utilizzava un nickname, "al fine di tenere nascosta la propria identità". Inoltre, che l’utente in più occasioni l’aveva rassicurato "in ordine alla bontà dell’affare e alla "prossima" spedizione della merce acquistata". Dopo l’aggiudicazione il banditore, tramite posta elettronica, gli aveva comunicatogli gli estremi di un conto corrente per il bonifico. E l’aggiudicatario nello stesso giorno aveva versato il prezzo pari a 444 euro. A distanza di 48 ore però gli era arrivata una email con cui gli veniva comunicato che l’utente si era cancellato, mente il telefono non era mai arrivato. A questo punto aveva sporto querela, e tramite il sito internet aveva verificato che l’Iban era associato ad una carta superflash prepagata intestata all’imputato, come provato dalla carta di identità allegata al documento per l’attivazione della carta. Nel delitto di truffa, ricorda la decisione, "la frode è attuata mediante la simulazione di circostanze e di condizioni non vere, artificiosamente create per indurre altri in errore". Più in particolare, nella truffa contrattuale "l’elemento che imprime al fatto dell’inadempienza il carattere di reato è costituito dal dolo iniziale che, influendo sulla volontà negoziale di uno dei due contraenti - determinandolo alla stipulazione del contratto in virtù di artifici e raggiri e, quindi, falsandone il processo volitivo - rivela nel contratto la sua intima natura di finalità ingannatoria" (n. 37859/2010). Inoltre, prosegue la decisione, "anche il silenzio, maliziosamente serbato su alcune circostanze rilevanti sotto il profilo sinallagmatico da parte di colui che abbia il dovere di farle conoscere, integra l’elemento oggettivo del raggiro, idoneo a determinare il soggetto passivo a prestare un consenso che altrimenti avrebbe negato" (n. 39905/2005). E "l’idoneità dell’artificio e del raggiro deve essere valutata in concreto, ossia con riferimento diretto alla particolare situazione in cui è avvenuto il fatto ed alle modalità esecutive dello stesso". Essa "non è perciò esclusa dall’esistenza di preventivi controlli, né dalla scarsa diligenza della persona offesa nell’eseguirli, quando, in concreto, esista un artificio o un raggiro posto in essere dall’agente e si accerti che tra di esso e l’errore in cui la parte offesa è caduta sussista un preciso nesso di causalità" (n. 11441/1999). Il bilancio "pesa" i rischi legati ai reati tributari di Massimiliano Tasini Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2017 La "concentrazione" delle sanzioni tributarie in capo agli enti societari, decisa dall’articolo 7 del decreto legge 269/2003, ha fatto tirare un sospiro di sollievo agli amministratori. Si era così disinnescato il dibattito sulla possibilità di attivare polizze assicurative (anche fantasiose) per neutralizzare il peso degli accertamenti tributari nei loro confronti. Il tema si era poi riproposto con l’articolo 1, comma 143, della legge 244/2007(poi abrogato dal decreto legislativo 158/2015), che aveva reso patrimonialmente responsabili gli amministratori per il "beneficio" ottenuto perpetrando il reato (ovvero l’imposta), laddove fosse contestato un reato penal-tributario (salvo in origine l’occultamento o distruzione di documenti contabili, previsto dall’articolo 10 del decreto legislativo 74/2000): la procura è infatti tenuta a chiedere il sequestro finalizzato alla successiva confisca nei confronti dell’autore del reato (anche nella veste di concorrente). A incrinare questo schema è stata la Cassazione a Sezioni unite che, con la sentenza 10561/2014, ha affermato che "è consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica": tesi peraltro opinabile, dato che gli illeciti penali tributari non figurano tra i reati presupposto che danno luogo alla responsabilità dell’ente. Ne risulta un quadro nel quale le società, soprattutto quelle di capitali, non possono non porsi il problema dell’impatto degli accertamenti tributari. Esse infatti rispondono non solo dell’imposta ma anche di sanzioni e interessi. E di ciò devono dare conto nel bilancio di esercizio, per evitare l’esposizione di patrimoni netti solo apparenti. Ovviamente, l’amministratore dovrà esprimere un giudizio prognostico sull’esito del procedimento o del processo avviato sull’atto, traendo le necessarie conseguenze in termini di effetti sul bilancio di esercizio, a seconda che il debito possa dirsi certo, probabile o solo possibile. Così come dovrà tenere conto che, medio tempore, il patrimonio potrebbe essere colpito dalle misure che l’ordinamento prevede quando ricorrono i presupposti di legge, vale a dire sequestri finalizzati alla confisca (il che presuppone una potenziale responsabilità penale) nonché, con riferimento ai poteri degli agenti della riscossione, pignoramenti presso terzi (rafforzati dal decreto legge 50/2017). La mancanza di un’adeguata valorizzazione di questi aspetti espone inevitabilmente gli amministratori a molteplici e rilevanti responsabilità sul piano penale, quali l’incorrere nel reato di falso in bilancio ovvero, per l’ipotesi del fallimento, di bancarotta; e ciò anche per eventi accaduti dopo la chiusura dell’esercizio ma anteriori all’approvazione del bilancio. Pisa: cella sovraffollata, sconto di pena per un detenuto di Pietro Barghigiani Il Tirreno, 17 luglio 2017 Detenuto sarà libero con 117 giorni di anticipo. Non aveva i 3 mq previsti dalla legge. Una cella sovraffollata vale uno sconto di pena. Un giorno ogni dieci trascorsi in quelle che la legge definisce condizioni "inumane e degradanti". Per il detenuto Samuele Roviezzo, prima nel carcere di Pistoia e poi in quello di Pisa, aver vissuto in meno di tre metri quadrati significa incassare 117 giorni di riduzione su una pena a 15 anni e 4 mesi inflitta per concorso in omicidio. Una sentenza passata in giudicato a fine 2011. Una storia di marginalità con balordi di paese che pensavano di fare un colpo a casa di un anziano solo perché sospettavano che avesse dei risparmi nascosti. Finì con la morte del pensionato di 84 anni colpito a sprangate. Era il febbraio 2008. Roviezzo, 44 anni, di Monsummano, condannato insieme al fratello e a un complice, fu arrestato quasi subito. Il suo conto con la giustizia è ancora aperto. Durante la detenzione, però, ha lamentato spazi ridotti e un sovraffollamento che, in certi periodi con i fisiologici picchi di ingressi, è stato tra le lacune più marcate del carcere Don Bosco. Una sofferenza per i detenuti e, di riflesso, per gli agenti della polizia penitenziaria costretti a gestire le turbolenze dei carcerati. Roviezzo aveva ottenuto soddisfazione dal magistrato di Sorveglianza nel 2016. La sua istanza era stata accolta sulla base di quanto previsto dalla normativa che risarcisce i detenuti con sconti di pena se ancora in carcere o con 8 euro se la pena è stata espiata. L’amministrazione penitenziaria aveva contestato la ricostruzione di Roviezzo presentando reclamo al Tribunale di Sorveglianza che aveva dato ancora ragione al detenuto. A quel punto è stata la Procura generale di Firenze a ricorrere in Cassazione contro lo sconto, ma la suprema corte ha detto no: il 44enne ha diritto a quei giorni di liberazione anticipata riparatoria per "la detenzione sofferta nella casa circondariale di Pistoia dal 23 marzo 2008 al 17 aprile 2008 e in quella di Pisa dal 25 marzo 2009 all’11 febbraio 2012". L’equazione carcere affollato, sconto di pena è ormai un dato acquisito. Tutto nasce dalla sentenza Torreggiani, in cui la Corte Europea per i diritti dell’uomo ha condannato l’Italia e dato ragione a 7 detenuti di Busto Arsizio e Piacenza, costretti a vivere in meno di 3 metri quadri a testa. Un verdetto che è la pietra angolare dei numerosi ricorsi arrivati ai Tribunali di Sorveglianza e confermati in Cassazione. Roviezzo è ancora detenuto. Sul conto finale deve scalare quei 4 mesi sotto forma di indennizzo dello Stato che non gli ha garantito una permanenza dignitosa in carcere. Spoleto (Pg): teatro-carcere, detenuti in scena con la Compagnia #SineNomine di Celeste Bonucci gazzettadifoligno.it, 17 luglio 2017 "Nessuno" è il titolo dello spettacolo teatrale messo in scena dalla Compagnia #SineNomine nelle serate di giovedì 6 e venerdì 7 luglio presso la Casa di Reclusione di Maiano e inserito all’interno della programmazione del Festival dei Due Mondi organizzato dalla città di Spoleto. Circa 1100 gli spettatori che hanno assistito alla rappresentazione nelle due sere, oltre a 400 detenuti cui è stato concesso il permesso di essere presenti allo spettacolo. La compagnia è formata da circa 200 attori, di cui 100 detenuti appartenenti ai circuiti di alta e media sicurezza, iscritti al Liceo Artistico dell’Istituto di Sansi Leonardi Volta. Lo spettacolo è stato diretto dal regista Giorgio Flamini con l’importante collaborazione di Pina Segoni, delle attrici professioniste Sara Ragni e Diletta Masetti, della giovanissima attrice, allieva della scuola di teatro Teodelapio Beatrice Leonardi, dei detenuti attori, drammaturghi, scenografi tra i quali spiccano l’aiuto regia Calogero Rocchetta, Roberto Di Sibbio, Pasquale Marino, Mattia Esposito e Nicola Paciullo, del coro di Spoleto Ad Cantus Ensemble Vocale diretto dal Maestro Francesco Corrias, della soprano Lucia Napoli e dei tecnici della Polizia Penitenziaria. "Nessuno" si presenta come un rifacimento/riadattamento delle varie Odissee della storia della letteratura, da Omero a Joyce a Kavafis con integrazioni di testi scritti da drammaturghi detenuti e liberi. Il desiderio di tornare all’amata patria Itaca si configura come desiderio sfrenato di tornare alla loro città natia, Napoli: "muoro di questa smania di tornare a Napoli. Ogni sera penso ad Itaca cumm’era penso a Itaca cumm’è". Il detenuto ogni notte sogna la sua "patria" e chiede ogni giorno a Dio, di poter uscire dall’Averno, dall’inferno della carcerazione, cercando simbolicamente di riannodare il filo con il fuori che il reato ha spezzato. Nell’imbuto della cella si amplifica il dolore della lontananza madre-figlio: "quando tornerò ad Itaca mia madre mi riconoscerà?". Indescrivibile la scena in cui ad un Ulisse detenuto viene concesso il permesso di rivedere per pochi attimi l’amata madre, interpretata dall’attrice Loretta Bonamente. Le parole, lo sguardo, le espressioni della madre mettono in luce il suo immenso dolore per il figlio. Così attraverso il riadattamento di importanti e noti passi della letteratura greca, italiana ed europea si delinea lo stato d’animo del carcerato, la sofferenza, la solitudine, la lontananza dalla famiglia, dalla madre, dalla moglie e dai figli. La frase finale dello spettacolo "morire non è nulla, non vivere è spaventoso" è denotativa di questa condizione e anticipa il prossimo lavoro della compagnia incentrato sulle Vittime. Come evidenzia la Prof.ssa Galassi, dirigente scolastico dell’Istituto di Istruzione Superiore Sansi Leonardi Volta "ciascuno degli Ulissi portato in scena è fatto proprio dagli attori protagonisti, e parla di un tratto di esperienza di questi uomini-senza-più-nome, lasciandosi immergere in visioni sceniche di norma espressionisticamente violente, come violenta è l’esperienza, di vita e psicologica, dei protagonisti in scena, che non raccontano che se stessi". Ius soli, Gentiloni: "Legge giusta ma non sarà approvata entro l’estate" di Paolo Decrestina Corriere della Sera, 17 luglio 2017 Il presidente del Consiglio: "Non ci sono le condizioni". Sulla stessa linea il Pd: "Al fianco del governo, resta un obiettivo". Soddisfazione di Alfano e critiche da sinistra. Perego (Cei): "Vittoria dei prepotenti". Il governo freno sullo Ius Soli. La legge è "giusta", ma "non ci sono le condizioni" per un’approvazione entro l’estate. E la conferma arriva direttamente dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. "Tenendo conto delle scadenze non rinviabili in calendario al Senato e delle difficoltà emerse in alcuni settori della maggioranza", sostiene il premier, che aggiunge: "non ritengo ci siano le condizioni per approvare il ddl sulla cittadinanza ai minori stranieri nati in Italia prima della pausa estiva. Si tratta comunque di una legge giusta. L’impegno mio personale e del governo per approvarla in autunno rimane". Martina: "Al fianco di Gentiloni, resta un obiettivo" - Sulla stessa linea anche il Pd, che con il vicesegretario Maurizio Martina sottolinea: "Sullo ius soli il Pd seguirà l’indicazione proposta dalle valutazioni del presidente Gentiloni. Come sempre detto, siamo al suo fianco. La legge per la nuova cittadinanza rimane per noi un obiettivo importante", spiega il ministro per le Politiche Agricole. Alfano: "Bene Gentiloni, diremo sì a testo" - Apprezzamento anche da Angelino Alfano. Il leader di Ap sottolinea come Gentiloni abbia "gestito la vicenda dello ius soli con realismo, buonsenso e rispetto per chi sostiene il suo Governo. Apprezziamo molto. Al tempo stesso, ribadiamo che su questo provvedimento abbiamo già detto "Sì" alla Camera e lo stesso faremo al Senato dove una discussione più serena permetterà di migliorare il testo, senza che il dibattito si mescoli alla faticosa gestione dell’emergenza di questi giorni". Posizione incalzata dal senatore e sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, promotore di Forza Europa, che su Twitter scrive: "A settembre confido che Ap mantenga l’impegno sulla cittadinanza. Oppure è favore a nazionalisti avversari". Fiducia sull’approvazione anche da Luigi Zanda: "La dichiarazione di Alfano e il voto favorevole del suo partito alla Camera sulla legge sullo Ius soli, ci fanno ritenere che se oggi in Senato mancano i numeri per approvare il provvedimento, a settembre ci saranno. Come abbiamo sempre fatto, soprattutto a causa dei ristrettissimi numeri della maggioranza a Palazzo Madama, in queste settimane continueremo a lavorare per l’approvazione di una legge così attesa e importante e che il Pd continuerà a sostenere con forza", sottolinea il capogruppo del Pd al Senato. Salvini: "Vittoria della Lega" - Matteo Salvini parla invece di "prima vittoria, della Lega (che più di tutti si è opposta in Parlamento) ma soprattutto vostra, che in rete vi siete mobilitati a migliaia! Se ci riproveranno, ci ritroveranno pronti. Grazie e avanti così: stop invasione", scrive su Facebook il segretario della Lega. Parere opposto invece dalla Cei: il rinvio dello Ius Soli "è una vittoria dei prepotenti sui piccoli che non hanno voce, una vittoria dell’indecisione, una vittoria dell’incapacità di risolvere i problemi" commenta monsignor Giancarlo Perego, direttore di Migrantes e arcivescovo di Ferrara-Comacchio. Il diritto in questione "non è un premio ma uno strumento fondamentale di integrazione", sottolinea il vescovo. Le critiche di Mdp e Si - Critiche invece da sinistra alla posizione espressa da Gentiloni: "Per noi lo ius soli è e resta una priorità. Ogni arretramento o rinvio è un errore. Soprattutto in questo momento", spiega Roberto Speranza, coordinatore di Mdp, che aggiunge: "Nessun cedimento culturale alla propaganda della destra", aggiunge. Gli fa eco Nicola Fratoianni : "E così affonda la propaganda e riemerge la realtà di questo Pd e di questo governo", spiega il segretario nazionale di Sinistra Italiana commentando l’annuncio del premier. "Per lo Ius Soli - prosegue il segretario di Si - non ci sono le condizioni : ce lo dice nientemeno che il Presidente del Consiglio. Ancora una volta a vincere sono le ragioni di una cultura ipocrita e regressiva." "Noi - conclude Fratoianni - continueremo a batterci perché venga approvata al più presto una legge di civiltà". Gasparri: "Vittoria di Forza Italia" - Si tratta di una "vittoria di Forza Italia" per il senatore azzurro Maurizio Gasparri, che parla di "resa di Gentiloni sullo ius soli". "Questa legge è sbagliata e del tutto folle in questo momento storico. Non sarà approvata mai, neanche in autunno. I clandestini vanno cacciati e non trasformati in cittadini", conclude. E il capogruppo azzurro a palazzo Madama, Paolo Romani, esprime parole di apprezzamento per la decisione del governo: "È una scelta capace di rasserenare il clima politico e i lavori in Aula al Senato - spiega - già congestionato dalle tante scadenze; ma ci auguriamo soprattutto che consentirà alle forze politiche un vero confronto sulle reali priorità ed emergenze del Paese. La stagione estiva vedrà un intensificarsi delle partenze, degli arrivi sul nostro territorio e purtroppo anche degli incidenti in mare: non possiamo più reggere il flusso inarrestabile di migranti economici". Per Renato Brunetta invece si tratta di un "bagno di realismo per Gentiloni e di una sconfitta politica per Renzi e Pd". Alemanno: "La protesta popolare ha vinto" - Nell’ambito del centrodestra, ha commentato la presa di posizione del governo anche Gianni Alemanno: "Nel giro di pochi giorni il governo é passato sullo ius soli dalla fiducia al rinvio. Nonostante le scuse ipocrite è evidente che questo è un risultato della rivolta popolare che è partita dalla piazze della destra per arrivare ai sindaci e all’ostruzionismo parlamentare", commenta in una nota il segretario del Movimento Nazionale. Migranti. Dall’Ue via libera al codice per le Ong. Il Viminale: linea dura con chi non firma di Dino Martirano Corriere della Sera, 17 luglio 2017 Approvate le regole per gli interventi di salvataggio dei migranti. La rivolta dei sindaci del Messinese. L’Unione Europea dà il via libera al "Codice di condotta per le Ong impegnate nelle operazioni salvataggio dei migranti in mare" che ora l’Italia è pronta a utilizzare per regolare il traffico delle navi umanitarie nei nostri porti. Secondo il diritto internazionale, gli scali italiani non possono certo essere chiusi ma è chiaro che adesso, con il codice condiviso in sede Ue e sottoscritto dalle organizzazioni umanitarie, le autorità portuali - su indicazione del ministero dell’Interno - potrebbero rivelarsi molto ma molto pignole con le Ong che dovessero rifiutare di firmare. Il testo, corretto, ha eliminato i vocaboli "obbligo" e "divieto", posizionandosi su un più tenue "si impegna". La nuova formulazione soddisfa comunque il ministro dell’Interno, Marco Minniti, che oggi farà il punto al Viminale per stabilire modalità e tempi del tavolo aperto con le Ong (già in settimana) attraverso la Guardia Costiera. A Bruxelles il via libera al "Codice" c’è da giovedì 13ma è stato annunciato dal Viminale ieri al termine di un fine settimana molto articolato sul fronte immigrazione. Infatti con i numeri di nuovo massicci degli sbarchi - e la rivolta dei cittadini e del sindaco di Castell’Umberto nel Messinese contro l’arrivo dei migranti - il Times di Londra ha dato ampio spazio a un meccanismo, già utilizzato nel 2011 dal governo Berlusconi per ridistribuire i migranti in tutti i Paesi Ue, definendolo "l’opzione nucleare dell’Italia". L’idea - spinta da tempo da Emma Bonino, dalla comunità di Sant’Egidio e dal senatore Luigi Manconi - si aggancia alla direttiva Ue 55/2001 che prevede la concessione ai migranti di documenti provvisori a scopo umanitario validi anche per varcare le frontiere Ue. Spiega Emma Bonino: "La minaccia di bloccare i porti era inattuabile, come quella di espellere i clandestini. I visti temporanei sono un buon modo per affrontare la questione perché non fanno pressione sui profughi ma sugli Stati membri". Alla vigilia del vertice di Tallinn, il ministro Minniti ha ricevuto al Senato da Luigi Manconi un documento con i dettagli del "piano visti" ma al Viminale la proposta non ha fatto breccia: perché per rilasciare quei visti umanitari serve la maggioranza qualificata del Consiglio Ue dei capi di Stato e di governo. Manconi ricorda che nel 2011 il ministro dell’Interno Roberto Maroni, davanti al "niet" dell’Ue, forzò la mano: "Applicando l’articolo 20 del Testo unico sull’Immigrazione concesse migliaia di permessi di soggiorno temporanei e marocchini e tunisini che in parte riuscirono a passare in Francia". Maroni conferma: "Il sistema funzionò e potrebbe funzionare ancora ma prima bisogna dichiarare lo stato di emergenza". È certo - dice il viceministro degli Esteri Mario Giro citato dal Times, che nel governo è il più possibilista - che l’Italia avrà "un duro negoziato" con i partner Ue. L’emergenza migranti è una fake news di Cecilia Attanasio Ghezzi pagina99.it, 17 luglio 2017 Oltre 65 milioni di persone sono costrette a lasciare le loro case. L’Europa ne ospita 3,5 milioni, il 5%. Gli sbarchi nel 2017 sono più che dimezzati. Nei primi sei mesi di quest’anno, in Italia sono sbarcate più di 83 mila persone. Vengono soprattutto da Nigeria (15%), Bangladesh (12%) e Guinea (10%). Si tratta di una cifra che equivale a poco più dello 0,1 per cento della popolazione residente e che, secondo il Viminale, è del 20 per cento superiore rispetto a quella registrata nello stesso periodo del 2016. La sensazione, per media e opinione pubblica, è che si tratti della classica goccia che fa traboccare il vaso. Visto che l’Europa non ci viene in soccorso, il premier (ex ministro degli Esteri) Paolo Gentiloni minaccia di chiudere i porti alle navi che non battono bandiera italiana. "Siamo sotto un’enorme pressione", ha rincarato il ministro dell’Interno Marco Minniti dichiarando alla Bbc che "se i porti che accolgono i rifugiati sono solo quelli italiani c’è qualcosa che non funziona". Come se la legge del mare non imponesse ai soccorritori di attraccare nel porto più vicino o se l’Italia non fosse attualmente il paese giuridicamente responsabile del coordinamento dei soccorsi. Certo, nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali esiste una "deroga in caso di stato di urgenza" ma è lecito dubitare che l’afflusso di alcune migliaia di migranti in un territorio che conta una popolazione di circa 60 milioni di persone sia di per sé qualificabile come un "pericolo pubblico che minacci la vita di una nazione". Insomma, come sottolinea l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) in un comunicato, è "inaccettabile la confusione politica mediatica che attua una distorsione tra il luogo nel quale si attua il primo soccorso e le successive responsabilità dell’accoglienza dei rifugiati una volta che i soccorsi si siano conclusi". Detto ciò non bisogna dimenticare che gli Stati dell’Unione europea si erano impegnati nel 2015 a ricollocare 160 mila richiedenti asilo per alleviare la pressione dei migranti su Italia e Grecia. La ripartizione sarebbe dovuta avvenire sulla base di criteri riferiti alla capacità di accoglienza e assorbimento di ciascuno stato membro, ma questi ultimi hanno disatteso le promesse e i risultati non sono stati quelli sperati. A prescindere da Irlanda e Gran Bretagna che sin dall’inizio erano fuori dal piano, Romania, Repubblica ceca, Slovacchia e Ungheria hanno votato contro, la Polonia ha di fatto sospeso l’applicazione del meccanismo, e la Germania ha reso disponibili posti equivalenti a circa l’1 per cento di quelli ad essa spettanti. Morale della favola? Al 15 giugno scorso, la relocation era avvenuta per appena 21.313 rifugiati. Nel frattempo, c’è da dire, la Germania ne ha ospitati più di 1,2 milioni, la maggior parte dei quali sono arrivati via terra da Siria, Iraq e Afghanistan. Tra i cattivi maestri del terrorismo islamico di Giuliano Battiston pagina99.it, 17 luglio 2017 Da al-Maqdisi che dal Kuwait accusa gli infedeli dell’Arabia Saudita, ad Abdallah Azzam, l’inventore dei foreign fighters. Viaggio tra gli intellettuali del jihad. È il 1950. Siamo al Cairo. Nelle vetrine di alcune librerie specializzate compare un denso saggio dal titolo evocativo: Ciò che il mondo ha perso con il declino dei musulmani. L’autore non è egiziano, ma scrive in arabo. Si chiama Abul Hasan Ali Hasani Nadwi. Nato nel 1914 nell’allora Raj britannico, è uno studioso legato al movimento per l’indipendenza indiana. Il libro finisce nelle mani di un uomo mingherlino di mezza età, dalla fronte alta e i baffi a spazzola: Sayyid Qutb. Scrittore e pedagogista egiziano, già funzionario del ministero dell’Istruzione, nel 1950 è appena rientrato al Cairo da un periodo di studio negli Stati Uniti, dove si convince che gli americani siano "un branco di gente scervellata, traviata, che conosce soltanto la lussuria e il denaro". La lettura di Ciò che il mondo ha perso con il declino dei musulmani segna profondamente lo scrittore e polemista Qutb, contribuendo a farne il maitre-à-penser del radicalismo degli anni Settanta, l’uomo che trasforma l’islamismo politico in un’ideologia radicale. Un autore letto e commentato ancora oggi. Perfino dagli studiosi riconducibili allo Stato islamico, che nelle sue teorie vedono in nuce una delle matrici ideologiche del gruppo: l’avanguardismo rivoluzionario. Che presto diventa armato. Attacco ai regimi arabi - Per Qutb, che al Cairo aderisce al movimento dei Fratelli musulmani (fondato nel 1928 dal coetaneo Hassan al-Banna), la lettura del libro di Nadwi è cruciale. È lì che viene introdotto per la prima volta al concetto di jahiliyya, il periodo di ignoranza pre-islamica, precedente al messaggio del profeta Maometto. Il concetto viene da lontano. All’origine non c’è il clerico indiano Nadwi, ma un suo sodale, l’intellettuale pachistano Abul Al al-Mawdudi, per il quale "l’Islam è la vera antitesi della democrazia secolare occidentale" e "il mondo dell’Islam deve recuperare le sue radici spirituali". Qutb adotta quel concetto e lo usa come un’affilata arma dialettica. Fa ciò che nessuno prima di lui aveva osato fare così apertamente: attacca i regimi arabi. Corrotti, tirannici e apostati, promotori di "false leggi e false dottrine" perché incapaci di riconoscere e dare vita all’unica sovranità, quella divina (hakimiyya). La ribellione è giusta e necessaria, dice Qutb, che circoscrive la vera identità islamica e inaugura la tendenza takfiri, l’inclinazione alla scomunica, centrale, poi, nel pensiero radicale. Come per il pachistano al-Mawdudi, anche per lui "l’umanità è sull’orlo del precipizio". Serve una rinascita. Una rinascita islamica. Per avviarla - sostiene prima di finire impiccato nel 1966 - "dev’esserci un’avanguardia che compie il primo passo con la necessaria determinazione, per poi proseguire lungo la via". Ritorno alle origini? - Si tratta di una via che sarebbe diventata sempre più violenta, radicale e militarizzata. Parte dal subcontinente indiano di Nadwi e al-Mawdudi, passa per l’Egitto di Sayyd Qutb e conduce alla penisola araba del più importante teorico vivente del jihad, Abu Muhammad al-Maqdisi. "Sono le sceicco che gli ha insegnato il concetto di tawhid", l’unicità di Dio, ha affermato una volta al-Maqdisi, rivendicando di aver dato la rotta ai clerici dello Stato islamico. Questi lo avrebbero poi disconosciuto, quando al-Maqdisi contesta la legittimità teologica del progetto califfale di Abu Bakr al-Baghdadi. Ma le idee di questo studioso nato nel 1959 in Cisgiordania hanno comunque modellato la costellazione ideologica dell’Is. Sono idee che si formano in Kuwait, dove si trasferisce con la famiglia, poi all’università di Mosul in Iraq, ma soprattutto in Arabia Saudita, dove arriva negli anni Ottanta. Vi trascorre un anno di studio: "Il più importante periodo della mia vita intellettuale", l’avrebbe descritto in seguito. Legge con interesse i testi dell’Islam politico, in particolare di Sayyid Qutb, di cui ammira il concetto di takfir, la scomunica. Ma si immerge soprattutto nel salafismo, l’orientamento teologico dell’Islam sunnita che ambisce a recuperare la fede non corrotta delle prime tre generazioni di musulmani, gli antenati devoti, esempio di purezza e rigore. Nella culla del jihad - Nei circoli intellettuali religiosi dell’Arabia Saudita, tra i docenti universitari, al-Maqdisi diventa "un vero salafita". Vi trova una particolare temperie culturale, figlia di un incrocio inedito: molti docenti sono membri della Fratellanza musulmana, sostenitori di un Islam fortemente politicizzato. Perseguitati, espulsi dall’Egitto o dalla Siria, trovano rifugio in Arabia Saudita. Si integrano nelle istituzioni educative e finiscono per ibridare il rigorismo letterale del salafismo con l’attivismo politico della Fratellanza, combinando correnti rivoluzionarie e correnti fondamentaliste. Gli esiti della reciproca influenza tra salafismo e Islam politico sono diversi. In generale, l’Islam politico diventa più conservatore. Il salafismo si politicizza. Ne emerge un salafismo haraki, un salafismo attivista-rivoluzionario, alla cui base c’è la tendenza a circoscrivere in modo molto parziale chi sia un vero musulmano, scomunicando tutti gli altri, considerati infedeli o apostati: il takfirismo, la seconda matrice ideologica a cui attinge lo Stato islamico. Dall’Afghanistan all’Iraq - Dopo essersi immerso in questa temperie, al-Maqdisi torna in Kuwait, dove redige il suo libro più celebre, Millah Ibrahim, in cui denuncia come apostati un gran numero di musulmani che praticano forme di fede bollate come non-islamiche. L’Arabia Saudita è retta da infedeli, accusa. Il jihad, unico strumento per "opporsi a miscredenza e politeismo", è combattimento ma anche dawa, diffusione del vero Islam. Va a Peshawar, in Pakistan, per indottrinare i mujahedin che combattono contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Entra in stretto contatto con l’attuale numero uno di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, e con tutti i più importanti strateghi del jihad. Tornato in Kuwait, continua a sfornare libri e pamphlet infuocati. Con l’invasione dell’Iraq, insieme agli altri palestinesi viene espulso dal Paese. Torna in Giordania, dove dà vita a una cellula jihadista di cui fa parte anche Abu Musab al-Zarqawi, il futuro leader di al-Qaeda in Iraq, suo discepolo per lungo tempo. Nel marzo del 1994 finiscono in carcere. Condannati a 15 anni, vengono liberati per un’amnistia nel 1999. Ma le loro strade ormai sono divise. Abu Muhammad al-Maqdisi si dedica a sermoni, arringhe e lunghe disquisizioni teologiche, parte delle quali vengono raccolte nel 2004 nel libro Riflessioni sul frutto del jihad, in cui distingue il combattimento per danneggiare il nemico, che garantisce vittorie effimere, da quello strategico per creare e consolidare un vero Stato islamico. L’internazionale jihadista - Impaziente, al-Zarqawi corre invece in Pakistan, il centro della resistenza anti-sovietica. Quando arriva a Peshawar, è appena stato assassinato Abdallah Azzam, l’uomo che ha avuto la maggiore influenza nel coinvolgimento di Osama bin Laden nella causa afghana. L’inventore dell’internazionalismo jihadista. Nato a Jenin nel 1941, dopo la conquista israeliana della Cisgiordania nel 1967 Azzam si rifugia in Giordania, poi al Cairo, dove ottiene un dottorato in giurisprudenza islamica, infine in Arabia Saudita, a Jedda. Lì comincia a interpretare il più importante concetto teologico salafita, il tawhid, in chiave militarista, legandolo a quello di jihad. Per lui, il jihad è l’unico strumento con il quale istituire il monoteismo come sistema politico. "Una religione che non conduce il jihad", scrive, "non può essere istituita in nessun luogo né consolidarsi". Impaziente di contribuire alla resistenza afghana, trova un posto da insegnante all’università islamica di Islamabad, in Pakistan. Si trasferisce nel novembre 1981. Comincia la sua opera di reclutamento per la "carovana del jihad". Inventa il mito dei mujahedin afghani, guerrieri santi che combattono contro la modernità senz’anima in nome dell’Islam, un Islam non corrotto da materialismo e secolarismo. Viaggia molto per raccogliere fondi. A Jedda conosce Osama bin Laden, che ne rimane affascinato. Nel quartiere universitario di Peshawar inaugurano l’Ufficio servizi, una sorta di anagrafe per i giovani arabi che aspirano a combattere. Lo sceicco saudita contribuisce con i fondi. Abdallah Azzam con le idee. In particolare, quelle esposte ne La difesa delle terre islamiche, un trattato in cui sostiene il primato del jihad difensivo, il dovere individuale di espellere gli infedeli dalle terre musulmane. Un dovere obbligatorio per chiunque, anche per chi risiede fuori dalle terre occupate. E che va adempiuto perfino senza l’autorizzazione delle autorità islamiche. Grazie al suo appello, dai Paesi arabo-musulmani partono molti giovani combattenti. Sono i primi foreign fighters. La prima ondata dell’internazionalismo jihadista. E la terza matrice storico-ideologica dello Stato islamico, insieme all’avanguardismo rivoluzionario post-qutbiano e al takfirismo politico, frutto dell’ibridazione tra le idee di Sayyid Qutb e l’esclusivismo dottrinale salafita. Droghe. Low cost e dosi gratis, ritorna l’incubo eroina di Nicla Panciera La Stampa, 17 luglio 2017 L’Osservatorio europeo delle droghe: 205mila italiani l’hanno usata nel 2015. Ed è allarme minorenni: ai giovanissimi viene venduta a 5 euro al grammo. Sembrava relegato al passato degli Anni 70 e 80, invece l’incubo eroina è tornato. Ad un prezzo low cost di 5 euro al grammo. Ed è già un flagello: sono 205 mila quelli che l’hanno usata in Italia nel 2015, secondo l’osservatorio europeo delle droghe. Mentre per l’Ipsad (Italian population survey on alcohol and other drugs) gli eroinomani sono in realtà 300 mila. Un numero prudenziale da incrociare, ad esempio, con i dati del servizio sanitario lombardo, che seguirebbe 54 mila persone per abuso. La maggior parte consumatori della "brown sugar" non più iniettata in vena, ma fumata o sniffata. E con la droga di strada, tornano a fiorire anche le comunità, dimezzate rispetto agli Anni 80 e di nuovo in ascesa negli ultimi tre-quattro anni. Il mix - Dopo la demonizzazione dei tossici e la paura dell’Aids, ecco dunque tornare prepotente la "roba", perché chi è nato dopo il periodo buio degli Anni 80 non sa niente dei reietti che giravano in cerca della dose e di tutti i pericoli per la salute. Oggi l’eroina non è più presa da sola ma in mix che include cocaina, alcol o bombe chimiche varie, non sempre considerate illegali. È il cosiddetto "poliabuso" che colpisce a tutte le età: dagli adolescenti e agli over 50 anni. Giovani senza lavoro e professionisti. A ciascuno la sua droga: per i disperati l’eroina a 5 euro; per i professionisti in carriera, droga o anfetamine varie. Il fenomeno è ulteriormente per due motivi. Il primo: si abbassa sempre di più il prezzo della merce. Il secondo è l’età della prima dose: a 13 anni c’è già chi spende dai 5 ai 10 euro per la droga. E i pusher ora preferiscono la quantità, fidelizzando clienti che potrebbero drogarsi anche per 20-30 anni, generando in questo modo entrate costanti. Il principio attivo presente nella dose è sceso al 10/15 per cento. Il resto, come si dice in slang, è soltanto "taglio" di scarti della lavorazione che danno comunque dipendenza dopo appena un mese. Per questo il primo assaggio è spesso gratis. Con il ritorno dell’eroina è cambiata anche la geografia dello spaccio. Spedizioni quotidiane dall’Albania, Turchia, Afghanistan e Sud America direttamente nelle piazze di Tor Bella Monaca e Pigneto, Colle Oppio a Roma o Scampia a Napoli. Gli "outlet" - A Milano, facilmente raggiungibili in treno da tutto il Nord Italia, sono spuntati "outlet" alla stazione Rogoredo e al Parco delle Groane, trasformando la metropoli nella capitale italiana del fenomeno. Tanto da far studiare alla Regione Lombardia misure draconiane come il test del capello nelle scuole proposto come ipotesi una settimana fa dall’assessore alla Sanità Gallera facendo subito esplodere la polemica die controlli. I blitz - Periodicamente vengono fatti blitz e sgomberi in questi "outlet", ma tossici e spacciatori ritornano nonostante la spauracchio del carcere. Dietro le sbarre, il 34 per cento dei detenuti non a caso è legato alla droga, ma è tra le comunità di recupero che si avverte il ritorno del consumo di massa. Chi non è stato al passo con i tempi ha chiuso: da 29 mila utenti del 1994, si è passati agli attuali 12 mila raccolti in 600 comunità sparse per la Penisola. Per restare a galla è cambiato l’approccio, sono entrati educatori e psicologi portando nuove cure per "millennials" fragili, soli e senza lavoro. Nonostante la nuova professionalità (all’inizio erano solo volontari) si disintossicano in pochi: solo un terzo secondo le statistiche. Per gli altri cascarci di nuovo è facilissimo. In Lombardia sono circa un centinaio le comunità con 4.500 posti letto. Per ogni paziente l’Asl rimborsa fino a 61 euro al giorno. Trent’anni dopo la nascita dei primi centri, sono ancora questi luoghi ad essere in prima linea per cercare di ridurre il danno. "La droga è diventata normale nella nostra società e l’eroina è tornata come tranquillante. Allora era il simbolo della disperazione oggi è lo sballo a poco prezzo", dice don Antonio Mazzi, fondatore dei centri Exodus, da quasi 40 anni in trincea contro gli stupefacenti: "La via comunitaria è la più sbagliata: una volta che l’abbiamo imbottito di tranquillanti il nostro paziente esce e ci ricasca". Il recupero - Così si punta sullo sport ed esperienze di volontariato, affiancando tutor in grado di aiutarli anche fuori o mentre continuano a vivere in famiglia. Gli abbandoni e le ricadute continuano ad essere un limite e allora meglio puntare sulla prevenzione durante il week-end e la notte. "Dobbiamo risolvere il disagio profondo di chi incappa nella droga senza farli diventare malati ad ogni costo - conclude Don Mazzi - il resto è secondario". Turchia. Le parole inaccettabili sulla pena di morte di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 17 luglio 2017 Ascoltare e riascoltare le frasi pronunciate nelle ultime ore dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan provoca due reazioni, entrambe indignate: una imposta dall’orrore, l’altra dall’estremo imbarazzo. Il sultano, prigioniero di se stesso e incapace di dare un minimo di dignità al suo ruolo, dice che bisogna tagliare la testa ai traditori. Un linguaggio che appartiene ai tagliagole dell’Isis, e non al leader di un Paese che continua a definirsi democrazia. Il pesante richiamo alla pena di morte, e alla sua immediata applicazione, non è più la conseguenza della rigidità di un regime autocratico, ma un attacco frontale a chi crede nelle regole del vivere civile. Se si accettano, senza reagire, dichiarazioni simili, vuol dire che si è perduto il senso del limite. L’estremo imbarazzo è quello delle cancellerie occidentali, a cominciare da quell’Unione Europea che fino a pochi anni fa poteva essere l’approdo di un Paese importante, delicato e strategico come la Turchia. Evidente che Ankara ha imposto alla Ue un pesante ricatto sui profughi in fuga, ospitandone alcuni milioni e minacciando di lasciarli invadere il nostro continente. La cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha in casa un’importante comunità turca, ha accettato di non lasciarsi turbare dalle decisioni di Erdogan. La linea conciliante è stata seguita da altri Paesi, ma adesso il troppo è troppo. Si può chiudere un occhio sull’arroganza, ma quando si arriva, per eccitare la folla dei sostenitori, a invocare una reazione da tagliagole, a inneggiare alla pena di morte, ad arrestare centinaia di migliaia di oppositori, a esporre alla logica più forcaiola magistrati, poliziotti, diplomatici e giornalisti, accusando questi ultimi di essere terroristi, beh, questo è assolutamente inaccettabile. È vero che l’ingresso di Ankara nella Ue non è più in agenda, ma non si possono accettare ricatti liberticidi. Un grande Paese, come la Turchia, ridotto così da un leader che pare prigioniero della follia, fa davvero paura. Turchia. Nelle carceri di Ankara, tra scrittori e attivisti di Safak Pavey* La Repubblica, 17 luglio 2017 Da sei anni sono membro del Parlamento turco, presso il quale rappresento il Partito repubblicano - attualmente all’opposizione: un ruolo che mi ha costretta a specializzarmi nel sistema carcerario turco. Questo perché il governo del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) del presidente Recep Tayyip Erdogan sta perseguitando con sempre maggiore frequenza politici, attivisti, professionisti e qualsiasi cittadino si opponga alla sua guida. I cittadini arrestati dopo il fallito colpo di Stato del luglio scorso sono migliaia. Ho iniziato a recarmi nelle carceri nel 2011, visitando cinque detenuti. Oggi ne visito più di cinquanta, e tra questi figurano alcuni giornalisti dei quotidiani Cumhuriyet e Birgun, che manifestano un atteggiamento critico nei confronti del governo di Erdogan. Uno di essi è Musa Kart, vignettista di Cumhuriyet, detenuto insieme ad altri undici colleghi dallo scorso ottobre con l’accusa di aver "collaborato con un’organizzazione terroristica armata di cui non facevano parte". Il pubblico ministero ha chiesto per ciascuno di loro pene sino a ventinove anni. I capi di accusa nei confronti di scrittori e giornalisti sono talvolta farseschi. Tra le prove incriminanti nei confronti di Atilla Tas, un editorialista attualmente in carcere, figura un tweet nel quale aveva scritto: "Edison non avrebbe inventato la lampadina se gli fosse servita per vedere cosa accade ai giorni nostri". La lampadina è il simbolo dell’Akp. Le prigioni turche pullulano di scrittori, giornalisti e professionisti, per far posto ai quali trentottomila detenuti accusati di frode, stupro, rapina sono stati rilasciati anzitempo. Nel 2015 all’interno delle carceri turche si sono tolte la vita quarantatré persone. Amnesty International e Human Rights Watch hanno riferito di torture e maltrattamenti. Malgrado detenzioni arbitrarie, in alcuni casi sino a dieci mesi, la messa in stato di accusa non arriva mai. Pur avendo diritto a dieci libri a settimana, i detenuti ne ricevono uno al mese. Ho sentito dire che uno di loro si è sentito rispondere: "Il libro non è disponibile, ma se ti interessa il suo autore è detenuto qui dentro". *L’autrice è parlamentare del Partito popolare repubblicano (Traduzione di Marzia Porta) Turchia. Amnesty: "arresti farsa, non siamo nemici dello Stato" di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 17 luglio 2017 Questa mattina all’alba, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha inaugurato davanti al palazzo presidenziale un monumento ai martiri del 15 luglio, morti per opporsi al tentato colpo di Stato dello scorso anno. Quattro colonne bianche inclinate con in cima una mezza luna sormontata da una stella e retta da un gruppo di persone. Ancora una volta il presidente ha assicurato che tutti "i traditori" saranno assicurati alla giustizia "e moriranno giorno dopo giorno dietro ai muri di una prigione". Ma tutti gli arrestati sono veramente colpevoli? Nei mesi dopo il tentato colpo di Stato in prigione sono finite oltre 50mila persone. Il governo spiega che il tentativo è di ripulire la società dai guleniti, i membri di Feto, l’organizzazione che fa capo all’Imam Fethullah Gulen, che ne hanno infiltrato tutti gli strati pubblici dalla magistratura alle università. Dietro le sbarre, però, ci sono, tra gli altri, un giudice dell’Onu, un giornalista anti-Gulen, e i due leader di Amnesty International Turchia: il presidente Taner Kilic, arrestato lo scorso 7 giugno, e la direttrice, Idil Eser, è finita in manette lo scorso 5 luglio. L’accusa è di complicità con Feto. "Quando finirà tutto questo? - ha detto al Corriere John Dalhuisen, direttore generale di Amnesty International per l’Europa e l’Asia Centrale - La società civile è in shock, si sente sotto attacco. E la comunità internazionale sembra avere troppi interessi in gioco per dare una risposta forte". Kilic e Eser sono accusati di aver scaricato la famigerata applicazione per i messaggi criptati Bylock che, secondo il governo, era usata solo dai gulenisti. L’udienza per il rinvio a giudizio è prevista la prossima settimana. "Le accuse sono assurde - dice ancora Dalhuisen - siamo un’organizzazione internazionale di grande fama, abbiamo regole strette su tutto. È normale che i nostri dirigenti pensino piattaforme per comunicare in sicurezza e prevenire i fenomeni di hackeraggio. Capisco che in questa situazione ci si possa insospettire ma è un’attività legittima e a questo punto la magistratura dovrebbe avere le idee chiare. Se la prossima settimana i nostri dirigenti saranno rinviati a giudizio allora sarà chiaro che non c’è rispetto della verità". Sulla questione interviene anche Erol Onderoglu, rappresentante di Reporters sans frontieres dal 1996 e sotto processo anche lui con l’accusa di complicità con il terrorismo curdo. Se condannato rischia 14 anni di carcere. "Quella di Amnesty - dice - è un’intimidazione. Anche io sono stato messo in carcere lo scorso anno, l’obiettivo sono le organizzazioni umanitarie internazionali. Se non ci sarà una riconciliazione con i partiti d’opposizione non avremo mai un ambiente di lavoro sicuro per i movimenti dei diritti umani. Peccato perché erano state fatte tante buone riforme e ora sono state buttate al macero". Iran. Cittadino statunitense condannato a 10 anni di carcere per spionaggio tpi.it, 17 luglio 2017 Un tribunale in Iran ha condannato una persona con cittadinanza americana a dieci anni di carcere con l’accusa di spionaggio. riferirlo è stata l’agenzia di stampa Reuters che cita fonti giudiziarie locali. Il portavoce del tribunale non ha fornito dettagli circa l’identità della persona condannata (né ha rivelato quando sia stata emessa la sentenza), ma ha dichiarato che è in possesso di doppia nazionalità, degli Stati Uniti e della Cina. "Questa persona che stava raccogliendo informazioni ed era direttamente guidata dagli Stati Uniti d’America, è stata condannata a 10 anni di carcere, ma non sarà concesso appello alla sentenza", ha dichiarato il portavoce governativo Gholamhossein Mohseni Ejei alla televisione statale iraniana. Non è stato possibile confermare se si tratti di Nizar Zakka, un cittadino libanese con residenza permanente negli Stati Uniti che nel settembre 2016 fu condannato a 10 anni di carcere e a una pena pecuniaria di 4,2 milioni di dollari dopo essere stato dichiarato colpevole di attività sovversive. Diversi altri cittadini iraniani in possesso della doppia cittadinanza, in particolare di Stati Uniti, Regno Unito, Austria, Canada e Francia sono detenuti in Iran con accuse che vanno dallo spionaggio alla collaborazione con governi ostili. Secondo l’agenzia di stampa Afp, il governo degli Stati Uniti ha chiesto a Teheran di liberare immediatamente tutti i cittadini statunitensi detenuti nelle carceri iraniane. Filippine: uccisi tre evasi, presunti legami con Abu Sayyaf Corriere Quotidiano, 17 luglio 2017 I tre evasi uccisi facevano parte di un gruppo di 14 detenuti, tutti fuggiti dalla prigione dove erano incarcerate 32 persone sospettate di traffico di stupefacenti, "Alcuni di loro sono membri di Abou Sayyaf", ha detto Mario Buyuccan, responsabile della polizia locale. Uccisi dalla polizia filippina tre persone, più un ferito. I tre uomini erano dei detenuti evasi dal carcere dell'isola di Jolo. L'isola, che si trova nel sud delle Filippine, è considerata una roccaforte del gruppo islamista Abou Sayyaf. I tre evasi uccisi facevano parte di un gruppo di 14 detenuti, tutti fuggiti dalla prigione dove erano incarcerate 32 persone sospettate di traffico di stupefacenti. "Alcuni di loro sono membri di Abou Sayyaf", ha detto Mario Buyuccan, responsabile della polizia locale. Abou Sayyaf è una ramificaznione estremista dell'insurrezione musulmana che ha fatto più di 120 mila vittime nel sud del paese, in grande maggioranza cattolico, durante gli anni 70.