Appello per la Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova: è un patrimonio comune Ristretti Orizzonti, 14 luglio 2017 Appello alla società civile, alle associazioni e agli enti pubblici e privati del territorio, alle singole persone che da tantissimi anni hanno avuto modo di conoscere il buon funzionamento della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. Senza il contributo di tutti la Casa di Reclusione di Padova non sarebbe quella che oggi tutti siamo ormai abituati a conoscere. È grazie a persone responsabili e di buona volontà presenti in tutte le realtà, pubbliche e private, che oggi il carcere "Due Palazzi" è noto in tutto il mondo. Quello di un carcere è un mondo tanto complesso quanto ricco di esperienze, ricco di diversità, basti pensare al personale di Polizia penitenziaria, alle varie direzioni che dal 1989 ad oggi si sono succedute, alla magistratura di sorveglianza, all’area trattamentale educativa, all’area socio sanitaria, all’area scolastica (basti pensare che Padova ha visto nascere in carcere uno dei primi Poli Universitari d’Italia), alle associazioni di Volontariato pioniere a livello nazionale, le cooperative sociali, alle realtà culturali, sportive, formative. Ognuna di queste con la propria specificità ha dato vita, in questi lunghi e faticosi ma anche belli anni a quell’autentico laboratorio di sperimentazione di un carcere rispettoso fino in fondo della Costituzione. Tutto questo, che è un patrimonio di tutti, oggi lo vediamo messo fortemente a rischio. Il lavoro di anni, svolto da tutti sempre attraverso un confronto aperto e serrato con le Istituzioni, ha avuto una caratteristica sopra ogni altra: la trasparenza. Padova ha una ricchezza di esperienze nell’ambito della rieducazione e del recupero delle persone detenute davvero straordinaria, attività mai smessa anche quando la dovuta attenzione in merito alla carenza del personale di polizia penitenziaria, dell’area trattamentale educativa e dirigenziale, non veniva adeguatamente affrontato in quantità oltre che in qualità. In queste settimane, più o meno tutti, stiamo subendo un attacco sia mediatico che concreto nel vivere quotidiano. Ogni fatto anche teso a mettere ordine al proprio interno (vedi ad esempio il ritrovamento vari di cellulari) è usato da qualcuno sempre in modo strumentale. Grazie a una straordinaria collaborazione tra istituzioni e società civile anche negli anni del sovraffollamento più bestiale si è riusciti a fare davvero miracoli. Quello in atto è un grave tentativo di tornare al passato (ante 1990), a un carcere chiuso alla società civile e chiuso alla speranza. La nostra preoccupazione è dettata anche dal fatto che il "Sistema carcere Padova" è nato realmente dal basso, dall’impegno e dalla risposta positiva data negli anni dall’Amministrazione, in particolare quella locale. Ora temiamo che il lavoro di tutti non venga sufficientemente tutelato, questo chiaramente non è solo a danno di Padova, in quanto in questi anni Padova ha rappresentato un monito, ricordando a tutti che con un unico ordinamento penitenziario si può gestire un carcere, progettando davvero il cambiamento o invece arroccandosi nella difesa di un passato che, come tutti oggi si riempiono la bocca, ha invece fruttato il 70% di recidiva. Ci rivolgiamo a tutti quelli che conoscono bene che cosa prevedono la nostra Costituzione, le leggi, l’Ordinamento ed il Regolamento penitenziario e non da ultimo le direttive europee che impongono l’umanizzazione della pena per quanto riguarda le persone private della libertà a causa dei reati commessi. Ci rivolgiamo a chi conosce altrettanto bene tutte le attività che da decenni sono presenti presso la Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. La mancanza di rispetto, di aiuto, di difesa ci preoccupano moltissimo. Quello che ci preoccupa è dunque che ad essere attaccato sia il sistema "carcere Padova" nella sua totalità, e per di più in maniera poco chiara e incomprensibile. Ne va della credibilità delle istituzioni e della dignità delle persone. Una città intera, e non solo, ha conosciuto in questi 25 anni questa esperienza: ogni anno migliaia di studenti, scuole, aziende, istituzioni italiane e di ogni parte del mondo, enti di ogni ordine e grado, università italiane ed estere, etc. etc. sono entrati a contatto con tutte le attività di questo istituto, attività in molti casi fiore all’occhiello a livello nazionale ed internazionale. Quello del carcere di Padova non è patrimonio di qualcuno in particolare, è patrimonio di tutti, è un patrimonio pubblico di cui tutti noi e Padova ne andiamo fieri. Vi chiediamo una firma e, se volete, una frase che esprimano la vostra solidarietà e la vostra simpatia. Firmatari appello - Gruppo Operatori Carcerari Volontari (OCV) - Casa di accoglienza Piccoli Passi - Gruppi di ascolto - Sappe Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Responsabile Veneto e Trentino Giovanni Vona - FeDerSerD, Federazione degli operatori dei servizi delle dipendenze - Felice Nava - CISL-FNS Veneto - Segretario Regionale Giuseppe Terracciano - CISL-FP Padova - Segretario Generale Michele Roveron - CISL Padova - Segretario Generale -Sabrina Dorio - Polo Universitario Carcerario - Università di Padova - FP-CGIL Penitenziari Gianpietro Pegoraro - FP-CGIL Veneto Daniele Giordano - Associazione di volontariato Incontrarci Cristina - Associazione di Volontariato Ristretti/Granello di Senape - rassegna stampa e rivista - sportello giuridico - scuola di scrittura - TG2 PALAZZI. Ornella Favero Francesca Rapanà Lucia Faggion Vanna Chiodarelli Angelo Ferrarini Bruno Monzoni Antonio Morossi Elisabetta Gonzato Mauro Feltini Anna Scarso Feltini Donatella Erlati Armida Gaion Fernanda Grossele Tino Ginestri Silvia Giralucci - Work Crossing Coop. Soc. P. A. - Pasticceria "I dolci di Giotto" Matteo Marchetto Roberto Fabbris Matteo Florean - Insegnanti CPIA Padova, sezione carceraria. Adesione personale Daniela Lucchesi Domenica Cimellaro - Giotto Coop. Soc. Nicola Boscoletto Andrea Basso Alessandro Krivicic - Teatrocarcere Due Palazzi Maria Cinzia Zanellato Adele Trocino - Ass. Coristi per Caso Alberta Pierobon - Coro Due Palazzi in collaborazione con CPIA Padova - Docenti scuola superiore in carcere - Einaudi/Gramsci sez. carceraria Patrizia Fiorenzato Francesco Mazzaro Vincenzo Stocco Michela Zamper Paolo Mario Piva - ASD Polisportiva Pallalpiede Lara Mottarlini Paolo Mario Piva - Antigone Triveneto Giuseppe Mosconi - Cooperativa sociale AltraCittà Rossella Favero Valentina Franceschini Valentina Michelotto Mirko Romanato Bruna Casol Sabina Riolfo Federico Gianesello Giorgio Mazzucato - Avvocato Marco Di Benedetto - Avvocato Roberto Pinazzi - Mirella Gallinaro, Garante regionale dei diritti della persona del Veneto - Avvocato Mattia Carminati - Avvocato Gloria Trombini - Livio Pepino, già magistrato, presidente Associazione studi giuridici Giuseppe Borrè - Avvocato Riccardo Polidoro, Responsabile dell'Osservatorio Carcere UCPI "L'Osservatorio Carcere dell'Unione Camere Penali Italiane, sottoscrive l'appello. Firmiamo e invitiamo a firmare l’appello per salvare e promuovere il lavoro svolto nella casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova. Sono pochissime le cattedrali nel deserto dell’esecuzione penale in Italia. Tra queste certamente e da tempo quella della Casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova. Un’eccellenza nell’ambito della c.d. “rieducazione” e nel recupero delle persone detenute che ha, con coraggio e grande forza di volontà, compensato le carenze di personale e di risorse dell’area trattamentale. Ci uniamo, pertanto, all’allarme lanciato dagli operatori di tale meravigliosa realtà, preoccupati che si voglia tornare ad un carcere “chiuso”, mettendo fine ad iniziative e progetti che hanno coinvolto la società civile, le scuole, le università, le aziende, nel rispetto di un'esecuzione della pena in linea con i principi della Costituzione e dell'Ordinamento Penitenziario. Il lavoro svolto in questi 25 anni a Padova ha rappresentato un’attività di supplenza che lo Stato non può ignorare e soprattutto non può e non potrà cancellare. Invitiamo, pertanto, tutti gli iscritti all’Unione Camere Penali Italiane a firmare l’appello scrivendo a redazione@ristretti.it. Gli Avvocati Componenti il Direttivo UCPI: - Simone Bergamini - Gianluigi Bezzi - Fabio Bognanni - Filippo Castellaneta - Giuseppe Cherubino - Filippo Fedrizzi - Roberta Giannini - Davide Mosso - Ninfa Renzini - Cinzia Simonetti - Gabriele Terranova - Renato Vigna - Franco Villa - Patrizio Gonnella, Presidente Associazione Antigone - Claudio Messina, Società di San Vincenzo De Paoli "Esprimo tutta la mia stima e fiducia agli operatori che in tanti anni di serio e qualificato impegno, con quello altrettanto indispensabile delle persone detenute coinvolte, hanno creduto e saputo attuare iniziative di eccellenza all’interno della Casa di Reclusione di Padova. Un impegno che ha dato frutti a tutti ben visibili, rendendo un servizio importante non solo alla comunità ristretta ma a tutte le componenti sociali, direttamente e indirettamente coinvolte. Tutti noi, appartenenti al mondo del volontariato ne abbiamo beneficiato e ne traiamo tuttora spunti utilissimi. Questi successi indiscutibili non possono essere vanificati da pretesti del tutto inconsistenti, che evidenziano la volontà di arrestare quel progresso civile auspicato dalla stessa Costituzione e da tutta la legislazione in materia, nell’attribuire alla pena un significato riabilitativo, rispondente non solo a istanze di giustizia e di civiltà, ma anche all’interesse della società nel suo complesso. Sono certo che la forza delle idee di progresso, dell’impegno costante e disinteressato prevarranno su questi attacchi immeritati, palesemente strumentali. Esprimo dunque a tutti voi la mia totale solidarietà e incoraggiamento a proseguire nel solco tracciato e sin qui vincente. Non conosco un modo migliore di operare dentro e fuori dal carcere". - Agnese Solero e Beppe Ceschi "Mi viene spontaneo affermare che la difesa delle attività presenti nella casa di reclusione di Padova è un investimento per tutti coloro che si sentono cittadini, per tutti coloro che credono nella possibilità dell'uomo di crescere, di cambiare, di misurarsi con l'altro da sé ma anche con sè stessi e con le proprie debolezze e fragilità. Tenere viva e fertile la comunicazione tra il "dentro" e il "fuori" per me significa investire nell'umanità e in un mondo possibile. Non scoraggiamoci!". - Giulia Cella - Antonella Barone - Museo Veneto del giocattolo di Padova - Centro Studi Ettore Luccini di Padova - Mario Breda, Mariastella Dal Pos - Avvocato Antonella Calcaterra - Mauro Feltini - Elisabetta d'Errico - Avvocato Barbara Lettieri - Avvocato Luca Mandro - Avvocato Felice Foresta, Referente Osservatorio Carcere Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” - Alain Canzian - Avvocato Alessandro Magoni Associazione Antigone Nazionale Avvocato Michele Passione Sono stato molte volte da Voi. Senza di Voi nulla sarebbe come prima. Aderisco all'appello. Senatore Gianpiero Dalla Zuanna Firmo volentieri l'appello, e se posso fare qualcosa per sostenervi, sono qui. Angiola Gui Ho firmato perchè in 12 anni di frequentazione, come docente partecipante al progetto per le scuole, posso testimoniare che la collaborazione con Ristretti Orizzoni è stata per me ed i miei studenti un dono prezioso, altamente formativo ed arricchente! Un messaggio efficace, perchè testimoniato con coerenza, di educazione civica alla legalità. Un aiuto esemplare alla comprensione della complessità carceraria, ignota ai più (anche a me stessa, prima di avvicinarmi a questa problematica realtà) così comunemente travisata dal nostro sentire comune, fortemente condizionato dai tanti stereotipi di cui siamo, spesso inconsapevolmente, sia vittime che artefici. Maria Teresa Menotto, Associazione "Il granello di senape" Lucio Simonato Viviana Ballini Sottoscrivo, con molta convinzione. è importantissimo il vostro lavoro, per tutti. Marianita De Ambrogio, Padova Miriam Vertes Sono con voi! Federica Rovellini Con la presente si intende aderire all'appello da voi promosso. Con stima e solidarietà Maria Manuela Gigliotti, insegnante al Curiel. Stefano Cappuccio Dalla parte di chi con grandissimo impegno e intelligenza non comune, ha saputo dimostrare che nessuna vita é ormai già "scritta", che capire di avere ancora "qualcosa da perdere" può ribaltare un destino apparentemente già segnato, che a dispetto di quanto può sembrarci ineluttabile, creare occasioni per far riflettere sulla propria vita, sui propri e altrui errori e sul dolore ricevuto ma sopratutto provocato, può rivelarsi cura miracolosa. Tutto ciò, persino per quegli uomini che, per primi, non scommetterebbero più sul loro cambiamento, rassegnati a diventare incarnandola, la colpa commessa. In qualità di insegnante, per anni Figura Strumentale per l'Educazione alla Legalità nel proprio istituto, penso di conoscere bene il lavoro di Ornella Favero e della redazione di Ristretti Orizzonti e fin dai primi incontri tra detenuti e allievi, a scuola e in carcere. Ho grande stima di lei e di chi, assieme a lei, ha saputo regalare il proprio tempo e il peggio del proprio passato, per stimolare nei ragazzi e nei loro docenti riflessioni altrimenti impossibili, dando a tutti un'occasione più unica che rara di emanciparsi dalle ignoranti scorciatoie che spesso famiglia, informazione e purtroppo a volte anche le istituzioni, suggeriscono. Grande Lavoro quindi quello di Ristretti Orizzonti, senza alcun dubbio. Onorato di esservi amico. Prof. Antonio Bincoletto, IIS “Concetto Marchesi” Aderisco all’appello con questo contributo sul progetto scuole/carcere. Da quasi tre lustri partecipo con gli studenti della mia scuola al Progetto promosso dalla dott.ssa. Ornella Favero. So che in questo momento Ornella è bersaglio di critiche e velate accuse per il caso dell'ex Direttore del carcere Due Palazzi dott. Pirruccio. In una tale situazione di difficoltà e di messa in discussione del suo operato, sento di dover esprimere la mia solidarietà verso la dott.ssa Favero, una persona che da anni si sta impegnando a fondo e senza risparmio d'energie affinché nel carcere si attui il dettato costituzionale e specificamente quanto previsto dall'art. 27 riguardo alla funzione rieducativa della pena. Il percorso proposto da Ornella apre spazi effettivi per un possibile ravvedimento ed una rieducazione dei detenuti, i quali sono generalmente sottoposti a mera pena afflittiva, senza supporto né incoraggiamento significativo ad intraprendere una revisione critica del proprio passato. L'esperienza che grazie a questo progetto abbiamo fatto dal 2003 ad oggi nel liceo "Marchesi-Fusinato", ha consentito a generazioni di giovani frequentanti il nostro istituto di confrontarsi con realtà dure quali quelle della tossicodipendenza, della marginalità sociale, dell'immigrazione, delle relazioni familiari difficili, delle tradizioni violente e vendicative presenti ìn alcune comunità, della pervasività delle organizzazioni criminali in certi contesti, dell'insuccesso che s'incontra nelle relazioni sociali e che talvolta diventa criminogeno, dell'indigenza o del desiderio di avere di più e velocemente, del familismo amorale, dell'incapacità di chiedere aiuto quando si è in difficoltà; tutto ciò lo si è incontrato attraverso il vivo e spesso sofferto racconto dei detenuti che intraprendono un percorso di revisione del proprio passato e che considerano l'incontro con gli studenti come una grandissima risorsa, in quanto raro momento di confronto e rispecchiamento effettivo con la società. Insomma, Ornella ha ideato e messo in atto un sistema di relazioni che consente una simultanea crescita di consapevolezza nei detenuti e negli studenti. L'ha fatto in forma volontaria e gratuita, con grande convinzione e con una dedizione totale, trovando una sponda attenta e sensibile nel direttore e in molti operatori del carcere. Non entro ovviamente nel merito delle circostanze che hanno provocato il procedimento giudiziario in atto nei confronti del dott. Pirruccio. Posso solo dire che, nelle situazioni in cui l'abbiamo incontrato (lezioni con gli studenti, visite e convegni in carcere, conferenza nell'ufficio stampa di Montecitorio), l'ex direttore ci è apparso persona aperta e disponibile al dialogo, nonché convinta che la pena della detenzione debba avere una funzione anche rieducativa e non meramente afflittiva. Per quel che riguarda le ricadute scolastiche del progetto, a partire da riscontri oggettivi sui risultati ottenuti in questi 14 anni, posso affermare che si tratta di un'esperienza altamente formativa per quanto concerne sia l'educazione alla legalità, sia l'analisi critica dei fenomeni sociali e delle istituzioni, sia il superamento di visioni basate unicamente su preconcetti e stereotipi. Il successo formativo del progetto è confermato sia dall'interesse vivissimo dimostrato dagli studenti, sia dalle tante manifestazioni di apprezzamento giunte in questi anni dalle famiglie e dagli insegnanti che vi hanno partecipato, sia dalle indagini che abbiamo sistematicamente condotto sui risultati ottenuti alla fine del percorso. Un altro riscontro importante è rappresentato dall'alto numero di elaborati prodotti in questi anni dalle classi coinvolte, che hanno spesso ottenuto anche riconoscimenti esterni e premi nel concorso finale. Ma c'è un ulteriore fondamentale elemento che ci indica quanto sia importante questo progetto: vedere dei detenuti, talora considerati delinquenti incalliti ed irrecuperabili, mettersi prima a nudo di fronte a platee di giovani, giudici spesso inflessibili e spietati, e poi sentirli dichiarare che l'incontro con gli studenti è l'unica preziosa opportunità offerta loro per ripensare al male fatto e per confrontarsi con qualcuno su questo, tutto ciò fa capire quanto sia utile e coerente coi principi della nostra Costituzione il percorso avviato grazie al duro lavoro di Ornella. Ai ragazzi viene offerta la possibilità di crescere e, nel contempo, di contribuire attivamente all'applicazione di un principio costituzionale che altrimenti verrebbe largamente disatteso; ai detenuti si dà una delle pochissime opportunità di confronto col "mondo esterno", indispensabile per avviare quel percorso di revisione che rappresenta il risultato ideale atteso dalla funzione rieducativa del carcere. Sono certo che questa e nient'altro sia stata e sia la "stella polare " che ha guidato Ornella in questa lunga, non facile e talvolta burrascosa navigazione. Posso solo ringraziarla per il suo grande lavoro e augurarmi che, al carcere come alla scuola, non venga tolto uno strumento tanto prezioso e collaudato di formazione e miglioramento sociale, ma che, anzi, esso venga diffuso a livelli sempre più ampi, quale esempio di buona pratica per una società sana e democratica, in grado sia di prevenire i reati educando i giovani alla legalità e alla cittadinanza, sia di offrire una possibilità di cambiamento anche a chi sbaglia. Stefano Carnoli Io ho compiuto quel percorso, aiutato da ogni persona che quotidianamente si adopera per far sì che dal dentro al fuori si trovi la concreta possibilità di una vita sociale normale. Oggi ho un buon lavoro e uno sguardo ottimista verso il futuro. Non fate che dal dentro al fuori ci sia solo un sacco nero pieno del nulla più assoluto. Maurizio Mazzi, Presidente della Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia del Veneto Aderisco all’appello e invito le Associazioni a aderire individualmente Luisa Mazzone ?Giuditta Boscagli? Io superfirmo e condivido la petizione: la mia famiglia è nata grazie al lavoro e all'umanità che in quel carcere hanno trovato la possibilità di attecchire e spesso fiorire, tanto per i detenuti quanto per gli operatori.?? Anna Rossetto Viene offesa una vasta categoria di lavoratori che silenziosamente si occupano di "Diffondere la speranza". Questo è il mio mestiere da molto tempo.? Non c'è istituto in Italia più umano della casa di reclusione di Padova. Sono allibita dalle manifestazioni di ignoranza di alcuni media. Serafina Tavella ? Stimo moltissimo il grande, encomiabile lavoro che tutti i responsabili fanno nei confronti dei carcerati! Ho visto questi uomini davvero cambiati e sereni, dove li trovate delle persone così? Perché si attacca il bene??? Benedetta Scandola? Io firmo! Officina Giotto e il sistema Padova sono un sistema d'eccellenza; quanto si sta facendo contro di loro è la consueta macchina del fango, che colpisce lì dove la serietà e la rettitudine portano frutti?? ? Nunzio Puccio Io firmo e confermo. Il lavoro fatto in questi anni ha creato delle eccellenze professionali e produttive ma soprattutto umane che sarebbe un crimine mettere a repentaglio.? Marco Ferrero Troppo spesso le scelte politiche sono dettate dalla preoccupazione di assecondare un elettorato superficiale e qualunquista. ? ?Aderisco all'appello.? Stefano Scherini L'anno scorso, nel 2016, siamo stati ospiti del carcere di Padova e di Officina Giotto con lo spettacolo "The Merchant in Venice", della Compagnia dè Colombari. Abbiamo ricevuto un'accoglienza splendida, abbiamo trovato un luogo straordinario per senso civile ed umano. ? ?Sottoscrivo l'appello e mi auguro che le istituzioni sostengano sempre più il vostro splendido lavoro e modello penitenziario.?? Edoardo Acerenza Sono ex manutentore e ho conosciuto tanti ragazzi magnifici. Ho una grande stima x tutti come loro l'anno per me. Alcuni li trovo fuori e tutti si sono fatti un futuro e una famiglia!? ? Ennio Favarato Se aveste visto la luce negli occhi delle persone che lavorano con passione in un cammino di redenzione, come ho avuto la fortuna io di vedere, non avreste il minimo dubbio nel sottoscrivere un milione di volte questo appello.? Gisella Barbiani Pieno sostegno a un'opera meritoria svolta da un rete di realtà del terzo settore, esempio raro nel panorama delle carceri italiane, a cui ispirarsi per estenderla in altri istituti.? Edoardo Gerbaudo Chi ci entra sa che "dentro" ci sono un sacco di cose che "fuori" troppi neanche immaginano. ?Solidarietà totale a chi le porta "fuori" per sconfiggere il qualunquismo?? Massimo Mogno Consapevole del serio lavoro svolto, auguro un sempre maggior successo e aderisco pienamente alla sottoscrizione.? ?Massimo Mogno?? Maz Dani Io vi appoggio sempre?. Il vs lavoro è la base per ripartire,? Ci credo moltissimo. ? Antonuzzo Angelo Concordo pianamente a firmare anche se virtualmente e auguri di una nuova riuscita al progetto.? Paolo Bolchi Ho moltissima stima per quello che avete fatto negli anni a favore di tanti uomini che ho avuto anche la fortuna di conoscere. Aderisco con convinzione all'appello ed alla sottoscrizione.? Franco Scali Parola d'ordine "Resilienza". Non mollare mai!... (ma perché i circoli virtuosi sono sempre sotto attacco? Anziché provare l'emulazione. ...?)? Daut Dinja Siete grandi, andate avanti. Un abbraccio a tutti gli amici. Tanti saluti dall’Albania? ? Rosa Giacomo Consiglio ?? Maria Teresa Pandolfi Io firmo, avanti? Michele Boscolo Sassariolo Aderisco e condivido il post? Alice Cavallaro Aderisco e condivido con piacere!? Romina Sossai Aderisco!? Stefania De Paolis Condivido? Kay Pasero Metella Federica Biagioni Aderisco e condivido? Barbara Buono Pieno sostegno a tutti voi e al grande lavoro che fate ogni giorno... Firmo e condivido? Graziella Teseo Siete tutti bravissimi. ?Vi ammiro e stimo tanto?? Miria Spada Firmo e condivido.? Enrico Rancan Aderisco e condivido! Sono con voi!? Andrea Demozzi, Trento Assolutamente da sostenere. Forza Nicola Boscoletto, forza tutti, noi ci siamo!!! Michelangelo Menna, Perugia Aderisco, #officinagiotto un esempio per tutti! Marta Cecchinato, Padova Non capisco con quali motivazioni si voglia tornare al passato, se i dati confermano la positività del "modello carcere di Padova", a partire dalla Officina Giotto, fiore all'occhiello di Padova e che dovrebbe essere preso ad esempio a livello nazionale. Cerchiamo di resistere a questi attacchi insidiosi, sperando che le azioni positive abbiano il sopravvento! Forza! Maria Di Fusco, Napoli Ho avuto la Grazia di conoscere il SIG. NICOLA BOSCOLETTO dentro al Due Palazzi. Mio figlio detenuto da 16 anni in diversi carceri italiane, con esperienze devastanti spogliati di di ogni identità trattati senza un briciolo di umanità facendo salti mortali per poter mantenere mio figlio con almeno il necessario per il suo fabbisogno giornaliero Un giorno si arriva a Padova e tutto cambia, c'è NicolaBoscoletto con le officine Giotto che da lavoro a mio figlio , ci sono metodi umani di perquisizioni da parte della Polizia Penitenziaria , c'è Ristretti Orizzonti con a capo Ornella Favero che ci hanno tirato fuori da un baratro buio dove ogni forma di dignità non era più neanche nei sogni , che dire poi del Volontariato con persone meravigliose che si adoperano x noi detenuti e famiglie con umana determinazione per ridare dignità e Speranze a noi tutti. Firmo è aderisco 1000 mille volte perché tutto questo non finisce perché Nicola Boscoletto con Ornella Favero non diventi un ricordo di persone incontrate in un carcere dove la Dignità umana di un detenuto conta ! AUGURI a Voi Tutti che chi ha messo in moto questa macchina di fango capisce quanto dolore sta provocando la dove c'è tanto impegno x noi famiglie e detenuti! Forza e Coraggio sono con Voi Orgogliosa di Conoscervi Tutti! Maria. Valeria Bonomi, Milano Grazie a te Nicola Boscoletto , ho sempre sostenuto che bisognerebbe investire per replicare il modello del carcere di Padova e continuerò a farlo! Forza. Jole Vanoni, Varese Aderisco più che volentieri! Il modello Padova, a mio avviso, è un modello da esportare in tutte le carceri per il recupero di chi nella vita ha sbagliato. è giusto dare a queste persone un'altra possibilità! Marcella Clara Reni Aderisco con convinzione a nome mio personale e dell'Associazione Prison Fellowship Italia ONLUS che mi onoro di presiedere. Francesco Toniutti, Milano Aderisco, per un modo nuovo di vivere la rieducazione. Silvia Guidi, Roma. Anch'io, Nicola. Se posso essere utile ci sono. Keep on fighting! Cecilia Marangoni, Padova Non posso non aderire... questi ragazzi hanno sbagliato, ma nessuno può dire con certezza "io non lo avrei mai fatto" e quindi nessuno può permettersi di togliere loro la possibilità di cambiare la loro storia! In tante occasione mi hanno dato di più loro che le persone "per bene" che incontro tutti i giorni! ADERISCO! Corrado Rizzi, Abbiategrasso Aderisco; uno spazio di umanità in un luogo impensabile non può essere mortificato. Forza Officina Giotto! Camillo Rossi. Cremona. Aderisco! Federico Samaden. Pergine TN. Il sottoscritto e tutti i ragazzi e il personale e i docenti dell'istituto alberghiero sono con voi!! Forza e coraggio, non mollate!! Silvia Vianello. Chioggia VE. Hai tutta la mia solidarietà. Ho avuto l'onore, grazie a Nicola, di visitare il carcere e tutte le attività all'interno. Un grande laboratorio frutto di sacrificio, passione, grandissima dedizione e spirito di carità. Maria Olga Mezzena. Trento Aderisco. Jacopo Sabatiello, Belo Horizonte, Brasile Aderisco. Serena Mancuso. Venezia. Ho visto il carcere di padova un anno fa, in occasione dello spettacolo "The marchant in Venice", per il quale suonavo. Sono rimasta molto colpita positivamente dalle possibilità di recupero che vengono date ai detenuti, è stata un'esperienza indimenticabile vedere quello che siete riusciti a fare voi ed i detenuti insieme. Un grandissimo esempio di umanità e civiltà! Vi auguro davvero di poter continuare cosi'. una grande emozione vedervi all'opera, bravissimi! Maria Clemenza Berti, Genova Aderisco e condivido. Albino Dal Bianco. Sembra incredibile che dopo aver chiuso le cucine e non aver avuto il coraggio di ammettere la cazzata fatta voglio anche demolire l'unica esperienza vera, preziosa e sopratutto educativa che si trova all'interno di un carcere. Ma la vera domanda e da dove viene tutto questo malessere verso chi ha sacrificato tempo e soldi per ricoprire un ruolo che spetterebbe allo stato? Sapete quante famiglie vanno avanti con l'aiuto economico che riescono a dare i detenuti ai loro cari lavorando. Non arrendiamoci ma stiamo vicini alla Giotto nel far comprendere l'importanza di aiutare chi vive dentro un carcere sia che egli sia guardia oppure delinquente. Io ho vissuto 8 anni dentro il due palazzi e ho visto la differenza tra essere un detenuto con un numero di matricola ed essere un detenuto valorizzato come persona. Io ci sono per qualsiasi iniziativa vogliate prendere. E potrei riempire pagine pagine pagine di bene che ho ricevuto dall'esperienza educativa che ho ricevuto all'interno del carcere e che mi sta aiutando nella vita di tutti i giorni. Pietro Milazzo, Padova Come al solito le cose che funzionano si devono demolire. Tenete duro. Carlo Grignani. Belgioioso Aderisco convintamente all'esperienza del carcere di Padova! Una speranza per molti. Donatella Tonello, Torino Siete l'esempio che traccia un metodo, da estendere. Bisogna ottenere che la vostra opera, ottenga visibilita' e sostegno. Grazie per quello che fate! Maria Acqua Simi, Cremona Da giornalista, raramente ho visto una realtà così ricca di umanità. Non mollate. Monica Mondo, Roma La realtà del carcere di Padova è unica, umanissima, speciale. Conoscervi è stato un respiro di grazia libertà e giustizia vera. Qualsiasi cosa per sostenervi. Eugenio Andreatta, Padova Considero un privilegio aver potuto raccontare per anni cosa succede nella casa di reclusione di Padova. Si potrebbe descrivere in tanti modi, un piccolo esempio di sussidiarietà realizzata, un angolo di operoso Nordest dietro le sbarre, una speranza per chi è dentro e un esempio per chi sta fuori. E anche un modo per spendere bene i nostri soldi. Con tutti i limiti che vogliamo, ci mancherebbe. Ma una storia che non ci si stanca di raccontare. Grazie ragazzi un abbraccio. Maria Luisa Manzi, Bergamo Ci vorrebbero tante esperienze come Padova! Elisa Mapelli, Villa Santa Aderisco e condivido! Forza ragazzi! Daniele Lugaresi, Bologna Aderisco per risultati che questa esperienza ha prodotto. Monica Boscato, Isola Vicentina #iostoconofficinagiotto #iostoconristrettiorrizzonti #iostoconduepalazzi. Non mollate. Romano Lovison, Padova Padova è un esempio da imitare, nel recupero delle persone per reinserirle, nel miglior modo possibile, nella società civile. Valorizziamo ulteriormente questo patrimonio! Santini Mongardini, Roma Aderisco perché ho avuto occasione negli anni di conoscere e apprezzare l'esperienza. Giuditta Boscagli, Lecco Io superfirmo e condivido la petizione: la mia famiglia è nata grazie al lavoro e all'umanità che in quel carcere hanno trovato la possibilità di attecchire e spesso fiorire, tanto per i detenuti quanto per gli operatori. Gianfrancesco Carpenzano, Padova Quello che è stato creato nel carcere di Padova, la "Officina Giotto" è, secondo me, uno dei più bei progetti mai creati prima! Bisogna prenderlo come esempio! Maurizio Perfetti, Roma "Bonum sui diffusivum" si diceva una volta, anche se le cosiddette "istituzioni" sono sorde per lo piu' e ciucciani soldi e le migliori energie dei buoni e volenterosi... Non mollare, non mollate! anche quando il vento e le correnti (ops!) sembrano contro. Chi ha forza rema sempre "sperando contro ogni speranza". la verita' rende liberi (è detto e "scritto"). Letizia Bellini, Padova Condivido e appoggio xche anch'io ho visto il grande lavoro e l'umanità con cui si prestano i lavoratori per dare una seconda opportunità a chi ha sbagliato attraverso questi laboratori meravigliosi. Emanuela Schiavon, Chioggia Aderisco condividendo il post sperando che i progetti virtuosi come quello della Coop Giotto possano continuare ad esistere. Cristina Boscolo, Padova Condivido sicuramente... ho conosciuto delle persone che avendo avuto una seconda possibilità sono veramente cambiate... grazie di cuore per quello che fate! Antonmariano Varotto, Paraguay Conoscendo in prima persona la realtà del carcere di Padova ed il Valore educativo e civile delle attività a favore dei detenuti ivi svolte, appoggio pienamente l'Appello! Maria Elena Castelli, Alatri Aderisco. Ho sempre sostenuto che il modello del carcere di Padova dovesse essere utilizzato ovunque. Purtroppo il mondo intero è sotto attacco. Ma le tenebre non prevarranno. Michele Boscolo, Sassariolo - Chioggia VE Aderisco condividendo il post. Un caro saluto. Anna Pedrazzini, Albania Conosco di persona quello che è nato in quel carcere e non posso che sostenerti, ringraziarti per quello che sei stato in grado di costruire. Grazie alla Giotto che è fatta di tante PERSONE. Un abbraccio grande uomo. Flavio Foietta, Forlì. Ho visto e toccato con mano la speranza che la coop Giotto regala a molti reclusi a Padova. Ognuno di loro è una persona e non solo la misericordia ma anche la nostra Costituzione ce lo ricorda. Per recuperare una persona alla vita civile sono necessarie strutture adeguate che credono nell uomo e ne hanno le capacità e le possibilità. La struttura pubblica di per se giusta non è in grado però di recuperare l anima del recluso e portarlo alla sua "redenzione ". Ci vuole un rapporto umano e personale che nulla ha a che fare con le fredde leggi regolamenti direttive ecc ecc, le sole che lo Stato può emanare. Grazie alla Giotto e grazie a Boscoletto!! Andrea Moro, Padova Nicola, aderisco e credo che "il modelo carcere Padova" sia da prendere d'esempio per un reale recupero delle persone recluse e una riduzione significariva della recidività. In un momento in vui vanno di moda "i mal di pancia populistici" dobbiamo gestire i singoli ed isolati episodi e atteneci ai numeri e ai risultati ottenuti in questi 30 anni. Gioiella Di Felice, Padova. Aderisco condividendo le attività svolte al Due Palazzi come una seconda possibilità offerta a coloro che, pur avendo sbagliato vogliono cambiare le loro vite. Davide Fiorotto e Laura Zanchin Condividiamo e firmiamo l'appello di Ristretti Orizzonti augurando a tutti voi di poter continuare a lavorare serenamente per un carcere sempre più "aperto". Avete la nostra ammirazione per i progetti che in tanti anni hanno prodotto cultura, lavoro e sana comunità. Vi sosteniamo. Avvocato Adriana Vignoni Aderisco con la presente all’appello per salvare e promuovere il lavoro svolto nella casa di reclusione Due Palazzi. Avvocato Crotti Maria Luisa Non torniamo al passato, avanti con l’esperienza del carcere Due Palazzi di Padova. Giovanni Todesco, archivista Sottoscrivo l'appello ed esprimo tutta la mia solidarietà e partecipazione per questa giusta lotta Avvocato Stefania Amato Con questa mail intendo sottoscrivere il Vostro ”appello alla società civile, alle associazioni e agli enti pubblici e privati del territorio, alle singole persone che da tantissimi anni hanno avuto modo di conoscere il buon funzionamento della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova”. Vorrei che il Vostro lavoro potesse proseguire al meglio, per molti anni ancora. Avvocato Christian Cerniglia Avvocato Roberto Lancellotti Avvocato Carmelo Passanisi Carla Chiappini e la redazione di Ristretti del carcere di Parma aderiscono all’appello Proprio ieri nel carcere milanese di Opera un detenuto di Alta Sicurezza mi ha detto: - Per noi l'esperienza di Padova è una luce, una speranza!. Ma a volte tutto sembra così fragile. Noi amiamo e difendiamo la storia di Ristretti e dell'istituto Due Palazzi. Enrico Ferri, giornalista della sezione veneta di Articolo 21 Carissimi, aderisco volentieri all' appello sul carcere Due Palazzi Avvocato Monica Barbara Gambirasio Rosa Maria Puca. Insegnante del Carcere Tommaso Bisoffi - capo scout, studente di giurisprudenza, cittadino attivo Vorrei aderire al vostro appello: Casa di reclusione è patrimonio comune. Grazie per il vostro lavoro! Cecilia Mussini, Monaco di Baviera Con la presente desidero aggiungere il mio nome all'appello per Ristretti Orizzonti. Teresa Bellini Avvocato Marzia Bellodi Nella mia qualità di avvocato iscritta alla Camera Penale Veneziana, sottoscrivo l'appello per salvare e promuovere il lavoro svolto nella casa di reclusione "Due Palazzi" di Padova. Piero Ruzzante, Consigliere regionale Veneto Articolo UNO-MDP Sottoscrivo totalmente l'appello! Mariella Orsi, Firenze Maurizio Marinaro Elena Fanton Condivido l'appello. Grazie per rendere la vita in carcere più umana e anche padova una città migliore. Maurizio Ulliana, Associazione "Amissi delle api" Avvocato Aurora d'Agostino, Padova Davide Tramarin Cesare Burdese, Architetto A proposito dell’Appello per la Casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova, conseguente all’attacco del sistema “carcere Padova” nella sua totalità, (…) in maniera poco chiara e incomprensibile, appare di primo acchito ingiustificata la contesa. Da una parte il lavoro decennale di quanti hanno dato concretezza alle istanze costituzionali e della Riforma dell’Ordinamento penitenziario, dall’altra l’Amministrazione penitenziaria che questa concretezza sembrerebbe viverla come una invasione del suo territorio. Allarma il fatto che questa vicenda, che ritengo comunque emblematica della schizzofrenia che soffre da decenni la realtà amministrativa penitenziaria, non sia affrontata nelle sedi opportune, per addivenire ad un chiarimento che consenta di superare ed andare avanti con più impegno e risultati ulteriori. Ma forse questo non è che l’inutile e fallace pensiero di un ingenuo architetto che da oltre trentanni è impegnato a tradurre in muri quei principi di umanità e riscatto che pochi volenterosi, nella Casa di Reclusione “Due Palazzi” e in altri carceri, hanno saputo e sanno concretizzare con lavoro vero. Tutta la mia solidarietà dunque a tutti loro. Avvocato Annamaria Alborghetti, referente carcere Camera Penale Padova Silvia Guido Scrivo per sottoscrivere l’appello per salvare e promuovere il lavoro svolto nella casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova. Perché non si può ostacolare un esperimento di successo, perché per fortuna non si tratta più di un esperimento ma di una realtà solida e di esempio per tutti, perché tanti anni fa ho toccato con mano la bellezza e la forza e la "testardaggine" della vostra esperienza e mi siete rimasti nel cuore. Vi auguro tutto il meglio. Avvocato Barbara De Biasi, Venezia Avvocato Marianna Negro, Venezia Avvocato Azzurra Tatti Quale membro del Direttivo della Camera Penale di Pistoia e responsabile del relativo Osservatorio Carcere, a nome di tutti gli iscritti della Camera Penale di Pistoia esprimo tutta la mia solidarietà e supporto per le ragioni degli operatori del carcere "Due Palazzi", nella consapevolezza di quanto sia ogni giorno più difficile, in tempi di crisi e di sovraffollamento, realizzare l'obbiettivo costituzionalmente previsto di un carcere che rieduchi i soggetti aiutandoli a camminare con le loro gambe evitando così ricadute. La concretizzazione di questo obbiettivo passa attraverso il lavoro, spesso purtroppo sconosciuto ai più, degli operatori dei carceri, il cui impegno quotidiano merita di essere sorretto. Avvocato Francesca Ricciardi, Venezia Angiola Gui, docente presso IIS Marchesi-Padova In 12 anni di frequentazione, come docente partecipante al progetto per le scuole, posso testimoniare che la collaborazione con Ristretti Orizzonti è stata per me ed i miei studenti un dono prezioso, altamente formativo ed arricchente! Un messaggio efficace, perchè testimoniato con coerenza, di educazione civica alla legalità. Un aiuto esemplare alla comprensione della complessità carceraria, ignota ai più (anche a me stessa, prima di avvicinarmi a questa problematica realtà) così comunemente travisata dal nostro sentire comune, fortemente condizionato dai tanti stereotipi di cui siamo, spesso inconsapevolmente, sia vittime che artefici. Federica Zanetti, funzionario di Servizio Sociale UIEPE Firenze Vorrei sottoscrivere l'appello per salvare il carcere in oggetto ed il meraviglioso lavoro che operatori istituzionali, cooperative e volontari unitamente ai detenuti hanno svolto e continuano a svolgere con lungimiranza, passione e... cuore! Nila Corrain Desidero firmare l'appello per la Casa di Reclusione "Due Palazzi" in quanto, in qualità di insegnante ho creduto fortemente in uno dei Progetti che hanno contribuito a rendere me e i miei allievi consapevoli di una realtà che merita di essere conosciuta e che può essere di stimolo a riflessioni meno banali e meno ovvie del sentire comune. Patrizia Ciardiello Sottoscrivo l’Appello alla società civile, alle associazioni e agli enti pubblici e privati del territorio, alle singole persone che da tantissimi anni hanno avuto modo di conoscere il buon funzionamento della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. Cristian Ferrari, Camera del lavoro della Cigl di Padova, segretario confederale Enrico Ciligot, Fpcigl di Padova, segretario "Nessuno tocchi" Santi Consolo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 luglio 2017 Il Partito Radicale a fianco del Capo del Dap. Il Partito Radicale e Nessuno tocchi Caino esprimono solidarietà e sostegno al Capo del Dap Santi Consolo così come apprezzamento per la decisione del ministro Andrea Orlando di riconfermarlo. Per Rita Bernardini, Antonella Casu, Sergio d’Elia e Maurizio Turco coordinatori della Presidenza del Partito Radicale, il Presidente Santi Consolo è persona integerrima, un servitore dello Stato coraggioso che, nonostante gli ostruzionismi all’interno dell’amministrazione, ha fatto e fa di tutto per far corrispondere l’esecuzione penale al dettato costituzionale e alla finalità rieducativa della pena. Richiedere la sua rimozione - come hanno fatto in una conferenza stampa di ieri il senatore Tito Di Maggio (Direzione Italia), con la senatrice della Lega Erika Stefani, il segretario generale del Sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe) Donato Capece e la presidente dell’Associazione vittime del dovere Emanuela Piantadosi - significa non aver compreso il senso di un processo di mutamento dell’amministrazione penitenziaria perché sia improntata alla tutela dei diritti umani di tutta la comunità penitenziaria, fatta di detenuti, agenti, comandanti, direttori, educatori, psicologi ed assistenti sociali. Pensare di garantire la sicurezza dentro, come fuori dal carcere, perseguendo esclusivamente le logiche securitarie, magari quelle rappresentate dai vertici (e sottolineiamo i vertici, non certo la base degli iscritti) di una singola sigla sindacale come quella del Sappe, significa voler abbandonare il carcere nelle mani di pochi, facendone un luogo chiuso, in cui l’assenza di trasparenza favorisce abusi e comunque priva di speranza chi ci vive e vi opera. Quanto ai "vertici" del Sapp consigliamo di chiedere chiaramente e con fermezza il rinnovo del contratto di lavoro degli agenti scaduto da anni e l’equiparazione del Corpo dei Baschi blu alle altre forze di polizia, ponendo fine ai distacchi di una ristretta cerchia di privilegiati e di non coprire mai il comportamento di quell’estrema minoranza di agenti che, usando metodi illegali come le celle lisce e i pestaggi, mettono a rischio la condotta esemplare dell’intera categoria vessata da turni massacranti, contratti non rispettati, lontananza dai familiari e dai luoghi di residenza. Non è certo un caso che proprio fra la polizia penitenziaria si registri il più alto tasso di suicidi fra le forze dell’ordine. La "riforma Orlando" dell’Ordinamento penitenziario di Valeria D’Alessio iusinitinere.it, 14 luglio 2017 Una delle materie interessate dalla riforma Orlando è la modifica all’ordinamento penitenziario. Il governo, sulla base di precise linee guida dettate dal legislatore, è delegato a risistemare l’ordinamento penitenziario semplificando tra l’altro le procedure davanti al magistrato di sorveglianza, facilitando il ricorso alle misure alternative, eliminando automatismi e preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari, incentivando la giustizia riparativa, incrementando il lavoro intramurario ed esterno, valorizzando il volontariato, riconoscendo il diritto all’affettività e gli altri diritti di rilevanza costituzionale e assicurando effettività alla funzione rieducativa della pena. Dai benefici restano comunque esclusi i condannati all’ergastolo per mafia e terrorismo e i casi di eccezionale gravità e pericolosità. Le norme dell’ordinamento penitenziario dovranno inoltre essere adeguate alle esigenze rieducative dei detenuti minorenni. I punti interessati dalla riforma sono: - Ampliamento dell’ambito di operatività delle misure alternative alla detenzione: a) semplificazione delle procedure, anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza, fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione. Su questo punto è opportuno riprendere quanto affermato da Alessandro de Federicis, avvocato penalista alla Camera Penale di Roma. "Il contraddittorio differito ha come obiettivo quello di velocizzare la procedura per il sovraccarico del tribunale di sorveglianza ma che porta con se delle perplessità. Tale criterio non tiene conto di due criticità : pratica e culturale. I detenuti non vogliono una risposta celere se poi questa è negativa e l’incapacità della difesa di integrare poi l’istruttoria. È, da questo punto di vista, una riforma che è fine a se stessa senza raggiungere lo scopo prefissatosi quale quello di raddoppiare le risposte alle istanze dei detenuti; b) revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, salvo che per i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale; c) revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative, prevedendo che il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni e che il procedimento di sorveglianza garantisca il diritto alla presenza dell’interessato e la pubblicità dell’udienza. d) previsione di una necessaria osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà, stabilendone tempi, modalità e soggetti chiamati a intervenire; integrazione delle previsioni sugli interventi degli uffici dell’esecuzione penale esterna; previsione di misure per rendere più efficace il sistema dei controlli, anche mediante il coinvolgimento della polizia penitenziaria. - Superamento degli automatismi che precludono o limitano l’accesso alle forme extra murarie di esecuzione della pena detentiva anche per i casi di ergastolo ostativo: eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono ovvero ritardano, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e la differenziazione dei percorsi penitenziari in relazione alla tipologia dei reati commessi e alle caratteristiche personali del condannato, nonché revisione della disciplina di preclusione dei benefici penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo, salvo che per i casi di eccezionale gravità e pericolosità specificatamente individuati e comunque per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale. Questa delega pone però delle limitazioni nei confronti del legislatore delegato in quanto si richiede un intervento solo per quanto riguarda il regime dell’ordinamento penitenziario e non anche la parte sostanziale determinando così il superamento dell’automatismo solo parziale. De Federicis sostiene che ci sia una giurisprudenza costituzionale che negli anni ha spinto in questa direzione. Con questa riforma, non ci sarebbe più una valutazione sul reato ma una valutazione in base alla persona, all’individualizzazione del trattamento rieducativo come dice il testo della norma e questo permetterebbe alla magistratura di sorveglianza di ottenere quel potere discrezionale nella valutazione dei singoli casi e allo stesso tempo non comprimere quei percorsi penitenziari di quei soggetti che, seppur meritevoli, sono esclusi automaticamente per il semplice titolo di reato con conseguente superamento dell’art. 4 bis. La criticità di questa legge delega però sembra essere l’esclusione, da tale fattispecie, dell’ergastolo ostativo che è quasi un problema dato dal dissenso dell’opinione pubblica palesandosi quasi come uno scarto di coraggio del legislatore. - Riforma dell’esecuzione intramuraria della pena detentiva: il legislatore ha voluto fare un focus su quelle attività necessarie per poter garantire al reo una detenzione che sia a misura d’uomo, che dia finalmente una svolta dopo le innumerevoli condanne da parte della Corte di Strasburgo fondate sull’inadeguatezza delle strutture e della mancanza di un fine rieducativo della pena. Si ricordi però che quanto previsto esclude i detenuti condannati al 41bis. Si è partiti dalla previsione di attività di giustizia riparativa e delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative; dalle opportunità di lavoro che aiutano di certo a risocializzare il reo una volta scontata la sua pena; alla valorizzazione del volontariato, al mantenimento delle relazioni familiari, al riordino della medicina penitenziaria, al riconoscimento dell’affettività, all’agevolazione dell’integrazione dei detenuti stranieri, necessità data dal flusso migratorio ingente degli ultimi anni, un focus importante è quello del rispetto della dignità umana ricordando come nessuna pena può declassare un uomo a mero oggetto richiamando il criterio importantissimo quale quello della sorveglianza dinamica rispettando quelli che sono i diritti fondamentali della persona, alla tutela delle donne con particolare attenzione alle detenute madri e ultima, non per importanza, la valorizzazione del principio della libertà di culto senza dimenticarci che il nostro anche se non è esplicitamente costituzionalizzato è uno Stato laico. De Federicis, esprime un giudizio positivo per la necessità di facilitazione all’accesso alle misure alternative ma con conseguente riorganizzazione delle misure penitenziarie accorpando in un unico articolo tutte le disposizioni che attualmente sono sparse all’interno del nostro codice. - Detenuti di minore età: tale materia è stata regolata per quarant’anni dall’art. 79 c.p. che non distingue tra detenuti di minore età e detenuti maggiorenni. Tale norma contiene inoltre un auspicio che però non era mai stato realizzato quale quello di "provvedere con apposita legge" segno che già il legislatore precedente aveva avuto già sentore nell’inadeguatezza di tale sistema. - Principio della riserva di codice in materia penale: vengono individuati, seppur vagamente, le materie che dovrebbero essere inserite anche nel codice penale. Punto questo fortemente criticato dalla giurisprudenza per la vaghezza e inspiegabile sistemazione all’interno della riforma. - Pene accessorie: viene delegato al Governo una modifica di tale materia, non dando un criterio direttivo fisso ma determinando come linea guida unicamente la necessità di prevedere misure sempre volte al reinserimento sociale. Per Giorgio Spangher si ha la sensazione che, forse per effetto del perdurante e difficile momento socioeconomico e politico, connotato da un deficit di legalità, che vive il Paese, la giustizia penale non sappia superare la contingenza, dando la sensazione di essere in perenne affanno e di arrancare, incapace di superare una permanente precarietà. Manca un respiro comune e un orizzonte condiviso; restano troppo diversi gli approcci nel pianeta della giustizia penale. Maria Grazia Caligaris (Sdr): nelle carceri è necessaria una mediazione di alto livello di Antonella Soddu lapennadonna.wordpress.com, 14 luglio 2017 L’argomento "Carceri" è certamente uno di quelli che alle orecchie dell’opinione pubblica non è di facile digestione. Non porta consenso elettorale e spesso è relegato all’angolo nonostante siano molteplici le problematiche che vi ruotano attorno. È cosa molto nota il fatto che il nostro paese negli anni abbia più volte dovuto incassare i richiami da parte della Ue in merito alle condizioni disumane presenti negli istituti penitenziari italiani. La recente vicenda che ha visto coinvolto tragicamente, fino alla morte, dell’indipendentista sardo Doddore Meloni ha inevitabilmente reso necessario ritornare sull’argomento - anche se l’attenzione al tema dovrebbe essere quotidiana - in particolare sugli aspetti di assistenza sanitaria, diritto alla tutela della salute, percorsi di reinserimento, personale di sorveglianza, mediatori, educatori e direttori. Ne abbiamo parlato con la Professoressa Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" chiedendole una suo commento in merito. "La vicenda di Doddore Meloni, la sua morte - ha sottolineato Caligaris - è stata un episodio dolorosissimo che ovviamente fa riflettere aldilà di quello che è accaduto. Ovviamente è sconvolgente, ha riguardato una persona, ancora una volta, che ha contrapposto una sua volontaria decisione di non assumere cibo e per molto tempo acqua, di porre a rischio la sua vita. Io ho sostenuto e sostengo che nei casi cosi più esasperati dove il braccio di ferro diventa tra lo Stato e il singolo cittadino, sia necessaria una mediazione di alto livello, sia necessario intervenire perché lo Stato che ha in custodia una persona privata della libertà ha innanzitutto il dovere di salvaguardarne la vita. Per questo motivo - ha proseguito - occorre deve trovare il modo di individuare una strada che riconduca chi è più fragile, intanto al ragionamento, poi a trovare un punto di incontro tale da salvaguardare la vita. La ragion di Stato davanti una persona che è privata della libertà deve un limite. Occorre guardare con occhi diversi chi si vive l’esperienza detentiva che si trova, nonostante un’apparente forza, in una condizione di estrema debolezza. Non si può solo esclusivamente guardare i dati clinici che possono anche essere non allarmanti, occorre considerare lo stato psichico le condizioni oggettive di vita all’interno di un istituto". Un discorso che non può esser sottovalutato quand’anche, in questo caso, come sottolinea l’esponente di "socialismo diritti e riforme". "È noto che il carcere di Uta (Ca) si trova a una distanza praticamente di 30 km da un ospedale. Occorre valutare che, se anche all’interno è presente una sorta di centro clinico che assicura l’assistenza attraverso la Asl, non c’è una rianimazione, non c’è una situazione tale che possa offrire garanzie certe di sostegno alla salute. Chi comete reato deve scontare la pena, se diventa definitivo; ma le sue condizioni di salute vanno prima d’ogni altra cosa tutelate. È un diritto costituzionale, del resto l’articolo 27 della Costituzione sotto questo profilo parla chiaro". Ma qual è oggi la situazione delle carceri italiane in termini di sovraffollamento? "In Italia ci sono 190 istituti penitenziari, dentro i quali sono reclusi 57 mila detenuti a fronte di poco più di 50 mila posti letto. Settemila persone circa in eccedenza rispetto i numeri oggettivi. Di queste persone una percentuale, per fortuna insignificante, è rappresentata dalle donne, che sono circa 2500. Un numero più importante è rappresentata dagli stranieri, circa 20 mila. Considerando questi aspetti numerici, dal punto di vista nazionale, possiamo dire che esiste un sovraffollamento. Per quanto riguarda la Sardegna abbiamo 10 istituti penitenziari, prima erano 12, ne sono stati chiusi 2; Iglesias e Macomer. Attualmente con i numeri cosi come vengono rappresentati dai dati ministeriali in Sardegna, apparentemente, non c’è sovraffollamento. In realtà esiste, perché? Noi siamo l’unica regione che ha tre colonie penali. Le colonie penali praticamente degli istituti penitenziari all’aperto, dove ci sono dei detenuti che in teoria stanno concludendo il loro percorso e vivono una condizione meno afflittiva potendo anche in qualche misura lavorare all’aperto, essendo appunto colonie penali, sono quindi deputate a quel ruolo di reintegro che dovrebbe garantire un più facile inserimento una volta terminato l’esperienza di perdita della libertà. In realtà le colonie che abbiamo in Sardegna sono tre ma il numero dei detenuti è inferiore rispetto ad altri istituti. Per esempio a Uta c’è un numero regolamentare di detenuti che è pari a circa 567 abbiamo quindi un sovraffollamento. Lo abbiamo al piccolo carcere di San Daniele (Lanusei) ci sono 30 posti e 43 detenuti, nel carcere di Massama. Quindi, come numeri generali apparentemente non c’è il sovraffollamento ma se noi andiamo a guardare gli istituti chiusi, c’è: Per esempio a Bancali esiste, è stata attivata una sezione del 41 bis. Ci sono 90 detenuti in regime del 41 bis". Altro dato che avvalla la tesi della Caligaris è conseguenza della carenza di personale, infatti - "Si, certo - dice Caligaris - il sovraffollamento cresce nella misura in cui il personale è ridotto all’osso." Ci spiega meglio; " Se la funzione del carcere è quella che indica la costituzione, si deve fare in modo che queste strutture riabilitino le persone, favoriscano in loro cambiamento culturale e di conseguenza dobbiamo investire sotto il profilo sociale ed economico. La struttura penitenziaria cosi come attrezzata attualmente non svolge il compito per il quale è nata. È un sistema che non funziona, abbiamo un altissimo numero di detenuti con problemi di carattere psichico - circa il 40%. Detenuti che hanno anche problematiche legate alla tossicodipendenza, che hanno un vissuto particolarmente difficile e complesso. C’è una parola chiave di carattere sociale che è la prevenzione. Oggi nel nostro paese non si fa più prevenzione sociale e di conseguenza con questa visione tutta incentrata sul benessere di chi sta bene, si è perso un punto di vista che è quello di rendere la vita della persone che vivono condizioni di difficoltà, meno acerba. Dal mio punto di vista, l’investimento maggiore va fatto nelle realtà, nelle famiglie che vivono condizioni di profondo disaggio. È inutile che un detenuto trascorra 15 anni in un carcere ed esca con le stesse idee, con lo stesso vissuto, rientri all’interno di una famiglia, di un quartiere, di un ambiente che lo reinserisce, certo, ma nel circuito negativo della delinquenza. Allora se lo Stato vuole effettivamente rendere le strutture penitenziarie utili, intanto deve fare in modo che chi è malato venga curato. Se oggi un cittadino libero, pur con tutte le difficoltà della sanità di oggi, con le complessità di oggi, non si sente garantito, figuriamoci se si sente garantito una persona che non può scegliere". La questione è molto importante perché appare chiaro che il sistema cosi com’è strutturato presenta delle crepe. Problemi che certamente si ripercuotono anche sul processo di rieducazione per il reinserimento sociale nel momento in cui anche la figura dell’educatore diventa una rarità. "Certo, non possono esservi 6 educatori in una struttura dove ci sono 600 detenuti. Anche ammettendo che un centinaio di questi detenuti sono in attesa di giudizio, che quindi non asseriscono agli educatori. Un educatore non può curare 100 persone. Ciascun detenuto, come avviene per la scuola, deve esser di individualizzato. Ciascuno deve essere conosciuto in tutti i suoi aspetti, deve essere ascoltato, deve poter fare i colloqui quando sono richiesti". Altro grave problema è quello che riguarda i direttori degli istituti penitenziari. "Noi, in Sardegna, abbiamo anche quest’ altra gravissima carenza. Non abbiamo direttori. Su dieci istituti penitenziari, non ci sono in tutti gli istituti direttori stabili. Abbiamo direttori a scavalco, cioè che hanno più istituti. Addirittura quando un collega va in ferie un altro direttore può partire da Sassari non per andare a Oristano ma a Mammone. È una situazione incredibile Faccio l’esempio di Uta; il direttore titolare è in malattia, c’è un direttore assegnato temporalmente che può fare miracoli. Eppure, la figura e la funzione del direttore in un penitenziario è fondamentale. Ha un ruolo di mediazione, di ascolto e di organizzazione". Il carcere è un luogo di radicalizzazione, Italia in ritardo sulla prevenzione di Duccio Facchini altreconomia.it, 14 luglio 2017 Il primo contatto con gli istituti penitenziari da parte di chi è stato arrestato per reati minori è fondamentale. Ma il sistema penale del nostro Paese non tutela i soggetti vulnerabili, esponendoli al rischio di avvicinamento da parte dei leader carismatici. L’alternativa è un "modello di integrazione culturale". Il 19 dicembre 2016, Anis Amri si lanciò sulla folla al mercatino di Natale di Berlino a bordo di un camion. Il bilancio fu di 12 morti e 56 feriti. Amri era arrivato dall’Italia, Paese nel quale si era "radicalizzato" durante la carcerazione in Sicilia. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria l’aveva infatti segnalato tra i "leader" di spicco all’interno della struttura penitenziaria. Da allora, però, la delicata questione della "radicalizzazione" in carcere dei detenuti, della sua prevenzione e delle procedure di valutazione del rischio, è uscita dalle cronache. Eppure, dati del ministero dell’Interno alla mano, oggi, su 54.731 detenuti (al febbraio 2017 il tasso di sovraffollamento era al 111%), 18.655 dei quali stranieri e tra questi circa 11.029 provenienti da Paesi tradizionalmente di fede musulmana, gli individui a "vario titolo radicalizzati" sono 375. Nove volte di più dei 44 individui attualmente detenuti nelle sezioni di "alta sicurezza" italiane perché ritenuti legati al terrorismo internazionale. Francesca Delvecchio, docente di Diritto processuale penale all’Università degli Studi di Foggia, ha concentrato i propri studi sulla lotta al terrorismo sotto il profilo della "prevenzione terziaria". "Quando il fondamentalismo nasce e si sviluppa nelle carceri -spiega- l’unico strumento valido va ricercato nel trattamento rieducativo della pena". Che cosa si intende per "prevenzione terziaria"? "Le azioni preventive si distinguono in tre: la prima è diretta a eliminare o ridurre le condizioni criminogene presenti in un contesto fisico o sociale, quando ancora non si sono manifestati segnali di pericolo. La seconda comprende tutte le misure rivolte a gruppi a rischio di criminalità; la terza interviene quando un evento criminale è già stato commesso, per prevenire ulteriori ricadute. Sinteticamente, dunque, quest’ultimo tipo di prevenzione mira a contenere la recidiva". All’attenzione verso le "forme" della radicalizzazione, quindi, si affianca quella per i "luoghi" di proselitismo. Carceri in testa. "La durezza dell’ambiente conseguente alla privazione della libertà, l’emarginazione sociale, la violenza e la pressione del gruppo sono tutti elementi che pongono in crisi il detenuto, generando un naturale senso di appartenenza, che per molti si traduce nell’avvicinamento alla religione", riflette Delvecchio. La "strategia terapeutica deradicalizzante" - come la definisce Delvecchio - ha un momento nevralgico: si tratta del primo contatto con il carcere da parte di chi è stato arrestato per reati minori; soggetti vulnerabili, non terroristi conclamati. "L’allocazione di un detenuto fragile in una cella popolata da probabili radicalizzatori potrebbe rapidamente condurre il primo all’adesione dei valori dei secondi". Che cosa accade oggi al momento della immatricolazione? "Dopo gli adempimenti burocratici - spiega Delvecchio - c’è l’incontro con l’equipe del ‘Servizio Nuovi Giunti’, costituita da medici, psicologi ed educatori". Nel caso degli stranieri, il problema è certamente rappresentato dalla lingua. "L’incidenza reale del ricorso alla figura dell’interprete è assai limitata - segnala Delvecchio - e si scontra con le croniche deficienze strutturali". Non va meglio per quella del mediatore ("Irrinunciabile per un corretto inserimento nel contesto carcerario"). Accanto a quest’ultimo, c’è il "ministro di culto", tassello centrale per garantire la libertà religiosa. "Fino ad un passato recente - continua Delvecchio - l’accesso dell’Imam non era in alcun modo istituzionalizzato e in ogni caso era una figura che compariva solo in un momento successivo all’allocazione". Soltanto nel novembre 2015 è stato sottoscritto un protocollo d’intesa volto a favorire l’accesso di mediatori culturali e di ministri di culto negli istituti penitenziari. Questo "modello di integrazione culturale" è positivo, ragiona Delvecchio, ma da solo non basta. "Nell’attuale contesto detentivo è indispensabile che il personale penitenziario venga messo nelle condizioni di decodificare i codici di comportamento ed i valori di riferimento propri dei detenuti stranieri attraverso l’affiancamento di personale qualificato". Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, del resto, lo raccomanda da tempo. "Ci è suggerito un reclutamento mirato del personale, basato su caratteristiche specifiche quali la sensibilità ed il rispetto delle diversità culturali, le capacità di interazione e le abilità linguistiche -continua Delvecchio-; inoltre si punta alla multiculturalità dei servizi, sviluppando e agevolando la formazione degli operatori in prima linea, personale delle autorità di contrasto e penitenziarie, ma anche assistenti sociali, educatori e operatori della sanità". Ad oggi, però, non ci sono protocolli unitari. "È per questo che l’allocazione del detenuto rimane affidata all’intuito e all’esperienza maturata sul campo dagli agenti penitenziari -evidenzia Delvecchio, e gli accoppiamenti paiono inconsapevoli e non partecipati". Senza contare che questi sono del tutto sottratti a qualsiasi controllo -che sia ex ante o ex post- da parte della magistratura di sorveglianza. L’ubicazione del "nuovo giunto", infatti, è compito esclusivo di ciascun istituto penitenziario. È una questione di approccio. In questo senso, la proposta di legge "Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento di matrice jihadista" in discussione alla Camera, non sembra centrare esattamente il punto. Il giudizio della professoressa Delvecchio è tiepido. "L’anticipazione sul campo della prevenzione primaria è un momento importante, siamo indubbiamente di fronte all’emergenza. Non credo che il testo sia criticabile: i contenuti della proposta di legge, infatti, sono stati ampliati e con il nuovo articolo 11 (Piano nazionale per la rieducazione e la deradicalizzazione di detenuti e di internati) si fa timidamente cenno alla prevenzione terziaria, laddove si sottolinea la necessità di un trattamento penitenziario che tenda alla deradicalizzazione. La norma, d’altro canto, è assai generica, demandando ad un futuro regolamento ministeriale la specificazione dei contenuti; l’auspicio però è che il legislatore non ricorra a interventi dettati dalla fretta ma punti sempre di più ad abbassare i ponti levatoi tra carcere e società". Misure alternative: in sei mesi solo tre persone ne hanno approfittato per evadere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 luglio 2017 Permessi premio, semilibertà e lavoro esterno: i dati del 2017. Le evasioni da permessi premio, semilibertà e lavoro esterno sono sempre accompagnate da polemiche. Così come avvenuto per la vicenda di Giuseppe Mastini, meglio noto col nome di Johnny Lo Zingaro, uscito dal carcere di Fossano con altri tre detenuti, come lui in regime di semilibertà e ammessi al lavoro esterno, e che non si è presentato alla scuola di polizia penitenziaria di Cairo Montenotte, al confine tra le province di Cuneo e Savona lo scorso 30 giugno. L’ultima evasione riguarda un ristretto nel carcere di Terni quando era al suo primo giorno di lavoro esterno, così come per un altro detenuto nel carcere di Volterra che era in permesso premio. Per questi tre casi parliamo di misure alternative e non di detenzione e di un totale di tre evasioni nei primi sei mesi dell’anno 2017: 3 persone su 46.085 detenuti che, complessivamente in questo periodo, hanno beneficiato delle misure alternative al 30 giugno di quest’anno Ma la colpa è dei permessi premio e delle misure alternative? La risposta è no e chiariamo perché. Le misure alternative alla detenzione possono essere concesse solo ai condannati definitivi (per i quali la sentenza di condanna è irrevocabile, cioè non più impugnabile) e sono state previste dal legislatore in modo da facilitare il reinserimento sociale dei condannati nella società civile. Tra le principali misure alternative alla detenzione vi sono: per l’appunto l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione e la semilibertà. La detenzione domiciliare viene applicata quando al condannato viene concesso di scontare alcuni periodi di pena presso la propria abitazione oppure presso centri pubblici volti alla cura e all’assistenza dello stesso o presso altri luoghi definiti dalla legge come private dimore. Essa è diversa dagli arresti domiciliari. I secondi rappresentano infatti in gergo una misura cautelare, che quindi comporta sempre una limitazione della libertà personale. Nel caso della detenzione domiciliare, invece, viene concessa al condannato una sorta di riscatto dalla pena stessa prevista. Questa misura alternativa è inoltre possibile solo per coloro che devono scontare una pena che non superi i quattro anni di reclusione. La semilibertà, invece, può essere definita come una misura alternativa "impropria", ovvero il condannato resta in stato di detenzione e il suo reinserimento nell’ambiente libero è parziale. La sua disciplina giuridica consiste nel concedere al condannato e all’internato di trascorrere parte del giorno fuori dall’Istituto di pena per partecipare ad attività lavorative, istruttive e utili al reinserimento sociale. Le statistiche dicono che le misure alternative funzionano per il reinserimento dei detenuti nella società, la recidiva si abbassa e il Paese diventa più sicuro. Anche il Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria, spiega che queste evasioni - a corredo dell’articolo c’è un grafico elaborato da Il Dubbio a dimostrarlo - sono dati minimi rispetto ai beneficiari. "Servirebbe, piuttosto - spiega Donato Capece, il segretario del Sappe, un potenziamento del personale di Polizia penitenziaria nell’ambito dell’area penale esterna. A nostro avviso è fondamentale potenziare i presidi di polizia sul territorio, potenziamento assolutamente indispensabile per farsi carico dei controlli sull’esecuzione delle misure alternative alla detenzione, delle ammissioni al lavoro all’esterno, degli arresti domiciliari, dei permessi premio, sui trasporti dei detenuti e sul loro piantonamento in ospedale. E per farlo, servono nuove assunzioni nel corpo di Polizia penitenziaria". Capece poi prosegue con la denuncia: "La sicurezza dei cittadini non può essere oggetto di tagli e non può essere messa in condizione di difficoltà se non si assumono gli Agenti di Polizia Penitenziaria. Anche queste possono essere le conseguenze alle quali si va incontro con lo smantellamento delle politiche di sicurezza dei penitenziari e delle carenze di organico della Polizia penitenziaria, che ha 8mila agenti in meno". Le misure alternative, infatti, sono una risorsa indispensabile per la riuscita della pena. L’ultima notizia di cronaca riguarda Remi Nikolic, il giovane nomade che nel gennaio 2012, a bordo di un suv, travolse e uccise l’agente di polizia locale Niccolò Savarino. Condannato a 9 anni nel carcere minorile, ora esce dal carcere per scontare la pena all’affidamento in prova. L’applicazione dell’affidamento da un lato fa venir meno ogni rapporto del condannato con l’istituzione carceraria e dall’altro comporta l’instaurarsi di una relazione di tipo collaborativo con l’ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe). L’esito positivo del periodo di prova, la cui durata coincide con quella della pena da scontare, estingue la pena e ogni altro effetto penale. Parliamo di una delle misure alternative alla detenzione che rappresentano un’alternativa al carcere e consentono al soggetto che abbia subìto una condanna definitiva di scontare tutta la pena (o una parte di essa) fuori del carcere. La proibizione dell’affettività per i detenuti, una tortura che si aggiunge alla condanna di Noemi Azzurra Barbuto Libero, 14 luglio 2017 La negazione dell’affettività è un problema che affligge da sempre il sistema penitenziario italiano. Qualora la pena avesse una mera finalità punitiva, tale privazione avrebbe ragione di esistere. In un sistema, invece, in cui la pena ha una funzione di difesa della società, di risocializzazione e di rieducazione del reo, la mancanza di contatto fisico in carcere non solo non ha giustificazione, ma costituisce persino un supplizio inutile e crudele, che isola del tutto il carcerato, facendogli percepire la sua condizione come un fardello insostenibile. Tale solitudine causa un crollo psicofisico. Alcune ricerche condotte nelle carceri degli Stati Uniti hanno messo in luce che la carenza di legami intimi e di relazioni sociali portano il detenuto ad allontanarsi dalla sua famiglia e a sposare il modus vivendi che trova all’interno del sistema penitenziario. Per questo i colloqui con la famiglia dovrebbero avere un ruolo di primaria importanza, rappresentando non solo l’unico legame con il mondo esterno ma anche un baluardo dalla devianza nonché la possibilità di tenere in vita la speranza per un futuro migliore una volta scontata la pena. Nella realtà, però, gli incontri con i familiari sono frettolosi, avvengono in ambienti angusti, rumorosi e affollati, è proibito qualsiasi contatto di tipo fisico, come una carezza o un bacio, e tutto si svolge davanti agli occhi vigili delle guardie, dunque senza un minimo di intimità familiare. Alla fine dell’incontro, il detenuto sta peggio: ha potuto ritrovare coloro che ama, ma non è riuscito ad entrare in contatto con gli stessi. "La privazione dell’affettività in carcere è la mutilazione per antonomasia. Qualsiasi movimento spontaneo che tragga origine dal cuore, quando viene bloccato, equivale ad un’amputazione, persino l’atto di fare una carezza. Se durante i colloqui con i familiari dai un bacio a tua moglie, subito la guardia bussa sul vetro, così si insinua in te l’idea che tu sia una persona da non rispettare. Questa totale esclusione di contatto fisico mi ha creato numerosi disagi, anche fuori dal carcere, dove ho continuato a lungo a non sentirmi libero di esprimere la mia tenerezza. Ma chi ne ha sofferto di più è stata mia figlia. È stata lei a subire il dramma di una genitorialità monca. Mi disegnava senza gambe, perché così mi vedeva durante le visite, eravamo separati da un muro e da un vetro e ci parlavamo attraverso un microfono. Abbiamo dovuto costruire con pazienza un nuovo rapporto che includesse abbracci, carezze, baci, gesti fondamentali, che più delle parole comunicano amore e fiducia", ci racconta Fulvio Rizzo, ex detenuto in regime di 41 bis, oggi imprenditore e ristoratore di successo. "L’unico contatto possibile per noi detenuti del carcere di massima sicurezza era stringerci la mano ogni mattina durante l’ora d’aria. Non appena si scendeva in cortile allora ci si abbracciava, come se non ci si vedesse da tutta una vita. Questo ci dava sollievo. Ed era un trauma quando all’improvviso un amico veniva trasferito e sapevi che non lo avresti rivisto mai più. Per me era una sorta di funerale bianco", spiega Rizzo. Anche la proibizione della sessualità, quindi di una esigenza fondamentale dell’individuo, quasi come il bere ed il mangiare, è a tutti gli effetti una vera e propria tortura, che mortifica e degrada l’essere umano, provocando anche danni biologici. Secondo medici e psicologi, la mancanza di rapporti sessuali, così come quella di semplici carezze e di contatto fisico, è produttiva di numerose conseguenze negative sia a livello fisico che emotivo: disturbi del sonno, aggressività, depressione, stress, sbalzi d’umore, insicurezza, ansia. Le carezze, invece, innalzano il livello di ossitocina, ormone del benessere, migliorano la circolazione, aumentano le difese immunitarie ed alleviano la sofferenza fisica. La negazione del contatto fisico ha effetti nocivi anche sulla famiglia del detenuto, che piano piano si disgrega. Mogli, fidanzate, compagne, figli, si trovano a dovere scontare a loro volta una pena, a subire - loro malgrado - un’astinenza forzata, che a lungo andare sfinisce e demoralizza. Ecco che, alla fine, al detenuto è stato tolto davvero tutto, persino i suoi affetti. Spogliare di tutto l’essere umano, disumanizzandolo, non è affatto rieducativo, semmai è un’operazione utile solo per fabbricare bestie incattivite ed incapaci di vivere poi nella società. Eppure lo Stato appare più interessato a mettere in gabbia che a redimere. Molti atti sovranazionali affermano la necessità di riconoscere ai detenuti il diritto all’affettività e alla sessualità, diritto ritenuto inviolabile sia dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sia dalla nostra Costituzione. Inoltre, negli altri Stati europei tale diritto è riconosciuto e tutelato, non solo perché affettività e sessualità sono elementi fondamentali della personalità, la cui proibizione provoca danni alla salute del corpo e quella della psiche, ma anche perché garantire al reo la possibilità di esprimere la propria affettività anche nell’ambiente carcerario rappresenta uno strumento utile nel trattamento di recupero. All’interno del disegno di legge sulla riforma del sistema penitenziario, approvato in via definitiva 14 giugno scorso, si fa menzione della necessità da parte dell’ordinamento italiano di adeguarsi alla normativa internazionale e comunitaria relativa all’inserimento dell’affettività e della sessualità all’interno degli istituti carcerari. Resta ancora tragicamente escluso il regime del 41 bis. Ora bisognerà decidere come fare entrare l’affettività in carcere senza che questo leda le esigenze di ordine e sicurezza. Mutuando il modello spagnolo, si è pensato di creare unità abitative appositamente attrezzate, dove il detenuto possa incontrare il partner e/o i familiari per un lasso di tempo che dovrebbe andare dalle 4 alle 6 ore. "Una compressione anche della sfera affettiva finisce con l’esacerbare ancora di più frustrazione e devianza. Dando la possibilità al detenuto di mantenere il contatto fisico con coloro che ama si produrrebbero effetti positivi: in primis, una umanizzazione della pena, la quale altrimenti diventa restrizione ottusa che non tiene conto delle spinte primarie dell’individuo; in secondo luogo, un minore abbrutimento del soggetto, il quale potrebbe tirare fuori la parte migliore di se stesso. Dunque, l’affettuosità in carcere giova al compimento della finalità rieducativa. Di contro, la totale privazione conduce ad un pericoloso desiderio di riscatto e di rivalsa nei confronti della società", spiega Agostino Siviglia, garante dei diritti dei detenuti del comune di Reggio Calabria, nonché membro dei tavoli ministeriali degli stati generali dell’esecuzione penale deputati alla stesura di proposte di riforma dell’ordinamento penitenziario. Cosa pensa il Renzi garantista di "Avanti" del poco garantista Pd? di Annalisa Chirico Il Foglio, 14 luglio 2017 Basta khomeinismo giudiziario. Nessun automatismo tra avviso di garanzia e dimissioni. Stop a gogna mediatica e strapotere torrentizio all’interno del Csm. Ci sono interessanti spunti garantisti in "Avanti", il libro- manifesto di Matteo Renzi, appena uscito. Il Renzi-pensiero su quel che non va nel sistema giudiziario italiano, che pretende di essere la culla del diritto sebbene rischi di diventarne la bara, prova ad essere un avvertito vademecum su come la giustizia dovrebbe funzionare e non funziona; su come i rapporti tra giudici e politici dovrebbero effettivamente declinarsi in una democrazia liberale, fondata sulla cultura del diritto e non del sospetto; su come le carriere di magistrati e giornalisti dovrebbero viaggiare su binari paralleli anziché cedere alla promiscuità incestuosa che seppellisce la privacy in nome della libertà di sputtanamento mascherata per dovere di cronaca. Una inversione a U radicalmente innovativa, un big bang che non ha a che fare con l’età o altri vezzi formalistici ma punta alla sostanza di una questione cruciale per la qualità dello stato di diritto e per la competitività del paese. Peccato però - piccolo dettaglio - che l’autore di tale recherche giudiziaria sia anche segretario del partito che in Parlamento s’impegna alacremente per approvare la "polpetta avvelenata", copyright Cantone, di un codice antimafia che azzera le garanzie, minaccia l’economia e umilia il processo. Tra il dire e il fare, verrebbe da dire, c’è ancora di mezzo il comandare. Ci piacerebbe conoscere il Renzi-pensiero sullo spirito riformatrice del Guardasigilli Orlando in questo scampolo finale di legislatura. Ci piacerebbe conoscere il Renzi-pensiero sulla contestatissima ipotesi di estendere le misure di prevenzione, già di per sé imputazione del sospetto, agli indiziati di peculato e corruzione. Ci piacerebbe domandare all’autore di queste pagine come giudichi la scelta del legislatore di introdurre il "fine processo mai" attraverso l’allungamento ad aeternum dei termini di prescrizione che fa ricadere le inefficienze della magistratura sulle spalle dei cittadini. Della serie: se lo stato non riesce a processarti in tempi certi e ragionevoli, la soluzione non è accorciare i processi ma allungarli oltremisura. Sebbene, a parità di norme e risorse, tra gli uffici giudiziari si rilevino vistosi gap di produttività. Meglio introdurre per legge una spada di Damocle in grado di paralizzarti l’esistenza per i prossimi vent’anni. Care vittime: portate pazienza. È su queste contraddizioni che si gioca il futuro del paese e la credibilità di una proposta di governo che vada oltre gli slogan. Renzi decide di spezzare le "catene della sinistra" in un campo minato che più di ogni altro ha contrassegnato, e inquinato, la storia politica nazionale degli ultimi venticinque anni. "lo ho sempre detto che volevo vedere Berlusconi fuori dalla politica non per le sue vicende giudiziarie, ma perché sconfitto alle elezioni. Mi piace l’idea di mandare a casa gli avversari, non di mandarli in carcere". Tutto giusto, ineccepibile, sacrosanto. E i fatti? Le vittime fanno capolino anche a sinistra. Renzi difende Graziano, numero uno del Pd campano infilzato nel ruolo di pseudo-mafioso, anche grazie alle misurate filippiche di Saviano, prima di essere scagionato da ogni accusa. C’è il caso di Soru, Mr. Tiscali, indagato nei titoloni in prima pagina e assolto in un trafiletto a pagina dieci. Renzi esorta a guardare "avanti", la strada da percorrere è ancora lunga, e non è detto che la bicicletta sia il mezzo più indicato. Vivere con lentezza ma riformare swiftly. Abbiamo speso i mille giorni in un governo che in materia giudiziaria non ha fatto sognare. L’insofferenza che in diverse occasioni Renzi premier faceva trapelare nei confronti di Orlando accusato di eccessivo tatticismo, è al più un’attenuante. Il ministro della Giustizia ha ottenuto l’approvazione della sua riforma del processo penale allungando la prescrizione nel paese dove quasi il 60 per cento delle prescrizioni matura nella fase delle indagini preliminari (quando il dominus è il pm). Il governo Renzi non si è sottratto alla consuetudine patriottica degli esecutivi che invocano il disboscamento normativo nello stesso istante in cui seguitano a sfornare nuove leggi (e reati). Sulla responsabilità civile il commento più genuino e sferzante appartiene all’allora numero uno dell’Anm, Davigo: "L’unica conseguenza è che ora pago 30 euro l’anno in più per la mia polizza". Quanto alla custodia cautelare, la percentuale di detenuti in attesa di giudizio è rimasta pressoché invariata mentre negli ultimi sei mesi la popolazione carceraria è tornata a crescere. Nel civile gli operatori economici beneficiano dell’abbattimento dei tempi reso possibile dall’istituzione delle sezioni specializzate, il cosiddetto Tribunale delle imprese, creatura dell’allora Guardasigilli Paola Severino. È importante farsi dono della verità per scongiurare il mostro della post giustizia. Che come la post verità è una balla anestetizzante. Sullo sfondo del manifesto renziano campeggia l’anomalia inquietante del caso Consip con alcuni carabinieri e un magistrato indagati, a vario titolo, per depistaggio, falsificazione di atti giudiziari e rivelazione del segreto d’ufficio, in una inchiesta che sembra architettata ad arte al fine di colpire il premier in carica per interposta persona. Renzi non si atteggia a vittima: "noi vogliamo consentire il corso dei processi, non accampiamo scuse per ostacolare le indagini". Perciò, quando a pochi giorni dal referendum sulle trivelle la procura di Potenza chiede di interrogare il sottosegretario De Vincenti nello stesso momento in cui deve svolgersi il Consiglio dei ministri, De Vincenti viene invitato ad assentarsi da Palazzo Chigi per collaborare con i magistrati. Tempa rossa sappiamo com’è andata a finire. Il ministro Guidi, mai indagata, fu accompagnata alla porta. Imparare dall’esperienza, lo suggeriva pure la nonna. Criminalità minorile, un fenomeno in crescita? di Anna Piscopo mediapolitika.com, 14 luglio 2017 Intervista a Nicola Petruzzelli, direttore dell’Istituto Penale per i minorenni di Bari. Si vestono da grandi, si atteggiano a uomini sicuri, in realtà sono poco più che adolescenti: giovani sicari, "evasori" dell’obbligo scolastico cui la criminalità organizzata insegna troppo presto l’uso delle armi. Un "inquinamento" che spesso avviene già in famiglia, segnando per sempre la vita di questi ragazzi. La scorsa settimana abbiamo parlato dello spettacolo teatrale "La paranza dei bambini" tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano. Oggi vogliamo soffermarci sulla devianza minorile non come "fenomeno" ma come realtà che riguarda ormai tutto il Paese, da Nord a Sud. Non semplicemente "piccoli delinquenti": la microcriminalità è "microcosmo sociale" e per comprenderlo è necessario considerare le variabili macro-economiche, istituzionali e sociali. Per usare le parole del sociologo Antonio Panarese, "la devianza minorile è una costruzione sociale che affonda le proprie radici nell’humus della struttura economica e nei rapporti di produzione determinati; ma ha al tempo stesso una sua valenza specifica. Poiché è inserita in un meccanismo economico e sociale, con il passare del tempo tende ad automatizzarsi, a ritagliare spazi di potere economico sempre più autonomi, ma al tempo stesso ad integrarsi e collegarsi intimamente con il ciclo economico della criminalità adulta" (Panarese A., La devianza minorile, 1988 Bari). La subcultura mafiosa mette in comunicazione giovani e adulti. Attraverso il ciclo della ricettazione, il racket dei furti d’auto e il riciclaggio delle stesse, la catena degli scippi e il ciclo della droga, si è venuto costruendo e articolando un sottosistema economico criminale illegale che cerca di integrarsi e intrecciarsi con il sistema economico legale. I rapporti di collegamento tra questi due sistemi sono fitti e intesi. I "minori devianti" sono le nuove leve per operazioni illegali, trait-d’union con la malavita organizzata adulta. Ristretti in carcere, i "giovani devianti" assimilano gli stereotipi della "sub-cultura" criminale, interiorizzando i valori della violenza, dell’individualismo esasperato, dell’uso rapido e immediato delle armi come elemento di risoluzione dei conflitti. Questi sono i frutti perversi di una strutturazione e composizione sociale basata sul profitto e sulla competizione più sfrenata. Il rapporto Mafia Minors - Per un’analisi più puntuale del fenomeno, facciamo riferimento al rapporto "Mafia Minors", uno studio finanziato dal programma Agis 2004 della Commissione Europea - Direzione Generale Giustizia e Affari Interni. Punto di partenza della ricerca è la consapevolezza che "le prime vittime della mafia sono proprio i ragazzi, chiamati a fare appello, a fare schiera, a fare esercito, a fare a meno della loro giovinezza per essere pronti a tutto e senza l’incertezza dell’ingombro delle emozioni, della paura". Anche se non tutti i ragazzi che intrecciano legami con le mafie entrano nel circuito penale con l’esplicita imputazione dell’art. 416bis. Pertanto, si è andata definendo una sfera di vicinanza, i cosiddetti ragazzi alone, ragazzi contigui alla mafia, per i quali tuttavia non si applica l’art. 416bis. Inoltre, nel verificare il numero dei reati, delle età dei giovani che li compiono, sono state contattate le Procure delle regioni Puglia e Campania: le Procure di Bari, Lecce e Taranto per la Puglia, e quelle di Napoli e Salerno per la Campania in un arco di tempo che va dal 1990 al 2002. I dati affermano che sono stati iscritti 148 soggetti per il reato associativo di cui al 416bis. Un interrogativo sottende qualsiasi ricerca in questo campo: perché la criminalità organizzata riesce ancora a scavare nella crisi d’identità dei giovani, in particolare del meridione? Può essere questa per loro una valida opportunità? Intervista a Nicola Petruzzelli Nicola Petruzzelli, direttore dell’Istituto Penale per i minorenni "Nicola Fornelli" di Bari, ci racconta com’è cambiata la realtà - in questo caso quella barese - dal 1995, quando è diventato responsabile del Fornelli. Direttore, com’era la situazione della criminalità minorile negli anni 90? C’era ancora una massiccia presenza di soggetti provenienti dalle province di competenza del distretto di Corte d’Appello di Bari. Parliamo di una popolazione di detenuti che si aggirava intorno alle 50-60 unità. Per un istituto penitenziario per i minori è un numero considerevole. Di questi ragazzi molti erano contigui alla criminalità organizzata anche se non partecipi attivamente. Spesso quando i ragazzi venivano arrestati per reati "comuni" dichiaravano di essere incompatibili con altri appartenenti ad altre famiglie, i cosiddetti "divieto d’incontro". Questa la situazione fino alla metà degli anni 90. Come si sono modificate le norme di procedura penale nei confronti dei minori? Nel tempo si sono modificate le norme sia di procedura penale sia di diritto penitenziario che hanno inciso anche sul dpr 448 dell’88, norme che hanno portato a una grossa deflazione della carcerazione minorile. Infatti, oggi i ragazzi detenuti nel Fornelli sono 21, dei quali neppure metà appartiene al distretto della Corte d’Appello di Bari. In realtà siamo fermi a una norma transitoria del 1975, che è l’articolo 79 dell’ordinamento penitenziare vigente, il quale dice che in attesa che il legislatore emani una specifica norma sull’esecuzione penale minorile si applicano ai minori tutti gli istituti dell’ordinamento penitenziario (liberazione anticipata, la semilibertà). Tutto questo perché abbiamo applicato in Italia quel principio di diritto internazionale sancito in tutte le convenzioni internazionali, le quali prevedono che gli interventi riguardanti i minori non abbiano come obiettivo la punibilità quanto il suo recupero, in virtù deli articoli 30 e 31 della Costituzione, riferiti alla tutela dei diritti dell’infanzia e della gioventù. In media quanti ragazzi condannati per reati associativi ci sono attualmente nell’istituto? Non abbiamo ragazzi condannati per reati associativi, ma ciò non toglie che qualche giovane barese faccia riferimento ad alcune delle associazioni criminali locali. Cosa accade ai minori quando escono dal carcere? Il Comune di Bari nelle due consiliature di Michele Emiliano ha introdotto un metodo nuovo di risposta alla criminalità. Ha istituito un’agenzia non repressiva per la lotta alla criminalità organizzata. È stata così inaugurata una stagione alternativa alla semplice repressione del fenomeno. Inoltre, Emiliano ha chiamato a raccolta intorno a sé tutte le agenzie e le istituzioni: dalla Procura minori ai giudici minorili, alla prefettura alle forze dell’ordine ai servizi sociali territoriali alle associazioni, l’istituto penale, cioè tutti i partner che avrebbero dovuto mettere in campo una "strategia" alternativa. Lo scopo era di tutelare preventivamente i minori in età evolutiva per evitare che poi questi ragazzi potessero arrivare alla devianza, poi dalla devianza al disagio, e infine dal disagio alla criminalità. Di fatto questa agenzia esiste ancora, confermata dal sindaco Antonio Decaro. Come si potrebbe evitare il carcere? Abbiamo un’ottica nel carcere minorile rovesciata e parziale, poiché riceviamo qui una parte ristretta della criminalità minorile, la quale ormai è refrattaria a una serie di interventi eseguiti prima di fare ricorso alla misura cautelare. Considerando il numero esiguo di istituti penitenziari presenti su tutto il territorio nazionale (con circa 450 detenuti), chi è oggi nel carcere minorile rappresenta lo zoccolo duro della criminalità minorile, cioè quella parte di soggetti che avendo già esperito tutte le possibilità che il codice di procedura penale minorile e l’ordinamento penitenziario riservano ai minori, come trattamento di estremo favore, i giudici applicano infine la norma più rigida. Per questa ragione abbiamo un’ottica sbagliata. Bisogna "lavorare" sul dove questi ragazzi vengono restituiti, ovvero sul territorio. Il nostro obiettivo è di rendere più breve il periodo in carcere, compatibilmente con il reato commesso e con le condizioni di recupero. Cerchiamo, dunque, di predisporre un programma di trattamento e di intervento che abbia come possibile epilogo quello di una misura cautelare non detentiva, oppure di una misura alternativa non detentiva, ovvero la semilibertà, l’affidamento ai servizi sociali, la detenzione domiciliare o altre. Per cui l’ottica dell’intervento davvero risolutivo andrebbe rovesciata, partendo dunque dal territorio dove c’è la gran parte dell’utenza minorile criminale. Qual è l’istituto maggiormente utilizzato dal magistrato minorile? Il diritto minorile penale e processuale prevede una serie di istituti di deflazione dell’intervento penale: l’istituto principe è quello della "messa alla prova", si tratta di un istituto "eccezionale" (prima previsto soltanto nel circuito minorile, di recente applicato anche agli adulti) che consiste nella sospensione del procedimento penale per un periodo di tempo di cosiddetta "messa alla prova". Tuttavia, mentre per gli adulti questa possibilità è limitata ad alcuni reati di lievissima entità e sanzionati con pene molto basse, nei minori la possibilità di sospendere il procedimento penale è possibile per qualsiasi tipo di reato commesso. Quindi la norma non individua né una soglia di pena, né una tipologia di reato a fronte della quale la messa alla prova è vietata. Inoltre, il procedimento penale può essere sospeso per un massimo di tre anni durante il quale il soggetto è messo nella condizione di sperimentarsi in un progetto di recupero. Tutto ciò preventivamente alla condanna e al processo, il quale viene sospeso. In questo periodo vengono effettuate verifiche intermedie svolte dai servizi sull’andamento del programma. Se alla fine del periodo l’esito è positivo, si può giungere all’estinzione del reato, cioè come se il minore rimanesse incensurato. Questa è la novità assoluta introdotta dal codice di procedura penale del 1989. Quali sono gli istituti che tutelano il minore? Sono diversi. Da 0 a 14 anni i soggetti non sono imputabili, cioè non possono essere perseguiti penalmente. Ciò non vuol dire ce non vi sia punibilità, infatti ci sono misure di cautela che attengono alla difesa sociale della comunità che consistono nella libertà vigilata o nell’inserimento in comunità. Il codice Rocco, quindi un codice pre-repubblicano, dice che è necessario sempre e comunque accertare la maturità del soggetto, ovvero la sua reale capacità di intendere e di volere rispetto al reato. Pertanto, sebbene da 14 a 18 si può essere imputabile, il giudice deve sempre accertarne la maturità. In definitiva l’accertamento dell’imputabilità è obbligatoria. Questa è un’altra gande possibilità per i minori, mentre per gli adulti questa opportunità esiste, ma soltanto in relazione al "vizio di mente", davanti al quale l’imputato può essere prosciolto. Ancora, per i minori vale la possibilità di essere prosciolti per la "speciale tenuità del fatto" o speciale rilevanza del fatto. Istituto introdotto nel 1989 e, attualmente ripreso anche per gli adulti, secondo il quale se il minore viene inquadrato in un episodio di lieve entità, ciò può portare al proscioglimento. Un altro istituto previsto per i minori è il "perdono giudiziale" (è già dal Codice Rocco) che può essere applicato dal giudice. Si può ricevere il "perdono" anche più di una volta a condizione che la somma delle pene che avrebbe riportato il minore non superi i due anni. Poi c’è la "sospensione condizionale della pena" se la stessa non superiore a tre anni. Infine, si applicano ai minori tutte le misure di favore previste dal nuovo codice di procedura penale Vassalli, per cui ad esempio di può ottenere il rito abbreviato e quindi una riduzione della pena non inferiore a un terzo, chiamata "diminuente obbligatoria della minore età". Infine, ai minori spettano anche altre attenuanti, come il risarcimento del danno alla parte offesa (normato anche per gli adulti). Questo spiega perché è esiguo il numero di minori detenuti dall’istituto. Che immagine offrono i media della microcriminalità? I reati commessi dai minori hanno, dal punto di vista mediatico, una risonanza elevatissima. Inoltre se avvengono in piccoli quartieri l’identificazione del reo è quasi automatica. Tutto ciò è controproducente per la stigmatizzazione negativa del minore. Le famiglie di questi ragazzi appartenenti alla criminalità organizzata come reagiscono? Le famiglie dei ragazzi sono presenti, direi in maniera asfissiante non solo fuori, ma anche durante il periodo di detenzione del ragazzo/a. Presenti dal punto di vista anche economico. Sono famiglie, dunque, più che presenti. Va da sé che tutto questo rende arduo il percorso di fuoriuscita del minore dallo stato in cui si trova. Quale sarebbe la soluzione migliore per questi ragazzi? Sarebbe quella di cambiare i connotati, sradicarsi dal proprio territorio e acquisire una nuova identità, troncando in maniera netta qualsiasi rapporto non soltanto con la criminalità, ma anche con la parentela rimasta. Pena la morte. La parentela, invece, deve dissociarsi da colui che ha deciso di rinnegare la sua origine. Pena la morte. E le sentenze della criminalità organizzata sono eseguite in maniera feroce, senza deroga. Ma chiedere a un ragazzo in fase di sviluppo di rinnegare la propria famiglia è complesso. Perché nel carcere minorile sono detenuti anche gli adulti? Quale ricaduta può avere nel percorso di sviluppo del minore? Purtroppo questo lo dobbiamo accettare come conseguenza di una decisione da parte del legislatore, il quale nel 1989 ha deciso di introdurre nelle carceri minorili soggetti fino a 21 anni che avevano commesso reati da minorenni. Un altro errore è stato compiuto nel 2014 quando il legislatore lo ha addirittura esteso. Il ministro Orlando e il presidente del Consiglio Matteo Renzi hanno ritenuto, nel giugno dello scorso anno, di estendere la permanenza nelle carceri minorili di soggetti che hanno commesso reati da minori fino a 25 anni di età. Fortunatamente il legislatore, rispetto a ciò che era stato proposto dal governo in questo decreto legge, ha deciso di modificare in Parlamento la norma. Il risultato è stato che la Commissione Giustizia della Camera ha emanato la norma e ha posto un filtro dando al giudice la possibilità di valutare, caso per caso, l’opportunità di questa presenza sulla base di due requisiti: la sussistenza di particolari ragioni di sicurezza e le finalità educative da perseguire. Ci sono stati casi di "promiscuità" nell’istituto? Si, e in genere si tratta di ragazzi di una pericolosità sociale estrema, che hanno continuato a delinquere anche dopo il compimento della maggiore età, e che hanno avuto esperienza nelle carceri per adulti. Inoltre, sono stati dichiarati pericolosi socialmente e in alcuni casi hanno riportato misure di prevenzione. Si tratta di soggetti che addirittura rifiutano misure di "favore" previste per i minori e esprimono la volontà di ritornare nel carcere per gli adulti. Senza trascurare le difficoltà che abbiamo sul piano educativo e pedagogico. La norma avrebbe avuto senso se fossimo stati dotati di stabilimenti differenti in modo tale da "separare" i soggetti minori da quelli della fascia di età da 18 a 21 anni e da 21 a 25, così da differenziare i trattamenti. Il risultato è che oggi noi abbiamo per il 90% nelle carceri minorili una situazione di promiscuità tra soggetti di 14 anni e di 25. Fortunatamente, il giudice di sorveglianza ha giudicato questi ultimi, tutti inidonei poiché la loro presenza è controproducente oltre che pericolosa per ragazzi in fase evolutiva. Infine per quanto riguarda la criminalità organizzata sarebbe bene evitare questa "promiscuità" per evitare fenomeni di proselitismo e cooptazione che già si sono verificati in passato. La Consulta: rivedere le sanzioni sule droghe pesanti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2017 Corte costituzionale, sentenza 13 luglio 2017 n. 179. Non c’è dubbio: il trattamento sanzionatorio sulle droghe pesanti andrebbe rivisto. Produce infatti "un’anomalia sanzionatoria rimediabile con plurime opzioni legislative". Di più: "Tenuto conto dell’elevato numero dei giudizi, pendenti e definiti, aventi ad oggetto reati in materia di stupefacenti, non può non formularsi un pressante auspicio affinché il legislatore proceda rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi dai commi 5 e 1 dell’articolo 73 del Dpr n. 309 del 1990". Il monito arriva dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 179/2017, depositata ieri e scritta da Marta Cartabia. Oggetto della pronuncia le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Ferrara e dal Gup di Rovereto, entrambe centrate sul regime punitivo in materia di stupefacenti. Dopo un complesso sviluppo legislativo e giurisprudenziale, si è venuta a creare, sulle droghe pesanti, una profonda frattura nel trattamento sanzionatorio tra minimo edittale del fatto di non lieve entità (8 anni) e massimo edittale del fatto lieve (4 anni), ritenuta in contrasto con i principi di ragionevolezza e proporzionalità garantiti dagli articoli 3 e 27 Costituzione, oltre che dall’articolo 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dall’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Nelle ordinanze di rinvio alla Corte costituzionale si metteva in evidenza il rischio di sperequazioni punitive per effetto della disciplina delle sanzioni, che costringe il giudice a punire con misure molto diverse tra loro casi non molto differenti quanto a capacità offensiva oppure a infliggere sanzioni sproporzionate per eccesso o per difetto in un numero rilevante di condotte. La sentenza da una parte ammette che, anche se si tratta di reati autonomi, differenze tra i due reati non giustificano salti sanzionatori di entità così rilevante come quello attualmente presente nei diversi commi dell’articolo 73. Tuttavia, i margini per mitigare questa situazione, in attesa di una correzione da parte del legislatore, esistono e conducono comunque a un giudizio di inammissibilità. Per esempio, sottolinea la Consulta, "deve rilevarsi che la tenuità o la levità del fatto possono essere (e sono) prese in considerazione dal legislatore a diverso titolo e con effetti che possono determinare "spazi di discrezionalità discontinua" nel trattamento sanzionatorio". Più precisamente "simile discontinuità può corrispondere a una ragionevole esigenza di politica criminale volta a esprimere, attraverso un più mite trattamento sanzionatorio, una maggiore tolleranza verso i comportamenti meno lesivi e, viceversa, manifestare una più ferma severità, con sanzioni autonome più rigorose, nei confronti di condotte particolarmente lesive". Possibile la revoca dei decreti condanna per omesse ritenute di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2017 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 13 luglio 2017 n. 34362. Da revocare tutti i decreti penali di condanna per omesso versamento di ritenute certificate. Nei procedimenti in corso e anche quando la sanzione è definitiva. La Corte di cassazione mette nero su bianco con la sentenza n. 34362depositata ieri le conseguenze dell’intervento legislativo del 2015, con il decreto 158. L’innalzamento delle soglie di rilevanza penale da 50.000 a 150.000 ha determinato infatti "l’abolizione parziale del reato commesso in epoca antecedente che aveva ad oggetto somme pari o inferiori a detto importo". Le conseguenze? Nel caso esaminato la revoca del decreto penale di condanna alla pena di 15.000 euro di multa per il reato previsto dall’articolo 10 bis del decreto legislativo n. 74 del 2000. Effetto che naturalmente potrà essere esteso a tutti i procedimenti penali in corso per il medesimo reato. Ma che, nello stesso tempo, rendendo applicabile l’articolo 673 del Codice procedura penale, apre la strada anche alla revoca delle condanne definitive da parte del giudice dell’esecuzione, al quale dovrebbe essere presentata istanza per il relativo incidente. Al centro della riflessione della Corte un tema "classico", la successione di leggi penali nel tempo. I precedenti della stessa Cassazione si erano divise tra un indirizzo prevalente, ricordato dal tribunale che aveva confermato il decreto di condanna respingendo la richiesta di revoca, che valorizzava la formula di assoluzione "perché il fatto non sussiste" e un’altra linea, minoritaria, che invece ha sostenuto la formula di proscioglimento "perché il fatto non è più previsto come reato". Ora la Cassazione, dichiara, a prescindere dalle diverse formule assolutorie, di volere arrivare a una conclusione sull’applicazione dell’articolo 673, comma 1, del Codice penale in materia di revoca della sentenza per abolizione del reato. La sentenza sottolinea come, nel caso in questione, si sia in presenza di un’abolizione parziale del reato, visto che tra le due fattispecie esiste un rapporto di specialità per cui la norma sopravvenuta esclude a rilevanza penale di quelle "sotto-fattispecie" che non sono più comprese in essa. Tradotto nel caso affrontato dalla Cassazione, la modifica di un elemento costitutivo del reato come la soglia di punibilità, rende la nuova fattispecie speciale rispetto alla precedente perché ne restringe l’ambito applicativo. "Viene dunque esclusa - puntualizza la Corte - la penale rilevanza di una o più sotto-fattispecie astratta (nel caso in esame gli omessi versamenti di importi compresi tra 50.000 euro e la nuova soglia di punibilità)". In questa prospettiva, la Cassazione valorizza il nucleo dell’articolo 2 comma 2 del Codice penale: il fatto che nessuno possa essere punito per un fatto che secondo la legge successiva non costituisce più reato equivale ad affermare il principio fondamentale per cui la pena non è inflitta per una semplice trasgressione alla norma, ma per la lesione o la messa in pericolo di un bene ritenuto meritevole di protezione dall’ordinamento. Quando il giudizio cambia, allora a risentirne è la disciplina penale di quelle condotte che di quel bene erano state ritenute lesive. E allora la legge delega sulla revisione del sistema tributario penale, aveva previsto espressamente la possibilità di ridurre le sanzioni per le fattispecie ritenute meno gravi o di applicare sanzioni amministrative al posto di quelle penali, tenendo conto anche di adeguate soglie di punibilità. In esecuzione di questo criterio si è mosso allora il legislatore delegato con l’introduzione di una nuova e più elevata soglia di punibilità dei fatti di omesso versamento di ritenute certificate e di omesso versamento dell’Iva. Soglia al di sotto della quale a scattare sono semmai sanzioni di natura amministrativa. "Il mutato giudizio di offensività della condotta omissiva - afferma adesso la Cassazione - si è tradotto nel restringimento dell’area della sua penale rilevanza, con assegnazione a quella amministrativa delle condotte che si collocano al di sotto della nuova soglia". Si è così puntualmente verificata un’ipotesi di abolizione di reato in relazione a tutti i casi inferiori alla nuova soglia. E dunque, conclude la sentenza, la formulazione del proscioglimento non può che essere quella "perché il fatto non è previsto dalla legge come reato", più favorevole per chi continua tuttora a essere imputato ma anche per chi è stato condannato definitivamente. Dalle Sezioni unite solo uno spiraglio per il danno punitivo di Giulio Ponzanelli Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2017 Le Sezioni unite modificano l’orientamento giurisprudenziale preesistente e rendono delibabili in Italia le decisioni straniere che comportano una condanna a danni punitivi. La decisione del 5 luglio 2017 n.16601 è stata molta attesa da tutti gli operatori del diritto e presenta un contenuto largamente prevedibile, anche alla luce della decisione 7613/2015 (ove la Corte di cassazione aveva dato il via libera per il loro riconoscimento in Italia alle astreintes) e dell’ordinanza interlocutoria (9978/2016) con la quale la Prima sezione della Corte di Cassazione aveva richiesto l’intervento delle sezioni unite ritenendo la questione di primaria importanza. Dunque già si delineava il superamento di due decisioni della Cassazione (la 1183/2007 e la 1781/2012)e di una della Corte di appello di Trento, Sezione distaccata di Bolzano, che risaliva al 2008. Come intuibile, la sentenza ha avuto una forte ricaduta nell’opinione pubblica, assai superiore ad altre decisioni delle Sezioni unite. Ma le sono stati attribuiti un significato e una rilevanza più ampi di quando è scritto nel suo testo, come se il caso deciso non riguardasse tanto solo una vicenda internazionale-privatistica, ma potesse addirittura incidere sul livello di risarcimento in Italia. Il riconoscimento, e la relativa novità, non riguarderebbe quindi solo le sentenze straniere di condanna a danni punitivi, ma anche la stessa configurabilità di una categoria di danno punitivo nell’ordinamento italiano. La Corte di cassazione, in realtà, fa riferimento alla polifunzionalità posseduta dalle regole di responsabilità civile, che non solo è sostenuta dalla maggioranza della dottrina italiana (e non solo quella più avvezza all’uso delle categorie giuseconomiche), ma che trova anche recezione in una articolata disciplina legislativa che, dal processo civile al diritto del lavoro, dalla proprietà industriale al diritto di famiglia, ha negli ultimi venti anni introdotto figure specifiche di risarcimento del danno che nulla hanno a che vedere con la riparazione del pregiudizio sofferto dal danneggiato e che finiscono per svolgere altre funzioni (sanzionatorie, deterrenti, punitive, dissuasive eccetera). Proprio la presenza di questo quadro normativo rende possibile la delibazione di sentenze straniere che dispongano risarcimenti punitivi: infatti, per non ricadere nel divieto draconiano dell’ordine pubblico, è necessario che la sentenza straniera, di cui si chiede il riconoscimento, tragga vita da una norma tipica e prevedibile, e che, nell’ordinamento ove la sentenza debba essere riconosciuta, non debba esistere una preclusione assoluta ed incompatibile ai valori sui quali la norma straniera è basata. E la disciplina interna appena ricordata nella sentenza è la precisa conferma che le finalità punitive e deterrenti proprie dei danni punitivi non possano essere considerate estranee e aliene ai compiti della r.c. Queste finalità punitive e deterrenti hanno però sempre bisogno di essere recepite in una norma. Senza una "intermediazione legislativa", ricordano le Sezioni unite, il giudice non può "imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimenti che vengono liquidati". In altri termini, fuori dagli interventi legislativi diffusamente ricordati nella decisione delle Sezioni unite, il giudice dovrà sempre seguire il principio generale di integrale riparazione del danno, che impone che tutto il danno venga risarcito, ma non autorizza certo a riconoscere un risarcimento ulteriore per la condotta soggettiva con la quale è stata posta in essere l’attività del danneggiante. Il principio dell’equivalenza del dolo e della colpa torna quindi a essere il fulcro del sistema. Il riconoscimento di sentenze straniere ai danni punitivi (sempre che il loro livello non sia abnorme e/o irragionevole, e l’ultima evoluzione giurisprudenziale nordamericana va proprio in questo senso) costituisce aspetto diverso dal livello del risarcimento interno, che non subirà variazioni. Del resto, il risarcimento del danno alla persona in Italia è già il più alto in Europa, e non è necessario e opportuno che esso venga accresciuto, perché questo comporterebbe necessariamente e inevitabilmente un aumento del livello dei premi assicurativi, che anch’essi, e non è certo un caso, già sono i più alti in Europa. I confini tra illecito penale e illecito amministrativo in tema di immissioni acustiche Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2017 Contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica - Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone - Emissioni o immissioni sonore - Derivanti da esercizio di professioni o mestieri - Illecito penale o illecito amministrativo - Discrimine. In tema di immissioni acustiche la condotta costituita dal superamento dei limiti di accettabilità di emissioni sonore derivanti dall’esercizio di professioni o mestieri rumorosi integra un illecito amministrativo (articolo 10, L. quadro sull’inquinamento acustico), in applicazione del principio di specialità di cui all’art. 9, l. 689/1981, e non costituisce pertanto reato ai sensi del comma 2, articolo 659 c.p. Conserva, invece, rilevanza penale l’attività lavorativa che provochi disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone che si qualifichi per la violazione di prescrizioni attinenti al contenimento della rumorosità e diverse da quelle concernenti i limiti delle immissioni e emissioni sonore. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 22 giugno 2017 n. 31279. Contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica - Fattispecie previste ai commi 1 e 2 dell’articolo 659 c.p. - Differenze. L’articolo 659 c.p. prevede due autonome fattispecie di reato configurate rispettivamente dal comma 1 e dal comma 2. L’elemento che le differenzia è rappresentato dalla fonte del rumore prodotto, giacché ove esso provenga dall’esercizio di una professione o di un mestiere rumorosi la condotta rientra nella previsione del secondo comma del citato articolo per il semplice fatto della esorbitanza rispetto alle disposizioni di legge o alle prescrizioni dell’autorità, presumendosi la turbativa della pubblica tranquillità. Qualora, invece, le vibrazioni sonore non siano causate dall’esercizio dell’attività lavorativa, ricorre l’ipotesi di cui all’articolo 659 c.p., comma 1, per la quale occorre che i rumori superino la normale tollerabilità ed investano un numero indeterminato di persone, disturbando le loro occupazioni o il riposo. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 20 marzo 2014, n. 13015. Contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica - Esercizio di mestieri rumorosi - Superamento dei limiti massimi di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali - Contravvenzione di cui all’articolo 659, comma secondo, c.p. - Configurabilità - Esclusione - Illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma secondo, l. 447 del 1995 - Configurabilità. L’inquinamento acustico conseguente all’esercizio di mestieri rumorosi, che si concretizza nel mero superamento dei limiti massimi o differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia, integra l’illecito amministrativo di cui alla Legge 26 ottobre 1995, n. 447, articolo 10, comma 2 (legge quadro sull’inquinamento acustico) e non la contravvenzione di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone (articolo 659 c.p., comma 1). • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 13 dicembre 2012, n. 48309. Reati contro l’ordine pubblico - Contravvenzioni - Disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone - Autonomia delle fattispecie criminose previste dal primo e dal secondo comma dell’articolo 659 cod. pen. - Caratteri differenziali. L’articolo 659 c.p. prevede due distinte ipotesi di reato: quello contenuto nel primo comma ha ad oggetto il disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone e richiede l’accertamento in concreto dell’avvenuto disturbo; mentre quello previsto nel secondo comma riguardante l’esercizio di professione o mestiere rumoroso, prescinde dalla verificazione del disturbo, essendo tale evento presunto "iuris et de iure" ogni volta che l’esercizio del mestiere rumoroso si verifichi fuori dai limiti di tempo, di spazio e di modo imposti dalla legge, dai regolamenti o da altri provvedimenti adottati dalle competenti autorità. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 9 ottobre 2012 n. 39852. Cagliari: condizioni inumane a Buoncammino, lo Stato risarcisce due ex detenuti di Francesca Mulas sardiniapost.it, 14 luglio 2017 Sono stati tenuti in celle piccolissime, con poche ore d’aria e pochissimo tempo dedicato alla socialità: due ex detenuti nel carcere di Buoncammino hanno ottenuto oggi un risarcimento dallo Stato italiano per detenzione in condizioni disumane. La sentenza, tra le prime del genere in Italia, è stata pronunciata oggi da Maria Grazia Cabitza, giudice del Tribunale civile di Cagliari, che ha esaminato il ricorso presentato tre anni fa dall’avvocato Giovanni Battista Gallus contro il Ministero della Giustizia per conto di due uomini rinchiusi a Buoncammino tra il 2007 e il 2008 e oggi liberi. Spazi troppo angusti, secondo gli ex detenuti, dove era impossibile muoversi, inferiori a quei tre metri quadri che secondo la Corte europea dei diritti umani corrispondono a uno spazio minimo vitale per la condizione detentiva. Il risarcimento è previsto dalla legge italiana del 2014 che dopo una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (la Sentenza Torreggiani del 2013) ha introdotto un nuovo articolo, il 35 ter, nell’Ordinamento penitenziario: i detenuti ancora in carcere che denunciano condizioni tali da ledere la dignità umana, precisamente quelli di cui parla l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (tortura, pena o trattamenti inumani o degradanti) possono chiedere al magistrato di sorveglianza la riduzione della pena, pari a un giorno ogni 10 di pena già scontata; quelli che invece si trovano già fuori dalle mura carcerarie, come nel caso deciso oggi a Cagliari, possono rivolgersi al Tribunale ordinario e avere un risarcimento in denaro, stabilito in 8 euro per ogni giorno di detenzione inumana. I due cagliaritani sono stati nel carcere di Buoncammino, chiuso dal dicembre 2014, per 13 mesi uno e 12 l’altro. Non solo spazio vitale ristretto ma anche poche ore d’aria, appena 4 al giorno, con scarse possibilità di fare attività fuori dalla cella e condividere il tempo con altri detenuti. Il Ministero della Giustizia non è riuscito a fornire prove contrarie a quanto sostenuto dai due ex detenuti. Da qui la sentenza pronunciata oggi a Cagliari dalla seconda sezione civile del Tribunale ordinario di Cagliari: lo Stato italiano dovrà pagare un risarcimento di 2.472 euro a uno e 2.886 euro all’altro. Messina: tre ventenni evadono dal carcere di Barcellona Pozzo di Gotto La Stampa, 14 luglio 2017 Nella notte sono riusciti a superare i cancelli ed evitare di essere scoperti dalla sorveglianza della struttura penitenziaria. Polizia e carabinieri sono sulle tracce di tre detenuti fuggiti nella notte dal carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Con modalità che sono ancora tutte da accertare i tre giovani, detenuti nella struttura della città del Longano, nella notte sono riusciti a superare i cancelli ed evitare di essere scoperti dalla sorveglianza della struttura penitenziaria. I tre fuggitivi, a quanto si apprende, devono scontare pene di cinque o sei anni per reati legati alla tossicodipendenza. Controlli sono in corso su tutto il territorio per cercare di rintracciare gli evasi. L’allarme è scattato intorno a mezzanotte, appena si sono resi conto che i tre giovani, tutti messinesi, non erano al loro posto hanno cominciato a cercarli nella struttura e subito le ricerche si sono estese all’esterno dove proseguono senza sosta. "La situazione delle carceri italiane è tutt’altro che normale - dice il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci - come invece dichiarato da alcuni dei vertici dell’attuale amministrazione penitenziaria, frutto di una politica dissennata che mette il detenuto al centro di ogni possibile diritto e concessione anche se non meritati, a discapito del personale di polizia penitenziaria mettono a rischio soprattutto la civile convivenza e la sicurezza dell’inermi cittadini. Ribadiamo la richiesta per l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta che indaghi sulla funzionalità dell’attuale sistema penitenziario e sulle condizioni di lavoro del personale interno alle stesse carceri". Sulla vicenda è intervenuto anche Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria: "Tre detenuti sono evasi da una struttura che era un ospedale psichiatrico giudiziario e non è mai stata adeguata alla sicurezza di un penitenziario, come chiese il Sappe fin da subito nell’indifferenza generale". "Non è un caso che siano fuggiti da un’area che non ha video sorveglianza, da una realtà che ha visto andare in pensione in poco tempo 50 poliziotti penitenziari senza che venissero rimpiazzati. - ha aggiunto Capece - Le carenze strutturali erano state più volte rappresentate dal Sappe, con espressa richiesta di adeguamento di lavori, ma sono rimaste inascoltate". Brindisi: il direttore del carcere "qui senz’acqua? Non è vero, e nessuno sciopero della fame" lostrillonenews.it, 14 luglio 2017 Si riceve e pubblica la seguente rettifica - firmata dal direttore della casa circondariale di Brindisi, Anna Maria Dello Preite - in relazione all’articolo dal titolo "Brindisi: carcere senz’acqua da giorni, detenuti in sciopero della fame", pubblicato l’altro ieri (martedì 11 luglio 2017): "L’articolo è falso nei fatti narrati oltre che grave nei giudizi. Non risponde al vero la notizia riportata secondo la quale in istituto mancherebbe l’acqua da diversi giorni ed alcuni detenuti avrebbero intrapreso lo sciopero della fame. Nessuno dei detenuti presenti in questa struttura sta effettuando lo sciopero della fame ed a tutti vengono assicurate condizioni di vita assolutamente dignitose. Vero è che alla data in cui è stata pubblicato l’articolo, l’erogazione dell’acqua è stata interrotta solo per alcune ore nelle serate di Sabato 8 e Lunedì 10. D’intesa con i tecnici dell’Acquedotto Pugliese, sono in corso tutti i controlli necessari ad assicurare la continuità del servizio. I detenuti, inoltre, sono stati informati della possibilità di ulteriori interruzioni che dovessero rendersi necessarie al solo fine di consentire il riempimento delle cisterne". Biella: più raccolta differenziata dei rifiuti, anche in carcere biellacronaca.it, 14 luglio 2017 Progetto in comune per amministrazione, Casa circondariale e Seab. La riduzione prevista è del 50%, se ne occuperanno direttamente dodici internati. C’è un progetto per fare meglio la raccolta differenziata nel carcere di Biella, che assomma 411 detenuti a più di 200 dipendenti. Lo hanno presentato l’assessore all’ambiente Diego Presa, la direttrice della casa circondariale Antonella Giordano e il presidente di Seab Claudio Marampon. Oltre a perseguire l’obiettivo di alzare la percentuale di rifiuti riciclati, in un complesso che produce circa 100 tonnellate all’anno di immondizia, il progetto consente di dare lavoro a dodici dei quindici "internati" attualmente sotto la tutela della struttura di via dei Tigli: si tratta di persone che hanno scontato la loro condanna ma che sono sottoposti a misure di sicurezza accessorie per rendere graduale e sicuro il loro rientro nella società. A loro Seab ha fornito materiale (dalle divise ai guanti fino a un buon numero di cassonetti e carrelli per il trasporto di rifiuti) e, insieme al Comune di Biella, un corso di formazione. "Con l’entrata a regime del progetto" ha spiegato Diego Presa, "l’obiettivo è di portare la differenziata in carcere almeno al 50%. Vuol dire 50mila tonnellate in meno di rifiuti in discarica". E vuol dire, in regime di tariffa puntuale, una diminuzione della bolletta a carico del ministero della Giustizia che, per il 2016, è stata di oltre 183mila euro. Antonella Giordano si è soffermata anche sulla valenza educativa: "Differenziare significa anche abituarsi al rispetto delle regole e maturare una coscienza ecologista. Gli internati che abbiamo coinvolto nel progetto si sono mostrati particolarmente interessati all’attività proposta che consentirà loro di impiegare in modo utile il tempo della misura di sicurezza acquisendo competenze e consentendo di estendere la raccolta differenziata a tutto l’istituto". Avellino: liceo artistico di Ariano, i detenuti diventano designer corriereirpinia.it, 14 luglio 2017 È un traguardo che si carica di un valore forte il diploma di maturità conseguito da 5 detenuti della classe quinta della sezione carceraria del Liceo Artistico, indirizzo Design Ceramica, dell’IISS Ruggero II. Lo sottolinea con forza il dirigente scolastico Francesco Caloia: "Un traguardo reso possibile grazie all’impegno dei docenti che hanno svolto anche attività di volontariato per sostenere gli allievi, al direttore della struttura carceraria Gianfranco Marcello e a tutti gli operatori carcerari; non ultimi gli agenti di polizia penitenziaria che nonostante le carenze di personale hanno vissuto con i docenti questa esperienza coinvolgente e in particolare ad Arturo Orlando l’agente preposto alla sorveglianza delle attività scolastiche". Una sfida vinta che conferma la scelta felice del dirigente Caloia, partita nel 2010/2011: "A guidarci la volontà di diffondere l’educazione artistica sul territorio e di dare un’opportunità formativa ai detenuti della Casa Circondariale di Ariano Irpino, in collaborazione con il collaboratore vicario prof. Ciccarelli Domenico, con l’allora Direttore della Casa Circondariale Iuliani Salvatore e con l’educatrice sig.ra Anna Nazzaro. Fu quindi presentata la richiesta per l’attivazione del Liceo Artistico indirizzo Design. Ottenute tutte le autorizzazioni le attività didattiche furono avviate nell’anno scolastico 2011/12 sotto la direzione del dott. Gianfranco Marcello. La scelta dell’indirizzo Design non è stata casuale ma è stata frutto di una scelta ponderata, determinata anche la dalla mia formazione artistica e maturata come insegnante e preside negli istituti d’Arte di Modena, Reggio Emilia e Mantova. Sono convinto che la formazione nell’ambito del Design dà all’allievo la possibilità di esercitarsi su supporti e prodotti bidimensionali e tridimensionali, offrendo l’opportunità di "progettare", un’esperienza entusiasmante in cui si ha la possibilità di dare forma alle proprie idee. Sulla base di queste convinzioni il nostro orientamento è stato quello di dare agli studenti della sezione carceraria gli strumenti per operare ai limiti tra l’arte ed il design per fornire loro competenze e conoscenze che favorissero le possibilità di inserimento nel tessuto economico-produttivo, coniugando insieme diversità espressive. dalla capacità di indagare su forma e sul suo concetto, sul ritaglio di porzioni di realtà, alla capacità di riflettere su aspetti esistenziali, su temi sociali e urgenze del quotidiano, affrontando il tutto con una consapevolezza che è di per sé mezza bellezza". Grande attenzione è stata rivolta, in particolare, alla progettazione verso l’arte sacra, "Uno dei primi lavori svolti dagli allievi della sezione carceraria - prosegue Caloia - è stata la produzione di bassorilievi, per la realizzazione di una Via Crucis. L’obiettivo era quello di specializzare gli alunni della sezione nel settore dell’arte sacra, un’espressione artistica che non è fine a se stessa ma che necessita di formazione e riflessione sui testi sacri, sul bene, sul bello, sul vero, tre generi supremi di valori elencati già da Platone e da allora rimasti nel pensiero europeo. I nostri antenati greci avevano un sistema di valori, fatto di giustizia e bellezza. La bellezza aiutava ad assicurare un consenso anche alla morale. La massa si abitua alla bruttezza come condizione normale. Ma il cinismo verso i valori della giustizia potrebbe derivare anche dall’aver eliminato quelli della bellezza. Sono convinto che riflettere su questi temi può aiutare i detenuti nel difficile cammino della rieducazione cui deve tendere la loro permanenza in carcere. La reclusione non non dovrebbe essere una punizione ma un’occasione offerta al detenuto per capire l’errore e porvi rimedio così da poter iniziare una vita diversa una volta scontata la pena". Bergamo: il medico dei detenuti "non numeri ma persone, per questo scrivo le loro storie" di Fabio Viganò bergamonews.it, 14 luglio 2017 Ha scritto il suo secondo libro Franco Bertè, direttore sanitario del cercare di Bergamo. L’idea per il titolo ("I passi perduti") gliel’ha data un detenuto. Anzi, "un ospite" come lo definisce lui: un regista cinematografico residente in Bulgaria finito in carcere in circostanze rocambolesche. L’idea per il titolo del suo libro gliel’ha data un detenuto. Anzi, "un ospite", come lo definisce lui. In questo caso un regista cinematografico residente in Bulgaria finito in carcere per circostanze un poco rocambolesche. "Quando è atterrato all’aeroporto di Orio al Serio, dove avrebbe dovuto prendere un volo per assistere a una prima a Berlino, si è sentito dire dagli agenti che c’era un problema: doveva scontare una condanna per mancata contribuzione". L’uomo non aveva pagato i primi mesi di alimenti alla moglie e ai figli, anni e anni prima: "Lo arrestarono ma al momento non sapeva nemmeno il perché, visto che non era al corrente della condanna. All’inizio feci fatica a credergli, poi scoprii che aveva addirittura girato un film con Gerard Depardieu". "I passi perduti" è il titolo che quel detenuto gli suggerì: "Sono quelli persi per sempre - mi disse - quelli che ho buttato camminando come un criceto in gabbia, inutilmente, in tondo, senza meta. Sono i passi di chi sta qui dentro". "Qui" è il carcere, precisamente quello di Bergamo, dove Franco Berté, 58 anni, di Crotone, ricopre oggi la carica di dirigente sanitario. Laureato in medicina e chirurgia, dal 1996 al 2010 lo è stato per la casa circondariale di Monza. È stato inoltre segretario regionale dei medici penitenziari. Nel 2006 ha pubblicato il suo primo libro "Nuovi giunti": storie vere che raccontano il carcere con gli occhi di chi ne ha appena varcato la soglia. Nel 2016 è stata invece la volta de "I passi perduti", seconda opera pubblicata per Cairo. Dottor Berté, a ben guardare il suo libro è pieno di aneddoti come questo. Quella del regista sembra la trama di un film horror. Passare dal red carpet a una cella divisa con cinque energumeni sudati non deve essere stato facile. Ma il carcere è così… diventa inevitabilmente un contenitore di storie, spesso assurde. Ce ne racconti qualcuna. Sempre qui a Bergamo ho conosciuto un uomo che stava per uscire dopo aver scontato una lunga condanna. Aveva compiuto un furto, ma nessuno aveva mai trovato il bottino. Mi disse che finalmente dopo tanti anni di attesa si sarebbe goduto il "suo" miliardo. Ironia della sorte, è morto non appena varcata la soglia del cancello, stroncato da un infarto. Se non altro si doveva fidare molto di lei… Sono il loro medico: la fiducia sta alla base. Mi piace pensare ai detenuti più come ospiti che come reclusi, anche se c’è tutta una filosofia carceraria dietro alle gerarchie. Molti di loro non ti considerano un’autorità sanitaria, ma un servizio dovuto. E inevitabilmente impari a lavorare anche di psicologia. Leggendo il suo libro si scopre che alcuni di questi rapporti con i detenuti sono poi diventati amicizie vere e proprie, come quella con "Corrado". Lui aveva avuto rapporti stretti con uno dei boss della criminalità organizzata, ma da quel giro voleva andarsene. Scontata la pena esce dal carcere e mi dice: "Se tra una settimana non sarò di ritorno…". Non c’era bisogno di aggiungere altro. Nessuno che aveva conosciuto ce l’aveva fatta ad uscire, se non da morto… E come è andata a finire? L’ho rivisto dopo due settimane. Così, all’improvviso, fuori da un teatro. Ce l’aveva fatta. Allora ho capito che non era il carcere a tenerlo in prigione… Di lui avevo senz’altro conosciuto la parte nobile, il pentimento, l’uomo che avrebbe voluto essere e che sognava di diventare, anche fuori. Vi frequentate ancora oggi? Certamente. Mi perdoni, ma durante quelle due settimane non ha pensato che forse non conviene fare amicizia con i detenuti? Sì, ma non svolgerei al meglio il mio lavoro. Come scrivo nel libro, l’ascolto per un detenuto può segnare la differenza tra la disperazione e la speranza. Tutt’oggi mantengo vivi molti di quei rapporti. Del resto, lei insiste su un concetto che in molti non devono dare per scontato: dietro al detenuto non c’è soltanto il suo fascicolo. Le storie contenute nel libro credo lo testimonino. Il fine di questa sua pubblicazione, tuttavia, non è solo quello di raccontare storie. No, e vi spiego il perché. In Italia abbiamo circa sessantamila detenuti, il costo di un singolo ammonta a trecento euro al giorno e moltiplicato per il totale fa una cifra esorbitante. Il carcere, più di ogni altra cosa, deve servire a rieducare e reinserire, ma per essere reinserito un detenuto deve lavorare. E questo, oggi, non avviene. A Bergamo com’è la situazione da questo punto di vista? Su 550 detenuti lavorano al massimo in sessanta. Ma spesso si tratta di lavori banali. C’è chi sta in pizzeria, dove preparano il pane, i dolci e i biscotti; ma poi c’è chi fa lo scopino della cella, del corridoio o dell’infermeria, e chi il lavorante che passa a prendere gli ordini dai detenuti per quel che vogliono comprare. E ancora il porta vitto che gira a consegnare i pasti. Ma non c’è un lavoro che possa dare la possibilità di reinserirli in società per un futuro migliore. Cosa auspica? Che qualcuno investa nel carcere, magari qualche imprenditore lungimirante. Qualsiasi iniziativa può essere valida. Un po’ di anni fa, quando ci fu un indulto, in un carcere siciliano era stata costruita una serra per la floricoltura. I detenuti lavoravano e guadagnavano lì, e quasi non volevano più uscire perché fuori non avrebbero avuto il lavoro. Oggi, invece, alcuni carcerati a fine pena non pensano a smettere di delinquere. Anzi, programmano il rientro. Il carcere, si sa, può anche essere luogo di radicalizzazione violenta e proselitismo. Con il patto recentemente siglato da Palazzo Frizzoni con le comunità musulmane (leggi qui), gli Imam potranno entrare in via Gleno e parlare ai detenuti. L’obiettivo è anche quello di intercettare eventuali processi di questo tipo. Cosa ne pensa? In ogni carcere d’Italia c’è già un referente nominato dal Ministero della Giustizia che tiene attentamente monitorate questo tipo di problematiche (a Bergamo è il Commissario Daniele Alborghetti, ndr). Questo può essere un ulteriore strumento di prevenzione, ma combattere questo tipo di situazioni non è affatto semplice. In via Gleno avrà anche avuto modo di conoscere Massimo Bossetti, il carpentiere di Mapello condannato all’ergastolo per l’omicidio della piccola Yara. Che idea si è fatto di lui? Penso sia una delle poche volte in vita mia dove non sono riuscito a farmi un’idea. Ma di questo argomento non sono autorizzato a parlare, c’è ancora un processo in corso. Ultima domanda. Nel suo libro, ad un certo punto, ci si imbatte in questa frase: "La verità non è cosa per gli uomini". Colpisce molto, specie se inserita in un contesto come quello del carcere, dove è proprio un giudizio a segnare la vita delle persone. Vede, c’è chi uccide per motivi religiosi e crede di essere nel giusto; chi uccide ma non ricorda nemmeno di averlo fatto. Esistono persone che non conservano il momento in cui hanno impugnato il coltello e l’hanno conficcato nel petto di una persona. Ricordano l’emozione, la rabbia, la paura… ma non l’azione. Forse esistono più verità o, semplicemente, ognuno, riporta la sua. Palmi (Rc): Prison Fellowship Italia presenta i risultati del "Progetto Sicomoro" agensir.it, 14 luglio 2017 L’Amministrazione penitenziaria della Casa circondariale "Filippo Salsone" di Palmi (Rc) e l’Associazione Prison Fellowship Italia (Pfit) presentano gli obiettivi raggiunti a conclusione del Progetto Sicomoro, svoltosi presso la casa circondariale di Palmi, in una conferenza stampa in programma mercoledì 19 luglio, alle ore 11, presso il Teatro del carcere. Il Progetto Sicomoro, si legge in un comunicato della Pfit, è un programma di giustizia riparativa già sperimentato con successo da Prison Fellowship International, organizzazione internazionale che opera attraverso il recupero e la riqualificazione dei detenuti, oltre che con l’evangelizzazione nelle carceri. Il Progetto prevede 7 incontri, all’interno delle mura del carcere, tra detenuti e vittime di reati analoghi, con l’obiettivo di favorire la riconciliazione e la riumanizzazione degli uni e degli altri. Con la presentazione dei risultati e la condivisione di testimonianze dei detenuti e delle vittime coinvolte nel Progetto, si intende sottolineare "l’importanza delle misure alternative e il ruolo della giustizia riparativa nell’ambito del sistema penale e penitenziario". Alla conferenza stampa interverranno Marcella Reni, presidente Prison Fellowship Italia Onlus, Romolo Pani, direttore della Casa circondariale "Filippo Salsone" di Palmi, i detenuti e le vittime coinvolti nel Progetto. Mettere al bando in tutto il mondo le armi nucleari ora è possibile di Francesco Vignarca Il Manifesto, 14 luglio 2017 All’Onu grande successo della comunità civile internazionale e di 122 paesi "disarmisti". Prossimo passo le ratifiche nei vari stati e l’eliminazione totale delle 15.000 testate esistenti. Ogni passaggio di diplomazia multilaterale sulla strada del disarmo è importante e apre nuove speranze, ma l’emozione vissuta lo scorso 7 luglio nella Sede delle Nazioni Unite di New York sarà difficilmente superabile. Perché mentre la maggioranza dei Paesi del mondo stava votando il nuovo Trattato di messa al bando delle armi nucleari insieme alla società civile internazionale (impegnata per questo da anni) erano presenti in sala i superstiti di Hiroshima e Nagasaki (gli hibakusha), oltre a quelli dei test nucleari degli anni ‘60. Come ha detto Setsuko Thurlow (bambina nell’agosto 1945 giapponese) "attendevo questo giorno da 70 anni e non speravo più di vederlo con i miei occhi". Il testo di Trattato votato mette le cose in chiaro, fin dal Preambolo e dal suo primo articolo, declinando una "messa fuori legge" delle armi nucleari su tutta la linea. È infatti vietato "sviluppare, testare, produrre, oppure acquisire o possedere riserve di armi nucleari", ma anche "trasferire a qualsiasi destinatario qualunque arma (…) o il controllo su tali dispositivi (…) direttamente o indirettamente". Così come (e si tratta di grandi vittorie della pressione della società civile) "Utilizzare o minacciare l’uso di armi nucleari" e "Consentire qualsiasi dislocazione, installazione o diffusione di armi nucleari o di altri dispositivi esplosivi nucleari sul proprio territorio", come invece fa ad esempio l’Italia. Presenti nel testo anche avanzati riferimenti all’assistenza alle vittime e alla bonifica ambientale. Ora, tornati da New York e pronti ad agire come campagne per il disarmo nucleare in vari Paesi, ci domandiamo: il Trattato votato il 7 luglio risolverà la complessa situazione degli ordigni nucleari? Ci porterà a un disarmo completo? Non lo sappiamo per certo, come in ogni percorso simile, ma sappiamo che ora lo scenario è profondamente cambiato. In un certo senso siamo in condizioni simili a quelle immediatamente successive alle approvazioni di Trattati come quello sulle mine anti-persona o sulle munizioni cluster, prima che iniziasse il robusto processo di universalizzazione. È un po’ questa la scommessa che la società civile internazionale ha provato a lanciare, anche se ovviamente ci sono differenze sostanziali date dal tipo di arma (molto più costoso, strutturale, distruttivo) e allo sbilanciamento tra i pochi Paesi che dispongono di ordigni nucleari e gli altri. Quello che è certo è che l’impatto devastante e umanitariamente insostenibile delle 15.000 testate oggi presenti al mondo (e non solo in caso di uso ma proprio per la loro stessa esistenza) impone alla comunità internazionale di fare qualcosa, un ammonimento disarmista e pacifista per tutto il mondo. L’idea, la speranza, è che questo Trattato (sia per i suoi contenuti chiari che per l’auspicabile e possibile alto numero di ratifiche) possa rimettere in moto quel percorso di disarmo nucleare ormai da troppo tempo arenato pur se previsto dal Trattato di Non Proliferazione nell’articolo VI. Un accordo internazionale capace tutto sommato di bloccare la diffusione degli arsenali (che sembrava inarrestabile negli anni 60) ma incapace di passare al livello successivo. Proprio la frustrazione per questo aspetto ha smosso, alla fine e dopo tentativi in varie altre direzioni, la società civile e le nazioni non nucleari che si sono ritrovate sotto il cappello della Iniziativa Umanitaria. Va detto che, nel contesto dei negoziati appena conclusi, non era facile tenere la barra dritta su questa strada, considerando appunto il problematico status internazionale privilegiato delle potenze nucleari, cristallizzato ormai dagli anni 70 del secolo scorso. Essere riusciti a conciliare entrambi gli aspetti (un Npt che non può essere indebolito pena la proliferazione con una vera prospettiva di disarmo) è sicuramente merito dei Paesi (ben 122) che hanno voluto fortemente questo testo ma anche merito della società civile che ha continuato a premere affinché vi fossero inseriti principi alti oltre che della gestione aperta e inclusiva ma nello stesso tempo decisa della Presidente della Conferenza, la Costaricana Elayne Whyte Gomez. Paradossalmente proprio l’esistenza di questo doppio binario (ingigantita da una poco plausibile accusa di voler "distruggere l’Npt") è la motivazione principale data dal Governo italiano per giustificare l’assenza totale al percorso di elaborazione del Trattato. In questi mesi, nonostante numerosi tentativi di interlocuzione, Gentiloni e Alfano non hanno voluto incontrare i rappresentanti di Campagna Senzatomica e Rete Disarmo e anche mozioni parlamentari che chiedono conto della posizione italiana in merito ai negoziati Onu sono state fatte slittare a dopo la conclusione degli stessi. Va invece sottolineata positivamente l’attenzione al percorso comunque mantenuta dalla Rappresentanza italiana a New York (e ribadita dall’ambasciatore Cardi in un incontro con le campagne) e il non piegarsi alle proteste organizzate da Stati Uniti, Francia e Regno Unito che hanno addirittura inscenato una inaudita manifestazione al Palazzo di Vetro il giorno dell’inizio dei negoziati. Ma se scuse di questa natura potevano essere in qualche senso plausibili e accettabili nell’epoca Obama (che pure ha dato avvio ad un programma da 10 miliardi di dollari per l’ammodernamento delle bombe B-61, le stesse di stanza in Italia; forse oggi sono 40 dopo essere state almeno 70 per anni) è impossibile sostenere una linea del genere con l’Amministrazione Trump e i suoi investimenti di rinnovamento integrale dell’arsenale (1.300 miliardi in 30 anni) immediatamente messi in cantiere a poche settimane dall’insediamento. Su una questione come quella delle armi e degli arsenali nucleari non possiamo ormai essere più tiepidi o giocare alla "diplomazia dei piccoli passi", ma bisogna essere chiari e netti. Con coraggio. E uno dei meriti principali del testo di Trattato votato è, come abbiamo visto, proprio la chiarezza in particolare sullo stazionamento e gli accordi di cosiddetto "nuclear sharing". Sarà uno dei punti fondamentali della mobilitazione che le campagne per il disarmo nucleare vogliono iniziare ora sia in Italia che negli altri Paesi europei che ospitano ordigni Usa (cioè Paesi Bassi, Beglio, Germania) davvero strategici per qualsiasi ipotesi vincente di allargamento e universalizzazione del Trattato. Il positivo e fondamentale risultato ottenuto è dunque solo un primo passo (così lo ha definito anche la hibakusha Sestuko Thurlow che ha chiuso con il suo intervento la Conferenza Onu) verso il vero obiettivo finale: l’eliminazione completa delle armi. Riusciremo a farlo solo "ricordandoci della nostra Umanità", come ci hanno insegnato Einstein e Russell decenni fa con il loro manifesto. L’alternativa è la minaccia costante di regressione all’età della pietra. Umanamente e umanitariamente inaccettabile. Ius soli, pressing di Gentiloni su Alfano. La fiducia slitta ancora: governo a rischio di Alberto Gentili Il Messaggero, 14 luglio 2017 A dispetto dei sondaggi, che raccontano come più della metà degli italiani sia contraria, Paolo Gentiloni continua a essere fedele alla linea concordata con Matteo Renzi: il governo autorizzerà la fiducia sulla legge per lo ius soli. Non si sa però quando: il Consiglio dei ministri di oggi è stato rinviato e non si sa quando verrà convocata una nuova riunione. C’è chi dice lunedì, chi a metà della prossima settimana. Chi venerdì 21 luglio. Un fluttuare di date legato al tentativo del premier di ammorbidire la posizione di Angelino Alfano. "Perché senza i voti di Alternativa popolare", riconoscono a palazzo Chigi, "la partita diventa molto difficile, bisognerebbe contare uno ad uno i senatori favorevoli e quelli contrari". A palazzo Madama il capogruppo del Pd, Luigi Zanda, monitora la situazione. Il punto di svolta sarà la riunione del governo: se Alfano dirà sì alla fiducia, indispensabile per far passare il provvedimento su cui si sono abbattuti 60 mila emendamenti, almeno metà del gruppo di Ap in Senato voterà a favore e l’altra metà uscirà dall’aula, facendo abbassare il numero dei voti necessari per far passare la legge e salvare il governo dalla crisi. Se il ministro degli Esteri invece confermerà il no, la partita si rivelerà decisamente in salita. E a quel punto Gentiloni potrebbe dare una sterzata. Del tipo: rinviare a settembre la fiducia, pur autorizzata. Questa scelta vorrebbe dire spedire lo ius soli su un binario morto. O quasi. I tempi, per la verità, si fanno già di giorno in giorno più lunghi. In Aula dall’inizio della scorsa settimana, la legge è stata superata dal decreto sui vaccini che marcia a passo di lumaca: ieri è stato rimandato (mancava il numero legale) alla prossima settimana. Poi ci sarà da approvare la norma costituzionale per il passaggio del comune di Sappada dal Veneto al Friuli. E in base al regolamento che dà la precedenza ai decreti, il provvedimento sulla cittadinanza potrebbe essere bypassato anche dal decreto per lo sviluppo del Sud. E, se sarà pronto in tempo utile, perfino dal salva-banche venete. Conclusione: le votazioni sullo ius soli potrebbero essere rimandate all’ultima settimana del mese. O addirittura prima della pausa estiva che scatta il 3 o il 4 agosto. A quel punto spedire la legge a settembre non sarebbe impossibile. Anzi. Al rinvio lavora Ap insieme a tutta l’opposizione. Silvio Berlusconi, che ancora teme le elezioni anticipate in autunno, ha interrotto la campagna acquisti. E anche Denis Verdini ha rallentato la marcia di allontanamento dal governo. Il timore, messo nero su bianco dal capogruppo di Ap alla Camera, Fabrizio Cicchitto, è che Renzi tenti di utilizzare la fiducia su un provvedimento per il quale non può scattare il soccorso di fornisti e verdiniani, per incassare le urne prima (o in contemporanea) delle elezioni siciliane del 5 novembre. Ipotesi remota, per la verità, vista la contrarietà del capo dello Stato, Sergio Mattarella, a sciogliere il Parlamento contestualmente alla delicata sessione di bilancio che scatta in ottobre e senza una nuova legge elettorale. Ma ecco Cicchitto: "È opportuna e ragionevole una pausa di riflessione rinviando lo ius soli a settembre. Come testimonia il sondaggio del "Messaggero", gli italiani sono contrari alla legge ed è insensato vararla in piena stagione di sbarchi. Se Renzi non consentisse questa riflessione, vorrebbe dire che ha l’intenzione di creare le condizioni per il cosiddetto colpo di pistola di Sarajevo e provocare un incidente parlamentare che determini la crisi del governo". Il segretario del Pd reagisce a questi sospetti, facendo sapere che non pressa Gentiloni: "Sulla fiducia decide Paolo, noi saremo rispettosi delle sue scelte". E anche da palazzo Chigi, per evitare che si accrediti la tesi di tensioni tra Renzi e il premier, dicono che non è il segretario dem a imporre la fiducia. "Gentiloni la vuole mettere perché senza di essa lo ius soli non passa e perché a favore della legge si è speso anche il presidente Mattarella". Non desta allarme, invece, l’altolà di Pier Luigi Bersani. Il leader di Articolo 1-Mdp in un’intervista a "La Stampa" ha dichiarato: "Se pensano a una manovra economica di sgravi e bonus senza investimenti il governo cade". Un annuncio di disimpegno (o quasi) che è accolto a palazzo Chigi con un’alzata di spalle: "A ottobre si vedrà, la manovra non è ancora scritta. È presto per fasciarsi la testa. Ogni giorni ha la sua pena". Migranti. I vescovi contro Renzi: "Aiutarli a casa loro non basta" di Marina Della Croce Il Manifesto, 14 luglio 2017 La svolta renziana sull’immigrazione non piace ai vescovi, che non risparmiano critiche al segretario Pd. "La frase "aiutarli a casa loro", se non si dice come e quando e con quali risorse precise, rischia di non bastare e di essere un modo per scrollarsi di dosso le responsabilità". A dare voce al malessere è monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, che in questo modo ha sottolineato l’importanza dell’accoglienza per la Chiesa e criticato la scelta dei Paesi ricchi di chiudersi a chi cerca aiuto. Galantino ha respinto anche il tentativo di fare differenze tra profughi che scappano da un conflitto e chi, invece, cerca salvezza da fame e miseria, accogliendo i primi e respingendo i secondi. Distinguere tra profughi di guerra e migranti economici, ha detto, "è come fare la distinzione se uno preferisce morire impiccato o alla sedia elettrica". Nei giorni scorsi, dopo che gli è piovuta addosso l’accusa di leghismo, il segretario del Pd ha provato a rimediare all’uscita infelice spiegando che per lui l’affermazione "aiutiamoli a casa loro" non aveva niente a che fare con la Lega nord. "Io ho detto aiutiamoli ‘davvero’ a casa loro perché è un principio ipocrita dire ‘aiutiamo i migranti a casa loro’ se poi tagli i fondi alla cooperazione internazionale, come ha fatto la Lega". Per Renzi, quindi, sarebbe necessario finanziare "chi opera in Africa, facendo investimenti energetici, aumentando la cooperazione, come abbiamo fatto noi che abbiamo appena triplicato i fondi". Una spiegazione che ha diviso la Chiesa. Mentre i vescovi restano su una posizione di critica, il segretario di Stato del Vaticano, monsignor Pietro Parolin, ha aperto al segretario del Pd. "Io credo che il discorso dell’aiutiamoli a casa loro - ha spiegato Parolin - sia un discorso valido, nel senso che dobbiamo aiutare veramente questi paesi nello sviluppo, in modo tale che la migrazione non sia più una realtà forzata, ma sia libera". Non è la prima volta che si registrano posizioni differenti trai vescovi e la Santa Sede. Qualche mese fa, quando le polemiche sulle Ong che salvano i migranti nel Mediterraneo erano più accese, mentre i vescovi si sono schierati a fianco delle Ong, l’Osservatore romano non escluse che l’inchiesta della procura di Catania avesse un fondamento. Un punto, comunque, sembra accomunare le due parti della Chiesa, ed è la critica all’egoismo dell’Europa. "Tanta solidarietà a parole - ha scritto l’Osservatore. Ma nei fatti l’Europa continua a restare inerte di fronte al dramma dell’immigrazione nel Mediterraneo e alle difficoltà dell’Italia". Minniti ai sindaci libici: aiuti in cambio di un’azione di contrasto ai migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 14 luglio 2017 "Stringiamo un patto per fermare i trafficanti di uomini". Marco Minniti ci riprova. Ieri il ministro degli Interni è tornato a Tripoli dove ha incontrato il premier Fayez al Serraj e 13 sindaci del Fezzan e della Tripolitania, le due regioni libiche maggiormente interessate dal passaggio di migranti. E ai rappresentanti degli enti locali ha promesso aiuti per la ricostruzione del tessuto amministrativo distrutto da anni di guerra civile in cambio di una collaborazione che, in realtà, più che a contrastare le organizzazioni criminali finirebbe col fermare il flusso dei migranti diretti in Europa. Riuscendo così a dare un po’ di respiro all’Italia, da mesi sotto pressione per l’alto numero di sbarchi. Il ministro ha trovato disponibilità da parte dei primi cittadini, che però sui sarebbero detti contrari alla creazione di campi profughi nel sud del paese convinti, come avrebbe spiegato il sindaco della città di Murzuk, nel Fezzan, che avrebbero un impatto negativo sulla sicurezza dell’area. "Quello che chiediamo all’Italia, - avrebbe spiegato il sindaco - è di aiutarci con la sicurezza dei confini meridionali tramite le tecnologie che possiede". Vista la situazione di instabilità della Libia, Roma già da tempo ha cominciato a spostare la sua azione più a sud, cercando di stringere accordi con i paesi del Sahel e in particolare con Ciad e Niger, due dei principali punti di transito dei migranti. Finché questi non si concretizzeranno, però, all’Italia non resta altro da fare che continuare a investire risorse nel paese nordafricano. Forse proprio perché consapevole della sua debolezza, e quindi spinto dalla necessità di dover dimostrare all’alleato italiano di fare qualcosa nel contrasto all’immigrazione, due giorni fa Serrraj ha pensato bene di minacciare il bombardamento delle navi degli scafisti. Idea irrealizzabile, perché il leader libico non dispone di una propria aviazione e nel caso dovrebbe fare affidamento ai Mig in possesso delle milizie d Misurata. Ma soprattutto perché una simile azione scellerata provocherebbe una strage di migranti, in mezzo ai quali si nascondono i trafficanti. Motivo per cui tutti, nella comunità internazionale, hanno preferito non dar peso alle sue parole. Più pragmatico l’approccio italiano con i primi cittadini libici. Per questo ieri a Tripoli con Minniti c’era anche il presidente dell’Anci e sindaco di Bari Antonio Decaro. "Ho trovato dei sindaci determinati a dare maggiore stabilità al Paese e a rilanciare le economie locali", spiega Decaro al quale i colleghi libici hanno presentato una lista di richieste molto concrete: dall’aiuto a riorganizzare le polizie locali alla fornitura di depuratori per l’acqua, alla ricostruzione degli uffici anagrafici e delle scuole. "Molti di questi sindaci amministrano comunità vicine al confine sud della Libia, dove l’attività dei trafficanti è più forte e rappresenta spesso l’unico sostegno per le famiglie", ha proseguito Decaro. "L’obiettivo è riuscire a far ripartire un’economia legale". Per quanto riguarda la sicurezza del confine con il Niger, l’Italia punta alla creazione di una guardia di frontiera libica, formata dalle stesse popolazioni del Fezzan e pagata con fondi europei, come già avviene con la Guardia costiera libica. Ma qualcosa potrebbe muoversi anche al di là del confine. Parlando due giorni fa a Trieste a margine del vertice sui Balcani occidentali, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato di voler "associare l’Italia alla nostra azione in tutta la zona del Sahel", dove la Francia dispone di proprie truppe e dove ha contribuito alla formazione di una forza comune tra i cinque paesi dell’area. "Porteremo avanti azioni comuni - ha aggiunto - per cercare di stabilizzare la zona e fermare i flussi di migranti". Migranti. Le Ong possono forzare i blocchi negli altri porti di Milena Gabanelli Corriere della Sera, 14 luglio 2017 La dichiarazione universale dei diritti umani prevede per ogni cittadino il diritto ad uscire dal proprio Stato, ma non quello di entrare in un altro, l’ingresso è una concessione. In anni più recenti è stato introdotto l’obbligo di accogliere chi sta fuggendo da una persecuzione. Dove va tracciato il confine per attivare tale obbligo? Un problema complicato con il quale tutti stiamo facendo i conti. L’Italia è di fatto l’hub d’Europa da anni e lo sarà per decenni, e negli ultimi mesi il 90% non sono richiedenti asilo. Per impedire le partenze possiamo mettere un blocco navale davanti alla Libia? Sì. Può deciderlo il nostro Governo? No, serve l’esplicita richiesta di Tripoli. Potrebbe farlo? Forse, ma solo il giorno in cui le agenzie dell’Onu, che hanno già intascato dall’Ue 90 milioni, saranno in grado di allestire campi di accoglienza e identificazione. Per fare questo servono condizioni di sicurezza che ora non ci sono. Solo il nostro Ministro dell’Interno sta provando a farsi in quattro per costruire dialoghi e accordi con fazioni e tribù, formando e pagando (con i soldi dell’Ue) guardie costiere e di frontiera. Per il momento l’unica organizzazione che funziona è l’industria dei trafficanti di uomini, e il nastro trasportatore umanitario verso la Sicilia. Per frenare le partenze bisognerebbe ritirare le navi di soccorso. Opzione difficile da praticare. Possiamo invece chiudere i nostri porti alle Ong che battono bandiera non italiana? Sì, usando la stessa modalità con cui gli stati membri si rifiutano di accogliere le loro quote di richiedenti asilo, in violazione degli accordi Ue, senza che l’Ue abbia attivato alcuna sanzione. Alternativa: le Ong stesse potrebbero "forzare" la mancata condivisione delle responsabilità da parte degli Stati membri, poiché vivono di azioni "dimostrative" che sono all’origine del fundraising. Cosa accadrebbe se la Prudence di Msf, che è ben attrezzata, entrasse nel porto di Nizza con un carico di 500 migranti? Cosa farebbe Macron? Per saperlo bisognerebbe osare. Lo scenario è prevedibile: centinaia di volontari andrebbero in soccorso dei migranti a bordo, con cibo, indumenti, medicinali. Più l’attesa si prolunga e più il caso si allarga alla stampa mondiale. La stessa cosa si può replicare a Barcellona o a Malta. Alla fine qualcosa sui tavoli di Bruxelles succederà. Alle Ong converrebbe "diversificare" le destinazioni, anche per non correre il rischio di contribuire, inconsapevolmente, ad una crisi sistemica, che qualche Fondo speculativo capitalizzerà. Crisi inevitabile, poiché sulla terra ferma si va avanti con il volontariato, le cooperative e associazioni, senza un progetto complessivo e controllato che solo una gestione pubblica può garantire. Il Prof Sciortino scrive: "L’immigrazione è un problema da gestire, al pari di tanti altri. Dove i buoni (o malvagi) sentimenti non potranno mai sostituire la competenza e la buona amministrazione". Caporalato. In Salento 4 imprenditori condannati a 11 anni: "migranti schiavizzati" di Chiara Spagnolo La Repubblica, 14 luglio 2017 Sentenza a 5 anni dagli arresti: i lavoratori impegnati nella raccolta delle angurie si ribellarono d agli sfruttatori. Anche 9 caporali stranieri condannati a 11 anni. Quattro imprenditori salentini e nove caporali africani sono stati condannati per avere sfruttato gli immigrati nei campi di angurie e pomodori del Salento. È arrivata a distanza di 5 anni dagli arresti, la sentenza della Corte d’assise di Lecce a carico di 7 imprenditori salentini e 9 caporali stranieri. Solo per tre proprietari di aziende agricole (Giuseppe Mariano, Salvatore Pano e Corrado Manfredi) i giudici hanno decretato l’assoluzione mente hanno inflitto la condanna a 11 anni a Pantaleo Latino (noto come "il re delle angurie" e ritenuto dagli inquirenti l’organizzatore degli illeciti), Giovanni Petrelli e Livio Mandolfo. La Corte ha ritenuto che siano tutti responsabili di riduzione in schiavitù e associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento dei lavoratori. Solo per questo capo d’imputazione è stato invece condannato a 3 anni Marcello Corvo, insieme a uno dei caporali. Per gli altri otto stranieri imputati, la pena è di 11 anni di reclusione. La pubblica accusa aveva chiesto la condanna a 14 anni per Latino e a 9 per gli altri imprenditori. Mentre pene tra i 14 e i 17 anni per caporali e capisquadra, che avrebbero materialmente gestito i gruppi di lavoratori stranieri Tra le parti civili costituite c’è anche il presidente dell’associazione No Cap Yvan Sagnet (non presente alla lettura della sentenza nell’aula bunker del carcere di Lecce), il camerunense che nel 2011 capeggiò lo sciopero dei braccianti di Nardò e negli anni successivi si impegnò per far conoscere, anche a livello internazionale, le terribili condizioni di vita e lavoro dei migranti impiegati nelle campagne del Sud Italia. Una volta partita la crociata di Sagnet, altri stranieri ebbero il coraggio di denunciare, sostenuti dall’associazione Finis Terrae (che all’epoca gestiva la masseria Boncuri di Nardò) e dalla Cgil, entrambe costituite parte civile insieme alla Regione Puglia. Grazie alle dichiarazioni delle vittime dello sfruttamento, i carabinieri del Ros - sotto la guida della pm Elsa Valeria Mignone, nel 2012 chiesero e ottennero 22 ordinanze di custodia cautelare a carico della ‘cupola’ che gestiva gli schiavi dei campi. L’indagine portò alla luce l’esistenza di un sodalizio operativo tra Sicilia, Calabria e Puglia, che faceva arrivare giovani dall’Africa proprio per utilizzarli come manodopera illegale nelle campagne. Documentate le condizioni terribili di lavoro, le paghe misere, l’assenza quasi totale di contratti, la situazione alloggiativa precaria, i ricatti, le minacce. Alla luce di quelle evidenze, la Procura di Lecce contestò agli imprenditori e ai caporali a vario titolo i reati di caporalato, associazione a delinquere e la riduzione in schiavitù, l’estorsione, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e della permanenza in stato di irregolarità sul territorio nazionale, l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro. Il reato di caporalato, normato dall’articolo 603 ter fu introdotto nel Codice penale nell’estate 2011. Contestato dalla Procura di Lecce non è stato inserito dalla Corte d’assise tra i reati di cui gli imputati devono essere ritenuti espone abili perché i fatti contestati risalgono agli anni tra il 2009 e il 2011. Droghe. Legale e leggera, la marijuana light fa dormire e non stordisce di Alessandra Paolini La Repubblica, 14 luglio 2017 Il barattolo è sul genere caviale russo, il contenuto tipo origano di Pantelleria. Ma aprendo il tappo non c’è il profumo della Sicilia: c’è quello della marijuana. Perché di marjuana si tratta. Legale e light. Ovvero, senza sostanze psicoattive, o almeno ci sono ma nei limiti consentiti dalla legge. Il barattolo in questione è quello di E-asyjoint in bella mostra nei canapa shop che a Roma stanno spuntando come funghi. Perché l’articolo piace. Esaurito on line, a "ruba" nei negozi che tra sacchi di sementi vari, serre fai dai te, cartine e narghilè, offrono tutto quanto può servire per un bel "cannone". "Assolutamente non psicoattivo, ma rilassante", avvertono da "Joint Grow " vicino alla stazione della metropolitana dei Monti Tiburtini. Una sorta di "camomillona" serale. "L’erba che vendiamo nasce inizialmente come tisana", spiega Andrea Glonfoni che gestisce il negozio da due anni a Roma Est, un via vai di acquirenti così non lo aveva visto mai. Il commercio del barattolino è schizzato da quando, otto mesi fa, la percentuale consentita dalla legge di Thc (ossia il principio attivo delta- 9-tetraidrocannabinolo che provoca effetti psicotropi e danni al neuro-sviluppo) è passato dallo 0,2 allo 0,6. E la "easy Joint" società fondata da due ragazzi di Parma, ha fiutato il business e, esperimento dopo esperimento, ha ottenuto una miscela di "pura infiorescenza femminile di cannabis light sativa", - si legge sull’etichetta della confezione - coltivata naturalmente senza l’impiego di nessun additivo chimico. Selezionata e recisa a mano per ottenere la massima qualità. Così, in fila nei "canapa shop" si possono trovare attempati signori con un passato di canne alle spalle "che ora vogliono solo rollare prima di andare a letto continua Glonfoni - perche l’alta percentuale di cannabinoidi aiuta a dormire". Ma ci sono anche genitori che accompagnano i figli. Per la serie "meglio light che strong", "meglio con me che con lo spacciatore". "Non la vendiamo ai minorenni però - precisa Glonfoni - anche se sono tanti i ragazzi che vengono da noi perché hanno paura a comprare l’erba ver, sanno che è illegale e dà brutti effetti: attacchi di panico, tachicardia, depressione". E poi c’è il problema della detenzione e dei guai con la legge. Se fermati col barattolino in mano, invece, non c’è guardia o giudice che possa intervenire. Semmai, la guardia di finanza potrebbe dire qualcosa se non si mostra lo scontrino: sei grammi d’erba, 17 euro. Tanto è vero che un dei "Grow show room" è proprio in via Giulio Cesare, a due passi da San Pietro, dalla caserma militare e dal Tribunale. Insomma, il passaggio "aumma aumma" della cannabis legale, seppur blanda sembra compiuto, mentre la legge sulla liberalizzazione delle droghe leggere giace in commissione giustizia. E tante a questo punto, sono le perplessità. Perché il Thc sarà pure sotto lo 0,6 per cento "ma dipende da quanto uso ne fai - spiega il professor Alessandro Vento psichiatra e responsabile dell’Osservatorio sulle dipendenze. E poi ci sono i cannabinoidi il cui effetto è ancora poco conosciuto". E c’è anche il discorso del messaggio. Che messaggio dà un padre che compra l’erba light per la festa del figlio di 18 anni? O la mamma che accompagna i ragazzi a fare acquisti? "Un messaggio sbagliato: un genitore è il principale strumento di limite per gli adolescenti. Ed è naturale che la sua funzione venga meno in simili contesti", continua Vento. Anche se qui il discorso cambia. "Può essere un passaggio utile, invece, se i cannabinoidi presenti nella versione light vengono assunti sotto monitoraggio medico, in un’ottica di terapia o riduzione del danno per chi cerca di smettere". Droghe. Ok alle firme per la cannabis libera Il Dubbio, 14 luglio 2017 La Presidente della Camera Laura Boldrini ha comunicato all’Associazione Luca Coscioni e Radicali Italiani che il controllo dei certificati elettorali consegnati l’11 novembre scorso a sostegno di una proposta di legge d’iniziativa popolare per la regolamentazione legale della produzione, consumo e commercio della cannabis e suoi derivati si è conclusa con successo e che il testo verrà adesso assegnato alle commissioni competenti. Riccardo Magi, Segretario di Radicali Italiani ha dichiarato: "È un grande successo di mobilitazione che siamo riusciti a ottenere nonostante gli enormi ostacoli burocratici. Con la nostra proposta di legge popolare il Parlamento ha un’occasione in più, che gli viene offerta dai cittadini, di conquistare una riforma di buon senso come la legalizzazione della cannabis che oggi mette d’accordo decine di magistrati e la Dna perché sottrarrebbe soldi alle mafie e li porterebbe all’erario, riscattando milioni di consumatori dal mercato criminale". Belgio. I detenuti potranno utilizzare il proprio telefono in cella di Giovanni D’Agata Corriere Nazionale, 14 luglio 2017 Non potranno ricevere chiamate e avranno una black list con numeri vietati (servizi di polizia, il Palazzo reale o politici). Una rivoluzione che può migliorare le condizioni di vita dei detenuti con effetti benefici sull’intero sistema penitenziario. Un’idea rivoluzionaria per i diritti detenuti. Secondo il quotidiano belga Het Nieuwsblad, i detenuti potranno utilizzare un proprio telefono per telefonare dalla propria cella. L’obiettivo? È duplice: ridurre il carico di lavoro delle guardie carcerarie e aumentare la sicurezza in prigione. Il quotidiano rivela che nei prossimi giorni una rete telefonica verrà installata nel primo carcere del Belgio. Nel mese di novembre, la rete sarà ampliata in tutte le prigioni dello stato nordeuropeo. Per Kathleen Van de Vijver, portavoce per l’amministrazione penitenziaria belga, la "Chiamata dalla cella aumenterà la sicurezza in prigione". Concretamente, ogni detenuto potrà beneficiare di un proprio telefono cellulare nella propria cella. Il che significa che gli addetti di polizia penitenziaria non accompagneranno più i ristretti per consentire loro di effettuare le chiamate telefoniche personali consentite dall’ordinamento con la conseguenza che potranno dedicare più tempo alle altre attività ed in particolare alla sorveglianza. In questo modo "Il detenuto sarà in grado di chiamare la persona di sua scelta quando vorrà," ha commentato Kathleen Van de Vijver ed ha ricordato che attualmente "Molti detenuti che non riescono a raggiungere telefonicamente i propri figli quando tornano a casa da scuola sono frustrati. Con questo dispositivo, non accadrà più". Tuttavia la possibilità di utilizzare il telefono non sarà illimitata: i detenuti non potranno ricevere chiamate. E vi sarà una black list con numeri vietati (servizi di polizia, il Palazzo reale o politici) che verranno bloccati. Ovviamente si tratta di un’idea rivoluzionaria e non inconcepibile per un ordinamento penitenziario che guarda senz’altro alla primaria funzione rieducativa e non solo a quella punitiva della pena, come dovrebbe essere in un’ottica antitetica a quella italiana, dove la limitazione con le comunicazioni esterne, così come la tutela dell’affettività dei detenuti è ferma a concezioni arcaiche e conosce solo pochissime positive ed isolate esperienze, tanto che il carcere si rivela ancora per la sua dimensione afflittiva e peggiorativa delle condizioni di vita dei ristretti, le cui storie ci raccontano che nella realtà rimane ancora una delle principali accademie della delinquenza del Belpaese. D’altro canto. è assurdo che altrove non si sia pensato prima che la possibilità di utilizzare il telefono per chiamate più frequenti, almeno con i propri familiari, e non solo per la classica e unica chiamata di 10 minuti concessa a settimana, può solo servire a migliorare le condizioni di vita di chi sconta la pena, con la conseguenza che si riducono le afflizioni che conducono al naturale e probabile imbarbarimento che già si vive nella quotidianità dei penitenziari. Non è da sottovalutare, infine, che le comunicazioni telefoniche costituiscono uno dei mezzi di interlocuzione più semplici da monitorare da parte dell’autorità giudiziaria nel momento in cui si ritenga possano essere utilizzate per la perpetrazione di attività criminale, e pertanto non possono arrecare alcun potenziale pericolo ove si prendano le necessarie precauzioni tecniche e le dovute limitazioni. Cina. Addio a Liu Xiaobo eroe di Tiennamen e Nobel per la Pace di Victor Castaldi Il Dubbio, 14 luglio 2017 Dopo una lunga agonia è morto l’attivista democratico e Premio Nobel per la Pace 2010, Liu Xiaobo, coautore e promotore del manifesto pro- democratico Charta 08, che sostiene le libertà democratiche e le riforme costituzionali in Cina. Lo hanno confermato le autorità giudiziarie di Shenyang in una nota. Dopo essere stato scarcerato dalle autorità di Pechino lo scorso mese perché praticamente moribondo colpito da un cancro al fegato allo stadio terminale, Liu era stato ricoverato nel Primo Ospedale di Shenyang, L’attivista e intellettuale cinese aveva sessantun anni, era stato critico letterario e docente universitario: in passato, tra il 2003 e il 2007, aveva anche ricoperto il ruolo di presidente dell’Independent Chinese Pen Centre, organizzazione no-profit che sostiene la libertà di espressione degli scrittori cinesi, e di direttore della rivista di orientamento democratico Minzhu Zhongguo ("Cina democratica") fondata negli anni Novanta. Liu Xiaobo è stato arrestato nel 2008, due giorni prima della pubblicazione di Charta 08, e processato il giorno di Natale del 2009: venne condannato a undici anni di carcere per "incitamento alla sovversione dell’ordine statale". L’anno successivo fu insignito del Premio Nobel per la Pace, che non ha mai potuto ritirare, per la sua "lunga e non violenta lotta per i diritti umani fondamentali in Cina". L’assegnazione del premio portò a uno stallo diplomatico i rapporti con la Norvegia, che si prolungò fino al dicembre scorso, quando una delegazione guidata dal ministro degli Esteri di Oslo, Boerge Brende, giunse a Pechino per ripristinare le relazioni. La visita permise di firmare una dichiarazione nella quale veniva specificato che "le due parti hanno raggiunto negli ultimi anni un livello di fiducia che permette la ripresa di una relazione normale". Charta 08, di cui Liu Xiaobo fu promotore, chiede una magistratura indipendente dal potere politico e le libertà di parola, di stampa, religiosa, di assemblea, di associazione e di sciopero. Il documento sottoscritto anche da altri trecento fra intellettuali, attivisti, avvocati e artisti cinesi usa toni molto duri nei confronti della Cina contemporanea. Nel documento si fa riferimento ai diritti umani, all’uguaglianza tra esseri umani, alla democrazia, il cui significato principale è che "la sovranità appartiene al popolo e il governo è eletto dal popolo": la garanzia di questi diritti, si legge su Charta 08, deve essere definita nella carta costituzionale. Il manifesto promuove anche la separazione dei poteri per creare un "governo moderno", l’indipendenza della magistratura dal potere politico e l’elezione diretta dei rappresentati del popolo sulla base del principio "una persona, un voto". Charta 08 definisce, però, "autoritario" il sistema cinese. Nel documento si tratta anche il tema dei diritti umani che devono essere garantiti dal governo, a cui chiede l’istituzione di una commissione ad hoc, per "proteggere la dignità umana". Prima di Charta 08, Liu aveva già passato diverso tempo nelle carceri cinesi per le sue posizioni contrarie alla linea del Partito Comunista. Ritornò in Cina dagli Stati Uniti per partecipare alle manifestazioni studentesche di piazza Tian’anmen nella primavera del 1989, e riuscì a convincere alcuni degli studenti a lasciare la piazza prima dell’arrivo dei carri armati. Myanmar. L’appello per i Rohingya "desaparecidos" di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 luglio 2017 Il 9 ottobre 2016 ignoti hanno attaccato una serie di posti di blocco della polizia di frontiera di Myanmar nello stato di Rakhine uccidendo nove agenti. La reazione del governo è stata durissima: vaste zone dello stato dove vive la minoranza Rohingya sono state isolate e "bonificate" attraverso incendi e distruzioni di villaggi, stupri, torture e uccisioni. A distanza di mesi, di centinaia di persone arrestate durante le operazioni militari non si ha più notizia. In un rapporto pubblicato il 3 febbraio, l’ufficio dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani ha denunciato che su 205 famiglie intervistate, il 45 per cento non aveva più notizie di almeno un parente arrestato tra ottobre e novembre. Siamo di fronte a una sparizione forzata di massa. Il governo della Nobel per la pace Aung San Suu Kyi non ha ancora preso una chiara posizione di condanna e non svolge indagini adeguate. Amnesty International ha lanciato un appello per chiedere alle autorità di Myanmar di rendere noto immediatamente il destino di tutte le persone detenute durante le operazioni di sicurezza nel nord dello stato di Rakhine.