Appello per la Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova: è un patrimonio comune Ristretti Orizzonti, 12 luglio 2017 Appello alla società civile, alle associazioni e agli enti pubblici e privati del territorio, alle singole persone che da tantissimi anni hanno avuto modo di conoscere il buon funzionamento della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. Senza il contributo di tutti la Casa di Reclusione di Padova non sarebbe quella che oggi tutti siamo ormai abituati a conoscere. È grazie a persone responsabili e di buona volontà presenti in tutte le realtà, pubbliche e private, che oggi il carcere "Due Palazzi" è noto in tutto il mondo. Quello di un carcere è un mondo tanto complesso quanto ricco di esperienze, ricco di diversità, basti pensare al personale di Polizia penitenziaria, alle varie direzioni che dal 1989 ad oggi si sono succedute, alla magistratura di sorveglianza, all’area trattamentale educativa, all’area socio sanitaria, all’area scolastica (basti pensare che Padova ha visto nascere in carcere uno dei primi Poli Universitari d’Italia), alle associazioni di Volontariato pioniere a livello nazionale, le cooperative sociali, alle realtà culturali, sportive, formative. Ognuna di queste con la propria specificità ha dato vita, in questi lunghi e faticosi ma anche belli anni a quell’autentico laboratorio di sperimentazione di un carcere rispettoso fino in fondo della Costituzione. Tutto questo, che è un patrimonio di tutti, oggi lo vediamo messo fortemente a rischio. Il lavoro di anni, svolto da tutti sempre attraverso un confronto aperto e serrato con le Istituzioni, ha avuto una caratteristica sopra ogni altra: la trasparenza. Padova ha una ricchezza di esperienze nell’ambito della rieducazione e del recupero delle persone detenute davvero straordinaria, attività mai smessa anche quando la dovuta attenzione in merito alla carenza del personale di polizia penitenziaria, dell’area trattamentale educativa e dirigenziale, non veniva adeguatamente affrontato in quantità oltre che in qualità. In queste settimane, più o meno tutti, stiamo subendo un attacco sia mediatico che concreto nel vivere quotidiano. Ogni fatto anche teso a mettere ordine al proprio interno (vedi ad esempio il ritrovamento vari di cellulari) è usato da qualcuno sempre in modo strumentale. Grazie a una straordinaria collaborazione tra istituzioni e società civile anche negli anni del sovraffollamento più bestiale si è riusciti a fare davvero miracoli. Quello in atto è un grave tentativo di tornare al passato (ante 1990), a un carcere chiuso alla società civile e chiuso alla speranza. La nostra preoccupazione è dettata anche dal fatto che il "Sistema carcere Padova" è nato realmente dal basso, dall’impegno e dalla risposta positiva data negli anni dall’Amministrazione, in particolare quella locale. Ora temiamo che il lavoro di tutti non venga sufficientemente tutelato, questo chiaramente non è solo a danno di Padova, in quanto in questi anni Padova ha rappresentato un monito, ricordando a tutti che con un unico ordinamento penitenziario si può gestire un carcere, progettando davvero il cambiamento o invece arroccandosi nella difesa di un passato che, come tutti oggi si riempiono la bocca, ha invece fruttato il 70% di recidiva. Ci rivolgiamo a tutti quelli che conoscono bene che cosa prevedono la nostra Costituzione, le leggi, l’Ordinamento ed il Regolamento penitenziario e non da ultimo le direttive europee che impongono l’umanizzazione della pena per quanto riguarda le persone private della libertà a causa dei reati commessi. Ci rivolgiamo a chi conosce altrettanto bene tutte le attività che da decenni sono presenti presso la Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. La mancanza di rispetto, di aiuto, di difesa ci preoccupano moltissimo. Quello che ci preoccupa è dunque che ad essere attaccato sia il sistema "carcere Padova" nella sua totalità, e per di più in maniera poco chiara e incomprensibile. Ne va della credibilità delle istituzioni e della dignità delle persone. Una città intera, e non solo, ha conosciuto in questi 25 anni questa esperienza: ogni anno migliaia di studenti, scuole, aziende, istituzioni italiane e di ogni parte del mondo, enti di ogni ordine e grado, università italiane ed estere, etc. etc. sono entrati a contatto con tutte le attività di questo istituto, attività in molti casi fiore all’occhiello a livello nazionale ed internazionale. Quello del carcere di Padova non è patrimonio di qualcuno in particolare, è patrimonio di tutti, è un patrimonio pubblico di cui tutti noi e Padova ne andiamo fieri. Vi chiediamo una firma e, se volete, una frase che esprimano la vostra solidarietà e la vostra simpatia. Firmatari appello - Gruppo Operatori Carcerari Volontari (OCV) - Casa di accoglienza Piccoli Passi - Gruppi di ascolto - Sappe Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Responsabile Veneto e Trentino Giovanni Vona - FeDerSerD, Federazione degli operatori dei servizi delle dipendenze - Felice Nava - CISL-FNS Veneto - Segretario Regionale Giuseppe Terracciano - CISL-FP Padova - Segretario Generale Michele Roveron - CISL Padova - Segretario Generale -Sabrina Dorio - Polo Universitario Carcerario - Università di Padova - FP-CGIL Penitenziari Gianpietro Pegoraro - FP-CGIL Veneto Daniele Giordano - Associazione di volontariato Incontrarci Cristina - Associazione di Volontariato Ristretti/Granello di Senape - rassegna stampa e rivista - sportello giuridico - scuola di scrittura - TG2 PALAZZI. Ornella Favero Francesca Rapanà Lucia Faggion Vanna Chiodarelli Angelo Ferrarini Bruno Monzoni Antonio Morossi Elisabetta Gonzato Mauro Feltini Anna Scarso Feltini Donatella Erlati Armida Gaion Fernanda Grossele Tino Ginestri Silvia Giralucci - Work Crossing Coop. Soc. P. A. - Pasticceria "I dolci di Giotto" Matteo Marchetto Roberto Fabbris Matteo Florean - Insegnanti CPIA Padova, sezione carceraria. Adesione personale Daniela Lucchesi Domenica Cimellaro - Giotto Coop. Soc. Nicola Boscoletto Andrea Basso Alessandro Krivicic - Teatrocarcere Due Palazzi Maria Cinzia Zanellato Adele Trocino - Ass. Coristi per Caso Alberta Pierobon - Coro Due Palazzi in collaborazione con CPIA Padova - Docenti scuola superiore in carcere - Einaudi/Gramsci sez. carceraria Patrizia Fiorenzato Francesco Mazzaro Vincenzo Stocco Michela Zamper Paolo Mario Piva - ASD Polisportiva Pallalpiede Lara Mottarlini Paolo Mario Piva - Antigone Triveneto Giuseppe Mosconi - Cooperativa sociale AltraCittà Rossella Favero Valentina Franceschini Valentina Michelotto Mirko Romanato Bruna Casol Sabina Riolfo Federico Gianesello Giorgio Mazzucato - Avvocato Marco Di Benedetto - Avvocato Roberto Pinazzi - Mirella Gallinaro, Garante regionale dei diritti della persona del Veneto - Avvocato Mattia Carminati - Avvocato Gloria Trombini - Livio Pepino, già magistrato, presidente Associazione studi giuridici Giuseppe Borrè - Avvocato Riccardo Polidoro, Responsabile dell'Osservatorio Carcere UCPI "L'Osservatorio Carcere dell'Unione Camere Penali Italiane, sottoscrive l'appello. Firmiamo e invitiamo a firmare l’appello per salvare e promuovere il lavoro svolto nella casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova. Sono pochissime le cattedrali nel deserto dell’esecuzione penale in Italia. Tra queste certamente e da tempo quella della Casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova. Un’eccellenza nell’ambito della c.d. “rieducazione” e nel recupero delle persone detenute che ha, con coraggio e grande forza di volontà, compensato le carenze di personale e di risorse dell’area trattamentale. Ci uniamo, pertanto, all’allarme lanciato dagli operatori di tale meravigliosa realtà, preoccupati che si voglia tornare ad un carcere “chiuso”, mettendo fine ad iniziative e progetti che hanno coinvolto la società civile, le scuole, le università, le aziende, nel rispetto di un'esecuzione della pena in linea con i principi della Costituzione e dell'Ordinamento Penitenziario. Il lavoro svolto in questi 25 anni a Padova ha rappresentato un’attività di supplenza che lo Stato non può ignorare e soprattutto non può e non potrà cancellare. Invitiamo, pertanto, tutti gli iscritti all’Unione Camere Penali Italiane a firmare l’appello scrivendo a redazione@ristretti.it. Gli Avvocati Componenti il Direttivo UCPI: - Simone Bergamini - Gianluigi Bezzi - Fabio Bognanni - Filippo Castellaneta - Giuseppe Cherubino - Filippo Fedrizzi - Roberta Giannini - Davide Mosso - Ninfa Renzini - Cinzia Simonetti - Gabriele Terranova - Renato Vigna - Franco Villa - Patrizio Gonnella, Presidente Associazione Antigone - Claudio Messina, Società di San Vincenzo De Paoli "Esprimo tutta la mia stima e fiducia agli operatori che in tanti anni di serio e qualificato impegno, con quello altrettanto indispensabile delle persone detenute coinvolte, hanno creduto e saputo attuare iniziative di eccellenza all’interno della Casa di Reclusione di Padova. Un impegno che ha dato frutti a tutti ben visibili, rendendo un servizio importante non solo alla comunità ristretta ma a tutte le componenti sociali, direttamente e indirettamente coinvolte. Tutti noi, appartenenti al mondo del volontariato ne abbiamo beneficiato e ne traiamo tuttora spunti utilissimi. Questi successi indiscutibili non possono essere vanificati da pretesti del tutto inconsistenti, che evidenziano la volontà di arrestare quel progresso civile auspicato dalla stessa Costituzione e da tutta la legislazione in materia, nell’attribuire alla pena un significato riabilitativo, rispondente non solo a istanze di giustizia e di civiltà, ma anche all’interesse della società nel suo complesso. Sono certo che la forza delle idee di progresso, dell’impegno costante e disinteressato prevarranno su questi attacchi immeritati, palesemente strumentali. Esprimo dunque a tutti voi la mia totale solidarietà e incoraggiamento a proseguire nel solco tracciato e sin qui vincente. Non conosco un modo migliore di operare dentro e fuori dal carcere". - Agnese Solero e Beppe Ceschi "Mi viene spontaneo affermare che la difesa delle attività presenti nella casa di reclusione di Padova è un investimento per tutti coloro che si sentono cittadini, per tutti coloro che credono nella possibilità dell'uomo di crescere, di cambiare, di misurarsi con l'altro da sé ma anche con sè stessi e con le proprie debolezze e fragilità. Tenere viva e fertile la comunicazione tra il "dentro" e il "fuori" per me significa investire nell'umanità e in un mondo possibile. Non scoraggiamoci!". - Giulia Cella - Antonella Barone - Museo Veneto del giocattolo di Padova - Centro Studi Ettore Luccini di Padova - Mario Breda, Mariastella Dal Pos - Avvocato Antonella Calcaterra - Mauro Feltini - Elisabetta d'Errico - Avvocato Barbara Lettieri - Avvocato Luca Mandro - Avvocato Felice Foresta, Referente Osservatorio Carcere Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” - Alain Canzian - Avvocato Alessandro Magoni A metà agosto il grande Satyagraha per l’Ordinamento penitenziario di Valentina Stella Il Dubbio, 13 luglio 2017 Rita Bernardini illustra le prossime iniziative Radicali, a partire dalla "Carovana x la giustizia". "abbiamo appoggiato l’unione delle camere penali nella raccolta delle firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere". Rita Bernardini è di nuovo in forma ed è ritornata nella sede del Partito radicale da qualche giorno, dopo che il 6 luglio è stata dimessa dall’ospedale, nel quale era ricoverata dallo scorso 21 giugno per un infarto al miocardio e una fortissima colica biliare che ha reso necessario programmare un intervento di asportazione della colecisti. Innanzitutto come sta adesso e come ha vissuto una combattente come lei un periodo di tre settimane di riposo? Sto molto meglio, davvero felice di essermi ripresa dopo l’ultimo sciopero della fame. Ho avuto una rete straordinaria di amiche e amici radicali che mi sono stati accanto minuto dopo minuto riempiendomi di attenzioni e affetto. E poi tanta sincera solidarietà da ogni angolo d’Italia. In una delle tre notti passate in terapia intensiva per via dell’infarto ho avuto un sogno agitatissimo; l’ho passata a "visitare" uno per uno i quasi 200 istituti penitenziari italiani… Insomma, continuavo ad avere ben presenti gli obiettivi dell’iniziativa nonviolenta e non avevo alcuna intenzione di mollare. Sul suo profilo Facebook scrive che è pronta a ripartire per la "Carovana x la giustizia" in Sicilia, dopo quella di giugno in Calabria. Quali sono gli obiettivi di questa nuova iniziativa? Gli stessi della Carovana che abbiamo fatto in Calabria: raccolta firme per strada e nelle carceri sulla proposta di legge popolare dell’Unione delle Camere Penali sulla separazione delle carriere dei magistrati; dibattiti pubblici sulla giustizia trattando anche temi indiscussi e indiscutibili in quella regione, come la nostra opposizione all’ergastolo ostativo e al 41bis; raccolta di iscrizioni al Partito Radicale "nonviolento transnazionale transpartito", argomento prioritario visto che il Congresso di Rebibbia ha posto l’obiettivo dei 3.000 entro il 2017, da ripetere nell’anno 2018, pena lo scioglimento di quello che Marco Pannella ha sempre definito come uno "strumento" che per essere utile deve camminare sulle gambe e sul contributo economico di persone che hanno a cuore la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti umani fondamentali. Siamo oggi a 1.500 iscritti ai quali si aggiungono 348 persone che si stanno iscrivendo a rate per completare la quota entro la dell’anno e 195 contribuenti che ci auguriamo tramutino il loro sostegno economico in iscrizione. La strada è in salita, ma nessuno di noi mollerà, credo proprio che ce la possiamo fare. L’esempio straordinario che ci dà la giovanissima novantaduenne Laura Arconti dal suo 41- bis domiciliare (il suo medico le ha letteralmente intimato di non uscire di casa in questa estate infernale), è una lezione di vita per tutti: decine di iscrizioni raccolte, presenza costante sui social network, telefono rovente in entrata e in uscita, fili diretti settimanali da Radio Radicale, solo per citare alcune delle sue attività. Parla anche del "Grande Satyagraha collettivo di metà agosto per l’effettiva riforma dell’Ordinamento penitenziario": di cosa si tratta? È il proseguimento della lotta nonviolenta decennale di Marco Pannella per l’amnistia che portava tanti - ahinoi, anche dentro il mondo radicale - a manifestare chiari segni di insofferenza di fronte alla sua ostinazione. Pannella, impareggiabile nel coinvolgere la comunità penitenziaria e i massimi vertici istituzionali dello Stato, considerava quello della giustizia (con la sua infame appendice carceraria) il più grande problema sociale, civile e democratico del nostro Paese e, attraverso l’individuazione di questa chiave tutta politica, ha declinato e affrontato le tragedie del nostro tempo. Si tratta semplicemente di proseguire il suo Satyagraha, per quel che possiamo senza di lui e cercando di attrezzarci al meglio. Un primo, immediato obiettivo è fare in modo che il governo emani i decreti attuativi del disegno di legge di Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, altrimenti abbiamo solo la certezza che il lodevole lavoro messo in cantiere in questi anni dal ministro della Giustizia sul fronte di un’esecuzione penale che finalmente recepisca i principi costituzionali si tramuti in lettera morta: non possiamo permettercelo come Paese e, mi creda, faremo di tutto per scongiurarlo. Una proposta aggiuntiva che avanziamo come Partito Radicale, fondamentale se vogliamo fronteggiare in qualche modo la ripresa ormai inarrestabile del sovraffollamento carcerario, è quella di portare da 45 a 60 i giorni di liberazione anticipata ogni semestre per i detenuti che abbiano un buon comportamento; inoltre, chiediamo che così come accade in Germania i giorni di liberazione anticipata siano direttamente computati senza l’intervento del Giudice di Sorveglianza, il quale sarà chiamato ad agire solo nel caso in cui il detenuto abbia avuto rapporti disciplinari o si sia rifiutato di aderire alle attività trattamentali, laddove previste. Il Partito Radicale ha contribuito in maniera notevole al raggiungimento delle 50000 firme sulla proposta di legge per la separazione delle carriere promossa dall’Unione delle Camere Penali: ma le forze politiche tacciono. Perché? Iniziativa lodevolissima quella dell’Unione Camere Penali che sosteniamo con entusiasmo. Del resto, si tratta di una battaglia storica che i radicali hanno provato a perseguire anche per via referendaria nel 2000. Ecco, se andiamo a rivedere il comportamento delle forze politiche in quell’occasione, scopriamo che nulla è cambiato da allora. I partiti - è amaro dirlo - continuano ad essere succubi del potere giudiziario che non vogliono mai contraddire anche quando si manifesta nelle richieste più oscene al legislatore, quelle che contravvengono ai più pregnanti principi costituzionali come accade per l’art. 111 che, senza alcun ombra di dubbio e per rimanere in tema, stabilisce che il giudice debba essere terzo fra accusa e difesa. Sul fronte accesso alla cure a base di cannabis ci sono novità? Poche e poco confortanti. Voglio qui ringraziare l’onorevole Mara Mucci che ha posto al governo, con un’interpellanza urgente, precise domande sulla scomparsa dal mercato di un farmaco come il Bediol e, attraverso una più dettagliata interrogazione a risposta scritta, tutta una serie di questioni riguardanti, più in generale, l’inaccessibilità dei farmaci cannabinoidi per centinaia di migliaia di malati nel nostro Paese, nonostante che la legge sia in vigore dal 2007. Contro l’Europa in ordine sparso, la politica si sta riducendo a una gara tra populismi di Antonio Polito Corriere della Sera, 13 luglio 2017 C’è un gran viavai, di questi tempi, tra destra e sinistra. Quelli che volevano uscire dall’Europa ora non vogliono uscire più, come i Cinquestelle, o non ne parlano più, come la Lega. Quelli che volevano guidare l’Europa, come Renzi, ora vorrebbero cancellare le regole europee sui conti pubblici. Che poi è esattamente la stessa proposta a cui erano già approdati i Cinquestelle, per compensare la marcia indietro sull’euro. La richiesta a Bruxelles di "aiutarci a casa nostra", lasciandoci spendere in deficit, va di pari passo con l’"aiutiamoli a casa loro", ultimo grido in fatto di migranti, che è indubitabilmente copyright di Salvini, ma anche Renzi è d’accordo, e pure Bill Gates per dirla tutta. Non parliamo poi delle banche. Vade retro bail in. Da sinistra a destra tutti ricordano con nostalgia i bei tempi in cui si potevano salvare con il denaro dei contribuenti (ma chissà perché noi non lo facemmo, e la Germania sì). E giù a prendersela con Bankitalia, (peraltro l’unica istituzione ad averci messo in guardia al momento debito, inascoltata). Una pericolosa convergenza programmatica sta avvicinando le maggiori forze politiche. Quelle di governo hanno voglia di fare l’opposizione a se stesse per prendere voti a quelle di opposizione. Un povero elettore che si sentisse moderatamente europeista e allergico alla demagogia - una minoranza, ne siamo certi, ma in democrazia anche i diritti delle minoranze contano - per chi potrà votare nel 2018? La profezia del ministro Calenda, una gara elettorale tra tre populismi, un unicum in Europa, non è lontana dal realizzarsi. Viene quasi il sospetto che in tutta questa corsa allo scavalco, lo stare quasi fermo di Berlusconi sia la ragione per cui cresce un po’ nei sondaggi. Intendiamoci: cambiare idea è il sale della politica. E certe volte è necessario per servire l’interesse nazionale. Per esempio: è vero che non possiamo accogliere tutti coloro che vorrebbero venire in Europa passando per l’Italia. E che lo dica anche Renzi, mentre si batte per la legge sullo ius soli che pure qualche contraddizione la presenta, è comunque un bene. Ciò che non va bene è la superficialità e la velocità con cui si accavallano le "svolte", ormai quasi uno zigzag. Così si mente agli italiani, quantomeno per omissione. Gli si nascondono le cause per cui l’ormai famigerato Fiscal Compact, o la missione Triton per i migranti, o il bail in per le banche, furono firmati e sottoscritti dall’Italia, e in qualche caso da noi stessi richiesti. Prendiamo Triton. Ci sono molte ottime ragioni per voler oggi cambiare le norme sugli sbarchi dei migranti. Però non si può dimenticare che, col governo Renzi in carica, l’Italia chiese e ottenne quell’accordo, e lo festeggiò come una conquista perché metteva fine a Mare Nostrum, l’operazione di salvataggi considerata all’epoca troppo umanitaria e troppo costosa. Triton apriva infatti la via alla collaborazione di altri paesi, ma in cambio noi accettavamo la clausola per cui gli sbarchi sarebbe avvenuti tutti da noi, qualsiasi bandiera battesse la nave che li trasportava. Non sempre dunque si può dare la colpa a chi c’era prima, anche perché il più delle volte non di colpa si tratta, ma di necessità storica. Vale anche per il Fiscal Compact. Quel patto di responsabilità di bilancio fu la condizione grazie alla quale la Bce poté avviare i vari programmi che ci stanno facendo risparmiare circa 17 miliardi di interessi sul debito (un punto intero di Pil, altro che flessibilità). Pochi ricordano che fu l’italiano Mario Draghi a usare per primo quel nome in un’audizione all’Europarlamento. E ora c’è chi, come Grillo, vorrebbe scrollarsi di dosso la disciplina fiscale e allo stesso tempo ottenere dall’Europa gli eurobond: cioè fare debiti con i soldi degli altri. Sembra una battuta di Ricucci. Quando Renzi dice che annullando quelle regole possiamo "avere a disposizione una cifra di almeno trenta miliardi" per tagliare le tasse, fare investimenti pubblici, allargare la platea del bonus, far crescere il Pil e il gettito fiscale e così ridurre perfino il debito, fa credere agli italiani che quei soldi siano nostri e stiano in una cassaforte di Bruxelles che finalmente ci siamo decisi a forzare. Mentre invece stiamo semplicemente chiedendo all’Europa di autorizzare l’Italia a indebitarsi ancora di più. Senza aggiungere che il Fiscal Compact è già un trattato intergovernativo, e se anche noi mettessimo il veto a trasformarlo in un trattato europeo continuerebbe a impegnare l’Italia che l’ha firmato. E infatti la riforma costituzionale sottoposta a referendum non conteneva l’abolizione dell’articolo che lo recepisce. Correttamente Renzi ci avverte che una trattativa così ambiziosa può essere fatta solo da un governo di legislatura che dura cinque anni. Non sarebbe dunque male se cominciasse col darsi da fare per una legge elettorale che autorizzi quantomeno la speranza di un governo siffatto, perché nelle condizioni attuali è una chimera, e dunque stiamo discutendo del nulla. Questa è la piega che sta prendendo la politica italiana. Un grande affollamento sulle fasce e nessuno che organizzi il gioco al centro. Tutto si può rinegoziare. Ma un Paese che firma accordi e dopo pochi anni li denuncia, che finge di dimenticare perché li ha firmati, e fa capire che potrebbe violarli anche senza un nuovo accordo, non avrebbe il peso e la credibilità per rinegoziare alcunché. Prova di ritratto del giustizialismo in buona fede. Lettera aperta a Gian Carlo Caselli di Piero Sansonetti Il Dubbio, 13 luglio 2017 Conosco Gian Carlo Caselli da una trentina d’anni. Ero vicedirettore dell’Unità e lui era uno dei nostri editorialisti: ci sentivamo spesso, confrontavamo idee, giudizi, pareri. Il Caselli di oggi non è esattamente quello della fine degli anni Ottanta, perché l’esperienza di Palermo - dove è stato Procuratore negli anni di ferro e di fuoco del dopo-stragi - l’ha cambiato moltissimo, e questo è un fatto naturale, giusto. Tutti cambiamo. Io non nutro nemmeno il dubbio più piccolo sulla sua assoluta buonafede. Perciò mi interessa discutere di lui, delle sue posizioni politiche e intellettuali, e in particolare dell’articolo che ha scritto martedì su Il Fatto Quotidiano a proposito dell’affare Contrada. Io credo che Caselli sia uno degli interpreti più seri e coerenti del giustizialismo. E provo a scrivere questa parola senza attribuirgli nessun valore positivo o negativo. Credo che esistano due tipi di giustizialismo. Quello "a pendolo" (feroce coi nemici e molto indulgente con gli amici) che è semplicemente un modo per usare le ideologie come armi taglienti di lotta politica e personale. Non ha niente a che fare con l’idea di giustizia. Il giustizialismo "a pendolo" è frequentissimo, a sinistra e a destra, ed è sicuramente un aspetto negativo e perverso della lotta politica. Come il garantismo "a pendolo", del resto, che è quasi la stessa cosa. Poi esiste il giustizialismo puro. Coerente, costante. Che non guarda in faccia a nessuno e che non considera se stesso un "mezzo" di lotta politica ma considera se stesso l’essenza più pura della politica. È quello di Caselli e in parte anche quello di Antonio Ingroia. Consiste nel ritenere la ricerca e la punizione di chi commette atti illegali come il fine supremo della vita pubblica. E nell’anteporre questa esigenza di giustizia e di pulizia a ogni altra esigenza della democrazia, della libertà e dello Stato di diritto. Il principio è semplice. Potrei riassumerlo così: "l’illegalità è la fonte della sopraffazione, la sopraffazione è il male assoluto in una società moderna; quindi la repressione di ogni possibile forma di illegalità è la madre di tutte le battaglie. Qualunque ostacolo venga a rallentare questa azione va rimosso, con ogni mezzo. Non solo gli ostacoli a loro volta illegali, ma anche quelli legali, e cioè l’eccesso di garanzie, di tutele, di norme, o la ricerca spasmodica delle certezze. La certezza è nemica della probabilità, e le probabili illegalità - spesso, molto probabili - vanno comunque stroncate". L’altro giorno (detto tra parentesi, ma è una cosa che c’entra molto con questo ragionamento) Antonio Ingroia ha scritto un tweet che dice così: "Io sono garantista con gli innocenti e giustizialista con i colpevoli". Ecco, questa frase riassume bene l’animo del giustizialismo: la filosofia del vero giustizialista è che la giustizia sta molto avanti al diritto, e che il mondo si divide in innocenti e colpevoli, o presunti innocenti e presunti colpevoli, e i presunti colpevoli non devono essere garantiti. Potrei scatenarmi - lasciando spazio al sentimento - in una furibonda polemica, a questo punto, ma invece voglio tornare al caso Contrada. Dice Caselli nel suo articolo. Primo: "La responsabilità del dottor Contrada per i gravissimi fatti che egli ha commesso è supportata da solide prove riscontrate da molti giudici (Tribunale, due volte la Corte d’Appello e Cassazione)". Secondo: "È una bufala che non esista il concorso esterno in associazione mafiosa. Esiste da sempre nel nostro ordinamento per tutti i reati, in base all’articolo 110 del codice penale. Nel furto è colpevole il ladro ma anche il palo". Terzo: "L’unico strumento per contrastare le collusioni (con la mafia, ndr) è il concorso esterno in associazione mafiosa". Mi sembrano questi tre i punti chiave, poi c’è un quarto punto, assai più debole, che lascio per un post- scriptum. Punto primo. Non è vero che il dottor Contrada è stato condannato in primo grado, due volte in appello e poi in Cassazione. La Corte d’appello di Palermo lo ha assolto, con una formula amplissima: "perché il fatto non sussiste". La Procura di Palermo (Ingroia) non ha accettato la sentenza dell’appello, ha fatto ricorso e ha vinto. Una seconda Corte d’appello, quella di Caltanissetta, ha dato il via libera alla revisione del processo, perché ha giudicato che la sentenza di condanna non fosse convincente. Ma la Cassazione non ha concesso la revisione. Se escludiamo le varie sentenze, alternate, della Cassazione, abbiamo due tribunali (uno di primo e uno di secondo grado) che hanno dato torto a Contrada e altri due (Corti di appello) che gli hanno dato pienamente ragione. Caselli sa molto meglio di me che esiste un articolo preciso del codice di procedura penale (il 533) che prevede che un imputato possa essere condannato solo se la sua colpevolezza appare oltre ogni ragionevole dubbio. Due Corti d’appello che assolvono non costituiscono un dubbio più che ragionevole? Del resto Caselli sa benissimo che al processo contro Contrada si sono contrapposte schiere di testimoni. Alcune decine contro (quasi tutti esponenti più o meno pentiti della mafia, un po’ come fu al processo Tortora) un centinaio a favore (funzionari di polizia, dei servizi segreti, prefetti, magistrati). Il principale testimone di accusa, della cui testimonianza è stato riferito da altri pentiti, si chiamava Rosario Riccobono, boss della mafia morto presumibilmente nel 1982, circa 12 anni prima dell’inizio dei processi a Contrada. Inoltre Caselli sa benissimo anche che Contrada, in quegli anni, lavorava in una cittadella della giustizia dove i veleni, gli odii e i tentativi di vendetta erano dentro l’aria che si respirava. Contrada aveva dato fastidio a molte persone, anche importanti, potenti. Aveva molti nemici, anche tra i suoi colleghi ma soprattutto tra i mafiosi, pentiti e non. Punto Secondo. L’articolo 110 del codice penale al quale fa riferimento Caselli prevede il concorso di reato (non il concorso esterno in associazione a delinquere, che non esiste nei codici). Per esempio - come dice giustamente Caselli fare il palo durante un furto è concorso in furto. Chiaro: non ho rubato ma ho partecipato. Contrada però è accusato di "concorso esterno in associazione mafiosa". Qui il problema non è giuridico: è logico. O io faccio parte di una associazione o non ne faccio parte. L’associazione già di per sé prevede che concorra nei reati che questa commette. Ma se non ne faccio parte, se sono esterno a questa associazione, allora non partecipo neanche ai reati. Che vuol dire, in questo caso, concorso? Potremmo, per estensione, prevedere anche il concorso esterno in concorso esterno. E poi il concorso esterno, in concorso esterno in concorso esterno? Sì, scherzo, ma non è difficile capire che è un non senso. I reati associativi sono reati molto particolari. Sono reati che vengono prima del reato. Se una associazione uccide, o ruba, c’è il reato di associazione e poi di omicidio o furto. Se non uccide, e non ruba, non esiste più il reato specifico ma resta il reato generico di associazione. In moltissime legislazioni dell’Occidente i reati associativi non esistono. Per essere condannati deve esistere il reato specifico, e l’associazione, tutt’al più, può essere una aggravante. In Italia i reati associativi furono inventati nella seconda metà dell’ 800, ai tempi delle leggi- Pica contro il brigantaggio, e in gran parte furono usati in modo delittuoso, dai Savoia, per sterminare interi villaggi del Sud. Rinviamo la discussione sui reati associativi a un’altra occasione, ma è chiaro che è molto discutibile il concorso in reato associativo, perché il reato associativo ha già dentro di sé il concetto di concorso. E per questo la Corte europea si è occupata del caso. E per questo ha stabilito che, quantomeno prima del 1994 - quando ci fu una sentenza della Cassazione che lo citò esplicitamente - il reato non era definito e quindi non poteva esistere. Non è che il reato c’era ma Contrada non lo poteva sapere. È che in nessun modo poteva essere considerato reato il rapporto coi confidenti che Contrada ebbe negli anni nei quali era uno dei capi degli 007 italiani. Del resto, se si pensava che Contrada in qualche modo avesse favorito la mafia, c’era la possibilità di processarlo per favoreggiamento. Come è successo altre volte, anche ad esponenti politici (per esempio Totò Cuffaro). Però il reato di favoreggiamento (art 378 del codice penale) non può essere generico, si deve riferire a un fatto preciso, deve contenere una azione che un imputato ha commesso a favore di una persona colpevole di reati gravi, occorrono indizi forti, prove, atti, fatti. Nel caso Contrada non c’erano, come in molti altri casi. E in genere è in queste situazioni di difficoltà che alcuni magistrati si rifugiano nel generico reato (ipotetico e non definito in nessun codice) di associazione esterna. E aggirano il reato di favoreggiamento perché non riescono a provarlo. Punto terzo. Caselli si appella alla "necessità" del reato di associazione esterna. Dice: la punibilità di quel reato è l’unica possibilità che ho per colpire le collusioni. Dunque: è inevitabile. Ma non può essere il possibile risultato a determinare la bontà di una legge. Deve essere il diritto. Sarebbe come dire: "La fucilazione dei possibili appartenenti all’Isis (o simpatizzanti) è l’unico modo che ho per oppormi al terrorismo". Non va bene, sono convinto che Gian Carlo Caselli questo lo sa. E allora? Penso che sarebbe il caso di aprire un confronto vero sulla contrapposizione tra giustizialismo e garantismo nel dibattito pubblico attuale. Perché dalla contrapposizione, o dal dialogo, tra queste due posizioni così lontane tra loro, e tra queste due concezioni diverse di modernità e di diritto, nascono delle questioni davvero di fondo che riguardano il futuro della nostra società. Riguardano la struttura della libertà. Mi piacerebbe se si riuscisse a discuterne, non solo con l’arma della polemica, ma con la trasparenza e la semplicità che una questione così gigantesca merita. Ps: C’è un’ultima questione che pone Caselli. Quella del "giudice straniero". Si riferisce al fatto che l’assoluzione per Contrada, prima che dalla Cassazione è stata pronunciata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e cioè da un tribunale non italiano. E questo, secondo lui, mette in discussione il principio costituzionale dell’indipendenza della magistratura. Questa obiezione, francamente, mi stupisce. Da Caselli mi posso aspettare tante opinioni dalle quali dissento profondamente, ma non mi aspettavo accenti "sovranisti", come si dice adesso, ma che io, più semplicemente, considero "nazionalisti" e cioè in linea con il vecchio e tragico nazionalismo ottocentesco e novecentesco. Dire che l’Europa è incostituzionale perché mette in discussione l’indipendenza della magistratura è un’enormità. L’Europa allora mette in discussione anche un principio costituzionale ancora più importante, quello sancito dall’articolo numero 1: "La sovranità appartiene al popolo...". Può pensarlo Giorgia Meloni, o forse Salvini o forse Di Battista. Caselli no. Spero che questa obiezione gli sia sfuggita dalla penna... Se la mafia teme la scuola di Alessandro D’Avenia La Stampa, 13 luglio 2017 15 settembre 1993. Il giorno in cui lo hanno ucciso, don Pino Puglisi era andato a bussare alle porte del Comune per chiedere l’ennesimo permesso per utilizzare i locali sotterranei dei palazzoni di via Hazon per qualcosa che assomigliasse a una scuola: nel quartiere di Brancaccio mancava la scuola media. E in quei locali la mafia controllava spaccio, prostituzione minorile e combattimenti di cani. Padre Puglisi sapeva che senza una scuola la vita dei ragazzini delle elementari se la sarebbe presa la strada, unica scuola, i cui maestri erano i picciotti dell’esercito mafioso dei Graviano. Don Pino sapeva che, solo grazie alla cultura, a quei bambini poteva essere prospettata una vita diversa. Per questo costituì il centro Padre Nostro proprio come scuola alternativa, luogo in cui potevano giocare e studiare. La scuola non si sarebbe mai fatta (è stata aperta solo nel 2000) perché i politici del quartiere erano conniventi con i boss locali e le richieste venivano colpevolmente ignorate. Proprio per questo don Pino fu ucciso: "Si portava i picciriddi cu iddu" ("Si portava i bambini con lui"). Questa la motivazione addotta dal suo sicario, Salvatore Grigoli, detto il Cacciatore. Don Pino sapeva bene che la rivoluzione comincia dai piccoli e dal loro incontro con la bellezza, di cui la scuola è custode. Per questo era, per i mafiosi, pericoloso quanto Falcone e Borsellino, e per questo, come loro, doveva morire. 19 luglio 1992. Il giorno in cui lo hanno ucciso, Paolo Borsellino, pur essendo domenica, si era alzato presto per scrivere una lettera di scuse a una professoressa che lo aveva invitato a parlare ai suoi ragazzi, ma per una serie di disguidi quella lettera era stata ignorata e la professoressa si era indispettita. Borsellino quella mattina scriveva così: "Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Basile ed il Comm. Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato il mio amico di infanzia Giovanni Falcone e sin d’allora capii che il mio lavoro doveva essere un altro. Avevo scelto di rimanere in Sicilia. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi. Da quel giorno mi occupo quasi esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista perché vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta". A questi fatti di cronaca aggiungiamo, il 9 luglio 2017, lo sfregio alla statua di Giovanni Falcone, nella omonima scuola media dello Zen di Palermo: è uno di quei gesti con cui la semantica mafiosa ribadisce controllo del territorio e veicola un messaggio mirato a chi deve capire, in una scuola che svolge un lavoro simile a quello fatto da Puglisi e auspicato da Borsellino nella sua lettera. C’è quindi un filo che lega Falcone, Borsellino, Puglisi, e i ragazzi, e quindi la scuola. Loro sapevano bene che il più grande nemico della cultura mafiosa è la perdita di consenso (il controllo del territorio è tutto), soprattutto tra giovani e bambini. Il gesto avvenuto allo Zen, a 25 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio e a 24 dall’assassinio di don Puglisi, conferma che la vita di questi uomini è ancora viva e che la scuola ne è memoria viva, cioè feconda. Anche per questo ho cercato di raccontare quegli anni, dal punto di vista di un ragazzo, in uno dei miei romanzi, intitolandolo Ciò che inferno non è, pensando proprio al fatto che questi uomini sapevano bene che i giovani sono, in mezzo all’inferno, ciò che non è inferno, ma solo se trovano maestri disposti ad ampliare le loro vite mettendo in gioco la propria. Così fanno gli insegnanti dello Zen, che diventano quindi pericolosi in territori la cui logica è il potere, il controllo, la violenza, o altri insegnanti in tutt’altri contesti in cui a dominare sono più ordinariamente ignoranza, nichilismo, individualismo, consumismo, solitudine. La statua di Falcone decapitata è la conferma che la direzione è giusta, quella testa continua a ribadire le parole che lui stesso aveva pronunciato in un’intervista, con l’ottimismo di un realista: "La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni". Non bastano i tweet dettati dall’indignazione di rito, prontamente inviati da tutte le cariche principali dello Stato, e spero che quella scuola, con i suoi insegnanti e studenti, non venga presto dimenticata. Il presente che nutre il fascismo di Nadia Urbinati La Repubblica, 13 luglio 2017 Il fascismo non è mai morto. Rappresenta il bisogno di certezza comunitaria e gerarchica in una società individualistica. E nonostante i simboli sbandierati, non è un ritorno al passato. L’ombra del fascismo si stende sulla democrazia, anche quando, come la nostra, è nata nella lotta antifascista. La ragione della sua persistenza non può essere spiegata, semplicisticamente, con il fatto che non ci sia sufficiente radicamento della cultura dei diritti. Si potrebbe anzi sostenere il contrario. Ovvero, che sia proprio la vittoria della cultura dei diritti liberali (e senza una base sociale che renda la solitudine dell’individuo sopportabile) ad alimentare il bisogno di identità comunitaria. Un bisogno che il fascismo in parte rappresenta, tenendo conto che non è solo violenza e intolleranza per i diversi (anche se questi sono gli aspetti più visibili e preoccupanti). Il fascismo rinasce un po’ dovunque nell’occidente democratico e capitalistico - le fiammate xenofobiche e nazionalistiche che gli opinionisti si ostinano a chiamare blandamente "populismo" sono il segno di una risposta, sbagliata, alla recrudescenza di un sistema sociale che funziona bene fino a quando e se esistono reti associative, capaci di attutire i colpi di un individualismo che è apprezzato solo da chi non ha soltanto le proprie braccia come mezzo di sussistenza. Senza diritti sociali i diritti individuali possono fare il gioco contrario. La democrazia nata nel dopoguerra su una speranza di inclusione dei lavoratori si è arenata di fronte al totem di un ordine economico che non ne vuol più sapere di riconoscere limiti solidaristici alla propria vocazione accumulatrice. È nata sulle macerie di una guerra mondiale, ma non probabilmente sulle macerie dell’etica comunitaria che aveva cementato la società nazionale nel ventennio. Nei paesi di cultura cattolica, dove il liberalismo dei diritti si è fatto strada con grande difficoltà, la dimensione corporativa è ben più di un residuo fascista. È il cardine di una struttura sociale retta su luoghi comunitari, come la famiglia o la nazione. Questi luoghi sono diventati gusci vuoti con la penetrazione dei diritti individuali. I quali sono certo un progresso morale, ma non sufficienti, da soli, a garantire una vita esistenziale appagata. I diritti sono costosi, non solo per lo Stato che deve farli rispettare, ma anche per le persone che li godono. Un diritto è un abito di solitudine - definisce la relazione di libertà della persona in un rapporto di opposizione con gli altri e la società. Senza relazioni sociali strutturate - senza quei corpi intermedi associativi, dalla famiglia al mutualismo locale - essi sono sinonimo di una libertà troppo faticosa. Ecco perché i nostri padri fondatori più lungimiranti, i liberalsocialisti, erano attenti a mai dissociare la libertà dalla giustizia sociale, dalla dimensione etica che riannoda i fili spezzati dai diritti individuali. Non si vuole con questo giustificare la rinascita del fascismo e dell’esaltazione dei simboli del passato. Quel che si vuol dire, invece e al contrario, è che quel che sembra un ritorno nostalgico al passato è un fenomeno nuovo e tutto presente, dettato da problemi che la società democratica incontra nel presente. Sono tre i luoghi dove questi problemi si toccano con mano e che sarebbe miope non vedere. Il primo corrisponde al declino di legittimità della politica, che ha smarrito il senso etico e di servizio per diventare, a destra come a sinistra, un gioco di personalismi, con i partiti che fanno cartello per blindare leadership e lanciare candidati, cercando consenso retorico ma senza voler includere i cittadini nella vita politica - la rappresentanza assomiglia sempre di più a un notabilato. Il secondo luogo corrisponde al declino delle associazioni di sostegno che hanno accompagnato la modernità capitalistica opponendo alla mercificazione del lavoro salariato e alla disoccupazione (che è povertà) reti di solidarietà e di sostengo, ma anche alleanze di lotta, di contrattazione, e di progetto per una società più giusta. Il terzo luogo è il mondo largo e complesso abitato dalla solitudine esistenziale connessa alla scomposizione della vita comunitaria. In altre parole, il pericolo numero uno della società orizzontale è rappresentato dall’atomizzazione individualistica, dalla solitudine delle persone, dall’isolamento perfino cercato di soggetti che ritengono di poter dare, per citare Ulrick Beck, "soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche". Con la conseguenza, questa palpabile a seguire i social e a sentire molti nostri politici, di veder cadere ogni rapporto con la storia, con la memoria, con l’eredità proveniente dalle generazioni che ci hanno preceduto, come se il futuro potesse avere gambe sue proprie. Il rischio, è stato detto molto spesso, è quello di vivere in un eterno presente, che può anche significare riciclare simboli del passato fuori del loro contesto di significato. Ora, se le cose stanno così, se la nostra società ha questa forma orizzontale innervata nei diritti, pensare di rimediare ritornando ai modelli gerarchici fascisti e al vecchio ordine di sicurezza del comando patriarcale non solo si rivela anacronistico, ma in aggiunta oscura tutti questi nuovi rischi; non ci fa vedere quel che dovremmo riuscire a vedere bene per comprenderlo e correggerlo: l’erosione dell’eguaglianza economica, dell’integrazione sociale e del potere politico dei cittadini democratici. Battere l’odio nella profondità del web di Giovanni De Luna La Stampa, 13 luglio 2017 Sono circa 2.700 le pagine Facebook ispirate da movimenti di estrema destra e nostalgici del fascismo. Includendo anche le altre realtà che si sono collegate ad esse con almeno un like, si arriva a un totale di ben 9.000 pagine. Questi dati, frutto degli studi di un gruppo di ricercatori conclusi nel dicembre del 2016, segnalano la straripante presenza della galassia nera in uno degli strumenti on line più usati dal mondo giovanile. Insieme al dilagare dei siti revisionisti e alla diffusione delle tesi negazioniste delineano i contorni di un’emergenza culturale e di una crisi educativa. La legge in discussione in Parlamento nasce dalla consapevolezza di questa crisi. I dubbi sorgono sulla sua efficacia. La legge Scelba del 1952 c quella Mancino del 1996 sono tra le meno applicate del nostro ordinamento giuridico; per una intrinseca inadeguatezza e una accidentata formulazione, ma soprattutto perché chiamano in causa direttamente la politica, svelandone la fragilità di fronte alle inquietudini che ereditiamo dal nostro passato più recente. Le polemiche di questi giorni certificano una realtà in cui la storia perde ogni spessore e diventa solo un randello da agitare contro gli avversari. I "5 stelle" non hanno un albero genealogico al quale rifarsi: senza passato e con un incerto futuro trovano solo nel presente la propria legittimazione; la destra riscopre le pulsioni estremistiche che si annidano nel suo ventre profondo e attribuisce una veste sovranista alle sue antiche inclinazioni razziste; il centrosinistra cerca di coniugare in maniera goffa le recenti sortite di Renzi sugli immigrati con i principi di una democrazia inclusiva sanciti dalla nostra Costituzione. Quella che ne deriva è una rissa con urla e improperi, con un termine come "liberticida" usato in maniera così strumentale da lasciare allibiti chi ne conosca i significati profondi. Per i giovani utenti della rete tutto questo è puro folklore. Verificano ogni giorno che nel web leggi di quel tipo hanno la stessa efficacia di un guscio di noce utilizzato per svuotare il mare. Tenere il busto di Mussolini sul proprio profilo Facebook, uno dei reati introdotti dalla nuova legge, è una prassi abituale e gode di una consolidata impunità; se la legge fosse applicata davvero ne nascerebbero centinaia di migliaia di denunce e di processi... A meno che non ci si accontenti della portata simbolica del provvedimento, confermando però l’impressione di una desolata impotenza della politica. Le preoccupazioni da cui nasce la legge Fiano sono condivisibili. Il caso di Chioggia o, quello più clamoroso, di Predappio sono i segnali di un sentimento diffuso, per ora limitato al consumo di gadget e rinchiusi in una dimensione fieristica che ne fa una ghiotta opportunità per affaristi e speculatori. E anche i risultati elettorali di Casa Pound sono ancora modesti, sebbene alle ultime amministrative sia riuscita a presentare un candidato sindaco e una propria lista in 13 Comuni sopra i 15 mila abitanti. Ma quello che avviene nelle profondità del web è davvero inquietante. In rete non vale l’obbligo di provare le proprie affermazioni. E non c’è la possibilità di verificare un dato attraverso la certezza dell’identità del suo autore. Protetti dall’anonimato e da un uso consapevole delle "bufale" virtuali, i siti neofascisti sviluppano con inedita efficacia le loro tesi propagandistiche. Ricordiamo che il negazionismo è stato sconfitto dagli storici proprio sulla base della totale inconsistenza delle sue prove; è stata una battaglia culturale in cui ha vinto la storia come disciplina, con un suo statuto scientifico, la certificazione delle sue fonti, il suo apparato metodologico. Senza questo tipo di bonifica cognitiva del web nessuna battaglia culturale può essere vinta. Incendi, pene più dure. Non ci resta che la stangata al piromane di Massimo Martinelli Il Messaggero, 13 luglio 2017 È accaduto di nuovo: gli inneschi che partono in contemporanea, le sterpaglie seccate dal caldo che prendono fuoco e il vento che allarga il braciere per chilometri. Ma ormai da giorni a rischiare la vita sono intere famiglie in vacanza, come è accaduto ieri in Sicilia, a San Vito Lo Capo. Ancora piromani in azione. Come sul Vesuvio, a Positano, a Foggia, a Reggio Calabria e alle porte di Roma, solo per citare i disastri degli ultimi tre o quattro giorni. Non li prendono quasi mai. E, quando accade, il loro processo si trasforma in una strada in salita per l’accusa, che deve vedersela con perizie tecniche lunghissime e con la difficoltà di provare un reato commesso in luoghi deserti e molti mesi prima. Poi ci sono i tempi fisiologici dei tribunali: biblici. Alla fine, spesso, arriva la prescrizione che cancella tutto. E se c’è la condanna, il codice prevede pene da 4 a dieci anni nei casi più gravi, con tutti i benefici che l’attuale sistema giudiziario offre ai condannati. questa, probabilmente, la ragione per la quale ogni anno - e per motivi diversi - decine di criminali entrano in azione con benzina e fiammiferi. Per alcuni si tratta di una patologia: vogliono vedere l’effetto che fa, si sentono gratificati dai titoli sui giornali che parlano della loro bravata. Per altri è interesse economico: ci sono di mezzo di contratti stagionali da Forestali, vogliono far capire con i roghi che loro sono indispensabili. Un po’ quello che fanno i mafiosi che controllano interi quartieri: vanno in un negozio, lo devastano, e poi dicono al proprietario che ha bisogno di qualcuno che controlli. Vetrine rotte o boschi distrutti, il ragionamento è lo stesso. Se anche questo è racket, dunque, perché non prevedere pene da mafiosi per questi signori? Se si è arrivati a pensare di combattere la corruzione utilizzando le norme stringenti del codice antimafia, perché non utilizzare il deterrente della stangata giudiziaria per trasmettere un segnale di fermezza anche ai signori del fuoco? La stretta recente sugli incidenti automobilistici, con l’accusa di omicidio stradale (con arresto immediato) nei confronti di molti automobilisti (che prima se la cavavano con un avviso di garanzia), ha dato risultati ottimi. Chissà che davanti alla prospettiva di passare una robusta dose di anni in cella, anche i piromani non decidano di smetterla di passeggiare nei boschi con le bottiglie molotov nella borsa. O con l’occhio all’assunzione stagionale ottenuta a prezzo di devastazioni ambientali, se non di vite umane. "Infermiera killer". Sedotti da un’etichetta di Annalena Benini Grazia, 13 luglio 2017 Era stata accusata di aver ucciso i suoi pazienti e veniva chiamata "infermiera killer". ma ora che la corte di appello ha scarcerato Daniela Poggiali bisogna domandarsi con quanta facilità siamo disposti a credere al male. Adesso l’infermiera sorride, abbraccia le sorelle, le amiche, e dice: stasera tutti a casa mia, sono libera. Si riprende la sua vita, ha detto, dopo essere stata condannata in primo grado all’ergastolo, appena quarantenne, dopo aver visto crollare tutto, anche negli occhi di chi le stava accanto. L’infermiera killer, così la chiamavano tutti, per primi i giornali, l’infermiera killer che si fa i selfie accanto ai cadaveri, l’infermiera killer che inietta dosi letali di potassio a una signora anziana e la ammazza, e poi ride e fa il segno della vittoria con le dita, e chissà quanti altri anziani ha ucciso. Ora che Daniela Poggiali è stata assolta in appello perché "il fatto non sussiste" e il giudice ne ha ordinato l’immediata scarcerazione, noi pensiamo: bene, è finita. Ma non doveva succedere, com’è possibile che sia successo, allora poteva succedere anche a noi, a chiunque. Oggi siamo persone libere e rispettabili, domani qualcuno ci cuce addosso un’infamia, e per una serie di sfortunate coincidenze e di accanimenti e di distrazioni, siamo in carcere con la scritta: killer addosso. E siamo noi a dover dimostrare che non è vero, non siamo killer, e vediamo le persone scuotere la testa, allontanarsi, anzi fornire indizi di colpevolezza, uno strano carattere, un po’ troppo cinica, a volte alzava la voce, a volte era troppo allegra, chissà che nasconde. Daniela Poggiali è stata in prigione, è stata intercettata, è stata indagata, processata, condannata. Nelle sue telefonate non c’era niente, c’era solo stupore, paura, disperazione, ma soprattutto incredulità. Doveva spiegare lei che il tasso dei decessi durante il suo turno era più alto della media? "Sono sfortunata, non lo so", aveva detto: l’unica risposta possibile per una domanda assurda. Ma di lei hanno detto che era "un autentico pericolo pubblico", che aveva ucciso "per il compiacimento che le deriva dall’essere dispensatrice di morte", e che anche in base alla consulenza statistica del numero di decessi in ospedale (si può andare in carcere per una statistica!), era evidente che "l’indagata si era erta ad arbitra della vita e della morte delle pazienti". Omicidio pluriaggravato, misure cautelari, poi ergastolo, e il tentativo di intestarle almeno altre dieci morti sospette. In nome di quella foto scema scattata da una collega accanto a un cadavere, in nome di un’ironia che non dovrebbe essere reato e invece velocemente si gonfiava e lo diventava, in nome di risposte da innocente che diventano colpevoli: non lo so perché muoiono, sarò sfortunata (che altro avrebbe dovuto dire? Dare risposte tecniche, mediche, trovare un altro colpevole, accusare qualcuno di omicidio?). È vero, è stata molto sfortunata Daniela Poggiali, è inciampata nella tela del ragno, il ragno l’ha avviluppata. Tutto contro di lei, insieme alla velocità con cui le persone credono a una definizione facile: infermiera killer. Infermiera killer ci esalta e ci disturba, e chissà quanti hanno una storiella in proposito, un’infermiera cattiva che quando sono stati ricoverati per l’appendicite "per poco non mi ammazzava". È facile, è liberatorio perfino, ma la giustizia è un’altra cosa. Dovrebbe essere una scienza fredda, priva di tifo e anche di titolo ad effetto, non basata sulle statistiche di morte e nemmeno su una foto di cattivo gusto. Daniela è stata sfortunata, ma alla fine ce l’ha fatta: ma tra la libertà e riprendere in mano la propria vita fatta a pezzi, e superare le notti in carcere e il disprezzo intorno, c’è di mezzo il mare. Responsabilità civile, l’abolizione del filtro di ammissibilità non è incostituzionale di Antonino Porracciolo Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2017 Corte costituzionale, sentenza 12 luglio 2017, n. 164. L’abolizione del filtro di ammissibilità delle azioni di risarcimento dei danni nei confronti dei magistrati supera il vaglio della Consulta. Con la sentenza 164depositata ieri, il giudice delle leggi ha dichiarato non fondati i dubbi di legittimità dell’articolo 3, comma 2, della legge 18/2015, che ha soppresso l’articolo 5 della legge 117/1988; norma, quest’ultima, per la quale il tribunale era chiamato, innanzitutto, a deliberare "in camera di consiglio sull’ammissibilità della domanda" risarcitoria. Alla Corte si era rivolto il Tribunale di Genova prospettando la violazione dell’articolo 111 della Costituzione sulla ragionevole durata del giudizio, perché, abolito il filtro, i tempi per pervenire a una pronuncia sull’ammissibilità sono diventati quelli del processo ordinario, di "lunghezza eccessiva e irragionevole". Ma anche perché, venuto meno il vaglio preliminare, si potrebbe aprire la strada alla giurisprudenza "difensiva": il giudice, cioè, potrebbe abdicare "alla propria posizione di terzietà e imparzialità in favore delle decisioni che appaiono per lui meno "rischiose". È stato richiamato anche l’articolo 3 (sotto il profilo della ragionevolezza), giacché l’abolizione del filtro si porrebbe in contrasto con la recente scelta del legislatore di pronunce semplificate di inammissibilità (articoli 348-ter e 360-bis del Codice di procedura civile). La norma censurata violerebbe anche i principi di soggezione del giudice solo alla legge (articolo 101) e di autonomia e indipendenza della magistratura (articolo 104). Il filtro, infatti, sarebbe indispensabile per la salvaguardia di quei valori, perché porrebbe il giudice al riparo da domande temerarie o intimidatorie. Ma, secondo la Consulta, le censure non colgono nel segno. Infatti, nella materia in esame - si legge nella motivazione - occorre perseguire il bilanciamento di due interessi contrapposti: il diritto del soggetto ingiustamente danneggiato da un provvedimento giudiziario a ottenere il ristoro del pregiudizio patito; la salvaguardia delle funzioni giudiziarie da possibili condizionamenti. E tale bilanciamento - afferma la Consulta - "è stato operato anche dalla legge di riforma n. 18 del 2015, fondamentalmente tramite una più netta divaricazione tra la responsabilità civile dello Stato nei confronti del danneggiato (…) e la responsabilità civile del singolo magistrato". Ciò perché il legislatore della riforma ha "mirato a superare la piena coincidenza oggettiva e soggettiva degli àmbiti di responsabilità dello Stato e del magistrato", con una scelta (l’abolizione, appunto, del filtro di ammissibilità) "funzionale al nuovo impianto normativo". Così la Consulta ha dichiarato non fondata la questione sollevata dal Tribunale di Genova. La censura della corrispondenza tra marito detenuto 41bis e la moglie dev’essere motivata di Chiara Ponti dirittoegiustizia.it, 13 luglio 2017 Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza n. 33839/17; depositata l’11 luglio. Il decreto con il quale viene disposta la limitazione della corrispondenza ex art. 18-ter Ord. Pen., deve essere adeguatamente motivato con modalità idonee ad assicurare il prudente bilanciamento tra il diritto del detenuto a conoscere le ragioni della limitazione e le finalità di pubblico interesse volte a salvaguardare le esigenze investigative ovvero di prevenzione dei reati oppure ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto. Il furto non è con destrezza se la vittima è distratta di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2017 Non scatta l’aggravante della destrezza per chi commetta il furto approfittando di una temporanea distrazione della vittima, senza aver fatto nulla per determinarla. Sono state depositate ieri le motivazioni della sentenza 34090/2017, con cui le Sezioni unite hanno ristretto il perimetro dell’aggravante ai casi in cui si tiene, "prima o durante l’impossessamento del bene mobile altrui", un comportamento "caratterizzato da particolare abilità, astuzia o avvedutezza", idoneo "a sorprendere, attenuare o eludere la sorveglianza sul bene". Nessun aggravio se il ladro "si limiti ad approfittare di situazioni, dallo stesso non provocate, di disattenzione o di momentaneo allontanamento del detentore". La sentenza riguarda la vicenda di un 70enne condannato per aver "asportato un computer portatile" prelevandolo dal bancone di un bar in un "momento di distrazione della titolare e dei clienti". Identificato dalle telecamere a circuito chiuso, aveva poi confessato, negando di aver "agito con destrezza", non avendo compiuto "alcuna azione per creare condizioni favorenti la sottrazione del bene". La Quarta sezione, rilevato un contrasto interpretativo "acuito in tempi recenti", ha rimesso la questione alle Sezioni unite. I giudici osservano che l’articolo 625, comma 1, n. 4, del Codice penale considera il furto "aggravato" perché commesso "con destrezza", senza però dare "indicazioni esplicite" e "tale carenza definitoria è all’origine del dissenso". Inoltre, la soluzione del quesito incide sulla procedibilità (solo l’autore del furto aggravato è perseguibile d’ufficio) e sulla possibilità di applicare non punibilità per tenuità. La sentenza afferma poi che il considerare "destra" anche la condotta di chi semplicemente volga a suo favore una condizione esterna si fonda su una ricostruzione dell’istituto secondo cui "non è richiesta un’abilità eccezionale o straordinaria". Valorizzando dunque "la capacità dell’agente di comprendere il contesto" e di sfruttarlo con "prontezza" e "decisione". Ma per le Sezioni unite, se è vero che la lettera della norma non richiede "doti eccezionali" o "straordinarie abilità", per integrare l’aggravante deve esservi un quid pluris rispetto alla "materialità del fatto reato". In altre parole, per dare luogo all’aggravante, la "modalità esecutiva" deve potersi distinguere dal furto semplice. E il "mero prelievo" di un oggetto, in un momento di disattenzione, "non integra la fattispecie circostanziata perché non richiede nulla di più e di diverso da quanto necessario per consumare il furto". La destrezza, invece, c’è solo quando ci "si avvalga di una particolare capacità operativa, superiore a quella da impiegare per perpetrare il furto, nel distogliere o allentare la vigilanza sui propri beni, esercitata dal detentore". La sentenza annulla senza rinvio la condanna: in assenza di querela l’azione penale non doveva proprio iniziare. Dai rovi alla vigna modello: ma l’agricoltore è condannato di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 13 luglio 2017 Non aveva chiesto il permesso di togliere le sterpaglie dalla sua terra all’Isola del Giglio: un ex professore che produce vino dà battaglia contro una legge che ritiene ingiusta. Dai rovi e dalle piante infestanti ha creato una vigna modello. Vino Ansonica pregiatissimo, novemila bottiglie l’anno, vendute per metà in Italia e per l’altra metà esportate all’estero e molto ricercate. Ma adesso quella terra sublime di quel tratto insulare della Maremma, l’Isola del Giglio, sta diventando amarissima per Francesco Romano Carfagna, 66 anni, romano di nascita e gigliese d’adozione, e addirittura l’aver pulito un pezzo del suo terreno da rovi, appena 100 metri quadrati di sterpaglie, mirti e lentischi, potrebbe costargli la galera. Decreto penale - Il tribunale di Grosseto lo ha condannato, con un decreto penale (dunque senza dibattimento) per il reato gravissimo di lottizzazione abusiva a scopo edilizio. Francesco deve pagare al più presto 8 mila euro, che possono essere ridotti a 5 mila con l’aggiunta di 11 giorni di carcere. Perché la legge, che il giudice ha applicato, prevede che se un terreno fa parte di un parco naturale, come nel caso del vigneto di Carfagna (in tutto tre ettari) non si possono togliere senza permesso neppure le erbacce. Dura lex sed lex? "Sì, però se la legge è ingiusta si può cambiare e questa sarà la mia prossima battaglia", annuncia Carfagna, che ha ricevuto anche una lettera "molto cortese e di interesse per il mio caso" dal segretario del ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali, Maurizio Martina. Sfida personale - Francesco le sfide ce le ha nel sangue. Faceva il professore di matematica al liceo, posto fisso, stipendio garantito. Ma nel Dna aveva la passione per la natura e la viticoltura. Così, un mattino di trent’anni fa, decide di licenziarsi e andare ad abitare con la famiglia all’Isola del Giglio e mettere su un’azienda. Amici e gente del posto lo prendono per matto. Ma lui trasforma il "niente" in un’azienda vitivinicola. Compra un terreno abbandonato vicino al faro di Capel Rosso. Siamo nell’estremità meridionale dell’isola. Un luogo magnifico con un microclima particolare che aiuta i vitigni di qualità a diventare eccellenti. E il miracolo accade. La stangata - "Vendiamo bottiglie in Italia, in tutta Europa, e anche negli Stati Uniti e in Giappone - racconta con orgoglio Carfagna - e adesso invece di ridermi in faccia anche i più scettici mi salutano con rispetto". Ma sul più bello ecco la stangata della giustizia. Sopralluogo della Forestale, denuncia e decisione del giudice con decreto di condanna. "Insomma, un caso paradossale, che suggerisce una riflessione riguardo la reale adeguatezza degli indirizzi della tutela del paesaggio e alla natura dell’oggetto da proteggere". I valori del territorio - "I valori del paesaggio rurale italiano - spiega Mauro Agnoletti, professore associato presso il Dipartimento di gestione dei sistemi agricoli alimentari e forestali dell’Università di Firenze - sono un prodotto della cultura, non dell’abbandono. L’agricoltura è l’attività che ha impresso le sue forme alla base naturale, producendo un paesaggio che scrittori, poeti e viaggiatori hanno celebrato per secoli e che ancora oggi è associato all’immagine dell’Italia nel mondo. Come si legge in un recente rapporto del Wwf, abbiamo perso circa dieci milioni di ettari di terreni coltivati e ormai importiamo prodotti "tipici" dall’estero. Dunque è quantomeno singolare che un agricoltore che salva un pezzo del suo terreno dall’abbandono subisca una condanna penale". Casi frequenti - Il caso del Giglio non è isolato. "Nel bosco secolare di Sant’Antonio, a Pescocostanzo (L’Aquila) - continua Agnoletti - il pascolo che ha originato quel bosco è stato vietato in conseguenza del vincolo paesaggistico. E nel bosco ceduo del Marganai, in Sardegna, si persegue chi ha ripristinato la ceduazione per mantenere le caratteristiche di quel bosco, secondo i dettami della scienza selvicolturale, salvo osservare che dopo tre anni il bosco gode di ottima salute". Toscana: formazione dei detenuti, un bando per progetti nelle carceri di Barbara Cremoncini regioni.it, 13 luglio 2017 Fornaio, idraulico, apicoltore, ma anche cuoco o elettricista: sono questi alcuni dei percorsi professionali che potranno intraprendere i detenuti delle carceri toscane. La Regione ha stanziato 500 mila euro di risorse del Por Fse 2014-2020, per cofinanziare progetti di formazione professionale rivolti a persone recluse nelle case circondariali o di Massa Marittima, Livorno, Isola di Gorgona, Porto Azzurro, Lucca, Massa Carrara, Pisa, Volterra, Pistoia, Prato, Siena, San Gimignano. "Grazie a questa iniziativa - commenta l’assessore all’istruzione, formazione e lavoro Cristina Grieco - in coerenza con gli obiettivi del programma operativo regionale del Fondo sociale europeo che prevede azioni a favore di soggetti svantaggiati, ci proponiamo di sostenere il reinserimento e l’inserimento lavorativo di detenuti delle carceri toscane attraverso percorsi formativi che consentano di ridurre il divario fra le competenze possedute e quelle richieste dal mondo del lavoro". Potranno usufruire dei corsi detenuti delle carceri toscane con pena definitiva residua minima di cinque anni. L’avviso si rivolge a un singolo soggetto formativo oppure a una associazione temporanea di imprese o di scopo, costituita o da costituire a finanziamento approvato. Gli interventi ammissibili prevedono: percorsi professionalizzanti riferiti al repertorio regionale delle figure professionali, finalizzati al rilascio di una qualifica professionale o di una certificazione di competenze. Percorsi di formazione obbligatoria (riferiti al Repertorio regionale dei profili professionali), per responsabile tecnico dell’attività di panificazione e responsabile tecnico di tinto-lavanderia. Gli interventi formativi, strutturati in accordo con gli Istituti penitenziari, dovranno prioritariamente tener conto dei diversi requisiti di ingresso e delle caratteristiche soggettive dei destinatari, nonché delle esigenze dei fabbisogni formativi espresse dagli istituti penitenziari toscani, in particolare nei settori edilizia, idraulica, elettricità- elettrotecnica, cucina-ristorazione, apicoltura, giardinaggio-floricoltura, sartoria, acconciatura. Dovranno inoltre essere previsti specifici moduli formativi sulla sicurezza dei luoghi di lavoro e, per le attività nell’ambito della cucina-ristorazione, dei moduli formativi sull’igiene alimentare (Haccp). Ogni soggetto formativo è tenuto a presentare un solo progetto, in relazione ad un unico fabbisogno formativo fra quelli espressi da ciascun istituto penitenziario (di qualifica, di certificato di competenze, di formazione obbligatoria). I progetti dovranno essere presentati al Settore programmazione in materia di formazione continua, territoriale e a domanda individuale. Interventi gestionali per gli ambiti territoriali di Grosseto e Livorno, a partire dal giorno successivo alla data di pubblicazione sul Bollettino dovranno pervenire entro il 31 luglio 2017, tramite sistema on line, all’indirizzo web.rete.toscana.it/fse3, con utilizzo di tessera sanitaria - cns attivata. Per maggiori informazioni consultare il bando oppure scrivere a formazioneterritoriale@regione.toscana.it. Abruzzo: il Garante nazionale dei detenuti "carceri isolate dai contesti urbani e sociali" cityrumors.it, 13 luglio 2017 Si è conclusa la visita regionale del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti in Abruzzo: dopo il monitoraggio dedicato specificamente alla detenzione in regime di 41 bis nell’istituto dell’Aquila, compiuto nella metà di giugno, una delegazione del Garante nazionale ha visitato la Casa circondariale di Teramo, la Casa di reclusione di Sulmona, i reparti detentivi degli ospedali dell’Aquila e di Sulmona e la Rems di Barete. Il dato complessivo rilevato è quello dell’isolamento degli Istituti penitenziari dai contesti urbani e sociali in cui sono inseriti: se a Sulmona l’isolamento della Casa di reclusione di alta sicurezza si coglie per l’assenza dei soggetti del terzo settore nella vita detentiva e in particolare nell’attività educativa e risocializzante, a Teramo l’isolamento ha addirittura connotazioni fisiche, perché manca il collegamento dei mezzi pubblici di trasporto con l’Istituto di Castrogno. Per questa grave carenza nel settore dei servizi pubblici essenziali che colpisce sia la popolazione detenuta sia tutto il personale che lavora nella struttura, più volte segnalata dal direttore della Casa circondariale a tutte le autorità territoriali, la delegazione, guidata dalla componente del Collegio Emilia Rossi, ha immediatamente richiesto e ottenuto un incontro con il sindaco di Teramo, Maurizio Brucchi, che si è manifestato disponibile a ricercare soluzioni tempestive al problema nell’ambito delle proprie competenze. La Casa circondariale di Teramo si segnala, inoltre, per il sovraffollamento, in particolare nella sezione femminile. Profili di acuta e preoccupante criticità sono stati rilevati anche nel settore dei servizi di assistenza sanitaria: dalle condizioni strutturali del reparto detentivo dell’Ospedale di Sulmona, alle disfunzioni nell’area sanitaria della Casa di reclusione, ove, tra gli altri dati problematici, si registrano liste d’attesa per esami clinici e visite specialistiche incompatibili con le esigenze terapeutiche, all’allestimento della Unità operativa per detenuti dell’Ospedale "San Salvatore" dell’Aquila che presenta problemi di rispetto della privatezza delle persone che il Garante intende sollevare nel proprio Rapporto sulla visita. L’assenza di un organo istituzionale di controllo, indipendente e autonomo, sulle condizioni dei luoghi di privazione della libertà della regione abruzzese si percepisce con evidenza - osserva il Garante dei detenuti - e risulta ormai inaccettabile che la nomina del Garante Regionale sia di fatto impedita da ragioni tutte interne agli equilibri tra i partiti presenti nel Consiglio Regionale. Per questa ragione, oltre che per i profili di forte criticità nei settori dei servizi pubblici essenziali rilevati, il Garante nazionale intende attivare l’attenzione delle autorità politiche della Regione e dei territori interessati, riprendendo a breve con incontri diretti, l’interlocuzione avviata nel corso della visita. Bolzano: cibo scadente e prezzi del sopravvitto alti, i detenuti protestano di Mario Bertoldi Alto Adige, 13 luglio 2017 Lettera denuncia di una novantina di carcerati. Minacciato lo sciopero della fame. Per il momento non acquistano più prodotti di conforto dallo spaccio interno. I detenuti del carcere di Bolzano minacciano lo sciopero della fame e per il momento hanno iniziato quello della spesa. Che cosa lamentano? Semplicemente che i generi messi in vendita nello spaccio del carcere sarebbero troppo cari. La gestione dello spaccio interno per la vendita di generi di conforto è regolato da disposizioni ben precise. In sostanza il servizio è demandato ad una ditta esterna scelta con una regolare gara d’appalto su base regionale o interregionale. Nel nostro caso la ditta che ha ottenuto la gestione dello spaccio all’interno del carcere di Bolzano gestisce anche i punti vendita delle altre cercare del Triveneto che comprende Trentino Alto Adige, Veneto e Friuli Venezia Giulia. La ditta vincitrice non può applicare criteri di commercio liberi. Le disposizioni infatti impongo al gestore di applicare i prezzi praticati nei negozi all’esterno del carcere con riferimento ai supermercati di area non inferiore ai 400 metri quadrati. In altre parole il detenuto dovrebbe avere la possibilità di acquistarsi una bottiglia di Coca Cola allo stesso prezzo praticato nei principali supermercati della città. In un documento sottoscritto da una novantina di detenuti si sostiene che nel carcere di Bolzano le disposizioni non sarebbero rispettate ed i generi di conforto messi in vendita sarebbero più cari dei prezzi di mercato. Circostanza che ieri pomeriggio la dottoressa Annarita Nuzzaci, direttrice del carcere bolzanino, ha smentito categoricamente puntualizzando che i controlli previsti vengono svolti sistematicamente (una volta al mese) per una verifica reale della rispondenza dei prezzi praticati. Ma i detenuti del carcere di Bolzano lamentano altri presunti trattamenti penalizzanti all’interno della struttura carceraria di via Dante sempre in relazione alle disposizioni dell’ordinamento penitenziario. In due lettere inviate alla direzione del carcere e al vescovo Ivo Muser, i detenuti annunciano in primo luogo che non acquisteranno più alcun prodotto dallo spaccio della struttura, in secondo luogo denunciano anche un regime alimentare inadeguato o anche piccoli grandi abusi, con la data di scadenza sui prodotti messi in vendita, grossolanamente modificata a penna. Non solo. Nella lettera si chiede alla direttrice il rispetto delle tabelle ministeriali sulla quantità e qualità del vitto giornaliero previsto per i detenuti. Il documento contiene dichiarazioni anche piuttosto pesanti. Vi sarebbe poca attenzione per il diritto dei detenuti che denunciano anche che la frutta proposta a fine pasti sarebbe quasi sempre "marcia e immangiabile". Anche questa circostanza è stata ieri sera completamente smentita dalla direttrice del carcere che, al contrario, fa presente che la frutta viene selezionata ed eventualmente sostituita. Le lettere si concludono con la firma apposta in calce da un’ottantina di detenuti e con un paio di richieste. La prima riguarda la possibile installazione nelle celle di piccoli frigoriferi richiesti in considerazione anche del grande caldo che sta interessando la città in queste settimane. La seconda riguarda invece la richiesta di permettere l’ingresso in carcere senza troppi controlli di cibo portato da parenti. La direttrice però ribatte: "Le norme di sicurezza vanno rispettate". Biella: carcere sovraffollato, nuovo modello organizzativo per rispondere a esigenze newsbiella.it, 13 luglio 2017 A colloquio con la direttrice della Casa circondariale, Antonella Giordano, al centro di polemiche dopo i recenti fatti di cronaca accaduti all’interno dell’istituto di pena e l’istituzione della "casa di lavoro" bocciata dai sindacati nazionali: "Consapevoli delle difficoltà, ma si tratta dell’unica via attuabile". "Il problema del sovraffollamento carcerario non riguarda solo l’istituto di Biella ma tutto il territorio e i numeri sono destinati a crescere. Siamo consapevoli delle difficoltà operative, ma l’accordo stipulato il 30 giugno scorso con i sindacati su un nuovo modello organizzativo è la conferma che si sta andando nella giusta direzione". Antonella Giordano, direttrice del carcere di Biella, replica con il dialogo alle polemiche scoppiate nelle ultime settimane sulle condizioni della casa circondariale di via dei Tigli. I sindacati Sappe, Osapp, Sinappe, Uspp e Cosp di polizia penitenziaria avevano disertato l’incontro chiedendo a gran voce l’avvicendamento del direttore e dei vertici a causa delle "mancate risposte alle questioni sollevate circa il modello organizzativo, con l’istituzione della casa di lavoro per internati in quanto la struttura non sarebbe attrezzata per ospitare questa nuova sezione e soprattutto gli agenti non sarebbero in numero adeguato per garantire la sicurezza". Alla fine di giugno, però, la contrattazione è andata a buon fine con la firma delle Organizzazioni Sindacali Uil-Pa, Cisl-Fns, Fsa Cnpp e Cgil-Fp, convinti che la "contrattazione e la stipula degli accordi decentrati siano il miglior strumento per risolvere al meglio i problemi del personale". Attualmente il carcere di Biella ospita 411 detenuti: "La vecchia organizzazione non corrispondeva alle nuove esigenze - spiega Antonella Giordano durante la presentazione del progetto di raccolta differenziata in carcere di cui si occuperanno dodici "internati" - per questo è stato esteso a tutto l’istituto il servizio di vigilanza dinamica, implementato da impianti di videosorveglianza e registrazione. Spiace che le organizzazioni sindacali nazionali non abbiano contribuito a sottoscrivere l’accordo, firmato invece dalle sigle che hanno maggiore rappresentatività a livello locale. Dal 2010, anno in cui si firmò l’ultima intesa, passando dal 2013 con l’apertura di un nuovo padiglione, la direzione ha provveduto ad andare avanti in deroga al modello organizzativo lavorando insieme alle altri parti in causa. Si tratta dell’unico modello che risulta attuabile in vista delle future progettualità, vista anche l’assenza di ulteriori risorse disponibili. Mi auguro un loro ripensamento". Non sono mancati episodi di violenza all’interno del carcere biellese. L’ultimo è accaduto il mese scorso quando un detenuto ha appiccato il fuoco nella sua cella intossicando un agente: "Non voglio sottovalutare ciò che accade - afferma la direttrice - purtroppo nel gruppo di detenuti ci sono elementi di disturbo rispetto alla quotidianità. Non è un collegio ma un istituto penitenziario. Per questo affrontiamo le criticità con la massima attenzione sapendo che doverose condizioni di trattamento devono essere assicurate allo stesso modo a tutti". Lecce: nasce la biblioteca dei bambini nel carcere di Borgo San Nicola di Antonietta Rosato Ristretti Orizzonti, 13 luglio 2017 Dopo oltre sei mesi di lavoro, tra preparazione, progettazione e realizzazione, nella Casa Circondariale "Borgo San Nicola" di Lecce si è tenuta l’inaugurazione della Biblioteca dei Bambini nata nell’ambito del progetto "Giallo, Rosso e Blu" dell’associazione Fermenti Lattici. Il progetto, partito nel dicembre 2016, avrà una durata di 24 mesi e sarà realizzato da una rete di associazioni che operano già attivamente e in sinergia nel mondo dell’infanzia attraverso molteplici approcci. La biblioteca si trova all’interno dall’area colloqui del carcere. Per la sua sistemazione i bambini sono stati sollecitati a immaginare e "progettare" e i genitori si sono occupati di realizzare i progetti dei piccoli; la sala è stata reinventata, ridipinta e resa adatta ai piccoli, fornita di arredi, di libri e albi illustrati per l’infanzia - anche grazie alle donazioni di decine di persone, case editrici e librerie - per dare vita a una piccola biblioteca che possa crescere nel tempo. "Il progetto è nato da una nostra idea ma sta evolvendo e migliorando grazie alla collaborazione con la direttrice, la polizia penitenziaria e tutti i dipendenti del carcere di Lecce", ha sottolineato Antonietta Rosato, dell’associazione Fermenti Lattici. "Evidentemente era necessario pensare a nuovi spazi di socialità per i più piccoli. In questi mesi abbiamo piantato un seme che man mano sta dando buoni frutti. La biblioteca è solo l’inizio. Dopo questo spazio passeremo alla creazione della ludoteca e poi alle varie attività con le associazioni e le realtà teatrali che ci hanno affiancato in questa avventura". La creazione della biblioteca è il primo di una serie di interventi per favorire una frequentazione serena del carcere da parte dei bambini e offrire loro tempi e spazi di condivisione insieme alla propria famiglia. Fermenti Lattici - che dal 2009 realizza progetti culturali per l’infanzia, promuovendo la lettura e la libera creatività dei bambini - ha coinvolto, infatti, le associazioni Factory Compagnia Transadriatica e Principio Attivo Teatro e la compagnia di attori/detenuti Io Ci Provo. "Giallo, Rosso e Blu" rientra tra le dieci iniziative vincitrici del bando nazionale "Infanzia Prima" destinato a bambini sino ai 6 anni promosso da Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo e Fondazione con il Sud, con l’accompagnamento scientifico di Fondazione Zancan e in collaborazione con Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo. "In questo lungo percorso è fondamentale il sostegno della Fondazione Zancan", ha precisato l’altra coordinatrice Cecilia Maffei. "Le responsabili non ci fanno rendicontare solo le attività o raccontare quello che facciamo. Valutano soprattutto il cambiamento che noi produciamo. Un cambiamento che man mano abbiamo visto prima tra di noi e poi nel corpo della polizia penitenziaria e anche nei bambini e nei genitori". La direttrice del carcere Rita Russo ha invocato il sostegno di tutta la città a questo tipo di attività. "Il progetto nasce con un finanziamento ma speriamo che questa biblioteca possa alimentarsi grazie all’impegno non solo di chi vive e lavora nel carcere ma anche degli esterni". Un cambiamento evocato anche dal comandante della polizia penitenziaria Riccardo Secci. "In questo carcere non si smette mai di fare come i bambini, cioè fare piccoli passi che possono portare a grandi cambiamenti". Giallo, rosso e blu aderisce alla Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti (Roma, 6 settembre 2016 - Ministero di Giustizia) che riconosce formalmente il diritto dei minori alla continuità del proprio legame affettivo con il proprio genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto alla genitorialità dei detenuti e si inserisce in un contesto caratterizzato da una condizione di svantaggio, che a Lecce riguarda circa 250 bambini che non hanno la possibilità di instaurare un rapporto quotidiano con il genitore, costruire ricordi e condividere un’esperienza gratificante con la propria famiglia. Il denso programma di attività è partito in anteprima lo scorso dicembre, con una serie di incontri tra l’associazione Fermenti Lattici e il corpo di polizia penitenziaria allo scopo di condividere obiettivi e definire le varie fasi del progetto. Parte trainante sarà l’autocostruzione e la rigenerazione delle aree esistenti che coinvolgeranno genitori e bambini, impegnati nella creazione dei nuovi spazi per un progetto comune sostenibile nel tempo. Al progetto collaborano anche l’Assessorato alla Pubblica Istruzione del Comune di Lecce, il Garante per i Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Regione Puglia e l’Istituto Tecnico Olivetti di Lecce. Rimini: mostra "Dall’amore nessuno fugge" sull’esperienza delle carceri Apac buongiornorimini.it, 13 luglio 2017 "L’impatto visivo è l’uomo. Ci sono quei grandi pannelli. Su ognuno l’immagine di un volto, di quel volto, talmente evidenziato che si percepisce la sfumatura di un sentire. Quello che trasmette la mostra è l’attenzione all’uomo. È, di fatto, un percorso molto semplice da cui si capisce che al centro c’è l’uomo". Così Giovanna Ollà, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Rimini, racconta la mostra "Dall’amore nessuno fugge". Proposta lo scorso anno dall’associazione Avsi al Meeting per l’amicizia fra i popoli, la mostra è stata allestita in tribunale a Rimini nei giorni scorsi e racconta del metodo adottato in Brasile che prevede, per reati minori, il recupero sociale dei detenuti ospitandoli in carceri senza sbarre: le Apac. L’iniziativa è stata promossa dal centro culturale ‘Portico del vasaio’, Meeting, Avsi e sposata da Tribunale, Ordine degli avvocati e Camera penale, che in occasione del taglio del nastro hanno proposto alla città un convegno in cui si è presentata, tra l’altro, un’esperienza simile alle Apac, tutta italiana, che ha visto la luce nell’entroterra riminese, quella della casa "Maria, madre del perdono" dell’associazione Papa Giovanni XXIII. "Quello del recupero delle persone condannate è uno dei temi verso cui l’avvocatura è sensibile, anche nell’obiettivo dell’affermazione del suo ruolo sociale. È per questo che tendiamo a uscire dalle aule di giustizia, magari aprendoci alle scuole con programmi specifici di educazione alla legalità, per dare un contributo culturale al rilancio della società. Ed è così che abbiamo aderito all’iniziativa, che per noi è valsa come formazione professionale", spiega il presidente Ollà. "Non crediamo al recupero sociale attraverso il carcere. L’esperienza presentata ci piace perché dà l’idea di un recupero possibile, fuori dalle sbarre, a misura di uomo, un metodo che ricostruisce un cittadino." Ci sono dei vantaggi che derivano dai metodi alternativi alla detenzione? "Il dato è che in questa esperienza alternativa la recidiva è pari zero. Mentre con la modalità tradizionale, la reclusione in carcere, il rischio di recidiva resta una quota piuttosto rilevante. C’è una ragione: dipende dalla contaminazione di frequenza a cui una persona messa in un carcere va per forza incontro. Se, per esempio, una ragazzo si becca tre anni per la ricettazione di un motorino e va in carcere, si trova a contatto con altri reclusi che possono essere lì per motivi più gravi, con storie peggiori alle spalle, con un vissuto molto più provato. Mettere a contatto materiale umano così lontano in un ambiente difficile come quello del carcere significa correre il rischio di una contaminazione tra anime diverse". Nelle Apac la contaminazione ambientale invece è diversa? "Quello che accade all’interno delle Apac è innanzitutto una condivisione di amicizia, che deve avere un tempo di fiducia e attività comuni e tanto lavoro in ambienti umani che favoriscono il recupero e che in carcere non c’è". Per questo il titolo della mostra, Dall’amore nessuno fugge, "è molto importante". Al contrario, nella quotidianità, ci scontriamo con una "concezione populistica del recupero di chi ha commesso un reato. Non c’è dubbio che questa persona vada condannata ma oggi non si guarda più a nient’altro, si guarda un reato più o meno grave e si inneggia subito alla forca". È per questo che "si deve generare, prima ancora della cultura della legalità, una cultura della comprensione e della volontà del recupero sociale. Prima di tutto perché la cultura della vendetta è contraria al nostro ordinamento, poi perché è pericolosa a livello sociale". Cosa accade invece nelle Apac? "Nelle Apac i detenuti sono messi a contatto con persone di cui si possono fidare e allora lì a quel punto qualche cosa può accadere". L’Apac è un ambiente "dove si riproduce quel modello familiare, in senso allargato, che queste persone (o la maggior parte di esse) non hanno mai vissuto, una familiarità che nasce dalla condivisione di un’esperienza. Perché accada è fondamentale trovare operatori che a questi progetti credano". Osservare modelli simili "serve anche a noi avvocati a ricordare quali sono i principi che ci devono governare", che sono quelli fondamentali della "presunzione d’innocenza e del rispetto del processo". Di fronte a un reato "non è sempre semplice nemmeno per noi avvocati (soprattutto se ne siamo vittima) tenere fermi questi principi che oggi sono a rischio anche a causa dell’esposizione mediatica dei presunti colpevoli già al momento dell’arresto che per l’opinione pubblica corrisponde spesso con la condanna". Cosa l’ha colpita del percorso tracciato dalla mostra? "Mi ha molto colpita la storia del ragazzo che arrivato nella Apac è stato aiutato a lavarsi da un compagno di cella. Da lì è partito un percorso di fiducia verso un ambiente circostante che quindi potrebbe anche non venire più percepito come ostile". Il "valore dominante" di "quel metodo è l’attenzione all’uomo, un valore da riscoprire, un valore di recupero. Chi arriva in una condizione di detenzione è qualcuno che quel valore lo ha messo da parte, la sfida è che lo recuperi, che si ritrovi l’umanità di quell’uomo". Così, nei casi reali presentati dalla mostra, si vede come "per molti di loro quella figura umana oscurata dal delitto possa essere corretta e vada trovata. Ci vuole impegno, va voluto". Ne vale la pena? "Dico di sì se anche semplicemente vogliamo guardare all’aspetto importante, che non deve essere messo da parte, che è l’azzeramento del rischio di recidiva". Sostenere il recupero di una persona significa anche aiutarla a volersi bene, un percorso che "nel carcere non è possibile. Bisognerebbe umanizzare i trattamenti sanzionatori. Per via del nostro ordinamento non possiamo fare a meno delle carceri, ma è chiaro che una persona, messa in cella con altre dieci, ha prima altre priorità". "Quello del recupero sociale della persona condannata - ricorda il presidente dell’ordine degli avvocati - è un tema costituzionale, in cui io da penalista credo molto. La pena deve tendere alla risocializzazione della persona. Il problema è capire come: altrimenti la norma rimane vuota. L’esperienza che viene proposta, che è estrema perché non ci sono sbarre, è qui da noi un modello forse utopico perché richiede una formazione culturale che in Italia non abbiamo. In Italia abbiamo una legislazione che è sempre più emergenziale. Per esempio: ci sono molte donne uccise o maltrattate? Allora il nostro sistema reagisce inasprendo le pene per i reati legati alla violenza sulle donne". Lei ha detto che qui da noi è utopico, ma in Italia c’è un’esperienza simile che funziona. Si tratta dell’esperienza del Progetto Comunità Educante con i Carcerati della Comunità Papa Giovanni XXIII, guidato da Giorgio Pieri, che ha partecipato al convegno di presentazione della mostra con un gruppo di 30 ragazzi ammessi alla pena alternativa… "Si ad essa sono ammesse persone con pene che non superano i 4 anni. Si tratta di un’esperienza che può certamente funzionare per alcuni tipi di reati, con in alcuni casi un passaggio carcerario. In altri casi, più gravi, non è possibile". La casa della Papa Giovanni "funziona perché quel luogo ha un obiettivo che non è appena quello della contenzione. Mi spiego: metto una persona in carcere perché non nuoccia fuori. In queste strutture, invece, c’è un valore aggiunto che è quello del recupero della persona e c’è poi la preoccupazione che, una volta rimessa nella società, possa tornarci pienamente". La preoccupazione di questo metodo è legata alla conservazione e salvaguardia della società o c’è altro? "C’è la preoccupazione per il recupero della persona come valore in sé. Quei ragazzi sono oggetto di uno sguardo diverso su di sé, che è anche favorito dalla forma della pena. In un carcere è facile garantire la sicurezza, in una struttura aperta la sicurezza la si deve garantire provocando consapevolezza. Penso che chi abbia questo obiettivo sia animato da una grande passione che lo porta a credere nell’umano". Treviso: una finestra d’arte per il carcere, inaugurato il murale dell’area verde trevisotoday.it, 13 luglio 2017 L’opera, di 13 metri, è stata realizzata sulla cinta muraria che delimita lo spazio giochi esterno in cui i padri reclusi incontrano le famiglie e i figli, il tutto grazie a Maria Teresa Casagrande, professionista esperta nel restauro di dipinti murali ed affreschi e con la collaborazione di due detenuti. Un murale per rendere più familiare e accogliente l’area verde della Casa Circondariale di Santa Bona, Treviso: è l’intervento di cui si è occupato il Soroptimist International Club di Conegliano e Vittorio Veneto, rappresentanza cittadina dell’organizzazione internazionale femminile impegnata attraverso progetti di servizio nella promozione dei diritti umani e delle pari opportunità per il miglioramento della condizione della donna, e che è stato inaugurato mercoledì 12 luglio. Si tratta di un’opera a tema ludico di 13 metri di lunghezza sulla cinta muraria che delimita la zona gioco esterna, riservata all’incontro dei padri reclusi con i propri bambini: Maria Teresa Casagrande, professionista esperta nel restauro di dipinti murali ed affreschi, ha prestato la sua preziosa consulenza, anche per quel che concerne la riqualificazione della barriera (che ha preceduto l’abbellimento) e la realizzazione è avvenuta durante il mese di maggio con la collaborazione di due detenuti individuati dalla Direzione del carcere e che si sono resi disponibili. La riqualificazione delle mura e la realizzazione del murale, finanziato dal Soroptimist International Club di Conegliano e Vittorio Veneto, rientra tra gli interventi del progetto nazionale su "Diritti Umani - I Diritti dei Minori" promosso dal Soroptimist International d’Italia per il biennio 2015-2017. L’obiettivo è trasmettere alle istituzioni carcerarie il messaggio dell’assoluta necessità di aiutare i bambini in una crescita meno traumatica quando hanno un genitore in stato di detenzione, e nel caso di custodia attenuata delle madri detenute con figli da zero a 3 - 6 anni: per questo sono stati pensati e realizzati interventi per rendere più vivibili gli spazi di incontro, creando un ambiente a idoneo ai più piccoli, tutelando il legame familiare e soprattutto facilitando il rientro del genitore nel contesto familiare al termine della reclusione. L’iniziativa sta procedendo con rapidità in tutta Italia e molti sono gli spazi che sono stati inaugurati e si stanno inaugurando nelle Case Circondariali in tutto il territorio nazionale. Napoli: oggi dibattito sul libro di Antonio Mattone "E adesso la palla passa a me" Il Mattino, 13 luglio 2017 Passione civile e umana solidarietà sono stati i due motori che hanno spinto Antonio Mattone a riflettere su malavita, solitudine e riscatto nel carcere. Ne è nato un volume, "E adesso la palla passa a me", edito da Guida, di cui si parlerà oggi alle 18 presso Re.Work, Centro direzionale, Isola E. Con l’autore, Gianluca Daniele, Chiara Marciani, Giuseppe Martone, Roberta Capone. Modera Maria Pirro. "E adesso la palla passa a me" è la frase scritta da un detenuto in una lettera inviata all’autore. Antonio Mattone, che ha partecipato come esperto agli Stati generali dell’Esecuzione penale voluti dal ministro Orlando, ha raccontato nel volume 10 anni di esperienza vissuti come volontario all’interno del carcere di Poggioreale e di altri penitenziari, attraverso gli editoriali pubblicati sul Mattino. Volterra (Pi): palco Fortezza, le parole lievi di Punzo di Valeria Ronzani Corriere Fiorentino, 13 luglio 2017 Il fondatore della Compagnia di attori-detenuti lancia gli spettacoli dell’estate Cinque giorni nel segno di Borges per il primo atto del Progetto Hybris E ancora le "cene galeotte" e installazioni-mostre nella Torre del Maschio. Dal 25 al 29 luglio all’interno della Fortezza Medicea di Volterra, si apre il sipario sul primo atto del "Progetto Hybris", che prevede cinque giorni di repliche del preludio del nuovo atteso lavoro della Compagnia della Fortezza, accompagnate da un ciclo di incontri Chi avesse pensato che il recente divorzio fra Armando Punzo e il Festival Volterra Teatro, di cui è stato per 20 anni direttore artistico, potesse fiaccarlo, si è sbagliato di grosso. Nel 2018 saranno 30 anni che Punzo ha fondato la Compagnia della Fortezza, detenuti attori nel carcere di Volterra che si sono guadagnati i più prestigiosi riconoscimenti teatrali, in Italia e non solo. "Ogni volta che varco la soglia del carcere (praticamente ogni giorno, ndr) mi sembra un miracolo. Senza la mia hybris niente di questo sarebbe successo". Dopo Punzo, sono ben 110 (approssimato per difetto) le esperienze di teatro in carcere. Un progetto culturale, non di recupero, su questo Punzo è tassativo. E ha ragione, perché questo progetto ha cambiato i detenuti, ma ha cambiato anche le guardie e l’intero carcere, che non è più quello di trenta anni fa, cambiando pure la città di Volterra. Tanto che Carte Blanche, l’associazione che gestisce e cura l’attività della Compagnia della Fortezza, è affiancata da un po’ di tempo da un’altra associazione, "Vai oltre". Nata per iniziativa di un gruppo di studenti dell’Istituto Carducci di Volterra, che organizza varie attività, incontri e altro, supportando con una frequentazione quasi quotidiana quello che capita in carcere. Dai video, alle installazioni, all’organizzazione di eventi. E quest’anno in carcere di cose ne capitano tante. Dopo Shakespeare, ma legato al finale dello scorso anno, quell’andarsene col bimbo che lo accompagnava, il tema è l’"Hybris" (inteso non più come tracotanza, ma come coraggio, voglia di andare oltre). Per capire se davvero non si può uscire da quel destino che ci aveva disegnato. "Le parole lievi. Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato", è il preludio del nuovo lavoro, un progetto biennale ispirato all’opera di Borges, con regia e drammaturgia dello stesso Punzo. In scena dal 25 al 29 luglio nella Fortezza di Volterra, sarà seguito da una serie di incontri, veri dialoghi sulla hybris, a cura di Punzo e Rossella Menna, con la consulenza scientifica di Federico Condello. Poi, dalle 19.30, nella Torre del Maschio e negli spazi circostanti recentemente ristrutturati installazioni video sonore, mostre fotografiche relative al mondo della Compagnia della Fortezza, fino al gran finale con le cene delle "Serate galeotte". Al fianco di Punzo che ha presentato il suo programma con l’assessore alla cultura della Regione Toscana Monica Barni, il segretario generale della Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra Roberto Scalvi, che sta portando avanti un progetto nazionale sul teatro in carcere, e il giovane assessore del comune di Pomarance, Ilaria Bacci, che afferma decisa: "noi saremo sempre con la Compagnia della Fortezza!". A proposito della recente evasione di un detenuto modello, Punzo non si scompone. "Rientra nella quota fisiologica del 2/3 per cento, bassissima. Non ci sarà nessuna conseguenza per noi". Non solo, ma proseguono i lavori, sul fronte ministeriale, per la creazione di un teatro stabile in carcere. Roma: teatro-carcere, i detenuti incontrano il mondo di Natalia Distefano Corriere della Sera, 13 luglio 2017 All’Argentina "Che ne resta di noi?" con la compagnia del carcere di Bollate. Quando Michelina Capato Sartore racconta la genesi dello spettacolo "Che ne resta di noi?", in scena stasera all’Argentina con la compagnia di attori e tecnici formati nel teatro del carcere di Milano-Bollate, il primo pensiero - forse ingenuamente - è che il titolo interrogativo si riferisca a quel che resta di una vita segnata dalla reclusione. Tutt’altro. "Non tocchiamo mai il tema della detenzione - garantisce la regista - soprattutto in questo lavoro, dove si realizza un vero e proprio incontro col mondo". Sul palco sette personaggi che dialogano rinunciando alle parole, attraverso la forza dei gesti e il linguaggio della danza, muovendosi su una grande scalinata che sollecita il lato voyeuristico del pubblico. "Si tratta di In una partitura fisica - precisa Capato Sartore - che non segue un filo narrativo ma procede per associazioni poetico-musicali maturate durante il lavoro d’improvvisazione degli attori-detenuti in collaborazione con Renato Gabrielli, Claudia Casolaro e Matilde Facheris". "Che ne resta di noi?", inserito nella rassegna del Teatro di Roma intitolata "Il teatro che danza", procede alternando le immagini corali al ritratto intimo di ciascun personaggio, spogliato delle invadenti maschere sociali. "Sulla scalinata, smontata dal carcere di Bollate e traslocata all’Argentina per questa unica trasferta nazionale, si agitano le tante identità di una persona - aggiunge la regista - e si scatenano gli interrogativi, pur senza mai parlare. È il frutto del forte bisogno di esprimersi dei reclusi". Un bisogno che la cooperativa E.S.T.I.A., promotrice delle attività teatrali della casa circondariale milanese, trasforma in un mestiere. "Certificato e retribuito - dice Capato Sartore - perché l’obiettivo è far acquisire competenze nelle varie mansioni, dalla recitazione alla gestione dell’impianto luci, che diventano fonte concreta di sostentamento una volta scontata la pena". Non solo. Nei vent’anni di lavoro a Bollate, E.S.T.I.A. ha registrato il crollo dei tassi di recidività fra chi ha seguito i suoi corsi: solo il 6% di loro ricade nel reato, a fronte di una media nazionale tristemente salda al 70%. "A mano libera", le detenute di Rebibbia raccontano il tempo dilatato dietro le sbarre di Alessandra Balla La Repubblica, 13 luglio 2017 Nel libro "A mano libera", le donne che stanno scontando la loro pena nel penitenziario romano offrono la loro testimonianza. Molte sono in carcere per amore. Dieci minuti. In carcere c’è un tempo per tutto. Anche per le emozioni. "Ha 10 minuti. Prepari le sue cose". Era il due aprile e Maurizia entrava in carcere. Pochi minuti per infilare la sua vita in una borsa e lasciarsi tutto alle spalle. "Tranquilla tra una settimana esci. Sono due anni che aspetto". Un tempo troppo lento da sopportare e così veloce per stare al passo con la realtà. Anche le telefonate durano gli stessi minuti. Ma "cosa puoi dire in dieci minuti a settimana al telefono o in un’ora di visita al mese?", scrive Franca. Sono loro, le detenute di Rebibbia, che nel libro "A mano libera" raccontano, con linguaggio diretto, la vita fuori e dentro la prigione. Anche i tempi degli esami di routine, come pap-test e mammografia, fino ai colloqui psicologici, sono più lunghi, dilatati. "La dolorosa esperienza legata alla condanna passa così lentamente che a volte penso che mi hanno dato l’ergastolo", dice Vera. Ma chi sono queste detenute? "Per questa struttura probabilmente sono solo il numero 15.141...il mio numero di matricola". Lei è Alessia, ha 28 anni ed è una detenuta. Poi ci sono Laura, Franca, Maurizia. Tutte donne che hanno sbagliato e sofferto. Vittime di abusi, con vite disastrate e situazioni al limite. La loro prigione spesso non inizia dietro le sbarre ma tra le mura domestiche, nel quotidiano. Fuori Silvia era la principessa di casa, "poi ho iniziato a commettere reati". Dentro è solo una delle 350 detenute ristrette nella casa circondariale femminile. Le donne in carcere sono il 5%, una minoranza che rischia di essere un reparto marginale, con meno possibilità e strutture. Tra le cause di detenzione femminile c’è lo spaccio di droga, i furti e le rapine, o i reati legati allo sfruttamento della prostituzione. Ma le principali restano la violenza e la dipendenza da una relazione affettiva (come sottolinea la direttrice di Rebibbia Ida Del Grosso nell’intervista contenuta nel libro) a cui le donne spesso non sono in grado di sottrarsi. Molte sono in carcere per amore. È per questo amore malato che Silvia si è tolta la corona da principessa: "Sono nata da genitori italiani, in una città dell’Abruzzo, ho due fratelli. Lavoravo come vigilessa prima di scapparmene con un rom italiano, per lui ho lasciato tutto". Anche Patrizia è vittima di una relazione affettiva malsana, quella con il padre. "Facevo uso di droghe, specialmente molto alcool. Ero diventata dipendente". Lei figlia di genitori adottivi, dopo la separazione è cresciuta tra urla, schiaffi e insulti. "Quando vuoi bene sopporti molto...magari le cose possono andare meglio. Invece andavano solo a peggiorare". Dietro le sbarre non entra aria e luce, ma il senso di colpa sì. Un peso che accompagna le detenute. Come racconta Laura, in carcere da tre anni e quattro mesi, i cattivi pensieri arrivano la sera, nel letto. "Il mio non è un bel reato...i miei sensi di colpa a volte non mi fanno dormire, e malgrado mi sono solo difesa ho una cicatrice nel cuore che non si rimarginerà mai". Laura dopo l’ennesimo litigio con il compagno ha reagito, "ma ecco dove mi sono ritrovata". E poi c’è il dolore più grande, la maternità. L’abbandono forzato è tra le problematiche più sofferte in carcere che totalizza le giornate delle detenute. "Ci mancano", scrive Fazila. "A farmi male, in primis la lontananza dai miei figli che non ho potuto nemmeno vederli crescere", prosegue Silvia. "Qui si rischia di morire ogni giorno", ma il lavoro e la scuola sono lo stimolo per il riscatto e la libertà. Marilena lavora all’aperto, per cinque ore al giorno: "Mi affacciavo dalla finestra della scuola per fumare una sigaretta e guardavo l’orto...il cielo visto così, ha un altro colore: il colore della libertà". Fine vita. Cappato: "ogni giorno una persona mi chiede di morire in Svizzera" di Caterina Pasolini La Repubblica, 13 luglio 2017 L’esponente Radicale dell’Associazione Coscioni sarà processato con l’accusa di aver spinto al suicidio Dj Fabo: "Ho fatto quello che lui voleva". "È importante approvare la legge sul biotestamento per garantire i diritti dei malati". E sul caso del piccolo Charlie: "Incivile usarlo politicamente". "Io ho solo seguito le volontà di Dj Fabo. Mi ha contattato lui, mi ha detto che se non lo aiutavo aveva già trovato chi gli avrebbe sparato. Gli avevo proposto anche la sedazione profonda, a casa sua, a Milano. Mi ha mandato al diavolo, non voleva che la madre lo vedesse morire per giorni, non voleva dargli un nuovo dolore. E io ho rispettato la sua volontà, la libertà di scelta sulla fine della sua vita. E sono pronto a rifarlo per altri. Tutti i giorni mi arrivano richieste di gente che vuole andare a morire in Svizzera: malati terminali oncologici ma anche gente che avrebbe diritto a rinunciare alle cure in Italia. E questo è assurdo e ingiusto: non sanno di avere questo diritto, gli ospedali non glielo dicono e cosi vedono l’estero come ultima via di fuga, Ecco, in questo l’eutanasia, che non c’entra nulla con la legge, si lega alla necessità di far passare il testamento biologico: in questo modo i malati avrebbero sancito, scritto il diritto di rinunciare alle cure e le strutture l’obbligo di rispettare la loro volontà". Marco Cappato, esponente radicale dell’Associazione Coscioni che da anni di occupa di diritti civili, dalla fecondazione assistita al fine vita, dalla legalizzazione della marijuana alla lotta contro le barriere architettoniche, parla di Dj Fabo. Il gip milanese nei giorni scorsi lo ha accusato di aver spinto il giovane paraplegico milanese al suicido, di aver rafforzato la sua decisione. Subito la mamma Carmen e la fidanzata di Fabo lo hanno difeso, hanno detto che "Marco ha solo fatto un regalo a Fabo, rispettando la sua volontà". Ogni giorno richieste di morire in Svizzera? "Sì mi chiama almeno una persona al giorno per il suicidio assistito: malati di cancro terminali ma anche psichiatrici che invece dovrebbero trovare aiuto e comprensione nelle Asl, e tanti che, come i malati di sla, non sanno che possono andarsene rinunciando alle cure, come Welby. Molte strutture gli dicono che non è possibile e loro non lo sanno, non sono informati dei loro diritti. Per questo è importante che passi la legge sul biotestamento, alla camera è stata approvata sull’onda del caso di Fabo, ma ora è solo questione di decisione politica. L’aver fissato la possibile udienza in aula al 25 luglio non fa ben sperare, e poi le polemiche sullo ius soli dividono i partiti e rendono tutto più complicato. Si rischia di rimandare ancora una volta tutto per 5 anni. In altri tempi sarebbe stato più facile" Quando si sarebbe potuto avere una legge sull’eutanasia, sul fine vita? "La prima volta che se n’è parlato è stato 41 anni fa, quando Loris Fortuna, quello del divorzio, ha presentato un disegno di legge, noi ne abbiamo presentato uno quattro anni fa ma la commissione non vi ha dedicato nemmeno un giorno di dibattito. E questo dimostra come il parlamento in questi anni si è dimostrato poco sensibile ai tempi dei diritti civili, del fine vita". Diritto di scegliere, il caso Charlie "E una storia drammatica è diversa perché il piccolo non ha alcuna possibilità di scegliere, di dire la sua a causa dell’età, dei danni cerebrali. Se non avesse quelle immani sofferenze per mantenerlo in vita, la scelta più giusta sarebbe lasciare ai genitori la decisione di come gestire questo immenso dolore. Ma qui si parla di dolori pazzeschi, di cure sperimentali senza possibilità di guarigione, di cui non si sa l’effetto. Ecco quello che è e trovo assurdo è usare politicamente questo dramma quando ne sappiano tutti poco". Migranti. Frontex precisa: "Niente porti europei per i migranti" di Leo Lancari Il Manifesto, 13 luglio 2017 Ieri vertice Gentiloni-Merkel-Macron. Il presidente francese: "Da noi solo i profughi". Da una parte ci sono gli annunci soddisfatti con i quali spesso il governo italiano, e in particolare il Viminale, saluta le conclusioni dei vertici europei in cui si discute di immigrazione. Dall’altra i risultati concreti realmente ottenuti negli stessi vertici. E spesso, per non dire sempre, le due cose non coincidono. È successo così anche due giorni fa a Varsavia. Nella sede di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, si è tenuto l’incontro sollecitato a Tallinn dal ministro degli Interni Marco Minniti per riscrivere il piano operativo della missione Triton in modo da consentire lo sbarco dei migranti anche in altri porti europei. Più di quattro ore di colloquio tra il prefetto Giovanni Pinto, che guidava la delegazione italiana, e il direttore dell’Agenzia europea Fabrice Leggeri, al termine del quale dal Viminale è stata espressa "molta soddisfazione" per i risultati raggiunti. Quali siano i risultati, però, non si sa. Lo stesso Leggeri, intervenendo ieri mattina in Commissione Libe del parlamento europeo, ha chiarito infatti che la nostra richiesta più importante, vale a dire l’apertura degli scali, è irrealizzabile. "Non c’è la disponibilità da parte degli altri Stati ad accogliere gli sbarchi nei loro porti" ha detto Leggeri, aggiungendo che comunque si tratta di "una decisione politica che dipende dagli Stati membri", mentre Frontex si occupa di risolvere eventuali problemi tecnici e giuridici. Successivi quindi, pare di capire, a un eventuale via libera che deve invece arrivare dai governi. Stando così le cose, viene da chiedersi perché il Viminale abbia tanto insistito nel chiedere l’incontro di Varsavia. Praticamente la stessa cosa si è ripetuta ieri a Trieste. Protagonista questa volta il premier Paolo Gentiloni che a margine del vertice sui Balcani occidentali ha incontrato la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron. Più la prima, per la verità, visto che il secondo è arrivato abbondantemente in ritardo e ha partecipato all’incontro solo per una decina di minuti. Come sempre non sono mancati la solidarietà e gli elogi all’Italia per lo sforzo (vero, ovviamente) che il nostro paese compie ogni giorno prima salvando in mare e poi accogliendo i migranti. Ma, da quanto si è potuto capire, questo sarebbe tutto quello che ancora una volta Gentiloni sarebbe riuscito a ottenere. Macron ha infatti ripetuto che un conto sono i rifugiati, e un altro sono i migranti economici: i primi vanno accolti, i secondi respinti a casa loro. "Sono due categorie diverse" ha detto il presidente francese, sottolineando di non voler "cedere allo spirito di confusione imperante". Anche ammesso che il ragionamento tenga (chi fugge per fame non ha forse diritto anche lui a essere accolto?) la stragrande maggioranza dei disperati che sbarca lungo le nostre coste appartiene alla categoria dei migranti economici. Macron ci ha quindi confermato che dovremo continuare a brigarcela da soli. Un problema per Gentiloni, che nella crisi dei migranti vede un’altra delle numerose mine a cui il governo deve fare attenzione se vuole resistere fino al 2018. Anche perché è sempre più evidente che dall’Europa non arriverà nessuna vera apertura almeno fino a dopo le elezioni tedesche. Non a caso anche il gruppo di lavoro che dovrà riscrivere il mandato operativo della missione Triton, promesso martedì a Varsavia da Frontex, non presenterà le sue conclusioni prima di settembre, quando la cancelliera avrà ormai messo al sicuro il risultato elettorale. Alla fine come al solito a pagare saranno i più deboli, cioè i migranti e chi li aiuta davvero. Sarebbe infatti pronto il codice per le navi delle Ong attive nel Mediterraneo. Le nuove regole, 11 in tutto, impongono tra le altre cose il divieto assoluto di entrare in acque libiche, che possono essere raggiunte "solo se c’è un evidente pericolo per la vita umana in mare". Ma anche di telefonare o mandare segnali luminosi per facilitare le partenze dei barconi e il divieto di trasferire i migranti salvati a bordo di altre navi. Duro il commento di Amnesty International. "Impedire alle Ong di operare in acque libiche - ha detto l’organizzazione - rischia di mettere in pericolo migliaia di vite". Migranti. Minniti a Tripoli e Serraj promette raid anti-trafficanti di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 13 luglio 2017 Intanto ad Agrigento il collega Alfano e il gotha delle industrie italiane progettano infrastrutture e affari. Il ministro Marco Minniti, reduce da una "campagna" non precisamente fruttuosa in Europa, vola oggi a Tripoli per ragionare di contenimento dei flussi migratori non solo con il premier del governo di accordo nazionale Fayez al Serraj ma anche con un certo numero, non specificato, di "sindaci" della Tripolitania e del Fezzan. Non è dato sapere, neanche sui siti libici, se si tratterà delle stesse "personalità" delle tribù Awlad Suleiman e Tebu invitate a parlare ieri a Bruxelles della situazione in Libia ai parlamentari europei. Nell’informativa alla Camera per presentare lo scopo della sua trasferta a Tripoli Minniti, una settimana fa circa, aveva detto di voler discutere con gli interlocutori libici come "costruire un percorso alternativo al traffico di essere umani, uno dei principali canali economici di cui la Libia vive". Dalla Libia, dopo una settimana di calma piatta dal punto di vista delle imbarcazioni fatte partire dai trafficanti in direzione dell’Italia - la settimana delle peregrinazioni italiane per chiedere udienza nei vertici europei a Varsavia, Tallin, Parigi - nelle ultime ore sono ripartite le partenze. Tanto che ong come SeaEye e Proactiva OpenArms ieri hanno ripreso le operazioni di salvataggio a pieno ritmo con approdo nei porti siciliani di Pozzallo (481 sbarchi) e Trapani (423) e si annuncia un’altra grande ondata di arrivi. Prendendo la palla al balzo dell’arrivo di Minniti e dell’Italia sotto pressione sull’argomento immigrazione, il premier tripolino Serraj ieri mattina ha disposto, in qualità di comandante in capo dell’esercito tripolino - il cui nucleo principale sono le milizie di Misurata - di usare l’aviazione "nell’ambito del contrasto all’immigrazione illegale e per il contrabbando di prodotti petroliferi". Cosa significhi non è chiaro, visto che i due traffici - quello di migranti e quello del petrolio - sono abbastanza nettamente distinti, in mano quasi sempre diverse, e non si capisce come intenda bombardare i trafficanti di esseri umani senza fare una strage delle persone trafficate. Domenica scorsa, ad esempio, è stata fermata nel porto di Tobruk una nave battente bandiera turca, come spesso succede per questi traffici, accusata di esportare illegalmente petrolio. Sequestrata dalla polizia militare agli ordini del generale Haftar è stata alla fine lasciata partire ieri dopo che i soldati hanno "scoperto" che i barili contenevano non gasolio ma acqua ragia, solvente per vernici (da notare che la composizione chimica è analoga, ma forse altri "lubrificanti" sono stati usati). È passato quasi del tutto sotto silenzio in Italia, ma non in Libia, il primo forum economico italo-libico organizzato dal ministro Alfano ad Agrigento l’8 luglio scorso con la partecipazione del gotha finanziario e industriale italiano, da Eni a Sace, da Bonelli a Leonardo, da Telecom a Unicredit, da Fs a Saipem, a Cassa Depositi e Prestiti, con anche delegazioni francesi e Usa. Libia. La svolta anti scafisti di Sarraj: "pronti a bombardare le loro navi" di giordano stabile La Stampa, 13 luglio 2017 La mossa del premier è un messaggio all’Ue: disposti a misure estreme. Il governo minacciato dall’avanzata di Ghwell. Oggi Minniti a Tripoli. Usare l’aviazione contro "l’emigrazione illegale". Cioè bombardare le navi degli scafisti che partono dalle coste libiche dirette verso l’Italia. Non è una provocazione ma un ordine diretto del premier Fayez al-Sarraj alle sue forze armate. Un’accelerazione improvvisa nella lotta ai trafficanti di uomini arrivata alla vigilia delle visita del ministro dell’Interno Minniti, atteso oggi a Tripoli per una missione che ha come scopo principale frenare l’afflusso dei migranti dalle frontiere meridionali della Libia. Minniti - che ieri è stato a Berlino dove ha incontrato l’omologo Thomas De Maiziere - vedrà oggi 13 sindaci del Sud della Libia per convincerli a mobilitarsi contro i trafficanti di uomini. Il primo ministro riconosciuto dall’Onu, e che ha nell’Italia il suo principale alleato, cerca così di dare il suo contributo in un momento difficile per Roma, che si è ritrovata sola in Europa di fronte a una crisi epocale. Al-Sarraj, anche capo supremo delle Forze armate, chiede l’uso delle forze aeree contro "l’emigrazione illegale" e il "contrabbando di carburanti", una piaga che crea malcontento fra la popolazione. Ma questo è il "messaggio interno". Quello all’esterno è rivolto all’Italia e all’Europa: siamo pronti anche a misure estreme. Il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani ha invece invocato l’aiuto della Guardia costiera libica per fermare le partenze: "Dobbiamo assolutamente bloccarle utilizzando tutti gli strumenti che abbiamo. Attraverso i satelliti si vede esattamente quali barche stanno caricando le persone e, con l’impegno della Guardia Costiera Libica, si può bloccare la partenza degli immigrati". Sul piano pratico è difficile capire come funzionerà il piano di Al-Sarraj. Affondare imbarcazioni con i cacciabombardieri non è un’operazione chirurgica. Il rischio di fare un massacro è alto. Il governo Al-Sarraj poi non dispone di una "sua" aviazione. Sono le milizie di Misurata ad avere a disposizione alcuni Mig-23, che sono stati usati nella battaglia di Sirte contro l’Isis. Non sono però dotati di bombe di precisione a guida laser, un’altra controindicazione. A naso l’ordine sembra più una mossa propagandistica. Al-Sarraj ha un grosso debito di riconoscenza nei confronti dell’Italia. La base di Abu Sitta, dove di solito risiede a Tripoli, è protetta dalle nostre forze speciali. I militari della Folgore sono a guardia dell’ospedale da campo di Misurata, che ha curato i feriti nei combattimenti a Sirte ed è un importante presidio a protezione anche della capitale. Il premier ne ha più che mai bisogno. L’ex primo ministro islamista Khalifa Ghwell ha orchestrato da Khoms, a metà strada fra Misurata e Tripoli, una massiccia offensiva. Oltre ai suoi uomini, partecipano la milizia Samoud del colonnello Sala Al-Badi, comandante dell’operazione "Alba Libica", e miliziani affiliati alle Benghazi Defence Brigades, un cartello di gruppi islamisti in prima linea nella lotta contro il generale Khalifa Haftar in Cirenaica. Segno che il fronte di Ghwell si è ancor più radicalizzato. L’assalto di Ghwell è stato fermato ieri dopo una battaglia di tre giorni a Garabulli, conosciuta anche come Castelverde, 60 chilometri a Est di Tripoli. Le forze islamiste si sono dovuto ritirare, dopo aver subito la perdita di quattro uomini, più altri 21 feriti. Ma hanno ripiegato verso Tarhuna, dove si sono di nuovo raggruppate con l’obiettivo di avanzare verso Tripoli da Sud. Fonti locali parlano di "500 veicoli armati" coinvolti. A sbrogliare la situazione è intervenuta la Brigata Tripoli, la più potente milizia alleata di Al-Sarraj, che ha "ripreso il controllo di tutte le vie di comunicazione" attorno a Garabulli. Al-Sarraj si è anche consultato con il consigliere militare speciale dell’Onu, Paolo Serra. Il generale ha invitato a mettere in primo piano "la salvaguardia dei civili" e l’instaurazione di "un cessate-il-fuoco". Ma non è quella l’aria che tira, quanto piuttosto di una resa dei conti fra Ghwell e Al-Serraj. Iraq. Mosul ovest, la catastrofe dei civili di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 luglio 2017 Lo Stato islamico che sigilla famiglie intere dentro le loro case, sprangando le porte e mettendo trappole esplosive sull’uscio, e impicca ai pali della luce chi ha cercato di fuggire: centinaia, se non addirittura migliaia di persone. La coalizione a guida Usa che, il 17 marzo, per neutralizzare due cecchini sgancia una bomba da 500 libbre sul quartiere di al-Jadida, uccidendo almeno 105 civili. La riconquista (e dal lato opposto, la resistenza) di Mosul va avanti "a tutti i costi", come s’intitola un rapporto pubblicato ieri da Amnesty International sui primi cinque mesi e mezzo dell’anno della "battaglia per Mosul". Il rapporto è basato su 151 interviste ad abitanti di Mosul ovest, esperti e analisti. Descrive 45 attacchi in cui sono morti almeno 426 civili e ne sono stati feriti più di 100 e fornisce una dettagliata analisi su nove di questi, condotti dalle forze irachene e della coalizione a guida Usa. Se da un lato, denuncia Amnesty International, lo Stato islamico ha trasferito civili dai villaggi circostanti verso Mosul ovest per usarli come scudi umani, dall’altro le forze irachene e quella della coalizione a guida Usa non hanno preso misure adeguate per proteggere i civili che via via si andavano ammassando in quella zona della città e, al contrario, li hanno sottoposti a terrificanti attacchi con armi che non dovrebbero mai essere usate in aree densamente popolate. Il risultato è che intere famiglie sono state annientate e molte di loro ancora oggi sono sepolte sotto le macerie delle loro abitazioni. Ormai è certo che alla fine delle ostilità, i civili uccisi da entrambe le parti saranno stati migliaia. Svizzera. 19enne italiano trovato morto in cella nel carcere di Zurigo sda-ats, 13 luglio 2017 Un italiano di 19 anni è stato ritrovato morto questa mattina in una cella del carcere di polizia di Zurigo. Il giovane, arrestato per infrazioni alla legge sulla circolazione e per consumo di stupefacenti, giaceva senza vita nel letto. Non ci sono indizi che fanno pensare a un suicidio o all’intervento di terzi, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente "Sportello dei Diritti". È stata aperta un’inchiesta. È stata aperta un’inchiesta. Brasile. L’ex presidente Lula condannato a 9 anni e sei mesi per corruzione di Omero Ciai La Repubblica, 13 luglio 2017 Condanna in primo grado per l’ex capo dello Stato, imputato nell’inchiesta "Lava Jato", la Mani Pulite del paese sudamericano, è stato interdetto 19 anni dai pubblici uffici. Luis Inacio Lula da Silva, l’ex presidente brasiliano, è stato condannato in primo grado a nove anni e sei mesi per corruzione in uno dei processi dell’inchiesta "Lava Jato" - la Mani Pulite del paese sudamericano, lo scandalo per i fondi neri del colosso petrolifero Petrobras - nei quali era imputato. La sentenza è stata letta dal giudice Sergio Moro, responsabile delle indagini sulla trama di corruzione legata alla compagnia petrolifera statale. Lula è stato dichiarato colpevole di corruzione attiva, passiva e riciclaggio di denaro. Lula è stato inoltre interdetto dai pubblici uffici per 19 anni. La decisione tuttavia entra in vigore solo una volta esauriti tutti i gradi di giudizio. In base alla legge sulla Ficha Limpa (Fedina Pulita) sarebbe dunque ineleggibile solo se nel frattempo venisse condannato anche da un organo collegiale. L’ex presidente (71 anni) non verrà portato in carcere finché la condanna non verrà confermata in appello ma a questo punto diventa molto difficile che Lula possa ripresentarsi, come aveva già deciso di fare, alle elezioni presidenziali previste per l’ottobre del prossimo anno. La condanna emessa dal giudice Moro riguarda il primo caso nel quale Lula è stato coinvolto: i lavori di ristrutturazione di un appartamento "triplex", un attico, in una località balneare del litorale di San Paolo, Guarujà. Secondo Moro, circostanza che Lula ha sempre negato, i lavori di ristrutturazione nascondevano in realtà il pagamento di una tangente legata allo scandalo Petrobras di 3,7 milioni di reais (circa un milione di euro). Insieme alla vicenda del triplex, Lula è implicato in altri quattro procedimenti giudiziari nei quali è accusato di vari reati dal traffico di influenze al riciclaggio. L’ex presidente si è sempre difeso negando tutto e accusando il giudice Moro e gli altri magistrati del caso "Lava Jato" (le tangenti pagate ai partiti dalle imprese che ottenevano appalti pubblici, come la Odebrecht, e dalla multinazionale del petrolio, Petrobras) di avere dei pregiudizi politici nei suoi confronti. D’altra parte è anche vero che fin dall’inizio dell’inchiesta tre anni fa, l’obiettivo dichiarato dei giudici di Curitiba era l’ex presidente da loro considerato come il "deus ex machina" della corruzione politica, il "grande vecchio" che aveva gestito, nell’ombra, tutte le tangenti Petrobras, un "affare" per i partiti politici brasiliani da oltre 2 miliardi di dollari. Circostanza che non sono mai riusciti a provare visto che adesso condannano l’ex presidente per una caso minore come la ristrutturazione di un appartamento di lusso. La prima condanna a Lula arriva in un momento molto critico per il Brasile. Michel Temer, il presidente in carica, che ha sostituito Dilma Rousseff dopo l’impeachment a metà dello scorso anno, è in gravi difficoltà sia per la sua scarsissima popolarità che per il coinvolgimento in inchieste di corruzione. Una situazione di crisi politica che ha contribuito anche a riportare Lula in primo piano come il candidato favorito per le presidenziali. Lula è ancora molto amato in Brasile. I suoi otto anni da presidente (2003-2010) sono quelli che i brasiliani ricordano come la stagione del grande boom con milioni di persone uscite dalla miseria grazie ai suoi programmi sociali. Anni di grande crescita dell’economia e sviluppo grazie all’esplosione dei prezzi delle materie prime, dalla soia, alla carne, al ferro, al petrolio. Dopo Lula, con il rallentamento dell’economia internazionale, il Brasile è entrato in crisi. E il più grande scandalo di corruzione politica - Lava Jato - ha fatto il resto. In pochi mesi sono caduti, condannati e finiti in prigione, i due più importanti dirigenti del partito di Lula, l’ex ministro Antonio Palocci e José Dirceu, che del "presidente operaio" fu a lungo il braccio destro. Ma lo stesso è accaduto anche negli altri partiti. Nello scandalo è finito anche l’ex candidato presidenziale del Psdb, il partito socialdemocratico (destra), Aecio Neves. Poche ore dopo la sentenza gli avvocati dell’ex presidente hanno presentato appello. Per ora Lula non andrà in carcere. In questo frangente il giudice Sergio Moro ha preferito la cautela spiegando nella conferenza stampa che "La custodia cautelare di un ex presidente della Repubblica provoca traumi, sottolineando quindi la necessità di una certa prudenza". Per la sentenza d’appello potrebbe essere necessario attendere anche un anno ma il terremoto in Brasile è comunque enorme. Si comincia a togliere di mezzo l’uomo politico più amato del Paese e se la condanna verrà confermata anche in secondo grado, mezzo Brasile ricorderà per anni questi giorni come quelli di "un golpe politico della magistratura".