Appello per la Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova: è un patrimonio comune Ristretti Orizzonti, 12 luglio 2017 Appello alla società civile, alle associazioni e agli enti pubblici e privati del territorio, alle singole persone che da tantissimi anni hanno avuto modo di conoscere il buon funzionamento della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. Senza il contributo di tutti la Casa di Reclusione di Padova non sarebbe quella che oggi tutti siamo ormai abituati a conoscere. È grazie a persone responsabili e di buona volontà presenti in tutte le realtà, pubbliche e private, che oggi il carcere "Due Palazzi" è noto in tutto il mondo. Quello di un carcere è un mondo tanto complesso quanto ricco di esperienze, ricco di diversità, basti pensare al personale di Polizia penitenziaria, alle varie direzioni che dal 1989 ad oggi si sono succedute, alla magistratura di sorveglianza, all’area trattamentale educativa, all’area socio sanitaria, all’area scolastica (basti pensare che Padova ha visto nascere in carcere uno dei primi Poli Universitari d’Italia), alle associazioni di Volontariato pioniere a livello nazionale, le cooperative sociali, alle realtà culturali, sportive, formative. Ognuna di queste con la propria specificità ha dato vita, in questi lunghi e faticosi ma anche belli anni a quell’autentico laboratorio di sperimentazione di un carcere rispettoso fino in fondo della Costituzione. Tutto questo, che è un patrimonio di tutti, oggi lo vediamo messo fortemente a rischio. Il lavoro di anni, svolto da tutti sempre attraverso un confronto aperto e serrato con le Istituzioni, ha avuto una caratteristica sopra ogni altra: la trasparenza. Padova ha una ricchezza di esperienze nell’ambito della rieducazione e del recupero delle persone detenute davvero straordinaria, attività mai smessa anche quando la dovuta attenzione in merito alla carenza del personale di polizia penitenziaria, dell’area trattamentale educativa e dirigenziale, non veniva adeguatamente affrontato in quantità oltre che in qualità. In queste settimane, più o meno tutti, stiamo subendo un attacco sia mediatico che concreto nel vivere quotidiano. Ogni fatto anche teso a mettere ordine al proprio interno (vedi ad esempio il ritrovamento vari di cellulari) è usato da qualcuno sempre in modo strumentale. Grazie a una straordinaria collaborazione tra istituzioni e società civile anche negli anni del sovraffollamento più bestiale si è riusciti a fare davvero miracoli. Quello in atto è un grave tentativo di tornare al passato (ante 1990), a un carcere chiuso alla società civile e chiuso alla speranza. La nostra preoccupazione è dettata anche dal fatto che il "Sistema carcere Padova" è nato realmente dal basso, dall’impegno e dalla risposta positiva data negli anni dall’Amministrazione, in particolare quella locale. Ora temiamo che il lavoro di tutti non venga sufficientemente tutelato, questo chiaramente non è solo a danno di Padova, in quanto in questi anni Padova ha rappresentato un monito, ricordando a tutti che con un unico ordinamento penitenziario si può gestire un carcere, progettando davvero il cambiamento o invece arroccandosi nella difesa di un passato che, come tutti oggi si riempiono la bocca, ha invece fruttato il 70% di recidiva. Ci rivolgiamo a tutti quelli che conoscono bene che cosa prevedono la nostra Costituzione, le leggi, l’Ordinamento ed il Regolamento penitenziario e non da ultimo le direttive europee che impongono l’umanizzazione della pena per quanto riguarda le persone private della libertà a causa dei reati commessi. Ci rivolgiamo a chi conosce altrettanto bene tutte le attività che da decenni sono presenti presso la Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. La mancanza di rispetto, di aiuto, di difesa ci preoccupano moltissimo. Quello che ci preoccupa è dunque che ad essere attaccato sia il sistema "carcere Padova" nella sua totalità, e per di più in maniera poco chiara e incomprensibile. Ne va della credibilità delle istituzioni e della dignità delle persone. Una città intera, e non solo, ha conosciuto in questi 25 anni questa esperienza: ogni anno migliaia di studenti, scuole, aziende, istituzioni italiane e di ogni parte del mondo, enti di ogni ordine e grado, università italiane ed estere, etc. etc. sono entrati a contatto con tutte le attività di questo istituto, attività in molti casi fiore all’occhiello a livello nazionale ed internazionale. Quello del carcere di Padova non è patrimonio di qualcuno in particolare, è patrimonio di tutti, è un patrimonio pubblico di cui tutti noi e Padova ne andiamo fieri. Vi chiediamo una firma e, se volete, una frase che esprimano la vostra solidarietà e la vostra simpatia. Firmatari appello - Gruppo Operatori Carcerari Volontari (OCV) - Casa di accoglienza Piccoli Passi - Gruppi di ascolto - Sappe Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Responsabile Veneto e Trentino Giovanni Vona - FeDerSerD, Federazione degli operatori dei servizi delle dipendenze - Felice Nava - CISL-FNS Veneto - Segretario Regionale Giuseppe Terracciano - CISL-FP Padova - Segretario Generale Michele Roveron - CISL Padova - Segretario Generale -Sabrina Dorio - Polo Universitario Carcerario - Università di Padova - FP-CGIL Penitenziari Gianpietro Pegoraro - FP-CGIL Veneto Daniele Giordano - Associazione di volontariato Incontrarci Cristina - Associazione di Volontariato Ristretti/Granello di Senape - rassegna stampa e rivista - sportello giuridico - scuola di scrittura - TG2 PALAZZI. Ornella Favero Francesca Rapanà Lucia Faggion Vanna Chiodarelli Angelo Ferrarini Bruno Monzoni Antonio Morossi Elisabetta Gonzato Mauro Feltini Anna Scarso Feltini Donatella Erlati Armida Gaion Fernanda Grossele Tino Ginestri - Work Crossing Coop. Soc. P. A. - Pasticceria "I dolci di Giotto" Matteo Marchetto Roberto Fabbris Matteo Florean - Insegnante in carcere presso CPIA Padova, Luciano Poli - Insegnante primo periodo primo livello (ex scuola media), sezione carceraria. Domenica Cimellaro, - Giotto Coop. Soc. Nicola Boscoletto Andrea Basso Alessandro Krivicic - Teatrocarcere Due Palazzi Maria Cinzia Zanellato Adele Trocino - Ass. Coristi per Caso Alberta Pierobon - Coro Due Palazzi in collaborazione con CPIA Padova Parini - Docenti scuola superiore in carcere - Einaudi/Gramsci sez. carceraria Patrizia Fiorenzato Francesco Mazzaro Vincenzo Stocco Michela Zamper Paolo Mario Piva - ASD Polisportiva Pallalpiede Lara Mottarlini Paolo Mario Piva - Antigone Triveneto Giuseppe Mosconi - Cooperativa sociale AltraCittà Rossella Favero Valentina Franceschini Valentina Michelotto Mirko Romanato Bruna Casol Sabina Riolfo Federico Gianesello Giorgio Mazzucato Le carceri scoppiano, ci sono 7mila detenuti più del consentito di Carmine Gazzanni La Notizia, 12 luglio 2017 Le carceri tornano drammaticamente a riempirsi oltre ogni misura. Una situazione che, se si dovesse continuare su questo trend, potrebbe tornare a preoccupare e non poco. Ancora una volta, infatti, sebbene nessuno ne parli - fatta eccezione di alcune associazioni, come Antigone, sempre impegnate sul fronte carcerario - i nostri penitenziari, stando ai dati del ministero della Giustizia, rischiano di cadere nuovamente nel dramma del sovraffollamento. Un rischio non da poco se si pensa che nel 2013 l’Italia, proprio a causa del sovraffollamento carcerario, fu condannata dalla Corte europea per i diritti umani per violazione dell’articolo 3 che proibisce la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Certo, in quel periodo le nostre carceri arrivarono a contenere oltre 66mila detenuti, mentre oggi se ne contano (dati al 30 giugno 2017) 56.919, ma è altrettanto vero che esattamente l’anno scorso erano 54.072. In un anno, insomma, la popolazione carceraria è aumentata di 2.847 unità. Parliamo, in pratica, di una media di otto nuove persone recluse ogni giorno. Tutto questo nonostante la capienza regolamentare si attesti su 50.241 posti. Ergo: c’è un’eccedenza pari quasi a settemila unità. Se non si può parlare di carceri che scoppiano, ci manca davvero poco. Ma non è tutto, perché il dato risulta ancora più preoccupante se lo si legge insieme ad un altro, questo reso noto dall’ultimo rapporto annuale del Garante dei diritti delle persone detenute, Mauro Palma: al 23 febbraio scorso il numero di camere o sezioni fuori uso, per inagibilità o per lavori in corso, era pari al 9,5%. Una cella su dieci inutilizzabile. Un dato clamoroso che, verosimilmente, rende il dato del sovraffollamento ancora più critico, essendoci meno camere a disposizione. I dati nel dettaglio - Ma è entrando nel dettaglio che scopriamo dati e numeri ancora più preoccupanti. A cominciare dalla tipologia dei detenuti stessi. Per dire: dei 56.919, solo 36.946 sono pregiudicati, mentre la restante parte (quasi 20mila persone) sono detenuti in attesa di giudizio o condannati in primo o secondo grado. Ci sono, poi, situazioni a dir poco esplosive in alcuni istituti. Prendiamo Napoli: a Poggioreale i posti a disposizione sono 1.624, ma i detenuti presenti sono 2.169, non va meglio all’istituto di Secondigliano dove a fronte di 1.026 posti ci sono 1.344 persone. Per soli due istituti, dunque, si registrano complessivamente qualcosa come 863 detenuti in eccedenza. E pensare che la maggior parte delle case circondariali italiane nemmeno arrivano a contenere 863 persone. Se facessimo, invece, un discorso spalmato su Regione, il dato più clamoroso è senz’altro quello lombardo, dove il sovraffollamento (per un totale di 18 istituti) è pari a 2.059 unità (per una capienza pari a 6.122 posti, ritroviamo 8.181 detenuti); non va meglio certamente nel Lazio dove, dai dati pubblicati sul ministero della Giustizia, si registra un sovraffollamento di 1.008 detenuti. E, manco a dirlo, è Roma la città laziale più "a rischio": il carcere di Regina Coeli conta 299 detenuti in più, quello di Rebibbia 252. Intanto, però, nulla quaestio dal ministro Andrea Orlando. Peccato: se non è sovraffollamento questo, sarebbe interessante capire cosa sia. "Parlate solo dei capi, mai dei signor nessuno lasciati morire al 41 bis" di Valentina Stella Il Dubbio, 12 luglio 2017 Intervista a Rosalba Di Gregorio, difensore di Provenzano. In questi giorni numerose pagine vengono dedicate a Riina, al cosiddetto carcere duro, alla presunta trattativa Stato-mafia. Temi sui quali è interessante interpellare l’avvocato Rosalba Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa nostra, da Bernardo Provenzano a Michele Greco. Di Gregorio ha difeso anche Gaetano Murana, uno dei sette imputati che vennero condannati al processo per la morte di Paolo Borsellino sulla base di accuse formulate da pentiti, poi risultato estraneo. Continua a tenere banco la condizione di salute di Riina rispetto ai suoi status di detenuto e imputato. Dello stato di salute di Provenzano non si discusse con lo stesso approfondimento... Molti si scandalizzano per la sentenza della Cassazione su Riina, che invece non è affatto scandalosa perché afferma principi di diritto. L’informazione è stata disinformante perché si è concentrata solo sul nome dell’imputato: quando la Suprema corte afferma che bisogna motivare sull’attualità della pericolosità. Sostiene cose talmente ovvie, scontate e conformi al diritto che non ci sarebbe proprio da discuterne, se non per dire che andrebbe applicata a chiunque. La popolazione carceraria non si compone solo di Provenzano e Riina, ci sono centinaia di persone in condizioni disastrose dal punto di vista sanitario, solo che si chiamano Mario Rossi e Pinco Pallino e di loro quasi nessuno si occupa. Vorrei chiedere all’onorevole Bindi perché non è andata a verificare anche le condizioni di salute di Provenzano, quando all’epoca la stampa se ne occupò dopo che sollevammo l’incompatibilità con il 41bis per una persona che era un vegetale. Perché non sono andati a visitarlo quando anche lui era a Parma? Io ho documentato che quando si ritiravano le magliette intime di Provenzano erano intrise di urina perché lì gli cambiavano il pannolone solo due volte al giorno e quindi poi l’urina arrivava dappertutto, fino al collo. Ho fatto fare persino il test del Dna sull’urina perché non si dicesse che non era la sua. Tutto è stato denunciato alla Procura di Parma che naturalmente ha archiviato. Ora l’onorevole Fava della com- missione Antimafia dice che le condizioni di Riina non sono paragonabili a quelle di Provenzano: allora deduco che all’epoca la Commissione era in ferie. L’Antimafia all’epoca era senza dubbio attiva: quale altra spiegazione si può trovare? Si scelse di dare una risposta ai familiari delle vittime lasciandolo al 41bis. Ai quali va tutta la mia comprensione, ma i problemi giuridici andrebbero affrontati in quanto tali. Rita Dalla Chiesa, dice "mio padre non ha avuto una morte dignitosa": perché concederla a Riina? Il dolore è comprensibile, la solidarietà è massima, ma ciò non significa che uno Stato di diritto possa abrogare o non applicare le norme perché esiste la sofferenza delle vittime. La presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi, al termine della visita a Parma dove ha verificato le condizioni di Riina, ha dato l’impressione di voler anticipare la sentenza del Tribunale di Bologna sul differimento pena. È bene precisare che la Commissione è andata nel reparto detenuti 41 bis dell’ospedale Maggiore di Parma. Io invito tutti invece ad andare al carcere per rendersi conto se quello al suo interno è un centro clinico e se non ci dobbiamo vergognare dei nostri cosiddetti centri clinici nei penitenziari. Ma per tornare alla domanda, a me hanno insegnato che siamo in una Nazione in cui il potere giudiziario è indipendente da quello politico. Non credo che i parlamentari dell’Antimafia abbiamo acquisito capacità medico diagnostiche e possano stabilire, con uno sguardo, al posto dei Tribunali, cosa sia giusto per un detenuto. Io non ne faccio un problema per Riina ma per tutti i reclusi. Il 41 bis si lascia ai soggetti pericolosi. Bindi è certa che Riina sia "ancora il capo di Cosa nostra, è così per le regole interne alla mafia". Per principio lo dice. E così si disse di Provenzano. Bisogna che si mettano d’accordo su chi era il capo dei capi. Se muore anche Riina avremo allora una organizzazione acefala. Lei ha lanciato un appello ai politici affinché visitino i reparti del 41 bis. Più che un appello era una sfida che credo nessuno raccoglierà mai. Per fare una cosa del genere bisogna recarsi lì all’improvviso e visitare tutte le sezioni, non solo quelle che vogliono farti vedere i direttori delle carceri. Sul 41 bis si sono espresse riserve sia nella relazione di Luigi Manconi sia negli Stati generali dell’esecuzione penale. Il problema è la modalità di attuazione del 41 bis, ovvero la vivibilità in termini umani. E che si tratta di un provvedimento emergenziale diventato la norma. Non ci può essere una presunzione della presenza del contatto del detenuto con l’organizzazione criminale. Ci devono essere segnali precisi, per ipotizzare che il recluso stia veicolando ordini all’esterno. I pareri sulla permanenza al 41 bis vengono elaborati dal profilo criminale, dalle vecchie schede, ma c’è gente nel carcere che dopo anni ha fatto percorsi di ravvedimento, di cui nessuno prende atto. In realtà come ha documentato Ambrogio Crespi nel docu-film "Spes contra Spem", prodotto da Nessuno Tocchi Caino, anche persone che hanno commesso 40 omicidi dopo decenni possono riabilitarsi. Il problema oggi, e lo ha detto il presidente del Senato Grasso, è che o accedi alla collaborazione oppure si deduce che non vi è stata rivisitazione critica del proprio vissuto. Teoricamente si dovrebbero trasformare tutti in collaboratori di giustizia. C’è il rischio che non si abbia nulla da dire e che si offrano false informazioni su cui poi però si imbastiscono processi. Il problema è a monte: lo Stato non può pretendere di usare il 41 bis per farti pentire. Al processo Borsellino bis, Vincenzo Scarantino ha mandato al 41 bis per 20 anni degli innocenti. Il Borsellino quater ha stabilito che Scarantino è stato indotto a "collaborare". Si può presupporre un mancato vaglio da parte dei magistrati, prima inquirenti poi giudicanti, sul lavoro degli investigatori. Che cosa c’è stata a fare tutta la Procura in questi anni? Del processo Borsellino quater si è parlato pochissimo. L’agenda rossa di Borsellino non l’ha presa Toto Riina e neppure Graviano, non se ne facevano niente. Se Borsellino avesse annotato "la Mafia mi fa schifo" era una notizia già nota ai mafiosi. Dal processo è emerso l’intervento di terzi un po’ più in alto rispetto a quelli che io considero esecutori del depistaggio, a partire da dirigenti della Polizia, e a qualcuno non fa comodo che si sappia. Capitolo "trattativa": Mori è stato assolto dall’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia per non aver catturato Provenzano quando si poteva. Non ho letto le carte processuali, ma qualcosa si può dedurre dal fatto che c’è una triplice conformità sull’assoluzione. O buttiamo via i processi o dobbiamo prendere atto di queste sentenze. Il Fatto Quotidiano ha pubblicato come inedita la dichiarazione di Graviano secondo cui Pannella nell’87 andò in carcere a raccogliere iscrizioni tra i detenuti. Da sempre in carcere si trova sostegno per le battaglie garantiste. Non mi pare una notizia che possa scalfire l’immagine del Partito radicale. "Ci sono troppe leggi autoritarie. Tutta colpa del partito dei pm" di Dimitri Buffa Il Tempo, 12 luglio 2017 Parla Mauro Mellini, storico leader Radicale: "Grillo e Renzi? Su questo sono uguali". "Grillo o Renzi o altri ancora per me pari sono. Fanno queste leggi da stato autoritario, dall’omicidio stradale a questa che vuole proibire i busti di Mussolini, passando magari per una nuova normativa di prevenzione per fare sequestrare e poi confiscare i beni degli indiziati di corruzione, come succede per quelli di mafia, per un solo motivo: sono tutti sotto ricatto. Il partito dei pm non l’ho inventato io, ma l’ho scoperto e denunciato per primo. E se all’epoca, quando stavo al Csm, Berlusconi mi avesse dato retta invece di tentare un’impossibile mediazione, non avrebbe fatto la fine che poi ha fatto". Mauro Mellini, Radicale storico dei tempi delle battaglie per il divorzio e l’aborto, e in seguito grande rivale politico, se non "nemico", all’interno di quella galassia, delle idee e dei metodi di Marco Pannella, dopo essere stato per quattro anni al Csm, su nomina del centrodestra, ha idee ben precise sul male italiano che affligge ormai tutti i poteri: giudiziario, esecutivo e legislativo. E quali sono le sue idee su queste leggi liberticide che l’attuale parlamento sforna a getto continuo? "È l’inquinamento culturale del partito dei giudici e del loro golpe iniziato con Mani Pulite. Che a sua volta è stato l’apogeo di una lunga marcia iniziata ai tempi della lotta al terrorismo e proseguita con la lotta alla mafia. Loro hanno chiesto e ottenuto alla politica di stravolgere lo stato di diritto, loro hanno instillato questo virus mortale dei fini che giustificano i mezzi, loro hanno voluto e vogliono uno stato autoritario, veramente e intrinsecamente fascista". Insomma il fascismo degli anti fascisti di cui parlava spesso Pannella? "Pannella distruggendo il partito radicale e riducendolo a una setta di cui lui era lo stregone, una specie di compagnia di giro di teatranti con lui come capo comico, ha a suo modo contribuito a far sì che le cose non cambiassero. Più concreta la Bonino che però è politicamente atea, nel senso che non crede in nulla, tranne che in se stessa, e infatti è una donna ambiziosa e egoista, ma, vivaddio, concreta". Ma perché la politica non riesce secondo lei a dire di no al partito dei giudici? "Ma sta scherzando, ma ancora non l’avete capito? Tutti hanno qualcosa da nascondere e da temere, tutti quelli che hanno volato troppo vicino al sole si sono bruciatile ali. Persino Renzi, che voleva rottamare tutto e tutti, è già tanto se non hanno rottamato lui. È una macchina da guerra, con le manette e gli sputtanamenti mediatici ottengono tutto, va avanti così da una trentina d’anni e fanno ridere questi politici ipocriti che ogni volta che vengono colpiti continuano a ripetere la litania del "confido nella giustizia". Ma che volete confidare? Al massimo dovrebbero dire che vogliono limitare i danni. Solo Sgarbi aveva capito queste cose ma poi gli hanno chiuso la trasmissione in tv... e poi tutto questo senza venire eletti da nessuno anzi diventando magistrati con concorsi poco trasparenti". Addirittura? "Quando stavo al Csm ne ho viste di tutti i colori, ho denunciato concorsi con il trucco in magistratura dal dopoguerra sino agli anni 90. Non sono diversi da altri settori della pubblica amministrazione". Chissà quante querele avrà subito? "Innumerevoli, mi hanno pignorato i soldi della pensione da parlamentare e i diritti sui libri che ho scritto, ma ho vinto anche tante cause contro di loro. Quella che mi diede più soddisfazione mi vedeva opposto all’allora procuratore di Palmi Agostino Cordova, il primo che ebbe la pensata di fare sequestrare tutti gli elenchi dei massoni d’Italia su denuncia di un avvocato di Palmi che straparlava di complotti. Presi in giro questa maniera di fare inchieste e di dare credito a questi personaggi parlando dei "Palmipedi", ma alla fine ebbi ragione io, anche perché Cordova nel frattempo, essendo fondamentalmente un idealista e un brav’uomo, era caduto in disgrazia presso l’allora Pds quando divenne procuratore a Napoli, tanto che di fatto lo fecero fuori". La sua visione del conflitto tra politica e magistratura sembra a dir poco pessimistico, se non cinico... "Può essere, ma è la verità. E i politici oltre a fare troppe ma veramente troppe leggi, le fanno tutte male e venate del morbo oscuro dell’autoritarismo. Quella che vuole far condannare chi si tiene a casa i busti del Duce è solo l’ultima. Ma la culla del diritto è diventata una bara già da trenta anni. Adesso piove solo sul bagnato. Perché ormai ai magistrati chi glielo toglie più il potere? Male hanno fatto i politici a consegnarsi mani e piedi, adesso per loro non c’ è più scampo". Giustizia forte solo coi deboli di Matteo Mion Libero, 12 luglio 2017 Le toghe non prevengono i reati e li indagano troppo tardi. Così molti processi coinvolgono personaggi in età da pensione. O gli imputati delinquono sempre in età avanzata oppure la magistratura non svolge adeguatamente il ruolo di controllore che le è affidato dalla Costituzione. I nostri giudici arrivano sempre quando i buoi sono già scappati: da Andreotti a Priebke passando per Parmalat e Formigoni, per arrivare a banche venete e ieri al Senatur. Gli esempi sono centinaia. Se a detta delle sentenze questi soggetti giuridici sono condannati e quindi socialmente pericolosi, non sarebbe meglio fermarli all’inizio dell’attività illecita? Le toghe soffrono di ritardo cronico o si cela qualcos’altro dietro questo andazzo? Berlusconi, pur ad orologeria, fu colpito con tempismo ineguagliabile: per i magistrati diventò manigoldo non appena varcò la soglia di Palazzo Chigi, prima era specchiato. Il Caf si difese in aula con i capelli bianchi, Tanzi fu fermato quando non c’era più un litro di latte da destinare ai risarcimenti. Le banche venete sono a giudizio già spolpate oltre l’osso. La magistratura è costituzionalmente dotata di poteri ispettivi eccezionali come intercettazioni e sequestri per garantire la restitutio in integrum alla collettività. Per dirla in modo più terra terra: chi sbaglia, paga e chi viene derubato (gli italiani) dev’essere risarcito. Altrimenti anche l’obbligatorietà dell’azione penale diventa un esercizio di diritto inutile: un sofismo. L’ordinamento italiano per tempi e costi è fatto a misura di debitore, ma le toghe non sono da meno. E, presunto innocente il Senatur fino a condanna definitiva, è plausibile che si sia dato alla marchetta all’alba dei 70 anni? O gli italiani sono un esercito di cleptomani di terza età o qualcosa non quadra: se non è giustizia a orologeria, è comunque una porcheria. Le azioni civili connesse a procedimenti penali di qualche decennio non trovano mai ristoro e tutti dimentichiamo che Renzi aveva promesso il processo civile in un anno (sic!). Il risarcimento del danno è il pilastro dello stato di diritto e voi, amici giudici, ben sapete che non risarcire un danno equivale a cagionarlo. Tortura: una legge tutta da rifare di Alessandra Ballerini osservatoriodiritti.it, 12 luglio 2017 Il reato di tortura entra nell’ordinamento italiano. Ma la norma non piace a nessuno e fa acqua da tutte le parti: scritta male, con grandi margini di discrezionalità nelle mani dei giudici, è difficile da applicare. E limita la possibilità delle vittime di vedere giustizia. "Il corpo prova dolore. Il corpo inesorabilmente c’è e non trova riparo e l’anima si aliena da sé". Non conosco una definizione più esatta e spietata di "tortura", parola impronunciabile fino a pochi giorni fa, almeno nel nostro ordinamento. Eppure, nel nostro tempo, nel nostro paese, quella parola si compie lacerando corpi e anime. E ora, finalmente, quella parola è stata pronunciata. Ed è stata scritta in una norma, l’articolo 613 bis del codice penale. Una legge che però sarà, nella maggior parte dei casi, inadatta a punire chi quella parola agisce. Una legge che non piace a nessuno - Abbiamo letto in queste settimane i commenti sdegnati di Ong e associazioni a tutela dei diritti umani, giustamente preoccupate da un testo di legge atteso da decenni che riesce a deludere tutti e a fare letteralmente imbestialire i sindacati di polizia, che alla loro impunità tengono tanto. La legge, infatti, scritta in italiano maldestro, impone, perché possa configurarsi il reato di tortura, la previsione della pluralità delle condotte violente, il riferimento alla verificabilità del trauma psichico, la prova della crudeltà del torturatore e della minorata difesa del torturato e i tempi di prescrizione ordinari, limitando così le possibilità per la vittima di vedere giustizia. Nel testo approvato la tortura è un reato generico, che quindi può essere commesso da chiunque e non soltanto da un pubblico ufficiale (in quest’ultimo caso è prevista un’aggravante). Eppure una speciale categoria di pubblici ufficiali, vale a dire le forze dell’ordine, si sono immediatamente sentite chiamate in causa e hanno reagito, all’approvazione della legge, con quella stessa arrogante violenza sottesa alla condotta criminale che la norma vorrebbe vietare e punire. Inapplicabile ai fatti del G8 di Genova - Si tratta di una legge scritta male, che lascia un margine di discrezionalità altissima nelle mani dei giudici e costringe le vittime a una sorta di probatio diabolica. Anche i magistrati che si sono occupati dei processi relativi all’irruzione alla scuola Diaz e sui fatti avvenuti alla caserma di Genova Bolzaneto durante il G8 di Genova avevano provato ad opporsi all’approvazione di questa normativa, scrivendo una lettera alla presidente della Camera, Laura Boldrini. E spiegando che, con una simile norma, non si riuscirebbe a punire neppure quei i reati commessi dalle forze dell’ordine in quell’indimenticabile luglio 2001 genovese. I magistrati sottolineano che "è infatti indiscutibile: che alcune delle più gravi condotte accertate nei processi di cui si tratta siano state realizzate con unica azione; che le acute sofferenze mentali cui sono state sottoposte molte delle vittime abbiano provocato per ciascuna conseguenze diverse non in ragione della maggiore o minore gravità della condotta, ma in ragione della differente personalità di coloro che l’hanno subita; che - come attestano le evidenze scientifiche - nulla consente di definire in termini di maggiore gravità e intensità la sofferenze provocate al momento dell’inflizione di una tortura di tipo psicologico da quelle che residuano e - come richiesto dalla legge in corso di approvazione - si manifestano in un trauma "verificabile" (e dunque diagnosticabile e duraturo)". "La necessità, imposta dalla norma, di inquadrare la relazione tra l’autore e la vittima (quest’ultima deve essere privata della libertà personale; oppure affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’autore del reato; ovvero trovarsi in condizioni di minorata difesa) è conseguenza della scelta di configurare la tortura come un reato comune, ma esclude dall’ambito operativo della fattispecie molte delle situazioni in cui si sono trovate le vittime dell’irruzione nella scuola Diaz che non erano sottoposte a privazione della libertà personale da parte delle forze di Polizia e non si trovavano in una situazione necessariamente riconducibile al sintagma della minorata difesa". Una legge con tante scappatoie - Che fosse una brutta legge lo aveva già evidenziato, quasi gridando, il Commissario per i diritti umani presso il Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, in una lettera indirizzata il 16 giugno ai presidenti del Senato, della Camera, delle commissioni Giustizia dei due rami parlamentari e al presidente della commissione straordinaria Diritti umani del Senato, sottolineando come la norma in discussione fosse contraria alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e distante dalla Convenzione Onu del 1984 e capace di garantire "scappatoie per impunità". E sono proprio queste scappatoie di impunità a preoccuparci. In un paese dove la tortura è ancora un tabù, non perché non la si agisca o non ci si allei con capi di Stato che la utilizzano quotidianamente, ma perché ne si nega la sua pratica, le sacche di impunità sono un rischio concreto ed evidente. E il fatto che il legislatore abbia tentennato così a lungo prima di introdurre nel codice penale una norma che la vietasse per poi cedere alle pressioni delle divise (nella parte in cui si prevede la tortura non è un reato proprio delle stesse) la dice lunga sulla effettiva volontà di punire tale abominio. Espulsioni verso paesi di tortura - In Italia, peraltro, la tortura non solo è praticata fino alle estreme conseguenze (basta leggere, oltre alle sentenze della Cedu sui fatti di Genova e la celeberrima "Torreggiani / Italia sulle condizioni carcerarie", il formidabile libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone "Quando hanno aperto la cella"), ma è prassi consolidata pure l’espulsione di cittadini stranieri verso paesi (amici) dove la tortura viene praticata con fiera ostentazione. Per fare solo un esempio tragicamente noto a tutti, nell’Egitto di Al Sisi, dove Giulio Regeni è stato sequestrato, torturato e ucciso nella (per ora) totale impunità, e dove almeno tre persone al giorno subiscono la stessa sorte di Giulio, le nostre autorità hanno rimandato coattivamente giusto qualche settimana fa una trentina di profughi sbarcati a Lampedusa, che non hanno neppure avuto la possibilità di presentare richiesta di protezione internazionale, come sarebbe stato loro diritto fare. A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, si può leggere con una qualche cauta speranza la nuova formulazione dell’articolo 19 del testo unico sull’immigrazione riguardo il divieto di espulsione che ora, in virtù della nuova normativa in tema di tortura, prevede: "Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani". Una lotta che continua - Da domani, dunque, dovrebbero immediatamente cessare i rimpatri forzati e i respingimenti verso l’Egitto, ma anche verso il Sudan, Turchia, Libia e tutti gli altri Paesi dove i diritti umani sono sistematicamente violati (e per farsi un’idea di quali e quanti siano basterebbe leggere l’implacabile rapporto di Amnesty International). Non sarà cosi, ovviamente. Toccherà ancora una volta vigilare e denunciare. Fino a quando questa, che è la più indicibile delle parole, sparirà non dalle nostre (cattive) leggi o dalle (ottime) convenzioni, ma dal nostro agire e, direi, dalla nostra "cultura" - e non perché resa invisibile e sottile, ma perché se ne sarà percepito l’orrore e la vergogna e perché, magari, si sarà provveduto a formare adeguatamente i pubblici ufficiali per evitare che, come direbbe la filosofa Donatella Di Cesare, "ogni potere diventi una tentazione di eccesso, ogni forza una promessa di brutalità, ogni pena la minaccia di un supplizio, ogni interrogatorio il rischio di una tortura". Ho personalmente visto tanti di quei corpi che "ci sono, ci sono, ci sono e non trovano riparo" e di quelle anime mutilate. Assistere impotenti all’impunità di chi ha compiuto su questi corpi e su queste anime "un furto di umanità", come direbbe Adriano Zamperini, annichilendole e annientandole, a sua volta "cagiona acute sofferenze", aggiunge tormento al tormento, tortura alla tortura. Caro Fiano, il fascismo non si combatte così di Fabio Chiusi L’Espresso, 12 luglio 2017 Dalla pancia del Paese affiorano pulsioni di estrema destra e il Pd pensa di affrontarle con divieti, bollini e punizioni per il Web. Bisogna invece combattere ogni giorno l’egemonia culturale reazionaria, sempre più diffusa. Non è facile, certo, ma è l’unico modo. Ci sono diverse tentazioni antidemocratiche nel dibattito sorto intorno alla legge Fiano contro la propaganda fascista. La prima, dei sostenitori, è definire "fascista" chiunque vi si opponga, quando naturalmente non servono nostalgie del Ventennio per porre una semplice domanda: che cosa è, esattamente, "propaganda"? Il testo parla di "immagini" e "contenuti propri" di fascismo e nazismo, delle "relative ideologie", di richiamarne pubblicamente "la simbologia e la gestualità". In alcuni casi, abbastanza per identificare uno squadrista; in molti altri - dalla satira alla ricerca, passando per tutte le sfumature consentite dalla libera espressione in democrazia - no. Non perché essere fascisti è un’opinione come le altre, ma perché un conto è criminalizzare la violenza e il razzismo come metodo di lotta e seduzione politica, o vietare la ricostituzione di un partito totalitario, come nelle già vigenti leggi Scelba e Mancino; un altro è criminalizzare un braccio teso, la vendita di un santino del Duce o la diffusione di una sua foto su Facebook per la loro sola esistenza. Proprio su Internet peraltro, secondo la norma, essere fascisti è di "un terzo" più grave: perché? Il principio della rete come aggravante di reato è un concetto che ruota nelle menti dei legislatori italiani almeno dal ddl Lauro del 2009, in cui il senatore Pdl ipotizzava un aumento di pena per il proposto, e bocciato, reato di "istigazione ed apologia dei delitti contro la vita e l’incolumità della persona" nel caso fosse compiuto tramite "telefono, Internet e social network". Oggi si parla di "strumenti telematici e informatici", ma è singolare pensare che una trasmissione televisiva più o meno velatamente razzista, o un titolo di giornale, siano minori veicoli di propaganda. Singolare, a meno che non si inquadri l’idea all’interno dell’ossessione che i liberal di tutto il mondo hanno sviluppato per la propaganda digitale dopo l’elezione di Donald Trump - senza peraltro prendersi la briga di definirne i contorni, o spiegarci perché dovrebbe essere più pericolosa di quella "offline". Anche questa di criminalizzare la propaganda e le menzogne che oggi chiamiamo inspiegabilmente "fake news", invece di neutralizzarle con le idee, i fatti e la civiltà, è una tentazione antidemocratica, tale da avere allarmato perfino lo Special Rapporteur ONU per la libertà di espressione, David Kaye. Il problema è che quando si sfonda la soglia della criminalizzazione della propaganda ideologica non si sa bene dove si va a finire. Certo, c’è una diffusa e montante tentazione autoritaria a destra, al punto che sempre più è il linguaggio dei Salvini e delle Le Pen a fare quella che Antonio Gramsci chiamava "egemonia culturale": un rapporto di dominio, sì, ma più subdolo e pervasivo perché fondato sul consenso, prima che sulla coercizione, e sempre "necessariamente pedagogico". Anche questo è un dato di realtà con cui fare i conti, utile per decifrare gli strepiti di chi maschera la volontà di giustificare, assolvere, minimizzare dietro al faro del libero pensiero. Ma una volta rotti gli argini, le acque fluiscono verso anfratti che potrebbero allagare la stanza della democrazia, più che quella degli estremisti, sempre peraltro dotata di insospettabili anfratti. Pubblicare un testo di propaganda fascista diventa dunque reato, anche quando è di interesse storico? Un video su You Tube con i discorsi di Joseph Goebbels - il vero padre della propaganda contemporanea, che andrebbe studiato nel dettaglio, non consegnato all’oblio - è materia da codice penale? Domande che, in una certa misura, si ponevano già, ma che oggi si ripropongono con maggiore forza. Domande che somigliano molto da vicino a quelle poste nei mesi in cui i terroristi di ISIS occupavano il web con le loro strategie di comunicazione. E cosa è più democratico, tentare la via difficile - mostrando ma contestualizzando, diffondendo ma senza essere megafoni - di ottenere una opinione pubblica informata e adulta abbastanza da valutare da sé l’orrore, o pretendere - nell’era della disintermediazione, uno sforzo quasi certamente vano - di trattarla come un consesso di infanti a cui appiccicare un bollino rosso, un divieto, così che il male finisca sotto il tappeto? E ancora: cosa distingue essenzialmente la propaganda estremista, o fondamentalista, da quella politica? Il passo, insegnano i regimi autoritari di oggi, non di ieri, è più breve di quanto sembri. Si pensi alla Cina, e alla recente norma che prevede lo screening, da parte di due revisori, di ogni contenuto audio-video pubblicato in rete, con conseguente censura di tutti quelli che non aderiscono ai "valori di fondo del socialismo". Nessuno sostiene che Fiano e i sostenitori della sua legge abbiano Pechino come modello; il pericolo, tuttavia, è aprire le porte a una ratio che rende possibile adottarlo, se ritenuto necessario. Resta poi l’ultima obiezione, più profonda: che il fascismo è un cancro difficile da estirpare, un male apparentemente incurabile della contemporaneità che è meglio prevenire, dissolvere piuttosto che risolvere. Inutile fare di Cinque Stelle - gli epuratori a mezzo blog - e leghisti improbabili difensori delle libertà civili: se si vuole privare il fascismo del terreno che lo fa germogliare, bisogna inaridirlo ogni giorno, non con le leggi ma con la dimostrazione quotidiana del rispetto di rapporti di vita e potere democratici, da parte di ogni fazione politica. L’intolleranza non si batte coi divieti, né tantomeno scimmiottandone slogan e forme, ma con l’intransigenza e l’orgoglio di appartenere a un mondo in cui si ha memoria di che accade un saluto romano dopo l’altro. Coltivare la passione del passato e della verità storica, incentivarla in ogni forma: questo sì si sottrae a ogni tentazione antidemocratica. E, infatti, sembra proprio l’ingrediente mancante al dibattito in corso. Apologia del fascismo, la legge Scelba non basta di Gloria Riva L’Espresso, 12 luglio 2017 La normativa, datata 1952, impedisce di punire sia chi vende gadget ispirati al Ventennio o al nazismo, sia chi inneggia al fascismo sui social network. Mentre ben due proposte di legge contro souvenir, cimeli e saluto romano giacciono in Parlamento. La maglietta è tutta nera, con al centro la scritta "Keep Calm and Viva il Duce". Costa solo nove euro e bastano un click e una carta di credito per comprarla online da ilduce.net, che offre un vasto assortimento di gadget inneggianti al ventennio fascista. Il sito, però, specifica che l’ordine minimo deve essere di almeno venti euro. Poco male, alla maglietta si può abbinare un manganello grandezza naturale con tanto di frase "Dux Mussolini" da dieci euro e un accendino con stampata sopra la faccia del Duce. Venti euro, giusti giusti. Comunque le combinazioni sono infinite: ci sono anche felpe, gilet, puzzle, tappetino per il mouse, gagliardetto, bandiera. E se manca qualcosa si può fare un giro sul negozio online www.ilventennio.it. Il sito è un po’ più chic rispetto all’altro e infatti offre a 17,99 euro la cravatta di raso nera con ricamata sopra l’Aquila col fascio. È il secondo articolo più venduto, in testa c’è il portafogli di Mussolini. Perché qualcuno dovrebbe fare shopping di simili prodotti, che si rifanno alla dittatura che ha imperversato in Italia dagli anni Venti fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, portando l’Italia a schierarsi al fianco di Hitler e relativo partito nazista? Perché quelli del fascismo sono stati "i migliori anni della nostra Patria", scrive il sito web. Nonostante questi siti online abbiano un retrogusto di apologia del fascismo, la Legge Scelba, creata nel 1952, non li vieta. Forse perché nel ‘52 il web non esisteva ancora e quindi era difficile impedirli, all’epoca. O forse perché il consumismo non era ancora contemplato. "Serve una riforma, perché la situazione sta degenerando", dice Nadia Rossi, consigliera Pd dell’Emilia Romagna e prima firmataria di un provvedimento regionale per inasprire le sanzioni per chi vende gadget a sfondo fascista. Ma più che ai souvenir, la Rossi punta il dito contro i siti web e le pagine Facebook che inneggiano al fascismo sui social. "Una piaga", dice la consigliera e snocciola un elenco di 94 pagine Facebook che una ricerca della Consulta antifascista di Ravenna ha scovato sul network (che in Italia conta 28 milioni di utenti attivi, cioè quasi metà dell’intera popolazione). Il gruppo chiuso "Fascismo e socialismo nazionale" conta più di 4 mila iscritti, la pagina Facebook che si auto dichiara Organizzazione Politica e si chiama proprio "Fascismo" piace a 29 mila persone. La pagina dedicata al Duce ha quasi 30 mila like. Un arresto ogni tre mesi, una denuncia a settimana. Rispondendo a un’interrogazione il Viminale ha diffuso le cifre dell’illegalità. Senza però criticare la relazione della Polizia di prevenzione resa nota nei giorni scorsi che "promuoveva" i militanti del movimento di estrema destra A Varese, in primavera la polizia di Stato ha denunciato tredici persone, tra i 20 e i 40 anni, che dalla pagina Facebook Neri Vessilli (boia chi molla) lanciavano frasi di odio, violenza, a sfondo razzista e inneggianti il Ventennio fascista. In Sardegna, l’assessore Paola Fadda, del Comune di Siniscola, in provincia di Nuoro, ha postato sulla sua pagina Facebook un filmato girato durante le vacanze a Predappio: il video ritrae un suo parente che viene incitato dall’assessore a fare il saluto romano davanti alla tomba di Mussolini. La donna si è difesa così: "Era una gag". Peccato che non faccia ridere nessuno. Anzi, nel paesino sardo s’è scatenata una bufera mediatica. A Venezia una professoressa di inglese del liceo Marco Polo, sulla propria pagina Facebook ha prima incitato all’eliminazione dei bambini musulmani, poi si è augurata il naufragio dei profughi e per finire ha postato immagini del Duce. Per fortuna c’è anche chi usa i social per il motivo opposto. A settembre il giornalista di Repubblica Maurizio Crosetti ha scritto su Twitter per raccontare di "Quel bel gruppetto di ultrà juventini che fanno il saluto romano a torso nudo cantando Fratelli d’Italia e Faccetta Nera", riferendosi alla partita Juventus-Sassuolo di inizio settembre. I parlamentari Andrea Maestri e Giovanni Paglia hanno rivolto un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno, Angelino Alfano, perché "essendo la rete la nuova frontiera della lotta antifascista di questo secolo e, affinché il proselitismo sia osteggiato, è opportuno e necessario dotarsi di una normativa efficace che risolva questa situazione così fragile e che obblighi la polizia postale a segnalare e chiedere a Facebook di chiudere quelle pagine, nel rispetto della legislazioni". Richiedere a Facebook di bloccare quelle pagine non è né facile, né scontato. Dev’essere un privato cittadino a fare la richiesta, esponendosi a potenziali ritorsioni. Inoltre, per il momento, le segnalazioni alla società americana non hanno avuto granché effetto, perché oltre Oceano poco sanno delle normative italiane e della matrice antifascista del Bel Paese. La richiesta dei parlamentari è proprio quella di inasprire la Legge Scelba che sanziona - con multe fino a 500 euro e addirittura la reclusione fino a 2 anni - chiunque "promuova od organizzi sotto qualsiasi forma, la costituzione di un’ associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista, oppure chiunque pubblicamente esalti esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche". Ma non parla di siti Facebook o di portachiavi del Duce. Già, i gadget, altro tallone d’Achille della normativa italiana. Nessuno ci ha fatto caso fino all’estate del 2015, quando a Rimini una coppia di americani di fede ebraica ha contattato il sindaco per raccontargli di quanto fossero rimasti scandalizzati dalla vetrina di un negozio di souvenir, dove c’erano in bella mostra delle bottiglie con la faccia di Mussolini e Hitler. "Serve una legge per vietare la vendita di oggetti inneggianti al Duce e al Fascismo", aveva chiesto il sindaco. E infatti, da questa estate la Regione Emilia-Romagna è la prima in Italia ad approvare una risoluzione per estendere il reato di apologia del fascismo "anche alla vendita e diffusione di gadget con immagini del regime". Hanno votato a favore Pd, Sel e AltraEr. Contrari Lega Nord, Forza Italia e Fdi-An. Il gruppo M5S si è astenuto. Nella risoluzione, si chiede alla Giunta di attivarsi affinché i gadget fascisti vengano vietati. "Bisogna metterci un freno. Serve anche una legge per evitare che online dilaghino i siti inneggianti al fascismo. La legge Scelba va inasprita", spiega Nadia Rossi, prima firmataria dell’atto. Va in tutt’altra direzione la sentenza di settimana scorsa della Corte d’Appello di Milano che ha assolto due militanti di Casapound per aver fatto il saluto romano durante una commemorazione di Sergio Ramelli. Assolti perché hanno compiuto "gesti rituali del disciolto partito" fascista, ma "non è chiaro" se "il loro comportamento abbia superato il confine della commemorazione per giungere alla condotta diffusiva" dell’ideologia. Insomma, per il Tribunale se il saluto fascista è "commemorativo" non è reato. Tutto questo, nonostante la Cassazione, a marzo, avesse affermato che il saluto fascista è reato. Nel mese di giugno è arrivato persino il rimbrotto della Commissione Europea, proprio partendo dal caso di Casapound e chiedendo di rivedere la legge in materia, rendendola più rigorosa ed efficace. In Parlamento giacciono, in attesa di approvazione, ben due proposte di legge contro souvenir, cimeli e saluto romano, una proposta da Emanuele Fiano del Pd, l’altra presentata e sottoscritta dai parlamentari Tiziano Arlotti, insieme ai colleghi romagnoli Marco di Maio e Enzo Lattuca, con cui propongono modifiche alla legge Scelba per punire la produzione, distribuzione e vendita di oggetti raffiguranti immagini del periodo fascista. Arlotti si era mosso dopo le polemiche scoppiate per un calendario dedicato a Benito Mussolini comparso (e poi ritirato) sugli scaffali di un supermercato coop di Reggio Emilia. Perché in Italia c’è una diffusa richiesta di mafia e dei suoi metodi nuovi di Giovanni Tizian L’Espresso, 12 luglio 2017 La statua di Falcone decapitata e la foto del giudice bruciata è un oltraggio a tutte le vittime dei clan. La mafie parlano e manifestano il loro potere, in una società che ha abbassato la guardia e delega la lotta alle sole forze di polizia. Dietro i numeri e le statistiche però c’è una diffusa richiesta di mafia e dei suoi metodi nuovi. I clan hanno nel loro statuto la gestione del potere. Lo esercitano in vari modi. Questo esercizio del potere a volte è evidente altre meno. Le mafie utilizzano l’alfabeto dei simboli, lanciano messaggi più o meno cifrati, più o meno comprensibili, per ricordare che in un certo territorio loro sono l’autorità. I fatti di Palermo, l’oltraggio alla memoria di Giovanni Falcone con la statua devastata e la foto bruciata, è uno sfregio a tutte le vittime delle cosche. Un segnale lanciato nel caldo asfissiante di luglio, a nove giorni dai 25 anni della strage di via D’Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Pensavamo, infatti, che dal dolore e dal sangue versato potesse almeno emergere un Paese nuovo, finalmente affrancato dalla dittatura criminale. Eppure dopo tanti anni, dopo alcuni traguardi importanti, dopo alcune vittorie, si percepisce l’aria greve di un passato che ritorna. La percezione è data dal fatto che le mafie regolate dall’omertà in realtà hanno negli ultimi tempi ricominciato a parlare. Ammiccano, tentano, provocano, chiedono. Spesso sono dialoghi che avvengono nell’ombra, ma può succedere che tali messaggi per necessità vengano veicolati con la forza della violenza. In questi casi devono essere evidenti a tutti, perché il popolo sappia che gli uomini d’onore comandano ancora. Ridurre però questi fatti palermitani a semplice messaggistica mafiosa sarebbe fuorviante. Il contesto in cui sono maturati questi e altri recenti fatti è forse il tassello che aiuta a ricomporre il mosaico di responsabilità. Se cosa nostra o le altre organizzazioni mafiose possono permettersi di alzare la voce è perché in questi anni la cultura mafiosa è stata legittimata da chi per raggiungere il profitto, o altri scopi, è disposto a tutto. Da chi ha sposato il principio secondo cui nel mercato e nella finanza tutto è concesso, che le regole sono solo di intralcio. Un’ideologia che ha spianato la strada a personaggi loschissimi, a quei volti presentabili delle organizzazioni mafiose moderne che usano il metodo mafioso per piegare l’economia e la società. Metodo mafioso non più per forza imposto mostrando la pistola nascosta sotto il giubbotto. La strategia è più sottile. Per garantirsi un appalto, per esempio, sarà sufficiente andare dai concorrenti e proporgli dietro compenso di non presentarsi alla gara. Oppure mandare avanti loro e imponendo successivamente servizi utili all’impresa. Oggi nel metodo mafioso c’è quasi sempre una complicità dei "buoni", di coloro cioè che sono estranei alle strutture criminali, ma che per convenienza economica accettano la proposta. Un tempo c’erano i buoni e i cattivi. O meglio tale distinzione era più netta, meglio decifrabile. Oggi è una massa grigia e indistinta. Di chi fidarsi? Su chi contare? Il punto è centrato perfettamente da Attilio Bolzoni nel commento su Repubblica in cui analizza i fatti di Palermo: "La mafia che impone le sue leggi non la conosciamo abbastanza. La mafia che tutti noi abbiamo conosciuto cerca di non morire". Chi ha cantato vittoria troppo presto, vendendo all’opinione pubblica arresti di latitanti come durissimi colpi alle cosche, farà bene a imprimere una marcia politica diversa alla lotta alla mafia. I partiti e i governi per lotta ai clan hanno seguito la strada della sola repressione. Possono bastare le manette e il carcere duro? I fatti, a distanza di anni, dicono il contrario. Retate e arresti non fanno altro che confermare nuove strutture, nuovi volti con gli stessi cognomi, eserciti di ragazzini assoldati dalla famiglie criminali. "Qui lo Stato sono io", diceva un boss della ‘ndrangheta intercettato e arrestato qualche giorno fa. Quelli come lui rappresentano tuttora l’autorità perché da loro dipendono i destini di chi vuole essere eletto, sono loro che gestiscono i posti di lavoro, loro che piazzano amici e parenti in struttura pubbliche e private, loro che lottizzano quelle opportunità di terre in cui la questione meridionale c’è ma è meglio negarla. Perché stupirsi allora se la cronaca racconta di ragazzini che cercano di accreditarsi con i boss per farsi "assumere" nel clan o riporta le immagini violente della testa di marmo di Giovanni Falcone usata come ariete per sfondare la porta della scuola della periferia palermitana. È l’eterno potere criminale che si rigenera, che in Italia non fa più paura perché si è normalizzato. Il mafioso? "Una brava persona, educata, gentile". Quante volte abbiamo sentito questa idiozia? E quante volte ancora la sentiremo? "Riina a rischio morte improvvisa": depositata relazione dei medici, ma il processo va avanti Giornale di Sicilia, 12 luglio 2017 I giudici: capace d’intendere. La "cardiopatia" di cui soffre Totò Riina lo "espone costantemente" al "rischio di una morte improvvisa". È quanto si legge nella relazione dell’ospedale di Parma depositata nel processo milanese che vede il "capo dei capi" di Cosa Nostra imputato per minacce nei confronti del direttore del carcere di Opera Giacinto Siciliano. I giudici della sesta sezione penale in camera di consiglio hanno deciso, anche sulla base di quella relazione, che il boss ha la "piena capacità di intendere e di volere" e quella di "stare in giudizio". I giudici milanesi hanno così respinto la richiesta della difesa di sospensione del processo. Il Tribunale nell’ordinanza ha evidenziato che nella relazione dei medici di Parma viene scritto che il boss è "vigile" e "collaborante". Lo scorso 27 giugno, infatti, i giudici della sesta sezione (presidente Martorelli), accogliendo un’istanza dei legali Luca Cianferoni e Mirko Perlino, avevano stabilito che il carcere di Parma (Riina è in ospedale in regime detentivo) avrebbe dovuto trasmettere al Tribunale di Milano "con la massima sollecitudine", oltre alle cartelle cliniche, anche una "breve relazione sanitaria" sulle condizioni "di salute" di Riina "soprattutto con riferimento" alla sua "capacità di stare in giudizio". Relazione, poi trasmessa e firmata dal primario dell’ospedale Michele Riva, nella quale si parla appunto del "rischio di una morte improvvisa", oltre che di un "paziente fragile" e dallo "eloquio scadente". Oggi la difesa del boss ha insistito sulla sospensione del processo milanese per l’incapacità dell’imputato di stare in giudizio. "Non capisce più e noi non capiamo cosa dice", ha spiegato il legale Perlino. I giudici decideranno a breve. Nella relazione, firmata dal primario Michele Riva, da un lato viene chiarito che "si tratta di un paziente estremamente fragile per l’età e per le numerose comorbilità da cui è affetto", che soffre di una "cardiopatia ipocinetica post-infartuale" di "tale entità da condizionarne ogni attività", la quale "espone costantemente il paziente al rischio di morte improvvisa". E ancora: "È completamente dipendente in tutti gli atti quotidiani, ad eccezione dell’alimentazione" ed "è sempre più difficile comprendere quanto dice", soprattutto "per esaurimento della capacità fonatoria". Dall’altro lato, tuttavia, al di là del quadro clinico descritto dettagliatamente nella relazione (Riina è ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma dal 25 gennaio 2016), "allo stato attuale - scrive Riva - il degente è vigile e collaborante, discretamente orientato nel tempo e nello spazio". Ed è questa la parte della relazione che il collegio della sesta sezione ha valorizzato per valutare la capacità dell’imputato di stare in giudizio, ossia di comprendere di essere sottoposto ad un processo penale. Nell’ordinanza, infatti, il presidente Raffaele Martorelli ha chiarito che ciò che andava valutato nel processo milanese è appunto la capacità processuale e non questioni sulle condizioni di salute e sul regime detentivo (il boss è in regime di 41bis nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma) di cui si sta occupando il Tribunale di Sorveglianza di Bologna, dopo che la Cassazione ha affermato "l’esistenza di un diritto di morire dignitosamente" e ha stabilito che la Sorveglianza aveva omesso di considerare "il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico". I giudici milanesi, dunque, dovevano valutare la "condizione psichica" del capo di Cosa Nostra e basandosi sulla relazione medica, ritenuta "esaustiva" (non c’è bisogno di altre acquisizioni o di una perizia), hanno accertato la sua capacità di intendere e volere e di stare nel processo malgrado la "età avanzata" e le "patologie". Per i giudici, in sostanza, Riina "comprende" ciò che succede e i processi a suo carico, mentre i difensori avevano fatto notare che oggi aveva rinunciato a essere collegato in videoconferenza per l’udienza "perché firma le dichiarazioni senza comprenderle". Il processo proseguirà il 17 ottobre con l’audizione del direttore del carcere di Opera Giacinto Siciliano, parte civile. Corte Europea. Lo Stato può vietare il velo islamico nei luoghi pubblici di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2017 Il divieto di indossare il velo islamico in luoghi pubblici può servire a garantire la convivenza in una società e ad assicurare il rispetto di alcuni valori come quello di uguaglianza uomo - donna. Di conseguenza, il "no" imposto per legge all’utilizzo del niqab non è contrario alla Convenzione dei diritti dell’uomo. È la Corte europea di Strasburgo a tornare sui divieti di indossare simboli religiosi che coprano il volto in luoghi pubblici e Strasburgo, nella sentenza Belcacemi e Oussar depositata ieri (analoga a quella Dakir, sempre di ieri) ha dato ragione allo Stato in causa, in questo caso il Belgio. A rivolgersi ai giudici internazionali due donne, una belga e una del Marocco, che contestavano il divieto imposto dall’ordinamento del Belgio che vieta di indossare, in luoghi pubblici, indumenti che coprano il volto totalmente o parzialmente. A causa di questa proibizione, le donne non potevano utilizzare il niqab. La Corte costituzionale belga aveva respinto il ricorso e le donne hanno così scelto la strada di Strasburgo sostenendo che era stato violato il diritto al rispetto della vita privata (articolo 8), della libertà di religione (articolo 9) e il diritto a non essere discriminati (articolo 14). Di diverso avviso la Corte europea. La legge belga - osserva Strasburgo - si propone dei fini legittimi come la sicurezza pubblica, l’uguaglianza di genere e la tutela della convivenza all’interno di una società. In materia di libertà di religione, inoltre, gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento. La Corte è consapevole che norme come quelle belghe possono contribuire a consolidare stereotipi colpendo determinate categorie di individui e creare una certa intolleranza. Così riconosce che il divieto può limitare il pluralismo creando ostacoli alle donne nell’espressione della propria personalità. Tuttavia, i divieti possono essere necessari in una società democratica anche per garantire le relazioni tra individui e la convivenza. Di conseguenza, poiché l’obiettivo delle autorità belghe è di favorire le relazioni tra i componenti di una società e agevolare certe condizioni di convivenza che lo Stato vuole per la propria società, il divieto non è incompatibile perché è anche frutto di una scelta sulla società da formare all’interno di uno Stato. La legge belga è stata adottata a seguito di un approfondito dibattito, lungo 7 anni. E non solo. Gli Stati parti alla Convenzione europea non hanno una posizione univoca sul punto e, quindi, le autorità nazionali hanno autonomia nella regolamentazione in materia. Sul fronte delle sanzioni, inoltre, la legge belga prevede una multa e il carcere solo in casi estremi, per ripetute violazioni e dopo un’attenta valutazione dei giudici nazionali. Di qui la conclusione sulla proporzionalità della sanzione e la piena compatibilità del divieto con la Convenzione. La remissione della querela vale anche se l’imputato non l’accetta espressamente di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2017 Tribunale di Aosta, sentenza 14 marzo 2017, n. 124. La remissione della querela è efficace anche se l’imputato non la accetti espressamente o sia assente al processo: l’importante è che non si comporti in modo tale da far intendere che voglia opporvisi. A sottolinearlo è il Tribunale di Aosta, sezione penale, con sentenza n. 124 del 14 marzo 2017. Tratto a giudizio per concorso nel reato di furto, è un uomo impossessatosi, per trarne profitto, di un telefono cellulare di nuova generazione, sottraendolo al proprietario, che lo custodiva dietro alla cassa di un esercizio commerciale. Fatti per i quali, la persona offesa dichiarava di voler ritirare la querela a suo tempo proposta. L’imputato, però, non si era presentato in udienza e non aveva, pertanto, avuto modo di accettare, di fronte al giudice, la remissione di querela. Ma il Tribunale tiene conto della decisione del derubato di tornare sui propri passi, ed emette - nonostante l’assenza del reo - sentenza di "non doversi procedere per intervenuta remissione di querela". Nel deciderlo, si evidenzia come per l’efficacia estintiva della remissione non sia necessaria l’accettazione della medesima da parte dell’imputato. È sufficiente, infatti - come ribadisce costante giurisprudenza - che si accerti l’inesistenza "di una ricusazione espressa o tacita" ai sensi dell’articolo 155 del Codice penale. In altre parole, non occorre acquisire l’accettazione espressa da parte del querelato, purché, dichiaratamente o da fatti concludenti, non risulti che egli intenda ricusare la remissione. D’altro canto, è assodato che, per il pensiero prevalente, ai fini dell’efficacia della remissione di querela non sia indispensabile l’accettazione, essendo sufficiente che, da parte del querelato, non vi sia un rifiuto espresso o tacito di tale remissione. Di conseguenza, in assenza di condotte incompatibili che remino nella direzione contraria - pervenibili nelle forme più varie all’autorità giudiziaria procedente - anche la contumacia dell’imputato potrà essere apprezzata quale indice dell’assenza della volontà di interessarsi della propria posizione processuale (Cassazione, sentenza 7072/11). Essenziale, allora, che nell’assenza o contumacia dell’imputato non siano apprezzabili "segni positivi della volontà di costui di coltivare il processo per giungere alla rilevazione della propria innocenza" (Cassazione, sentenza 30614/08). Soluzione lineare, peraltro, anche con quanto previsto in caso di mancata comparizione del querelante, punto sul quale si è di recente pronunciata la Cassazione (sentenze 18969/17 e 17136/17) richiamando la tesi sostenuta dalla Sezioni unite (sentenza 31668/16), intervenute ad affermare che integra una remissione tacita di querela l’assenza all’udienza dibattimentale (dinanzi al Giudice di pace: Cassazione, sentenza 47539/16) del querelante, previamente ed espressamente avvertito dal giudice che tale scelta sarebbe stata intesa come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela. Ebbene, nella vicenda concreta, il reo, scegliendo di non presenziare all’udienza penale, aveva esternato il suo disinteresse per il processo. Comportamento dal quale, inevitabilmente, doveva dedursi la volontà tacita di non ricusare la remissione di querela. Di qui, l’efficacia della rimessione formulata dalla parte offesa e la dichiarazione di non doversi procedere nei suoi confronti. Nella querela è imprescindibile l’accertamento della volontà di perseguire l’autore del reato Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2017 Querela (articolo 120 c.p.) - Contenuto - Volontà di perseguire l’autore del reato - Deve emergere in modo chiaro. Indipendentemente dalla qualifica assegnata alla dichiarazione orale dalla polizia giudiziaria che l’ha ricevuta (come nel caso di specie in cui i Carabinieri avevano redatto un atto intestato come "querela orale") l’intenzione di voler perseguire l’autore dei fatti ivi denunciati deve emergere chiaramente dalla dichiarazione stessa ovvero da altri fatti dimostrativi del medesimo intento. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 4 luglio 2017 n. 32103. Querela (articolo 120 c.p.) - Contenuto - Volontà di esercitare il diritto di querela - Deve essere chiara o desumibile da espressioni interpretabili quali manifestazioni di volontà. Nel caso in cui l’atto di querela venga redatto dalla polizia giudiziaria che raccoglie le dichiarazioni della parte, la volontà della persona offesa, a pena di invalidità della querela stessa, deve essere esplicita, ancorché non ritualizzata in forme sacramentali, ovvero desumibile da espressioni interpretabili quali manifestazioni di volontà di perseguire l’autore del fatto. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 12 aprile 2016 n. 15166. Querela (articolo 120 c.p.) - Contenuto - Accertamento della volontà da parte dei giudici di merito - Indipendente rispetto alla qualificazione data alla dichiarazione dalla polizia giudiziaria. La manifestazione della volontà di procedere a querela può essere accertata dal giudice del merito, indipendentemente dalla qualificazione attribuita dalla polizia giudiziaria alla dichiarazione orale ricevuta, dal tenore complessivo della stessa, quando questo dimostri chiaramente l’intenzione di voler perseguire l’autore dei fatti denunciati, o da altri fatti dimostrativi del medesimo intento. L’accertamento così effettuato resta sottratto al sindacato di legittimità se rispondente alle regole della logica e del diritto. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 4 marzo 2014 n. 10254. Querela (articolo 120 c.p.) - Volontà di punire l’autore del reato - Desumibile anche dalla costituzione come parte civile. La querela è una manifestazione di volontà di punizione dell’autore del reato espressa dalla persona offesa; non richiede formule particolari e può essere riconosciuta dal giudice anche in atti come la denuncia, che non contengono espressamente una dichiarazione di querela. Perciò una manifestazione di volontà di punizione ben può essere ravvisata nell’atto con il quale la persona offesa si costituisce parte civile : anche una semplice riserva di costituzione di parte civile, secondo la Suprema Corte, può costituire una istanza di punizione. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 16 maggio 2011 n. 16077 Alla Commissione diritti umani delle Nazioni Unite di Giulio Petrilli Ristretti Orizzonti, 12 luglio 2017 Gentili componenti della Commissione diritti umani delle Nazioni Unite, vorrei sottoporre alla Vostra attenzione la violazione che lo Stato Italiano perpetua nel confronti dei cittadini che si sono visti privare ingiustamente della libertà personale. La privazione ingiusta della libertà personale va contro i principi universali della democrazia e del diritto. Qualora uno ne venisse privato ingiustamente è lecito che lo Stato debba risarcire la persona vittima di questo sopruso. In Italia questo non avviene, tante persone assolte con sentenza definitiva e magari dopo tanti anni di carcere non vengono risarciti. Solo pochissimi hanno questa opportunità, su settemila domande annue per risarcimento da ingiusta detenzione più di cinquemila vengono rigettate. Il rigetto avviene per "dolo e colpa grave" della persona assolta, in quanto con le sue cattive frequentazioni avrebbe tratto in inganno gli inquirenti e favorito il suo arresto. Solo in Italia esiste un comma del genere, palesemente anticostituzionale e contrario a tutti i trattati di diritto internazionale. Voi come commissione diritti umani dell’Onu avete il potere di sanzionare lo Stato Italiano per questa violazione del diritto e dei diritti umani. Vi scrivo in quanto vittima di questo comma, dopo sei anni di carcere ingiusto non sono stato risarcito, ma vi scrivo anche a nome dei tantissimi che come me hanno subito questa ingiustizia. Voi che siete il massimo organismo internazionale per risolvere le controversie e far affermare i diritti umani in ogni angolo del mondo spero recepiate la valenza reale di questa istanza e possiate fare ciò che è nelle Vostre possibilità. In attesa di una Vostra risposta porgo i più cordiali saluti. Emilia Romagna e Toscana contro i Garanti dei detenuti di Bruno Mellano* Il Manifesto, 12 luglio 2017 L’Italia è davvero un bel Paese. Mentre il Parlamento introduceva il reato di tortura, chiudendo in modo francamente inadeguato una pagina imbarazzante per la patria di Cesare Beccaria, sembra si debba registrare una grave vicenda rilevante per i diritti delle persone private della libertà. Negli stessi giorni infatti, un convegno pubblico svoltosi a Bologna ha fatto emergere il lavorio, di alcune burocrazie e di alcuni esponenti locali del Pd, per procedere ad un "riordino" degli organismi di tutela nati nell’ambito dei Consigli regionali. Si è trattato di un vero e proprio lancio della "campagna d’autunno" che dirigenti di spicco del Pd del Consiglio regionale dell’Emilia Romagna hanno presentato come una "rivoluzione". Sotto l’inevitabile etichetta del risparmio, il progetto emiliano-romagnolo e la copia riveduta e scorretta dell’Ufficio di Presidenza della Toscana, con l’obiettivo di costituire un "organismo unico" fra difensore civico, garante dell’infanzia e garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, finiscono necessariamente per ipotizzare la messa in liquidazione delle esperienze consolidate. Nello specifico, la proposta appare in evidente controtendenza con la dinamica virtuosa di un processo partito dal basso e giunto, solo nel marzo del 2016, all’attivazione del Garante nazionale delle persone private della libertà a cui il Governo ha anche attribuito compiti, funzioni e ruoli derivanti dalle convenzioni europee e dell’Onu che da anni attendevano (come per la tortura) di essere fatte vivere anche in Italia. Dunque, mentre finalmente si comincia a strutturare istituzionalmente una rete di lavoro fra i garanti delle persone private della libertà, partendo proprio dalla significativa realtà delle figure regionali attive da oltre una dozzina d’anni e dai garanti comunali presenti nelle principali città e in molti comuni, si propone il superamento del quadro esistente. In questi giorni il Garante nazionale ha formalizzato la richiesta ai Garanti regionali di partecipare al Npm, il meccanismo nazionale di prevenzione della tortura e delle pene inumane e degradanti, in una fase storica dove il sovraffollamento penitenziario torna a mordere le carni delle persone detenute, senza che si siano registrate significative modifiche strutturali dell’esecuzione penale. Nel contempo si sta attrezzando una risposta coordinata alle richieste europee di efficace monitoraggio dei rimpatri forzati verso paesi non Ue e il decreto Minniti, fra le tante discusse novità, ha riconosciuto ai Garanti il potere di visita e di controllo nei nuovi Cpr, che si dovranno creare in ogni regione. Uguale situazione per le Rems che hanno archiviato gli Opg "regionalizzando" la presa in carico dei soggetti autori di reato prosciolti per incapacità di intendere e volere. Pensare proprio ora alla costituzione di un soggetto unico (monocratico o collegiale, articolato con osservatori tematici o con funzionari dedicati) appare non solo non tenere in conto le decisioni nazionali per corrispondere alle tante risoluzioni sottoscritte a livello internazionale ma assume il sapore di oltraggio verso le esperienze maturate con successo nell’ambito regionale. Una rete di tutela delle libertà individuali che ha saputo dimostrare che la capacità d’intervento e di risoluzione dei problemi stia essenzialmente nell’autonomia e indipendenza delle figure, nella specializzazione delle competenze, nella costruzione di una rete di relazioni, nella definizione di collaborazioni fra organismi paralleli nell’attività ma spesso confliggenti negli interessi da tutelare. È ora di una riflessione tra Garanti e Regioni per evitare decisioni improvvisate. *Garante dei diritti dei detenuti della Regione Piemonte Brindisi: carcere senz’acqua da giorni, detenuti in sciopero della fame lostrillonenews.it, 12 luglio 2017 Nel carcere di Brindisi manca l’acqua da diversi giorni - almeno quattro - e i detenuti sono sul piede di guerra. Per loro, infatti, è impossibile curare l’igiene. L’hanno segnalato allo Strillone alcuni lettori, parenti di gente ristretta nella casa circondariale del capoluogo, i quali denunciano la gravità e l’inumanità della situazione. Alcuni tra gli ospiti della struttura - si apprende - avrebbero già avviato lo sciopero della fame, ma qualora la situazione non si dovesse sbloccare a stretto giro, potrebbero inscenare una rivolta vera e propria. Una situazione che sta mandando su tutte le furia anche i loro parenti che, dall’esterno, invocano un trattamento da persone e non da animali per i loro cari. "Non è possibile - fanno sapere - che nel 2017 succedano ancora queste cose, è un vero e proprio scandalo… Come se non fossero già sufficienti le dure condizioni della prigionia". Bologna: Antonio Ianniello è il nuovo Garante dei diritti dei detenuti La Repubblica, 12 luglio 2017 IL Consiglio comunale ha eletto Antonio Ianniello come Garante per i diritti delle persone private della libertà personale. L’elezione si è svolta a scrutinio segreto, con voto limitato ad un solo candidato, a maggioranza qualificata dei due terzi dei consiglieri assegnati (pari a 25 voti). Antonio Ianniello ha ottenuto alla prima votazione 26 preferenze. Gli altri candidati, Francesca Cancellaro e Simone Romano, hanno ottenuto rispettivamente 2 e 7 preferenze. Successivamente il Consiglio ha approvato all’unanimità l’immediata esecutività della delibera con la relativa autorizzazione alla spesa. Nomina del Garante delle persone private della libertà del Comune di Bologna Quale prima Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna prima e poi della Regione Emilia Romagna esprimo soddisfazione per la scelta del dr. Antonio Ianniello come nuovo Garante del Comune di Bologna. La nomina cade su persona che ha ormai pluriennale esperienza in materia carceraria, avendo lavorato in passato con l’ufficio comunale e regionale dei detenuti, e dote di serietà e capacità di interlocuzione con tutte le parti nell’affrontare i temi complessi della privazione della libertà personale, che richiedono competenza e particolare sensibilità verso un tema spesso vissuto con ostilità e preoccupazione, e che invece segna la civiltà di un paese. Avv. Desi Bruno Responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale "Franco Bricola" di Bologna Roma: inaugurata la "Casa di Leda" per le detenute madri con i loro bambini giustizia.it, 12 luglio 2017 Il Ministro Orlando: "la solidarietà abbassa la recidiva". È stata inaugurata ieri, a Roma, La Casa di Leda, la prima Casa Famiglia Protetta, destinata ad accogliere detenute madri con i loro bambini. Alla presenza del Ministro della Giustizia Andrea Orlando, del capo di Gabinetto Elisabetta Cesqui, del capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo, del capo del Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità Gemma Tuccillo, del Sindaco di Roma Virginia Raggi, del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute Daniela de Robert, e dei suoi omologhi per il Comune di Roma Gabriella Stramaccioni, e per la Regione Lazio, Stefano Anastasia, del già presidente di Poste Italiane Luisa Todini, del rappresentante del Consiglio di Amministrazione di Poste Italiane Roberto Rao, e del responsabile della struttura Lillo di Mauro, in rappresentanza dell’Associazione A Roma Insieme-Leda Colombini, l’immobile, una bella e grande villa nel quartiere Eur, sequestrato alla criminalità organizzata, è stato finalmente consegnato alla funzione sociale attribuitagli, ricongiungere cioè, fuori dal carcere, le detenute madri, che già accedano alle misure domiciliari, ai loro figli minori, per ricostruire una relazione di cura e sostegno. Il percorso per arrivare all’inaugurazione di oggi, è partito da una delibera capitolina con la quale, in virtù dell’articolo 4 della legge 62/2011 che attribuisce agli enti locali la competenza, il Comune ha manifestato l’interesse ad assegnare l’immobile in comodato d’uso gratuito, perché fosse adibito a casa famiglia per genitori provenienti dalla detenzione, con figli minori. Successivamente, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, il Comune di Roma e la Fondazione Poste Insieme Onlus hanno sottoscritto un Protocollo di Intesa per l’avvio del progetto La Casa di Leda (dalla sua ispiratrice Leda Colombini, fondatrice dell’Associazione A Roma). Viene quindi avviata la ristrutturazione dell’immobile, che vede all’opera anche un gruppo di detenuti dell’istituto penitenziario di Rebibbia, con fondi messi a disposizione dalla Fondazione Poste; Ikea provvede agli arredi, mentre il Comune di Roma si impegna a coprire i costi delle utenze. Nel luglio 2016 il bene viene assegnato alla Cooperativa Cecilia, capofila del progetto, di cui fanno parte l’Associazione Roma Insieme-Leda Colombini, la Cooperativa Pronto intervento disagio sociale e l’Associazione Ain Karim. Nel marzo del 2017 fanno il loro ingresso le prime due detenute, provenienti dall’Istituto femminile di Rebibbia e, ad oggi, le detenute sono quattro, due di origine balcanica, una egiziana e una italiana, con i loro quattro bambini. "La Casa di Leda è una doppia restituzione alla società, una villa sequestrata alla mafia diventa spazio di speranza per figli di detenute" così il Ministro della giustizia Andrea Orlando che, dopo aver ricordato Leda Colombini che "sarebbe oggi felice di questa importante inaugurazione e, sicuramente, ci spronerebbe a non fermarci", ha sintetizzato le "tre ragioni per cui questo progetto è giusto. Innanzitutto, un bambino che cresce in carcere è un potenziale delinquente, proprio come un carcere che non funziona produce recidiva, quindi insicurezza. Poi, c’è una ragione giuridica: un bimbo dietro le sbarre è un recluso senza sentenza, una cosa che non possiamo accettare. La terza ragione per cui questo progetto è giusto, è che non ci dobbiamo rassegnare al fatto che dietro una nascita ci sia racchiuso tutto il suo destino. Immaginiamo l’imbarazzo di raccontare questa esperienza ai compagni di scuola, ai colleghi di lavoro". Garante detenuti del Lazio in visita alla "Casa di Leda" Anastasia partecipa all’inaugurazione, con Ministro Orlando e Sindaca Raggi, della struttura protetta per mamme detenute con figli da zero a tre anni. Questo pomeriggio il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasia, partecipa all’inaugurazione, da parte del Ministro della Giustizia Andrea Orlando e alla presenza della Sindaca Virginia Raggi, della Casa di Leda, la struttura protetta per mamme detenute con figli da zero a tre anni aperta a Roma a fine marzo. Il centro, che sorge nel quartiere romano dell’Eur all’interno di un edificio confiscato alla criminalità organizzata, ospita attualmente quattro mamme - di cui tre straniere - e quattro bambini. Si tratta di detenute provenienti dal reparto femminile del carcere di Rebibbia, unico istituto penitenziario del Lazio a essere dotato di un nido. Per ciascuna delle detenute che risiedono all’interno del centro viene elaborato un progetto educativo individuale, sotto il coordinamento tecnico di uno psicoterapeuta, mentre per i bambini è prevista l’iscrizione al nido o alla scuola materna e l’assegnazione del pediatra. La struttura - primo progetto in Italia a dare concreta attuazione alla legge 62 del 2011 in materia di valorizzazione del rapporto tra detenuti madri e figli minori - è dedicata alla memoria di Leda Colombini e delle sue battaglie in difesa dei diritti dei bambini costretti dalla nascita a vivere in carcere. "L’apertura della Casa di Leda" - commenta il Garante Stefano Anastasia - è una notizia che ho accolto con grande soddisfazione. Si tratta certamente di una prima risposta al problema della impropria detenzione di bambini e bambine all’interno delle istituzioni penitenziarie, una soluzione che assicura loro condizioni di vita più adeguate ad un sano e naturale sviluppo psico-fisico. Poi, per le madri, la struttura romana rappresenta uno strumento importante per sostenerne il percorso di reinserimento, grazie alla possibilità di esercitare a pieno la funzione genitoriale". Anastasia sottolinea ancora che il progetto legato all’apertura della Casa di Leda "merita di essere ulteriormente valorizzato proprio nell’ottica di garantire un vero e completo rapporto genitoriale e di permettere ai bambini di crescere in spazi senza sbarre. È necessario quindi sostenere l’azione della magistratura e degli operatori penitenziari affinché si scelga con fiducia e giusto coraggio questa strada alternativa al carcere per le madri di figli piccoli o piccolissimi. Alla Regione e agli enti locali la responsabilità di individuare ulteriori strutture che, sull’esempio della Casa di Leda, possano effettivamente svuotare il nido di Rebibbia". Enna: stipulato protocollo tra Asp ed istituti penitenziari per la prevenzione dei suicidi telenicosia.it, 12 luglio 2017 Il direttore generale dell’Asp, Giovanna Fidelio, il direttore dell’Istituto Penitenziario di Enna, Letizia Belelli, il direttore dell’Istituto Penitenziario di Piazza Armerina, Gabriella Di Franco, alla presenza del direttore sanitario, Emanuele Cassarà, e del direttore dell’Unità Operativa Complessa Salute Mentale, Giuseppe Cuccì, hanno sottoscritto in data 10 luglio il protocollo per la prevenzione del rischio suicidario negli Istituti Penitenziari di Enna e Piazza Armerina. "Lo scopo del Protocollo d’Intesa - si legge nel documento - è quello di disciplinare in maniera condivisa ed integrata le modalità operative che gli operatori degli Istituti Penitenziari (Sanitari e dell’Amministrazione Penitenziaria) dovranno adottare per un’adeguata prevenzione dell’azione suicidaria e la gestione del disagio psichico della popolazione detenuta". Alla realizzazione dei succitati obiettivi concorrono molteplici fattori: la scelta dell’allocazione più confacente ai bisogni del detenuto, la riduzione dell’impatto con la realtà carceraria, l’osservazione diretta e congiunta del detenuto da parte di tutti gli operatori, l’approfondimento diagnostico, la richiesta di cure, la progettazione e attivazione di un piano di intervento condiviso sul detenuto portatore di disagio psichico o a rischio suicidario". La recente normativa inerente il passaggio delle competenze dalla sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, avvenuto per la Regione Sicilia a decorrere dal 5 febbraio 2016, prevede tra gli obiettivi di salute "la prevenzione dei suicidi e dei tentativi di suicidio, attraverso l’individuazione dei fattori di rischio", e stabilisce espressamente che i presidi sanitari presenti negli istituti penitenziari e servizi minorili debbano adottare procedure che riducano il più possibile gli effetti traumatici della privazione della libertà mettendo in atto gli interventi necessari a prevenire atti di autolesionismo. Inoltre, particolare importanza viene data alla promozione di corsi di "care givers" o "peer supporters", per formare detenuti con competenze adeguate per lo svolgimento di interventi secondo il modello del care giver familiare, anche per l’assistenza ai detenuti che presentino una condizione di disagio psichico. Tra gli interventi, già avviati, ci sono la valutazione dei livelli di rischio suicidario, l’attivazione dello staff "casi critici" e la gestione di tali eventi "tenuto conto - si legge nel documento sottoscritto - che l’Istituto di Pena è luogo in cui è significativa la percentuale di persone detenute portatrici di disagio psichico (storie di precedenti comportamenti suicidari, di disturbi mentali non acclarati, di problemi di abuso di sostanze, di isolamento sociale ecc.), spesso preesistente e poi slatentizzato dal processo di istituzionalizzazione coatta che agisce come elemento stressogeno soprattutto in soggetti vulnerabili". Bollate (Mi): il diploma fa rima con riscatto, missione compiuta per cinque detenuti di Roberta Rampini Il Giorno, 12 luglio 2017 Per Sandro, 64 anni, si tratta del secondo diploma "dietro le sbarre". Il primo a indirizzo commerciale lo ha conseguito nel carcere di Busto Arsizio. Ora per lui anche quello nel settore enogastronomia e cucina, preso dopo cinque anni di studio nella sezione della scuola alberghiera Paolo Frisi aperta all’interno del carcere di Bollate e l’esame di maturità che ha fatto nelle scorse settimane. E adesso? "Nel carcere di Opera mi ero iscritto a un corso universitario - racconta il detenuto, poi per problemi burocratici non sono riuscito a frequentarlo. Sfrutto la detenzione per migliorare le mie conoscenze, adesso sto leggendo dei libri di sociologia, una materia che mi piace molto, anche se non riesco più a memorizzare le nozioni come una volta". Sandro è uno dei detenuti del carcere di Bollate che ha conseguito l’attestato di maturità grazie al progetto avviato cinque anni dall’istituto professionale Frisi di Quarto Oggiaro, dalla II Casa di Reclusione di Milano-Bollate e dalla Cooperativa "Abc La sapienza in Tavola", prima con il reperimento di fondi privati e poi entrato ufficialmente tra le attività del Ministero dell’Istruzione. Un’ala del carcere è diventata una vera e propria succursale della scuola alberghiera, con cucina, sala ricevimento e un’aula di studio. Lezioni al mattino, lo studio al pomeriggio e poi gli stage con la cooperativa, catering e il lavoro dietro ai fornelli. Ieri pomeriggio, alla presenza del direttore del carcere Massimo Parisi e della presidente della cooperativa, Silvia Polleri, si è svolta la "festa del diploma" per i quattro detenuti-studenti e un quinto detenuto, che ha iniziato la scuola in carcere e l’ha finita al Frisi grazie all’articolo 21: "È stata un’esperienza bellissima che mi ha rimesso in gioco nei confronti della società - racconta Alessandro Palmieri, 43 anni -, ho iniziato qui a Bollate e finito fuori, ora ho un diploma e una professione che mi piace. Ho preso 60/100 e sono contentissimo, non ci credevo quando me lo hanno detto". La festa del diploma è stata anche l’occasione per consegnare le pagelle agli altri detenuti, circa 60, che frequentano le altre classi del Frisi: "Fare le cose in carcere non è sempre facile - hanno dichiarato i docenti Nicola Morea e Guido Villa -, questa maturità è dunque qualcosa di speciale, i detenuti che hanno portato a termine gli studi sono un esempio per gli altri. Ci abbiamo creduto fin dall’inizio e oggi possiamo dire che si è realizzato un sogno". Antonio, 43 anni, per esempio, si è diplomato discutendo davanti alla commissione ministeriale una tesina su Futurismo e alimenti innovativi: "Avevo frequentato la scuola alberghiera da adolescente, fuori dal carcere, ma non l’avevo mai terminata - racconta Antonio. Quando mi hanno parlato della possibilità di riprendere gli studi qui non ci ho pensato due volte. È stata una grande esperienza anche da un punto di vista umano per il rapporto con i docenti. Devo scontare ancora due anni, ma quando esco vorrei esercitare questa professione in Italia o all’estero". Diplomati del Frisi, ma non solo. Sono complessivamente 200 i detenuti del carcere che studiano, dai corsi di alfabetizzazione, inglese e informatica, alla scuola media. Ma ci sono anche corsi avviati in questi anni dalla Statale e dalla Bicocca di Milano. Livorno: il vino dei carcerati sull’isola di Gorgona di Aldo Fresia Panorama, 12 luglio 2017 Frescobaldi, blasonata cantina toscana, aiuta coloro che stanno scontando una pena a produrre un ottimo vino bianco. Ogni anno i detenuti che stanno scontando la loro pena nel carcere dell’isola di Gorgona, al largo delle coste livornesi, si riuniscono per stappare bottiglie di ottimo vino. Si tratta di un’eccezione alle norme penitenziarie, che regolano in modo piuttosto rigido il consumo di alcolici: la ragione di questo strappo alla regola sta nel fatto che quel vino l’hanno prodotto loro, lavorando nelle vigne dell’isola. Nel corso dei mesi precedenti, ad aiutarli perché il prodotto finale fosse di buon livello (e lo è), si sono alternati sull’isola gli agronomi di Frescobaldi, blasonata cantina toscana. Questa è la storia di come è nato e si è sviluppato un interessante progetto sociale. I primi prigionieri arrivano sull’isola di Gorgona già nel 1869, anno in cui apre la colonia penale. La distanza dalla terraferma (circa 37 chilometri) consente di realizzare una sorta di carcere a cielo aperto, nel quale i detenuti lavorano i terreni rocciosi e scoscesi per realizzare coltivazioni di vario tipo. Lo scopo, considerato che gli ospiti del penitenziario sono a fine pena, è di dare loro le competenze pratiche per reinserirsi nel mondo del lavoro. Tra le coltivazioni ci sono anche alcuni vitigni, piantati dall’Università di Pisa nell’ambito di un progetto che prevedeva di coltivare un po’ di tutto, senza troppe distinzioni. Le viti producono però un vinello senza pretese, in parte perché non tutte sono adatte al clima di Gorgona, in parte perché accusano la mancanza di una guida esperta. Ed è qui che entrano in scena i Marchesi Frescobaldi, che a onor del vero (lo riconoscono loro stessi) hanno trovato un terreno già favorevole al loro progetto grazie all’azione di un detenuto contadino, che aveva selezionato le uve migliori per quel territorio eliminando le altre. L’idea di Frescobaldi è di aiutare a formare personale qualificato e, contestualmente, di far compiere un salto di qualità alla produzione vinicola isolana. L’effetto tutt’altro che secondario è che in alcuni casi gli ex detenuti trovano poi un impiego presso case vinicole di tutta Italia, e così facendo possono ricominciare con uno stipendio stabile, cosa che riduce enormemente il rischio di tornare a delinquere. Anche per questa ragione, quando le esigenze della vigna richiedono un impegno in conflitto con la routine carceraria (per esempio lavorare alle sei del mattino), la direzione dell’istituto di pena concede permessi ed eccezioni. Complice l’impegno dei rappresentanti dello stato e quello dei detenuti, il lavoro di Frescobaldi si rivela piuttosto facile. La parte difficile è data dall’imprevedibilità del mare: si va e si viene da Gorgona solo se le acque lo consentono e capita di prendere il largo da Livorno e poi dover invertire la rotta perché il tempo sta volgendo al brutto. Le bizze della natura sono però il pane quotidiano di chi fa vino, dunque anche in questo caso niente di insormontabile: così, nel 2012 giunge l’esordio ufficiale del vino bianco Gorgona. È ottenuto da un blend di Vermentino e Ansonica, coltivati in un piccolo vigneto di circa un ettaro posizionato nell’unica zona dell’isola riparata dai forti venti marini. Si tratta di un vino molto equilibrato, lungo, complesso, con una bella mineralità e fortemente caratterizzato dalla freschezza notturna e dalle brezze saline tipiche di Gorgona. Secondo gli esperti, dal 2015 in avanti è stata trovata la giusta interpretazione delle viti e si può serenamente parlare di bottiglie importanti. Purtroppo sono in numero limitato, da 2700 a 4000 a seconda dell’annata, ma rappresentano una chicca che vale la pena di scoprire. Tra l’altro, l’accoppiata Frescobaldi/Gorgona imbottiglia anche un rosso fatto con Sangiovese e Vermentino Nero, prodotto per ora in sole 600 bottiglie: non si esprime ancora al meglio, ma ha le carte in regola per fare grandi cose nel futuro. Roma: nasce "Fidelio", il progetto che porta la musica tra i detenuti Adnkronos, 12 luglio 2017 I musicisti dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia insegnano il linguaggio musicale e le sue regole ai detenuti delle case circondariali di Rebibbia, a Roma, con laboratori teorici e pratici dedicati in particolare al canto corale. Si chiama "Fidelio" il progetto volto a promuovere la musica come strumento formativo utile alla rieducazione e al reinserimento sociale delle persone detenute, realizzato con Cassa depositi e prestiti e il patrocinio del ministero della Giustizia, con il presupposto che la musica possa essere utilizzata come uno dei mezzi di recupero per individui che vivono in una situazione quotidiana di isolamento. Il nome del progetto deriva dal titolo dell’unica opera scritta di Beethoven, "Fidelio" appunto, che racconta la storia di un prigioniero politico liberato dall’amore e grazie al coraggio della moglie. Per i detenuti di Rebibbia è previsto un percorso di alfabetizzazione musicale dedicato alle tecniche di respirazione e emissione vocale, alle pratiche di intonazione, vocalizzazione e ai primi elementi di lettura delle note ed elementi ritmici. È prevista una estensione del progetto anche per i ragazzi dell’istituto penale per minorenni Casal del Marmo, a Roma. Il sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore, presentando "Fidelio", ha detto che "quello della cultura è un volano importantissimo per la rieducazione delle persone detenute. Per noi era un dovere, da parte dell’Accademia di Santa Cecilia è stato un regalo. Si tratta di un lavoro di squadra che potrà essere esportato in altre realtà". Secondo il sottosegretario ai Beni culturali Ilaria Borletti Buitoni, questo progetto "può aprire un varco di luce nelle vite dei detenuti perché la musica è forse l’arte che più di tutte riesce a aprire il cuore e la mente delle persone. In più la musica ha regole molto precise, e ferree nella loro interpretazione: il suo studio è dunque un bene straordinario per i detenuti". Alla presentazione di "Fidelio" hanno partecipato anche Michele dall’Ongaro, presidente-sovrintendente dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Elisabetta Cesqui, capo gabinetto del ministero Giustizia, Roberto Piscitello, direttore generale trattamento e detenuti del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Ida Del Grosso, direttrice della Casa circondariale femminile di Rebibbia, Rossella Santoro, direttrice Casa maschile, Gabriele Lucentini di Cassa Depositi e Prestiti. Volterra (Pi): la Compagnia della Fortezza compie trent’anni quinewsvolterra.it, 12 luglio 2017 Per l’occasione i detenuti-attori si cimenteranno in uno spettacolo ispirato a Borges in scena a fine luglio. Trent’anni di teatro in carcere: l’esperienza della compagnia della Fortezza a Volterra si appresta a festeggiare, nel 2018, il trentennale della fortunata esperienza diretta da Armando Punzo. Dopo la prima rappresentazione, con "La Gatta Cenerentola" di Roberto De Simone, messa in scena da 15 attori-detenuti, il cortile del carcere toscano ha accolto molti altri spettacoli fino a cimentarsi con il progetto Hybris, uno speciale biennale che vedrà il debutto con lo spettacolo "Le parole lievi. Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato", ispirato dall’opera di Jorge Luis Borges in scena dal 25 al 29 luglio alle 16. Per la sua realizzazione Punzo è già da tempo al lavoro con i detenuti-attori. Il programma è stato presentato oggi nella sede della Regione Toscana che da sempre sostiene l’iniziativa culturale. Foggia: nel carcere di San Severo si fa yoga foggiacittaaperta.it, 12 luglio 2017 Un progetto innovativo voluto dalla direttrice della Casa Circondariale. Un valido strumento per migliorare le condizioni psico-fisiche dei detenuti: è questa la motivazione che, sulla base di altre esperienze realizzate in penitenziari italiani, avrebbe spinto la direttrice della Casa Circondariale, Patrizia Andrianello, in collaborazione con la psicologa del penitenziario, Anna Bellantuono, ad attivare questo progetto innovativo all’interno del Carcere di San Severo. Un aiuto per persone che vivono in regime di detenzione. "L’antica scienza dello Yoga, infatti - si legge nel comunicato ufficiale - attraverso le sue tecniche e pratiche, aiuta a ristabilire l’equilibrio fisico e mentale e contribuisce a sviluppare maggiore consapevolezza. Lo Yoga è flessibilità fisica, ma prima ancora è flessibilità mentale; per questo motivo - si legge ancora - proposto con linguaggi e modalità adeguati al contesto, risulta particolarmente di aiuto per persone che vivono in regime di detenzione, con enormi tensioni quotidiane". Benessere spirituale e fisico. Riduzione dello stress, maggiore capacità di mantenere la calma, miglioramento della salute fisica e della sopportazione delle condizioni carcerarie, sviluppo della capacità di auto-confortarsi, maggiore fiducia in se stessi, miglioramento dell’intelligenza e della creatività e migliore apprezzamento degli altri. Sarebbero questi, in sostanza, i risultati già ottenuti in altri istituti italiani e stranieri nei quali si sarebbero attivati corsi specifici di yoga, basati su esercizi di respirazione, meditazione, studio e discussione dei suoi aspetti filosofici. "Stati d’animo che favoriscono una migliore gestione dell’aggressività - sostengono da San Severo - una riduzione del malumore e una maggiore autostima, alleviando le più diffuse algie come mal di schiena, cervicalgie e problemi posturali". Progetto partito a giugno. Ad ogni modo, l’associazione di promozione sociale "L’Albero della Grande Vita", operante nell’ambito delle Scienze Olistiche ed attiva da oltre 15 anni anche su San Severo, ha accolto con entusiasmo la proposta della direttrice e della psicologa del penitenziario di San Severo e così, già da giugno, ha avviato a titolo gratuito un corso di yoga nella struttura detentiva. Il presidente dell’associazione e maestro di Yoga, Antonio Solimando, titolare, insieme alla tirocinante Aurora Clima, del corso all’interno dell’istituto sanseverese, dopo i primi incontri ha riscontrato che l’entusiasmo, la partecipazione e l’impegno hanno spazzato via qualunque pregiudizio di sorta. "Molti di questi ragazzi - spiega il maestro Solimando - presto torneranno in società, ed è bello vederli riflettere, meditare e lavorare assiduamente con gli strumenti che lo yoga offre loro, con la determinazione di chi cerca un riscatto. È emozionante vedere accendersi nei loro occhi una luce che ha il sapore della speranza e della voglia di farcela". Gli eterni interessi nazionali e l’equilibrio necessario di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 12 luglio 2017 Chi lo avrebbe mai detto? Macron, presidente della Francia, vuole fare, sulla questione dei migranti, l’interesse della Francia anziché dell’Italia. Era lecito, quando Macron venne eletto, rallegrarsi per la sconfitta di Le Pen. Ma molti commenti che abbiamo letto in Italia sul presidente "europeo", erano fuori misura, rivelavano l’infantilismo politico dei loro autori. Gli "europeisti macroniani", però, non sono i soli afflitti da tale malattia. I loro avversari, i "sovranisti", non sono da meno. Mentre i primi ignorano l’importanza degli interessi nazionali, i secondi ne offrono un’immagine caricaturale, pensano che le nazioni siano le stesse dell’Ottocento, mondi a tenuta quasi stagna, ove basta chiudersi dentro e buttare via la chiave per vivere prosperi e felici (per inciso, non era vero neppure nell’Ottocento). Il cosmopolitismo, che ignora la forza degli interessi nazionali, e il sovranismo, che li finge diversi da ciò che sono, sono due diverse versione dell’incapacità di pensare con realismo il mondo in cui viviamo. Spiegare la forza degli orientamenti cosmopoliti in Italia è facile. La presenza del papato, una unificazione nazionale recente, la sconfitta nella Seconda guerra mondiale (a cui ci condusse il nazionalismo muscolare dell’età fascista), il perpetuarsi di divisioni (fra Stato e Chiesa, fra Nord e Sud) che non hanno mai permesso a molti italiani di sviluppare un senso di appartenenza collettiva, sono all’origine della sindrome cosmopolita, di quelli che si credono "cittadini del mondo" anziché italiani. Per costoro non solo gli interessi nazionali non esistono o, se esistono, basterebbe la buona volontà per neutralizzarli, ma è anche illegittimo evocarli, è segno di grettezza morale, forse una manifestazione di cripto-fascismo. Incapaci di capire che un mondo diviso in una pluralità di Stati e nazionalità implica necessariamente la presenza di altrettanti interessi, a volte fra loro compatibili e a volte no, i cosmopoliti sono anche inconsapevoli di come funzioni una democrazia. La democrazia è quel regime in cui se la maggioranza degli elettori vuole intensamente una cosa, Macron o chi per lui, non gliela può negare. Questa inconsapevolezza fa dei cosmopoliti una "élite senza popolo". I sovranisti sono afflitti dalla sindrome opposta. Credono di sapere cosa sia l’interesse nazionale. Lo credono sinonimo di autarchia: niente euro, niente Europa, niente migranti, niente più interdipendenza. Nella variante lepenista, questo orientamento si sposa al tradizionale nazionalismo francese. In Italia, ove il nazionalismo è debole, il sovranismo è solo desiderio di sicurezza, l’illusione di acquisirla chiudendo le frontiere, anche quelle economiche. Se i cosmopoliti pensano che la democrazia sia un fastidioso inciampo che impedisce al cosmopolitismo di trionfare, per i sovranisti, all’opposto, la democrazia è un totem: ciò che vuole la maggioranza deve essere attuato senza passare attraverso filtri e mediazioni. Per i sovranisti il "popolo" ha sempre ragione. Non è compito delle élite distinguere, a fronte degli elettori, che cosa sia ragionevole e possibile e cosa sia invece irragionevole e impossibile. Le élite, ammesso che possano ancora essere definite tali, sono soltanto i portavoce dei desiderata delle maggioranze. I cosmopoliti sono una élite senza popolo, i sovranisti sono popolo senza élite. Ma, qualcuno potrebbe replicare, una cosa è il cosmopolitismo, un’altra l’europeismo, anche quello dei macro-entusiasti. Non è cosi: l’europeismo acritico, che nega l’esistenza di interessi nazionali in competizione in Europa, è solo una variante del cosmopolitismo. È una ricostruzione falsa della storia dell’Europa quella che la divide in due periodi: la fase di successo (dai trattati di Roma in poi) in cui l’interesse europeo prevaleva sugli interessi nazionali e la fase attuale, della crisi, quella in cui comandano i "gretti" interessi nazionali. Bugie. Gli interessi nazionali hanno sempre dominato l’Europa. La differenza è che un tempo i diversi interessi si sostenevano (quasi sempre) a vicenda e oggi sono molto spesso in conflitto. Il cosmopolitismo (anche nella variante dell’europeismoacritico) e il sovranismo sono orientamenti ideologici che impediscono di valutare realisticamente il mondo in cui viviamo. Il primo non capisce che se si nega l’importanza degli interessi nazionali si finisce per favorire l’interesse di altri a scapito di quello del proprio Paese. Il secondo non capisce che difendere l’interesse nazionale oggi è possibile solo rifiutando la tentazione autarchica, sfruttando le opportunità che offre, ma anche i vincoli che impone, un mondo interdipendente. In Europa si tratta di cercare punti di equilibrio fra la tutela dell’interesse nazionale e gli interessi altrui. Cosmopoliti/europeisti acritici e sovranisti, con la loro presenza, indeboliscono la nostra posizione contrattuale in Europa. Quando sui tavoli europei bisognerà discutere dei futuri assetti - e anche valutare proposte che, come quella di Renzi, puntano a strappare vantaggi per l’Italia - bisognerà sollecitare da coloro che prendono la parola più realismo e sobrietà. La strada per il disarmo nucleare resta lunga ma l’Italia ratifichi di Giulio Marcon Il Manifesto, 12 luglio 2017 Il trattato appena approvato da 122 paesi delle Nazioni Unite per la messa al bando delle armi nucleari è sicuramente un importante impulso morale e giuridico (anche per la straordinaria mobilitazione della società civile) nella direzione del disarmo nucleare. Va ricordato che 70 paesi non hanno partecipato ai negoziati e tra questi tutte le potenze nucleari e i paesi della Nato (con l’eccezione dell’Olanda, che però poi alla fine ha votato contro). Se almeno 50 paesi, a partire dal prossimo 20 settembre, ratificassero il trattato, allora entrerà in vigore. E se il trattato entrasse in vigore quali effetti avrà? Difficile dirlo. Purtroppo non c’è da essere ottimisti. Il trattato, come quello sulla non proliferazione del 1970, non è detto che produca risultati concreti. Quante risoluzioni del Consiglio di sicurezza (a partire da quella che impone ad Israele di ritirarsi dai territori occupati nel 1967) e trattati delle Nazioni Unite sono rimaste disattesi e inapplicati? Dal 1970 (quando entrò in vigore il Trattato di non proliferazione-Tnp), gli ordigni nucleari sono passati da 30mila a 70mila. E negli anni ‘80 ci fu una clamorosa corsa al riarmo nucleare. Paradossalmente il trattato di non proliferazione coincise con l’inizio della più clamorosa produzione di armi nucleari negli ultimi 50 anni. Un altro esempio è quello del trattato Onu sul commercio delle armi entrato in vigore tre anni fa e che non ha impedito all’Italia di violare la legge 185 e di vendere armi all’Arabia Saudita (in guerra in Yemen) e al Qatar ("sostenitore del terrorismo" per Trump). Vedremo cosa farà l’Italia, che non ha partecipato ai negoziati. Il gruppo di Sinistra Italiana-Possibile chiederà nei prossimi giorni al governo italiano come intenda procedere. Intanto si è adeguata ai voleri della Nato. In questi decenni, poi, i governi che si sono succeduti si sono sempre rifiutati di fornirci qualsivoglia informazione sugli ordigni nucleari presenti in Italia. Lo sanno tutti che ci sono missili nucleari nei depositi di Aviano e di Ghedi, pronti per essere montati sui caccia americani, ma tutti negano. È un segreto militare, dicono. In realtà è un segreto di Pulcinella. Tra l’altro a fine luglio ci saranno delle mozioni parlamentari alla Camera e al Senato che chiedono al governo di non essere disponibile ad installare sugli F35 i "mini ordigni" nucleari detti B61. Vediamo cosa risponderà la ministra Pinotti. Da un punto di vista morale, politico, culturale, giuridico l’accordo raggiunto dai 122 paesi è un fatto di grande rilevanza. Un successo della società civile. Dal punto di vista concreto, chissà. Figuriamoci se le potenze nucleari si faranno condizionare da questo trattato, come non si sono fatte influenzare dal Tnp. Da Bush senior (e anche da Clinton) in poi le Nazioni Unite sono state messe fuori gioco, emarginate a favore dell’unilateralismo, della Nato e del solito instabile gioco delle grandi potenze. Norberto Bobbio, evocando l’inesistenza di un ruolo dell’Onu negli anni della guerra fredda, diede ad un suo libro di saggi sul disarmo il titolo Il terzo assente. Basterà questo trattato a fare dell’Onu un "terzo presente" tra le grandi potenze nucleari? Ce lo auguriamo. Ma quello di cui ci sarebbe bisogno è quella che Carlo Cassola (di cui ricorre il centenario della nascita) in un libretto del 1983 definì "rivoluzione disarmista": però concreta, fatta di smantellamento degli arsenali e di riduzione delle spese militari. Intanto chiediamo che l’Italia ratifichi e rispetti il trattato. E poi speriamo che dia l’impulso politico e morale alla "rivoluzione disarmista", di cui - a fronte di 1.700 miliardi di dollari spesi ogni anno in armi - il nostro pianeta avrebbe drammaticamente bisogno. "40 anni dopo la Basaglia resta una grande legge, ma in troppe Regioni non viene applicata" di Mauro Pianta La Stampa, 12 luglio 2017 Parla Franco Rotelli, allievo del padre della norma che portò all’abolizione dei manicomi: "Ecco come possiamo migliorare la 180". Giusto quarant’anni fa, nell’estate del 1977, Luciano Manzi, l’allora sindaco di Collegno - nel Torinese - in accordo con le istituzioni sanitarie territoriali, decise di far abbattere il primo pezzo del muro di cinta che circondava il manicomio (l’attuale parco della Certosa). Qualcosa di più di un atto simbolico, perché per la prima volta le persone con malattie mentali (o meglio: i casi meno complicati), riuscirono a guardare oltre quel muro. E poterono farlo, a loro volta, i cittadini. Fu uno dei primi passi verso quel movimento che portò, l’anno successivo, al varo della famosa legge n. 180 (che portava il nome del suo promotore, lo psichiatra Franco Basaglia) e alla conseguente abolizione degli ospedali psichiatrici. Strutture, val la pena di ricordarlo, in cui troppo spesso gli "ospiti" venivano sottoposti a pratiche violente e vessazioni di ogni genere. Con Franco Rotelli, allievo, collaboratore ed erede di Basaglia, oggi presidente della commissione regionale sanità in Friuli Venezia Giulia, prendendo le mosse da quel lontano anniversario abbiamo rievocato quella stagione e affrontato le problematiche della 180. Il nodo è sempre il medesimo, da quarant’anni: la legge aveva affidato alle Regioni l’attuazione dei provvedimenti in materia di salute mentale, ma si è generata una difformità di trattamento. Mentre alcune amministrazioni sono state tempestive ed efficaci nell’applicarla, altre - la maggioranza - decisamente no. Rotelli, nell’ambito di www.forumsalutementale.it, una "piazza" nata nel 2003 che raccoglie associazioni, medici, familiari e politici di ispirazione basagliana, ha partecipato alla messa a punto di un disegno di legge "per l’attuazione e lo sviluppo dei principi della 180". "Lo presenteremo all’inizio della prossima legislatura - dice Rotelli - e auspichiamo un ampio dibattito che ci aiuti a migliorarlo. Anche perché altri testi sulla stessa materia giacenti da tempo alla Camera non ci sembrano sufficientemente adeguati". Rotelli, partiamo dall’inizio: quando ha conosciuto Franco Basaglia? "Era il 1971, lo conobbi all’ospedale psichiatrico di Parma. Avevo letto delle cose su di lui, mi ero appena specializzato e abitavo da quelle parti. Dopo il suo arrivo tanti medici fuggivano terrorizzati da quell’ospedale, c’erano diversi posti liberi, venni assunto. L’anno successivo lavoravo a Trieste insieme a Franco" Qual è stata la grande rivoluzione che ha portato nella psichiatria? "Con Franco è cambiato tutto, c’è stato un rovesciamento di "paradigma". La malattia veniva messa tra parentesi, al primo posto c’era la persona con la sua dignità. E i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue esigenze. Da allora si stava di fronte a loro su un piano di parità". Ma gli avversari di Basaglia sostenevano che si muoveva sul piano delle ideologie e non della realtà. Per questo, dicevano, trascurò pesantemente l’aspetto della pericolosità dei malati… "Credo che il discorso andrebbe rovesciato: era la vecchia psichiatria che attribuiva un peso esagerato alla pericolosità per poter continuare a mantenere e giustificare il suo potere. Alla fine degli anni Sessanta nei manicomi c’erano 100mila persone. Dopo il 1978 non abbiamo avuto un aumento dei reati proporzionale rispetto a questo numero. La verità è un’altra: le persone sono pericolose quando le tratti male". "La libertà è terapeutica": era uno degli slogan in quegli anni. Lei ci crede ancora? "Ci credo, eccome. Solo che la libertà non possiamo darla per scontata. È una conquista quotidiana, non un regalo o una concessione". Cosa non funziona nella legge 180 del 1978? "È una grande legge, ma non è stata applicata del tutto. Nella maggior parte delle Regioni le cose sono state fatte poco e male con il risultato di servizi decisamente carenti in buona parte del Paese e un’enorme disparità fra i territori. Per troppe amministrazioni è stata vista solo come l’occasione per risparmiare soldi". In che modo il vostro disegno dei legge prevede di migliorarla? "Pensiamo innanzitutto a un rafforzamento dei servizi: i Centri di Salute mentale devono essere davvero aperti 24 ore su 24 e fornire risposte immediate. Per contro il Dipartimento di Salute Mentale, al quali i Centri fanno riferimento, non possono occuparsi della cura di un bacino di 500mila persone, ma limitarsi a un’area di 60/70mila unità. Questo, naturalmente, implica un discorso sulle coperture finanziarie: nella nostra proposta scriviamo che le risorse da destinare alla salute mentale, così da garantire prestazioni omogenee su tutto il territorio, devono costituire almeno il 5 per cento del Fondo sanitario nazionale (attualmente è impiegato il 3 per cento, ndr). Pensiamo, giusto per fare un confronto, che in Paesi come Francia e Regno Unito la percentuale è del 12 per cento. Nel nostro testo insistiamo anche su alcuni punti delicati: lo stop alla "contenzione materiale", persone che di fatto vengono ancora legate ai letti. Si tratta di un’attività illegittima cui si fa troppo spesso ricorso, magari in modo sommerso e strisciante. Vogliamo un Tso (Trattamento Sanitario Obbligatorio) più rispettoso del cittadino, con la nomina di un garante da parte del giudice tutelare. E poi non soldi generici per le prestazioni, ma sempre più progetti individuali integrati per la singola persona. Insomma, ci piacerebbe riuscire a tradurre in buone pratiche, come già avviene in alcune, purtroppo poche, regioni, i principi della legge 180". Ius soli, la legge che rischia di saltare anche con la fiducia di Paolo Delgado Il Dubbio, 12 luglio 2017 Il retroscena: scontro Governo-Pd sull’approvazione. A Palazzo Madama potrebbero mancare i voti e questo mette in pericolo anche l’esecutivo. si punta dunque alla prossima legislatura. La voce che circola ovunque nei palazzi, anche se nessuna dichiarazione ufficiale la ha sin qui accreditata, è che la sofferta legge sullo ius soli potrebbe slittare a settembre. L’esitazione del governo, che nella seduta del cdm di lunedì ha concesso la fiducia su banche e vaccini ma ha cancellato dalla lista proprio la legge più spinosa, quella sulla cittadinanza, è sembrata comunque una implicita conferma del possibile slittamento e l’allarme della senatrice dell’Mdp Doris Lo Moro, che intravede il rischio dell’affossamento totale proprio in seguito allo slittamento, è ulteriore elemento indicativo. In questo caso, però, il problema non è la cattiva volontà del Pd, che anzi insiste per l’approvazione "se necessario anche con la fiducia", come ha ripetuto ieri il presidente del partito Orfini. Il problema, ben più spinoso, è che a palazzo Madama i voti rischiano di non esserci, con o senza fiducia. I centristi, sia quelli di Ap, apertamente interni alla maggioranza, sia quelli verdiniani di Ala, formalmente esterni ma di solito pronti a correre in soccorso se necessario, sia quelli del Gal, che al senato sono ormai una specie di Gruppo Misto orientato a destra, sono di ora in ora più orientati a bocciare la legge costi che quello che costi. La pattuglia della Svp, che al Senato sarebbe determinante già di per sé, ha deciso di sfilarsi a propria volta. Anche mettendo nel conto l’arrivo di alcuni voti in più per l’occasione, provenienti dal Misto o quell’area magmatica che ormai al Senato è più che ampia, e anche consi- derando la probabilità che molti senatori contrari alla legge preferiranno disertare il voto piuttosto che rischiare la crisi di governo a spiagge aperte, sempre di un voto da roulette russa si tratterebbe. Il Pd paga qui lo scotto di un gioco al rinvio che ha finito per far lievitare la minaccia. Se le urne non fossero dietro l’angolo, i centristi avrebbero senza dubbio evitato un voto di sfiducia che potrebbe portarsi dietro la fine della legislatura e le temutissime elezioni in autunno. Ma a campagna elettorale di fatto già iniziata, il prezzo da pagare per salvare il governo ingoiando lo ius soli potrebbe rivelarsi per loro un pessimo affare in termini di voti e consensi. La nuova impennata dell’emergenza immigrazione ha completato l’opera: lo ius soli era un terreno minato comunque, solo che ora gli ordigni sono diventati nucleari. Proprio questa, del resto, è la principale ragione che rende la fiducia obbligatoria. Affrontare l’aula con decine di migliaia di emendamenti, infatti, vorrebbe dire restare sulla graticola per un tempo infinito. Certo, arriverebbe a grandi salti in soccorso il canguro, ma anche così resterebbero comunque un migliaio di emendamenti: sufficiente a tenere il Senato impegnato per settimane. Come tutti i sondaggi confermano, per il Pd sarebbe una via crucis. Non a caso, la parola d’ordine del Pd era proprio quella di un passaggio mordi e fuggi, al massimo un paio di giorni, per evitare di restare per un mese esposti alla propaganda degli avversari. Ma senza la fiducia quella corsa è impossibile, e con la fiducia l’eventualità di una disastrosa sconfitta in aula è concreta. Ma se i numeri sono questi, il rinvio a settembre è insensato. Una volta passata l’estate anche la remora del voler evitare lo scioglimento anticipato anche di poco della legislatura verrà meno. Le elezioni, in compenso, saranno più vicine e l’obbligo di radicalizzare le proprie posizioni diventerà di conseguenza più stringente. Si dice "settembre" ma si intende quindi "nella prossima legislatura", nella quale però non è affatto detto che ci sarà una maggioranza favorevole allo ius soli. De soli quattro partiti che al momento sono certi di entrare in Parlamento, tre sono infatti contrari. Di qui a venerdì Renzi e Gentiloni dovranno prendere una decisione, resa però più difficile dal fatto che per Renzi, dopo essersi spinto così avanti, la retromarcia è proibita. Ad azionare il semaforo rosso dovrebbe essere il governo, almeno formalmente contro il parere del primo partito di maggioranza. Migranti. Frontex apre alla revisione dell’operazione Triton La Repubblica, 12 luglio 2017 Nella riunione tenuta a Varsavia l’Italia ha chiesto nuovamente l’apertura dei porti di altri Stati Ue. Sarà creato un gruppo di lavoro per le modifiche da apportare. L’agenzia si impegna a un maggior sostegno al nostro Paese. Viminale: "Un altro passo avanti". Sarà rivista l’operazione Triton ed i Paesi Ue dovranno far fronte ai loro impegni di rafforzarla. Lo comunica il direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, dopo aver ricevuto nella sede di Varsavia la delegazione italiana guidata dal direttore della Polizia delle frontiere, Giovanni Pinto. L’Italia torna a chiedere l’apertura dei porti di altri Stati membri dell’Ue di fronte all’emergenza migranti. A Varsavia "è stato concordato che sarà stabilito senza ritardi un gruppo di lavoro per identificare ulteriormente ed elaborare cosa deve essere rivisto nel concetto operativo di Triton alla luce delle decisioni già raggiunte a livello politico" a Tallinn sul piano della Commissione Ue. Verrà quindi redatto un "nuovo piano operativo" che sarà successivamente sottoposto ai Paesi dell’Unione. Soddisfatto il Viminale che aveva chiesto con urgenza l’incontro ed oggi parla di "un altro passo avanti". Il ministro dell’Interno, Marco Minniti, nei giorni scorsi aveva spiegato che "una sola mossa" non può risolvere il problema. E quindi, pur senza cantare vittoria, ha accolto con soddisfazione l’esito della missione di Pinto a Varsavia. Si va, osservano al Viminale, verso la rinegoziazione dell’operazione Triton, "così come avevamo auspicato". Ma la strategia di Minniti di "suonare più tasti" non si ferma: domani sarà a Berlino e giovedì a Tripoli per incontrare i sindaci libici. L’Italia registra l’appoggio del ministro greco per le migrazioni Ioannis Mouzalas, secondo cui le richieste di Roma all’Europa "sono giuste: un problema europeo ed internazionale non può avere una soluzione nazionale". Mentre una bacchettata arriva da Praga. La Repubblica Ceca rimprovera all’Italia di non aver permesso i colloqui di sicurezza con dieci possibili candidati alla relocation e di non aver risposto ai successivi tentativi di contatto da parte ceca. Nell’incontro di Varsavia, chiesto dal nostro Paese, Leggeri ha chiesto agli Stati europei di "rispettare i loro impegni di rafforzare l’operazione Triton". "Tutti i partecipanti hanno riconosciuto che l’Italia sta affrontando una pressione straordinaria e ha bisogno di un sostegno aggiuntivo da Ue e Frontex". L’Italia, si legge ancora, "ha indicato che in caso di flussi massicci di migranti vorrebbe poterli sbarcare nei porti di altri Paesi". Il gruppo di lavoro dovrà "ulteriormente valutare la situazione dopo la riunione di oggi e mettere a punto un nuovo piano operativo. Successivamente, gli Stati partecipanti saranno consultati". Quanto al codice di condotta per le Ong che l’Italia sta elaborando, una volta che sarà adottato verrà valutato dallo stesso gruppo di lavoro per "considerare quanto impatterebbe sulle attività operative di Frontex". L’agenzia per le frontiere ha già messo a disposizione per assistere l’Italia nella gestione dell’immigrazione circa 400 funzionari. L’operazione Triton comprende 12 navi, tre aerei e 4 elicotteri. Frontex si è impegnata ad aumentare la propria presenza negli hotspot in Italia "per aiutare le autorità nazionali ad accelerare il processo di identificazione e registrazione dei migranti, così come le procedure per gestire le richieste di asilo. L’agenzia aumenterà anche il suo ruolo nella lotta contro le reti di sfruttamento dei migranti". Frontex è infine "pronta ad espandere il suo sostegno all’Italia nei rimpatri" dei migranti che non hanno diritto alla protezione internazionale. "Diversi Paesi si sono detti pronti a partecipare a operazioni di rimpatrio rapido. Ma questo richiederebbe una maggiore capacità di detenzione per quei migranti che devono essere rimpatriati prima dei loro voli di rientro nella patria di origine". Droghe. Condannato per 3 piante di cannabis, ora chiede la grazia a Mattarella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 luglio 2017 L’uomo le coltivava per uso terapeutico. Assolto in primo grado, ma non in appello e in cassazione. Surreale la motivazione contenuta nel ricorso della procura: "l’imputato poteva procurarsi l’erba sul mercato, senza necessità di produrla egli stesso". Se avesse fatto ricorso al mercato illegale per procurarsi la marijuana a fine terapeutico, anziché l’auto coltivazione, non sarebbe stato condannato. Una vicenda giudiziaria surreale nell’epoca del proibizionismo. Lo scorso aprile, la Cassazione ha confermato la condanna a un sessantatreenne reo di aver coltivato tre piante di canapa per uso terapeutico. Nel frattempo l’uomo, che dovrebbe curarsi con la cannabis per l’inefficacia delle terapie convenzionali, è in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza: o le misure alternative, oppure il carcere. L’avvocato difensore, Fabio Valcanover del foro di Trento, quindi si è rivolto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per chiederne la grazia. L’uomo è affetto da sieropositività, soffre di diabete mellito in trattamento insulinico, di epatite cronica da Hcv evoluta in cirrosi e di instabilità vescicale e di rachide lombare. Non volendo affidarsi al mercato clandestino, rifiutando l’idea di alimentare traffici illeciti, l’uomo si vedeva costretto al- l’autoproduzione della canapa, non esistendo, al tempo dei fatti contestati, una norma che gli permettesse di ottenere cannabis terapeutica. D’altronde - come confermato dai medici - l’assunzione di marjuana gli allievava i dolori e gli permetteva di rispondere meglio alle cure attenuandone gli effetti collaterali. L’iter processuale che lo ha portato alla condanna è emblematico. L’avvocato Valcanover lo ripercorre nella richiesta di grazia giunta a Mattarella. In primo grado l’uomo veniva assolto sulla base degli esiti della consulenza medico legale di parte, redatta dal dottor Silvano Zancaner (specialista in Medicina Legale e delle Assicurazioni e Direttore del Servizio di Medicina Legale presso l’Unità Locale Socio Sanitaria 12 Veneziana) che affermava la compatibilità dell’uso dei principi attivi contenuti nella cannabis coltivata (Thc e Cbd) rispetto alle patologie sofferte. Il sessantatreenne aveva dichiarato, infatti, di aver compiuto quanto a lui contestato per esercitare il suo diritto alla salute. Il Giudice dell’Udienza Preliminare di Trento aveva quindi riconosciuto l’irrilevanza penale della condotta contestata precisando conseguentemente che le piante sono solo tre; e come si è visto gli effetti della loro assunzione avevano natura e finalità terapeutica, e non stupefacente in senso proprio". Nonostante l’assoluzione di primo grado, la procura fece appello ritenendo non condivisibile il riconosciuto uso terapeutico della cannabis coltivata dall’uomo; per precisione, le parole utilizzate nell’atto di appello erano state: "Pare del tutto incomprensibile, quantomeno al pm appellante, l’indicazione per cui gli effetti dell’assunzione delle tre piante avevano "natura e finalità terapeutica, e non stupefacente in senso proprio". La Corte di Appello di Trento aveva quindi riformato la sentenza di primo grado riconoscendo rilevanza penale nella condotta del sessantatreenne. L’avvocato difensore aveva fatto ricorso alla Cassazione: ma niente da fare, la sentenza ha confermato la condanna. Qual è il paradosso dell’accusa portata avanti dal pm? L’uomo non sarebbe stato perseguito se avesse reperito la marjuana dagli spacciatori, anziché tramite coltivazione diretta. Le parole del pubblico ministero erano state inequivocabili: "L’imputato poteva procurarsi l’erba sul mercato, senza necessità di produrla egli stesso". L’avvocato Valcanover ricorda che alla data di presentazione dell’appello, che comunque faceva riferimento a fatti commessi sino al 26 maggio. 2014, non vi era possibilità di procurarsi legalmente e gratuitamente i farmaci necessari considerando che le delibere della Giunta Provinciale di Trento e dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari della Provincia Autonoma di Trento sono successive alla presentazione dell’appello, e quindi non era possibile per il condannato procurarsi una legittima autorizzazione per tali farmaci. In assenza della delibera, per curarsi avrebbe dovuto rivolgersi a specialisti fuori regione e sostenere costi a lui inaccessibili per l’approvvigionamento del farmaco. Ora però si aggiunge un altro annoso problema denunciato sempre dall’avvocato difensore. Attualmente. C’è una grande difficoltà nel reperire il Bediol - il farmaco legale a base di cannabis terapeutica, e ci si interroga sulle soluzioni prospettabili al paziente: non curarsi oppure affidarsi, al mercato illegale (soluzione già individuata dal pm nell’atto d’appello) pur di curarsi, rischiando tuttavia di contravvenire alle prescrizioni ordinariamente imposte dal tribunale di sorveglianza al condannato in caso di regime alternativo. Un problema più volte sollevato dai radicali. Infatti l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini aveva intrapreso lo sciopero della fame di 25 giorni anche per chiedere l’effettività dell’accesso alla cannabis terapeutica. Sciopero, come ha già annunciato, che riprenderà a metà agosto. Egitto. Caso Regeni, Italia autolesionista se l’ambasciatore tornasse al Cairo di Luigi Manconi Il Manifesto, 12 luglio 2017 Siamo in una fase delicatissima e rinunciare a quel poco di deterrenza finora esercitata nei confronti dell’Egitto sarebbe né più né meno che autolesionismo. Insomma, non c’è alcuna posizione preconcetta. Il ritorno dell’ambasciatore in Egitto può essere una scelta razionale e perfino opportuna, ma a patto che sia accompagnato da altre significative misure, almeno tanto rilevanti quanto l’assenza della nostra massima autorità diplomatica. Altrimenti si alimenta l’idea che le relazioni tra i due Paesi siano definitivamente normalizzate. Come accade non di rado, si sta discutendo - assai accaloratamente sul nulla. E ci si sta accanendo, con foga, su un falso bersaglio. Di conseguenza, il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo sembra diventare il solo e autentico discrimine. Tra una politica estera realistica e saggia, lungimirante e prudente e una fondata sui buoni sentimenti e sulle ottime intenzioni, su scenari irenici e orizzonti utopistici. Nulla di più falso. I termini veri della questione sono totalmente diversi. L’8 aprile del 2016 l’ambasciatore italiano al Cairo fu richiamato in Italia al fine di segnalare lo stato di crisi nelle relazioni tra il nostro Paese e il sistema politico egiziano, sfrontatamente ostile a una collaborazione seria con le istituzioni italiane e con la procura di Roma al fine di acquisire la verità sull’atroce morte del nostro connazionale. Da allora il comportamento del regime di Al-Sisi e della procura di quel Paese non è affatto cambiato e il solo mutamento percettibile consiste nell’ulteriore deficit di cooperazione, manifestato attraverso una successione di omissioni e menzogne. Basti un solo esempio: i video registrati dalle telecamere collocate nei luoghi che hanno visto, prima, la scomparsa di Giulio Regeni e, poi, il ritrovamento del suo cadavere seviziato, promessi da un anno, mai sono stati consegnati ai magistrati italiani. Ma non è nemmeno questo il punto essenziale. La vera questione risiede altrove: ovvero nel fatto che, a distanza di circa 19 mesi dal rapimento di Regeni, la mancata presenza del nostro ambasciatore al Cairo resta la sola - attenzione: la sola! - misura critica adottata nei confronti dell’Egitto. Ecco, questo è il punto: il richiamo dell’ambasciatore è il solitario segnale del fatto che tra Italia ed Egitto non è stata restaurata la normalità delle relazioni politiche, diplomatiche e istituzionali. L’unica manifestazione della persistenza di un conflitto. Dunque, se l’ambasciatore italiano tornasse al Cairo, l’Italia si troverebbe totalmente impotente e priva di qualunque strumento di pressione e influenza. Siamo in una fase delicatissima e rinunciare a quel poco di deterrenza finora esercitata nei confronti dell’Egitto sarebbe né più né meno che autolesionismo. Insomma, non c’è alcuna posizione preconcetta. Il ritorno dell’ambasciatore in Egitto può essere una scelta razionale e perfino opportuna, ma a patto che sia accompagnato da altre significative misure, almeno tanto rilevanti quanto l’assenza della nostra massima autorità diplomatica. Altrimenti si alimenta l’idea che le relazioni tra i due Paesi siano definitivamente normalizzate. L’allora ministro degli Esteri Gentiloni, in più di un colloquio, mi assicurò che, nel caso di ritorno dell’ambasciatore, sarebbero state adottate misure importanti, dal campo degli scambi commerciali a quello dei rapporti culturali, dalla cooperazione militare alle manifestazioni sportive, dai rapporti tra università alla formazione di funzionari pubblici. Senza escludere un fattore particolarmente sensibile: l’intervento sui flussi turistici dall’Italia e dall’Europa. Ma nulla di tutto ciò è stato realizzato o anche solo predisposto. Quindi, se si vuole prendere in considerazione il ritorno dell’ambasciatore, e anche solo per valutare seriamente questa ipotesi, vanno chiaramente indicati quali provvedimenti alternativi si intendono adottare. Su questo, finora, non un atto. Di conseguenza deve valere l’impegno di Paolo Gentiloni, nel frattempo diventato presidente del Consiglio. Nell’incontro del 20 marzo scorso, l’attuale premier, assicurò ai genitori di Giulio Regeni che qualunque decisione relativa all’ambasciatore italiano in Egitto sarebbe stata condivisa con loro. Chi può mettere in discussione la parola del premier? Bosnia. Genocidio di Srebrenica, perché va chiamato col suo nome di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 luglio 2017 Srebrenica è la pagina più nera e dolorosa della storia europea della seconda metà del XX secolo. In questo villaggio della Bosnia, via via popolatosi di profughi fuggiti altre zone "serbizzate" del paese, l’11 luglio di 22 anni fa iniziò il genocidio più veloce della storia: in meno di una settimana oltre 10.000 bosniaci musulmani uccisi dalle forze serbo-bosniache agli ordini del generale Ratko Mladic e via via sepolti in fosse comuni. Il tutto, sotto gli occhi dei caschi blu olandesi del cui comportamento i Paesi Bassi sono stati recentemente chiamati a rispondere in sede civile. Quello di Srebrenica è stato definito "genocidio" da due sentenze definitive del Tribunale penale per l’ex Jugoslavia: la prima risale addirittura al 2004, l’altra è del 2015. In più, il genocidio di Srebrenica è espressamente menzionato nella sentenza della Corte internazionale di giustizia Bosnia ed Erzegovina contro Serbia e Montenegro del 2007. Di genocidio è stato giudicato colpevole in primo grado, nel marzo 2016, il leader politico serbo-bosniaco Radovan Karadžic ed è imputato lo stesso Ratko Mladic, il cui processo terminerà entro la fine dell’anno. Dunque, definire genocidio quanto accaduto a Srebrenica nel luglio 1995 è giuridicamente esatto. Chiamarlo in qualsiasi altro modo (massacro, strage…) è un esercizio politico di riduzionismo che a volte sconfina nel negazionismo puro e semplice. Un’offesa alla memoria delle vittime e un’offesa al dolore dei loro parenti e dei sopravvissuti. Turchia. La marcia del dissenso che Erdogan non può fermare di Fabio Nicolucci Il Mattino, 12 luglio 2017 Malgrado gli sforzi di Erdogan, il primo anniversario del tentato golpe il 15 luglio non mostra una Turchia normalizzata a sua immagine e somiglianza. Il bilancio di un frenetico anno politico è infatti ancora aperto. Perché se Erdogan può annoverare alcuni successi, certo non mancano né le resistenze né i contraccolpi. E malgrado la forza a tratti violenta e cieca del suo tentativo, rimane aperta la possibilità che la nazione turca riesca a conservare quello spessore pluralista e democratico, e prima ancora culturale, che ne costituisce la risorsa competitiva più profonda e redditizia nel panorama globale e nel disastrato scenario mediorientale. Lo dimostra il sorprendente esito di massa della marcia per "diritti, legge e giustizia" di domenica sera quando, dopo 250 chilometri percorsi dal 15 giugno partendo da Ankara, più di un milione di persone si è stretto senza incidenti attorno al leader della principale opposizione, il kemalista 69enne pacato ex funzionario di Stato e segretario del partito Chp (Partito Repubblicano del Popolo) Kemal Kilicdaroglu. Se dunque questa marcia costituisce indubbiamente una "macchia" nella immacolata rappresentazione del prossimo anniversario del fallito golpe il 15 luglio 2016, organizzata da Erdogan come "giornata della democrazia e unità nazionale" e completa di invito alla donazione volontaria di sangue in tutto il paese - una sorta di "oro alle patria" in versione di pace - si tratta ora di vedere i suoi effetti. Sia come questa crisi verrà affrontata da Erdogan, sia che riflessi potrà avere in quella metà meno uno di questo straordinario paese che ha votato "no" al referendum costituzionale dello scorso aprile. Quello che ha sancito la prevalenza per un pugno di voti della versione di Erdogan del nazionalismo turco: la nazione sono io, e di qua c’è la luce e di là le tenebre. Questa narrazione non è infatti ancora credibile, e diventa parziale e di parte anche agli occhi dell?elettorato turco perché Erdogan non è riuscito ad essere con tutta evidenza il solo attore in campo. Non lo è sul piano regionale, malgrado i suoi sforzi neo-imperiali rilanciati - dopo la brutta parentesi filo-Isis in Siria - sia nel Levante, con una partecipazione alle operazioni militari in Siria e anche in Iraq, sia nel Golfo, con il suo sostegno al Qatar - dove ha appena aperto una piccola base militare - nella disfida contro l’Arabia Saudita. E non lo è nemmeno in casa, dove un anno di repressioni e stretta sui meccanismi costituzionali e sulle libertà politiche e individuali non è bastato a normalizzare e schiacciare la fibra pluralista politica e culturale della Turchia. Il successo di questa marcia, che nemmeno Erdogan ha osato reprimere o impedire, pur avendone i poteri dato il protrarsi indefinito dello Stato di Emergenza in vigore dallo scorso luglio, dimostra infatti il crescere del dissenso politico al progetto di Erdogan e non il suo contrario. Un dissenso che da giugno non riguarda più solo il terzo partito turco, e dunque l’elettorato prevalentemente curdo dell’Hdp, ma adesso coinvolge anche il secondo e più antico partito turco, il Chp. Un fatto inedito, e preoccupante per Erdogan, data non solo la diffidenza di questo partito ad unire le forze con le istanze più progressive ed anche etniche del Chp, ma anche il suo prestigio, che va oltre il suo pur cospicuo 25 per cento, dato che questo partito è stato fondato nel 1919 da Kemal Ataturk ed è visto anche dai suoi detrattori come simbolo - magari un po’ datato - della Turchia moderna. La goccia che ha fatto traboccare il vaso ? molti oppositori turchi hanno definito la marcia un "passaggio del Rubicone" - è stata l’arresto all’inizio di giugno per la prima volta di uno dei suoi deputati, quel Enis Berberoglu che è l’ex direttore del giornale che svelò per primo il traffico di armi del governo turco verso la Siria, e che per questo è stato arrestato per spionaggio e condannato a 25 anni di prigione. L’ennesimo atto di repressione, dopo il licenziamento di più di 100mila insegnanti, professori e funzionari dello Stato, la chiusura di più di 150 mass media privati, l’arresto di 12 giornalisti, e da ultimo l’arresto del presidente di Amnesty International Turchia e del giudice Avdin Sefa Akay, membro della Commissione Onu sui crimini di guerra. Il paragone più popolare in Turchia al momento per la marcia di domenica è quello con la marcia del Sale del 1930 del Mahatma Gandhi. Ma data la dimensione politica interna ad un solo nazionalismo, ci sembra più efficace quella con la marcia per i diritti civili e l’effettivo diritto di voto degli afroamericani di Marthin Luther King da Selma a Montgomery del 1965. Il tempo ci dirà in ogni caso se Erdogan vuol fare il vicere inglese oppure comportarsi come il presidente Johnson. Pakistan. Dal 2015 praticate 465 esecuzioni capitali, "motivi politici" dietro le condanne asianews.it, 12 luglio 2017 I dati relativi al periodo da quando il governo ha eliminato la moratoria sulla pena di morte e sono pubblicati dalla Ong Justice Project Pakistan. Il Punjab è la provincia con il più alto numero di impiccagioni, pari all’83% del totale. Il crimine non è diminuito da quando è stata reintrodotta la pena di morte. Condanne a morte compiute "per fare spazio" nelle carceri sovraffollate. Dal dicembre 2014, cioè da quando il governo di Islamabad ha eliminato la moratoria sulla pena di morte, 465 persone sono state giustiziate per impiccagione in Pakistan, cioè più di tre a settimana. Lo evidenzia il rapporto sulle esecuzioni capitali stilato da Justice Project Pakistan (Jpp), Ong che difende i diritti dei detenuti. Questi dati fanno del Pakistan il quinto Paese al mondo per condanne a morte, dopo Cina, Iran, Arabia Saudita e Iraq. Secondo Sarah Belal, direttrice esecutiva dell’organizzazione, la questione più allarmante è che la pena di morte, ufficialmente reintrodotta per diminuire i crimini - soprattutto quelli legati al terrorismo -, viene per lo più utilizzata come "mezzo politico", a volte anche per sgomberare le carceri sovraffollate. Nel 2014, all’indomani della strage alla scuola militare di Peshawar, compiuta da un commando affiliato al Tehreek-e-Taliban Pakistan (Ttp) e costato la vita ad oltre 150 persone (in maggioranza bambini), le autorità hanno reintrodotto la pena capitale per i reati legati al terrorismo. Qualche mese più tardi, le condanne per impiccagione sono riprese per tutti gli altri reati. Con 382 esecuzioni, pari all’83% del totale, il Punjab detiene il primato sulle altre province, nonostante tra il 2015 e il 2016 il tasso per gli omicidi sia diminuito del 9,7%. Nel Sindh, che ha eseguito 18 condanne, gli omicidi si sono ridotti del 25%. L’analisi evidenzia che il numero degli assassini era in diminuzione già prima del bando della moratoria. Per questo gli attivisti sottolineano che non c’è una correlazione diretta tra pena di morte e diminuzione del crimine o del terrorismo, come testimoniano i numerosi attentati dell’ultimo periodo. I dubbi dell’organizzazione trovano riscontro nei dati della ricerca, che riportano che solo il 16% delle esecuzioni capitali sono state comminate dai Tribunali dell’anti-terrorismo (Atc), mentre la porzione maggiore delle sentenze di morte è stata compiuta dalle corti distrettuali e di sessione, che non hanno giurisdizione sui casi di terrorismo. Ad un anno dal bando della moratoria, sono state presentate più ordinanze di esecuzione per malati mentali, disabili fisici e offese contro minori. Saroop Ijaz, avvocato e rappresentante di Human Rights Watch per il Pakistan, lamenta sul quotidiano Dawn che tutti coloro che sono stati mandati al patibolo "erano poveri ed emarginati, carne da macello ideale per la fragile mascolinità di leader che sperano così di provare la [loro] durezzà e che "non ci sono ricchi nel braccio della morte". L’avvocato si esprime anche sul sospetto che le impiccagioni siano compiute far posto nelle celle, dato che in Punjab 25 carceri su 27 eccedono la capienza massima. "Il governo del Punjab - afferma - non sta combattendo il terrorismo o il crimine, ma i propri demoni e le proprie insicurezze e, a livello pratico, il proprio popolo. […] Pare che le uccisioni siano un modo per fare spazio. A tal punto è giunta la vita umana in una società brutalizzata e ferita, presieduta da un governo opportunistico e violento". Bolivia. Emergenza carceri: per ogni donna arrestata tre bambini in strada mainfatti.it, 12 luglio 2017 La Fides informa sulla stato delle carceri in Bolivia, soprattutto quelle femminili. "In Bolivia ci sono circa 1.181 detenute. Uno studio realizzato nel 2016 dalla Fondazione ‘Construir’ - espone in una nota la Fides -, riferisce le critiche conseguenze che si generano quando una donna viene messa in carcere, tra queste è emerso che per ogni donna detenuta, tre bambini finiscono per la strada. Secondo lo studio, il 75% delle donne ha confessato di aver abbandonato i figli; altri bambini rimangono con i parenti più vicini, affidati al fratello maggiore o soli" prosegue l’agenzia di stampa cattolica. "Il 25% delle donne vive in carcere con i figli in spazi angusti - scrive in ultimo l’organo di informazione delle Pontificie Opere Missionarie, in condizioni pessime, dove spesso vengono preclusi programmi lavorativi e educativi. Delle 61 prigioni esistenti nel Paese, in otto ci sono anche donne. Solo quattro di queste sono state costruite esclusivamente per le donne, le altre sono strutture adattate. La maggior parte delle recluse hanno subito violenza domestica. Sono madri che commettono crimini per cercare di sfamare i propri figli. Tra quelli più diffusi il traffico di droga e le rapine. Lo studio segnala che l’80% delle donne sono detenute per crimini minori e il 20% per omicidio o rapina aggravata".