Il conformismo di sinistra su Islam, immigrati e reati di Giovanni Belardelli Corriere della Sera, 11 luglio 2017 Le élite Pd non discutono apertamente di alcuni problemi su cui pensano già di avere ragione. Ma così si perdono elettori e rapporto con la realtà. Le divisioni e le polemiche sviluppatesi a sinistra tra il Pd e la composita galassia che punta ad aggregarsi (forse) attorno a Pisapia hanno spinto il partito di Renzi ad archiviare rapidamente ogni riflessione sulla sconfitta subita alle amministrative. Eppure proprio quella sconfitta, soprattutto in comuni come Genova, Pistoia o Sesto San Giovanni, dovrebbe rappresentare un campanello d’allarme: segnala infatti uno scollamento - culturale ed emotivo prima ancora che politico - tra la sinistra e una parte importante del Paese. Il caso di Sesto San Giovanni è da questo punto di vista emblematico. Il candidato di centrodestra ha lì vinto grazie anche alla sua battaglia contro la costruzione di una grande moschea promessa dalla sindaca uscente. È evidente che i musulmani presenti in Italia debbano avere luoghi appropriati dove pregare. Ma lasciare che la costruzione di una moschea (per di più con i finanziamenti del Qatar, accusato di sostenere il terrorismo) diventi un punto centrale del proprio programma significa non tenere in alcun conto le paure nutrite da un’ampia parte dell’opinione pubblica. Sono paure, quelle legate all’immigrazione, che si impadroniscono soprattutto dei ceti più umili e meno istruiti, di quanti vivono in condizioni di disagio economico, di emarginazione sociale, e sono i più soggetti a interpretare l’immigrazione unicamente come una pericolosa invasione, se non addirittura come la causa prima dei loro problemi. Le élite del Pd e più in generale della sinistra italiana - i suoi esponenti politici, molti suoi intellettuali e giornalisti di riferimento - reagiscono spesso a questo grumo di sentimenti assumendo un atteggiamento da primi della classe, limitandosi cioè a sostenere che se una cosa è giusta è giusta, non c’è altro da aggiungere. Questo in fondo è successo anche di fronte alla legge sul cosiddetto ius soli: benché la maggioranza degli italiani sembri ormai contraria (come mostrava un sondaggio sul Corriere del 25 giugno) sia il premier Gentiloni sia il segretario del Pd Renzi hanno promesso che andranno avanti egualmente. Quasi che addebitassero le perplessità, i dubbi, le paure di milioni di italiani a un loro più o meno consapevole razzismo invece che considerarli come il prodotto di paure magari sbagliate, ma di cui bisogna comprendere almeno le ragioni. La sinistra, insomma, rischia di essere vittima (vittima, perché alla fine questo conformismo intellettuale che impedisce la riflessione fa perdere voti) del proprio stesso successo nell’ambito del discorso pubblico, del fatto cioè di aver saputo accreditare certe opinioni e valutazioni come le uniche consentite alle persone dabbene (quel che usualmente si chiama il "politicamente corretto"). Ad esempio, si può sostenere che vi sia una correlazione tra immigrazione e delinquenza? Naturalmente no, dal punto di vista del discorso pubblico consentito. Sì, se invece si guarda ai dati empirici, come quelli sulla criminalità degli immigrati resi noti un anno fa dalla Fondazione David Hume: secondo questi dati il tasso di criminalità relativa degli immigrati è in Italia sei volte superiore a quello dei nativi (il dato medio europeo è quattro). Sono dati di cui varrebbe la pena discutere, ma a farlo si rischia subito un’accusa di razzismo o islamofobia. Così come la stessa accusa si rischia se ci si interroga, come ha di recente fatto Maria Latella (Messaggero del 23 giugno), sul fatto che gli episodi di aggressione in strada da parte di sconosciuti, di cui purtroppo le cronache riferiscono continuamente, sono da addebitare spesso a uomini provenienti "da culture nelle quali una violenza sessuale non è un reato". Non so se è una valutazione del tutto esatta; è però un’opinione che meriterebbe d’essere discussa, anzitutto per le evidenti implicazioni sul tema dell’integrazione; ed è anche un’opinione coraggiosa perché sfida il conformismo politico-culturale, dominante non solo in Italia. Lo stesso conformismo che per quindici anni - come riferì un’inchiesta indipendente del 2014 - aveva indotto poliziotti e assistenti sociali di una cittadina inglese, per loro stessa ammissione, a non intervenire di fronte agli abusi su centinaia di bambini compiuti da membri della comunità pachistana, per il timore di essere accusati altrimenti di razzismo. Ecco, se di moschee, immigrazione e di tante altre cose imparasse a discutere apertamente, forse il Pd riuscirebbe a recuperare l’attenzione e il voto di tanti ex elettori. Apologia del fascismo sui social: il ddl Fiano propone fino a due anni di reclusione di Luca Scarcella La Stampa, 11 luglio 2017 Una nuova proposta di legge per punire i comportamenti individuali apologetici: su Facebook ogni mese tra le 30 e le 40 nuove pagine apologetiche. Era febbraio quando La Stampa si occupò del reato di apologia del fascismo su Facebook, a cui fece seguito una interrogazione parlamentare presentata dal Partito Democratico. Facebook Italia (insieme all’Unar, Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali) si impegnò nel contrastare questo fenomeno, che non è previsto dalla policy internazionale del social network, oggi utilizzato da 2 miliardi di persone nel mondo, ma è vietato dalla legge italiana. Infatti la legge Scelba, la 645 del 1952, vieta la "riorganizzazione del disciolto partito fascista" prevedendo multa e reclusione per i reati di apologia fascista. Oggi a Montecitorio è arrivata la proposta di legge 3243, presentata da Emanuele Fiano del Partito Democratico, che chiede l’introduzione dell’articolo 293-bis del codice penale, puntando a punire "chiunque propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco". Una norma che estende e completa la legge Scelba del 1952 e poi la Mancino del 1993 (che allargava la Scelba all’odio e discriminazione razziale), portando la legislazione a contemplare anche gesti individuali da punire, come il saluto romano, e la diffusione di gadget ("produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli" del fascismo e del nazismo). La proposta di legge prevede "la reclusione da sei mesi a due anni", con "la pena aumentata di un terzo se il fatto è commesso attraverso strumenti telematici o informatici", come ad esempio Facebook. La ricerca condotta da Patria Indipendente, testata editoriale di Anpi, che avevamo analizzato in febbraio a proposito dell’apologia del fascismo su Facebook, è stata aggiornata e implementata. A fronte delle 2700 pagine connesse all’apologia fascista raccolte a inizio anno, il numero è salito a 3750. Inoltre, è stata realizzata una selezione di 485 pagine prettamente apologetiche, in pieno contrasto con la legge Scelba, e che varrebbero la reclusione per chi le ha create se la proposta di Fiano diventasse legge. A nulla pare essere servito l’appello della presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini, che si rivolse direttamente a Mark Zuckerberg, per farle eliminare. "Il trend vede la creazione di un numero compreso tra le 30 e le 40 nuove pagine Facebook al mese connesse al fascismo e ai suoi ideali e simboli - afferma a La Stampa Giovanni Baldini, ricercatore di Patria Indipendente - l’interesse per la nostra ricerca è costante. Stiamo ragionando con il direttivo nazionale per produrre un libretto. Il dialogo con Facebook Italia, a oggi, purtroppo stenta". La legge italiana pare chiara in proposito, ma secondo Emanuele Fiano è necessario aggiungere dei paletti per punire in modo puntuale comportamenti individuali devianti, così come accaduto a Chioggia nelle scorse ore. Punire l’apologia fascista e la propaganda attiva non è "liberticidio", così come affermato la scorsa settimana dal Movimento 5 Stelle alla commissione Affari costituzionali a proposito del ddl Fiano. Il fascismo è un’ideologia non tollerabile in un Paese moderno, democratico e civile. Il fascismo non è un’opinione, il fascismo è reato. Ed è tale dal 1952. Più storia e meno manette, nella giusta battaglia contro il neofascismo di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 11 luglio 2017 Il progetto di legge in discussione ora alla Camera può suscitare ragionevoli perplessità. E non certo perché sarebbe "liberticida". In un Paese dotato di memoria di sé non varrebbe nemmeno la pena sottolineare quanto il fascismo sia stato la pagina più vergognosa della storia patria. E non (come certa vulgata neo e postfascista sostiene) a partire dalle leggi razziali che l’avrebbero legato ai crimini hitleriani, ma sin dalle sue origini, che contenevano in nuce tutta la violenza e l’intolleranza da cui sarebbe stata piagata l’Italia nel Ventennio. Ciò detto, il progetto di legge sul reato di propaganda del fascismo e del nazismo in discussione ora alla Camera può suscitare ragionevoli perplessità. E non certo perché sarebbe "liberticida", come affermano i Cinque Stelle in ciò che appare l’ennesimo goffo tentativo di acchiappare voti a destra. La legge, che ha per primo firmatario il pd Emanuele Fiano (le cui ragioni personali meritano rispetto: suo padre Nedo fu deportato ad Auschwitz) certo nasce da un giusto bisogno di deterrenza in un’Italia dove hanno ripreso a proliferare simboli e gesti del passato che non passa. Ma in parte sembra ridondante (esistono già la legge Scelba e la legge Mancino). In parte contraddittoria sul piano dei principi: perché, come ha fatto osservare Renato Brunetta, vietare la paccottiglia mussoliniana sulle bancarelle e lasciare libera vendita a quella, magari, staliniana? E soprattutto rischia l’effetto boomerang: circondare di un alone "maudit" il pattume nazifascista nei mercatini o sul web lo renderebbe assai più attraente (poiché vietato) soprattutto ai nostri ragazzi; tracciare un confine netto tra un pamphlet storico e un fogliaccio di propaganda, poi, potrebbe essere compito molto arduo. Infine, senza scomodare i sacri dogmi del liberalismo, è opportuno rileggere ciò che ha scritto appena ieri Giuseppe De Rita sul Corriere a proposito di un Paese dominato da rancore e nostalgia: un Paese pericoloso. Più che con le manette, i fantasmi delle feroci macchiette è meglio esorcizzarli col senso della storia e del ridicolo. Sull’apologia di fascismo una manovra diversiva, la legge esiste già di Piero Sansonetti Il Dubbio, 11 luglio 2017 Lo Ius soli, il fiscal compact, la legge elettorale, lo scontro con l’Europa sui migranti? Sono tutte cose importanti, ma ora il Parlamento deve per un momento metterle da parte perché è esplosa un’emergenza molto più grande: la spiaggia di Chioggia con le frasi di Mussolini. E di conseguenza si è resa impellente la necessità di varare una nuova legge contro l’apologia di fascismo, anche se per la verità una legge del genere già esiste ed è la vecchissima legge- Scelba o la meno vecchia legge-Mancino. Naturalmente, voi direte, questa polemica si può fare sempre, e non vale molto. Qualunque tema sia posto all’attenzione del Parlamento se ne può trovare uno molto più urgente. La povertà, le tasse, l’occupazione. E vero. Però stavolta l’impressione è proprio quella di una vera e propria manovra diversiva. Quando la politica si incarta, non si capiscono bene le intenzioni dei contendenti, non si riescono a definire programmi forti e comprensibili, l’escamotage della ricerca del male assoluto e della lotta al male assoluto funziona sempre. Qual è il male assoluto? Se ne possono trovare di vario genere, ma qui da noi in Italia il fascismo funziona sempre. Anche perché il fascismo per noi non è solo una ideologia o un modo di dire ma è un regime realmente esistito, che ha ridotto e annientato la libertà, che ha travolto il paese, che l’ha portato in una guerra devastante, che ha appoggiato la Shoah, lo sterminio degli ebrei (e dei rom). Un’infamia. Così il pretesto di un bagnino fascista a Chioggia, che ha inzeppato il suo stabilimento di scritte e ritratti del duce, o di scritte di esaltazione del duce, ha funzionato benissimo, ha provocato una serie di reazioni indignate a sinistra (finalmente unitarie, dopo mesi e mesi di risse), ha spinto alcuni deputati del Pd a presentare di corsa una legge contro l’apologia, e ha persino permesso ai grillini di opporsi, in nome della libertà di espressione. A me vengono quattro riflessioni: 1) Stavolta non si può dare del tutto torto ai grillini. Presentare una legge che prevede un certo numero di anni di galera aggiuntivi ogni volta che nel dibattuto pubblico si apre un problema (generalmente imposto dalla stampa secondo dei suoi criteri di funzionamento spesso incomprensibili) è una pessima abitudine. Non è detto che tutti i problemi della vita civile si risolvano legiferando nuovi anni di galera. E quando lo si fa, in genere, si producono solo danni. Casomai quello che può mettere in discussione la buonafede dei grillini è il fatto che molto spesso sono proprio loro a chiedere nuove leggi e più prigione, ma questo non toglie nulla alla saggezza del loro ragionamento di oggi. 2) Ancora: stavolta non si può dare torto ai grillini. Quando si fa una legge che prevede la punizione dei reati di opinione non si fa mai un passo avanti verso il miglioramento e l’ammodernamento dello Stato di diritto. Uno stato moderno e liberale non dovrebbe prevedere nessun tipo di reato di opinione. Una società matura e consapevole sa come combattere le opinioni non democratiche. Non ha molto senso dire: per difendere la democrazia e la libertà di opinione io ti proibisco di esprimere le tue idee perché non sono democratiche. Perché in quella proibizione c’è una offesa al senso pieno della democrazia. E poi per un altra ragione: chi stabilisce quando una idea è antidemocratica? Oggi, magari, si comincia con il fascismo, ma poi dove si può arrivare? 3) Questo non vuol dire che l’antifascismo non sia più un valore. È un valore altissimo, per il quale tante persone hanno combattuto, magari sono anche morte, ed è un caposaldo dello Stato liberale moderno. Dentro il valore dell’antifascismo c’è il valore della tolleranza, che ne è una caratteristica fondamentale e ineliminabile. L’antifascismo è un valore grande e moderno, purché non si intenda per antifascismo la retorica, o l’appartenenza a una squadra, o la criminalizzazione di qualcuno, o la pretesa di poter giudicare le idee e la purezza dei propri avversari, o l’intolleranza. Perché quello non è antifascismo, ma casomai è qualcosa che - seppure lontanamente - può assomigliare proprio al fascismo. L’antifascismo da parata. 4) Diceva Sciascia, se non ricordo male: l’eterno fascismo è la collera degli imbecilli. Ecco, su questo - come su altre cose - Sciascia vedeva lontano. Avrà scritto quella frase 30 anni fa, ma sembra riferita all’oggi. Io anche ho questa impressione. Che se davvero vogliamo difenderci dal pericolo di un nuovo fascismo, di ritorno, piuttosto che occuparci del folclore del bagnino, e piuttosto che proibire i gagliardetti e i fez, dovremmo interrogarci su questi nuovi fenomeni, che solitamente si definiscono "populisti", ma che Sciascia aveva fotografato in anticipo, in modo icastico: la collera degli imbecilli. Cioè l’uso della collera come valore in sé, non riferito a nulla, se non agli altri, agli stranieri, al governo, al passato, alla politica e in ultima analisi alla "democrazia" come luogo di non- collera. La collera degli imbecilli è quella ideologia purissima (e molto vasta) che genera il linguaggio dell’odio, l’etica dell’odio, la religione dell’odio. Non era straordinaria questa intuizione di Sciascia? Non è - la collera degli imbecilli - la vera minaccia per un paese così fragile, sul piano delle idee, come sembra essere, oggi, il nostro? Non è un pericolo attuale, concreto, grande, molto più attuale e grande del pericolo che qualcuno gridi impunemente eja eja alalà? Luca Palamara: "Davigo come i politici che hanno l’obiettivo di annientare il Csm" di Liana Milella La Repubblica, 11 luglio 2017 Il membro del Consiglio e lo scontro sui criteri di nomina dei magistrati: "Spara nel mucchio per delegittimare, il Cencelli non c’è più". "Davigo? Ha lo stesso obiettivo di quella parte politica che in questi anni ha tentato invano di ridimensionare, o addirittura annientare, il Csm". L’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, pm a Roma e ora al Csm per Unicost, è sorpreso e deluso per l’uscita di Piercamillo Davigo dalla giunta e "per le sue generiche accuse contro il Csm". Che fa, pure lei come il capo dell’Anm Albamonte, accusa Davigo di "essere populista"? "Un conto è la critica legittima, altro è delegittimare, sparando nel mucchio, l’intera attività del Csm. Condivido in pieno il giudizio di Albamonte perché, in definitiva, le critiche di Davigo riguardano due casi ben specifici. Io, al contrario di lui, non ho timore a fare nomi e cognomi proprio all’insegna della trasparenza, da sempre la mia stella polare. Stiamo parlando della possibile nomina di Lanfranco Tenaglia alla presidenza del tribunale di Pordenone e di quella di Andrea Fanuli al tribunale di Pesaro dopo la mancata nomina a consigliere di Cassazione ". Eh già, quella per cui Davigo cita le proteste per mail e parla di un contentino. "È legittimo criticare la mancata nomina di Fanuli, ma va rispettata la decisione del plenum di ritenerlo più funzionale e idoneo a guidare un tribunale". Senta, seguiamo il Csm da anni. Non può negare che le nomine avvengono con il bilancino delle correnti. Come dice Davigo "uno a me, uno a te, uno a lui". "Ma non si può non tener conto che proprio in questi 20 anni lo scenario è mutato. Certo, il manuale Cencelli è stato usato anche al Csm, ma oggi abbiamo una realtà completamente diversa, che Davigo non vede o finge di non vedere". Me lo dimostri. "Ci sono due fatti eclatanti. Nel 2006 è stato abbandonato il criterio dell’anzianità. Che anacronisticamente Davigo e la sua corrente vorrebbero ripristinare. Nel 2014 è stata abbassata di ben 5 anni l’età pensionabile, il che ha stravolto la guida degli uffici giudiziari. Dire che si è fatto ricorso al bilancino per 500 nomine è negare l’evidenza dei fatti. Il Csm può aver anche fatto qualche nomina sbagliata, ma l’impegno che registro oggi tra di noi è di garantire agli uffici un target verso l’alto. E in particolare in quelli più importanti. Penso alla procura di Milano, alla procura generale di Bologna, ai presidenti delle corti di Appello di Milano e di Bari, al procuratore di Palermo. Sfido chiunque a dire che il Csm non sia stato attento al miglior dirigente possibile". La fermo. Per Milano avete impiegato 7-8 mesi. Per la Cassazione avete fatto le nomine a pacchetto. E vogliamo parlare della procura di Napoli scoperta da gennaio ? "Ormai siamo agli sgoccioli e anche Napoli avrà presto il suo procuratore, tenendo conto che sono scelte che impongono adeguati momenti di riflessione". E anche di trattativa. Perché non mettete i curricula online come chiede Davigo? "Davigo forse non guarda bene il sito del Csm perché i curricula sono già lì. Comunque, parlerei di fisiologica complessità quando si tratta di esercitare un potere discrezionale e di valutare il profilo di candidati egualmente meritevoli. Bisogna dare atto al vice presidente Legnini di aver lavorato molto sulla trasparenza ". Nega che le correnti esistono? "Assolutamente no. Esistono. E sono state e sono fondamentali per la crescita culturale della magistratura ". Ammetterà che sulle toghe in politica c’è un ritardo incredibile, tant’è che il caso Tenaglia è criticato da Davigo. "Sono 10 anni che l’Anm ne parla. È evidente che la situazione va risolta e il Parlamento è in colpevole ritardo. Quanto a Tenaglia il Csm decide sulla base della legge vigente che non impedisce di nominare chi, dopo un’esperienza in Parlamento, rientra a esercitare la giurisdizione. Nel suo caso ben da 4 anni". Ma l’Anm può criticare il Csm? Lei lo fece da presidente per un pacchetto di nomine in Cassazione. "Certo che può farlo, è un pungolo per il Csm. Ma da qui a far passare l’idea che il Csm non è in grado di esercitare il potere che la Costituzione gli assegna ce ne corre". Giudici onorari solo due giorni a settimana di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2017 Nuove competenze, ma anche un nuovo status. La riforma della magistratura onoraria approvata ieri definitivamente dal Consiglio dei ministri affronta alcuni punti critici della categoria, definendo regole applicabili per tutti. Dai giudici di pace ai viceprocuratori onorari (vpo). A partire da quella, cruciale, della fisionomia dell’incarico. Il decreto legislativo torna a chiarire che l’incarico di magistrato onorario ha natura esclusivamente funzionale ed inderogabilmente temporanea e deve svolgersi in modo da assicurare la piena compatibilità con lo svolgimento di altre attività remunerative. In questa prospettiva viene espressamente disposto che a ciascun magistrato onorario non può, di regola, essere richiesto un impegno superiore a due giorni a settimana. Limite questo che, per esempio sul fronte delle Procure, era stato contestato perché troppo rigido, impedendo di fatto un impiego più esteso dei vpo, con il rischio assai concreto di disperdere l’attività dei pm su un fronte assai esteso e poco efficiente. In questo senso era stata avanzata dal Csm una richiesta di utilizzo per almeno tre giorni a settimana; tuttavia il ministero della Giustizia ha ritenuto di non accoglierla, sottolineando che i due giorni sono un tetto coerente con le caratteristiche di temporaneità e non esclusività dell’incarico e che, comunque, il limite scatta solo per chi entrerà in servizio dopo l’entrata in vigore del decreto. Per gli altri, per tutti cioè i magistrati in servizio adesso, dopo i primi quattro anni, sarà possibile, per i successivi quattro (l’incarico ha una durata massima di otto anni per tutti) un utilizzo di tre giorni a settimana con conseguente aumento dell’indennità. In ogni caso, puntualizza il ministero, la fase transitoria di quattro anni, dovrà servire agli uffici giudiziari per attrezzarsi sul piano organizzativo a fare fronte a un "utilizzo più contenuto della magistratura onoraria", avvalendosi anche di futuri e ulteriori interventi di depenalizzazione e degiurisdizionalizzazione nel settore civile. L’indennità sarà sempre articolata in una quota fissa, pari a 16.000 euro all’anno, e una variabile tarata sul raggiungimento degli obiettivi fissati da presidente del Tribunale e procuratore della Repubblica, obiettivi che però non saranno solo di tipo quantitativo, in una sorta di cottimo giudiziario, visto che tra i criteri di valutazione rientrano la puntualità nel deposito dei provvedimenti, le modalità di gestione dell’udienza e di rapporto con gli altri magistrati onorari, con i magistrati professionali, con gli avvocati ed il personale amministrativo, la partecipazione all’attività di formazione, la percentuale di impugnazioni rispetto alla media dell’ufficio. L’indennità copre gli oneri previdenziali e assistenziali, visto che sono state respinte le richieste di una copertura totalmente a carico dello Stato; si prevede tuttavia un’assicurazione Inail. Su tutti questi punti, assai forte è l’opposizione della categoria, i cui rappresentanti hanno messo in campo una sequenza, tuttora in corso, di astensioni dal lavoro e iniziative giudiziarie. Ancora nelle ultime ore hanno sottolineato come "se il ministro della Giustizia pensa di salvare capre e cavoli prevedendo un impegno di tre giorni lavorativi a settimana dei magistrati in servizio nel secondo quadriennio, allora vuol dire che Andrea Orlando davvero non ha capito nulla di ciò che sta succedendo: fra quattro anni, quando entrerà a regime il nuovo sistema indennitario, due terzi dei magistrati in servizio, professionisti che non accetteranno mai di lavorare a condizioni economiche e previdenziali così degradanti, si dimetteranno. Così alla fine resteranno solo i 3.000 onorari di nuova nomina che per legge dovranno andare all’ufficio del processo e circa un migliaio dei magistrati attualmente in servizio che dovrebbero garantire il funzionamento degli uffici del Giudice di pace e delle Procure con competenze raddoppiate". E le competenze sicuramente aumenteranno, sia pure dal 2021 e dal 2025 per le cause in materia di condominio. La versione finale del decreto ha cancellato l’allargamento nel settore penale, accogliendo in questo senso le richieste che erano arrivate dal Parlamento, e ha confermato, sia pure con modifiche quanto previsto nel settore civile. Tra l’altro si prevedono altre misure come: l’estensione dei casi di decisione del giudice di pace secondo equità, elevando il limite di valore da 1.100 a 2.500 euro; l’innalzamento del limite di valore che fissa la competenza del giudice di pace nelle cause relative a beni mobili da 5.000 a 30.000 euro; l’estensione del limite di valore che fissa la competenza del giudice di pace nelle cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e di natanti da 20.000 a 100.000 euro. Caso Cucchi, le botte e le bugie: processo a cinque carabinieri di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 11 luglio 2017 Di Bernardo, D’Alessandro e Tedesco sono accusati di omicidio preterintenzionale, Mandolini e Nicolardi di falso e calunnia nei confronti degli agenti della penitenziaria. Il dibattimento comincerà il 13 ottobre. Otto anni dopo, malgrado alcune prescrizioni intervenute (su tutte il reato di abbandono d’incapace per il quale la Cassazione aveva chiesto di annullare l’assoluzione dei medici del "Sandro Pertini") ci sarà un nuovo processo per Stefano Cucchi, arrestato per spaccio alla periferia di Roma il 15 ottobre 2009 e morto in ospedale una settimana dopo. A giudizio, per omicidio preterintenzionale, sono finiti i tre carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco che, quella notte, mentre erano in corso gli accertamenti che accompagnano sempre il fermo di un indiziato, lo sottoposero, secondo l’accusa, a un violento pestaggio. Il motivo? Cucchi si sarebbe rifiutato di collaborare sia alle perquisizioni che al foto-segnalamento. E per questo, secondo quanto scrive il pm Giovanni Musarò, il giovane fu colpito "con schiaffi, pugni e calci, fra l’altro provocandone una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale". Ma a processo, per decisione della gup Cinzia Parasporo, sono finiti anche i loro colleghi Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini, accusati (come pure lo stesso Tedesco) di aver testimoniato il falso durante il primo processo calunniando gli agenti della polizia penitenziaria benché innocenti e di aver mentito sulle circostanze del foto-segnalamento. Mandolini, in particolare, per il pm, aveva tentato di accreditare l’idea che il ragazzo non fosse stato sottoposto a foto-segnalamento su sua richiesta mentre la procedura fu elusa perché ritenuta rischiosa: le foto avrebbero testimoniato i segni delle percosse. "Finalmente i responsabili della morte di mio fratello, le stesse persone che per otto anni si sono nascoste dietro le loro divise andranno a processo e saranno chiamate a rispondere di quanto commesso", esulta Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. "Ora gli imputati subiranno un giusto processo per le loro gravissime responsabilità" chiosa l’avvocato di famiglia, Fabio Anselmo. L’inizio del dibattimento è previsto per il 13 ottobre davanti alla terza Corte d’Assise, nell’aula bunker di Rebibbia. Ma come era nata l’inchiesta bis? Alle pressioni della famiglia, che non si è mai arresa, si è unita una circostanza favorevole. Le rivelazioni di un detenuto che aveva trascorso una notte in cella con Cucchi dolorante e che lo aveva sentito indicare nei carabinieri i responsabili delle percosse. La testimonianza di Luigi L. (questo il nome del detenuto) da sola non sarebbe bastata però, e infatti gli agenti della mobile coordinati dal pm Musarò e dallo stesso procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, hanno proceduto a una rilettura degli atti della prima indagine. Poi si sono affidati alle intercettazioni. Importantissima è stata la conversazione telefonica di D’Alessandro con l’ex moglie Anna Carino. È sua, la voce che, dall’altra parte del telefono, conferma l’ipotesi di un "violentissimo pestaggio" nei confronti del ragazzo: "Non ti ricordi - dice al marito - che mi raccontavi di come vi eravate divertiti a pestare "quel drogato di m.."?". Fondamentale anche l’esito della perizia medica che aveva messo in relazione le percosse con la "successiva abnorme acuta distensione vescicale" nel ragazzo. Vescica "non correttamente drenata" dai medici, usciti di scena grazie alla prescrizione. "La perizia medica acquisita con incidente probatorio, ha escluso qualunque responsabilità dei carabinieri - dice l’avvocato di Tedesco, Eugenio Pini - e questo porterà a una sentenza d’assoluzione" Clandestini, l’affitto in nero è reato di Paolo Accoti Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2017 Cassazione, sentenza 32391 del 5 luglio 2017. Anche l’affitto "in nero" ai clandestini integra il reato di favoreggiamento dell’immigrazione. Per la Corte di cassazione (sentenza 32391/2017) è punibile anche la locazione a prezzi di mercato ma, tuttavia, senza regolare contratto, per la quale l’illegittimo profitto risiederebbe nella possibilità del locatore di evadere le tasse. Per la sussistenza del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina con cessione dell’immobile, previsto e punito dall’articolo 12, comma 5 bis del Dlgs 286/1998 ("Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque a titolo oneroso, al fine di trarre ingiusto profitto, dà alloggio ovvero cede, anche in locazione, un immobile ad uno straniero che sia privo di titolo di soggiorno al momento della stipula o del rinnovo del contratto di locazione, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni"), è necessario l’ingiusto profitto, che può desumersi anche dalle condizioni contrattuali oggettivamente più vantaggiose per il proprietario dell’immobile. In altri termini, non è essenziale lo sfruttamento della sfavorevole condizione dell’immigrato essendo sufficiente che l’illegale condizione dello straniero abbia reso possibile o anche solo agevolato la stipula di un contratto di locazione a condizioni concretamente più vantaggiose per il locatore. Come, appunto, l’evasione fiscale conseguente alla mancanza di un regolare contratto, come ha detto la Corte di cassazione con la sentenza n. 32391, pubblicata in data 5 luglio 2017. La vicenda traeva origine dall’esposto dell’amministratore di condominio, insospettito dal continuo via vai di donne e uomini all’interno dello stabile dallo stesso amministrato. La Corte d’appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado, assolveva il locatore dal reato per aver dato alloggio, a titolo oneroso, a stranieri privi di permesso di soggiorno, perché "non era stata raggiunta la prova del dolo specifico di volere trarre profitto dalla condizione di clandestinità degli inquilini, e ciò perché non poteva parlarsi di canone di locazione esorbitante rispetto a quello normalmente praticato; veniva ritenuto equo un canone di 700,00-800,00 euro e quello riscontrato nel processo era comprensivo di ogni spesa, per cui non veniva considerato esorbitante", con ciò rilevando come la locazione di immobili a stranieri irregolari non era di per sé reato. La Cassazione, cassando con rinvio, richiama però il suo orientamento, per cui "per la sussistenza del reato previsto dall’art. 12, comma 5 bis, D.Lgs. n. 286 del 1998 (...), è richiesto il fine di trarre un ingiusto profitto dalla locazione ovvero dal dare alloggio ad uno straniero privo di titolo di soggiorno, fine che può essere desunto da condizioni contrattuali oggettivamente più vantaggiose per l’agente, ma che non devono necessariamente tradursi in un sinallagma eccessivamente gravoso per lo straniero (Sez. 3, n° 17117 del 20.01.2015, Rv. 263232)". Pertanto, non risulta "necessario che il profitto abbia anche la sua esclusiva causa nell’odioso sfruttamento di tale condizione ad esclusivo vantaggio del contraente più forte in grado di imporre condizioni gravose ed esorbitanti, ma è sufficiente che la illegalità della condizione della persona straniera abbia reso possibile o anche solo agevolato la conclusione del contratto a condizioni oggettivamente più vantaggiose per la parte più forte, condizioni che non necessariamente si devono tradurre in un sinallagma eccessivamente gravoso per il soggetto clandestino (...)". Maltrattamenti in famiglia, l’abitualità delle molestie non assorbe il reato di "lesioni" di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2017 Tribunale di Campobasso - Sezione 2 - Sentenza 5 aprile 2017 n. 129. "Il delitto di maltrattamenti in famiglia si concreta nella sottoposizione dei familiari ad atti di vessazione continui e tali da cagionare agli stessi sofferenze, privazioni, umiliazioni che costituiscano fonte di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di esistenza". Lo ha stabilito il Tribunale di Campobasso, sentenza n. 129 del 05 aprile 2017, condannando a 15mesi di reclusione (pena sospesa) per "maltrattamenti" e "lesioni aggravate" un marito separato ma ancora convivente con la moglie. Per il giudice, che cita un precedente di Cassazione (n. 28367/2004), infatti: "La diversità obiettività giuridica del reato di maltrattamenti in famiglia e di quello di lesioni personali volontarie esclude l’assorbimento del secondo nel primo, rendendoli concorrenti tra loro". Tornando al reato di maltrattamenti, da una valutazione complessiva del materiale probatorio, costituito da numerosi referti medici, dalla testimonianza della donna e della figlia, argomenta il Tribunale, è stato possibile desumere la "non sporadicità o mera episodicità delle vessazioni verbali e fisiche" subite ad opera del marito che spesso tornava a casa ubriaco. L’elemento caratterizzante del reato di maltrattamenti, prosegue, "è il requisito dell’abitualità della condotta, che ne giustifica l’autonoma valenza illecita rispetto alla perseguibilità delle singole condotte aggressive, e richiede una specifica dimostrazione, che solitamente è dato ravvisare in fatto nella continuità temporale degli interventi, nella loro modalità espressiva, ove idonea da sola a manifestare il disprezzo per la vittima e la volontà sopraffattrice". "Ed invero, continua il tribunale, comportamenti abituali caratterizzati da una serie indeterminata di atti di molestia, di ingiuria, di minaccia e di danneggiamento, manifestano l’esistenza di un programma criminoso di cui i singoli episodi, da valutare unitariamente, costituiscono l’espressione ed in cui il dolo si configura come volontà comprendente il complesso dei fatti e coincidente con il fine di rendere disagevole in sommo grado e per quanto possibile penosa l’esistenza dei familiari". Così ricostruita la fattispecie, "è indubbio, continua la decisione, che il rapporto non fu, all’epoca dei fatti, contrassegnato da una semplice litigiosità, quanto piuttosto da costanti, immotivate, aggressioni morali e fisiche … tali da procurare una situazione di sopraffazione sistematica della moglie". A cui deve aggiungersi l’episodio, anch’esso certificato, di una testata in pieno volto che ha provocato la frattura delle ossa nasali della donna e la separata imputazione per lesioni aggravate. Mentre il fatto che i singoli episodi costituenti nel loro complesso la condotta criminosa "siano commessi durante lo stato di ubriachezza è fatto irrilevante: l’ubriachezza, infatti, non esclude il dolo". Ne deriva che in tema di reati contro la famiglia, ed in particolare di reati "tra coniugi", occorre di volta in volta verificare "se la condotta irrispettosa dell’un coniuge verso l’altro assuma connotati di tale gravità da costituire per il soggetto passivo - come si è appena precisato - fonte abituale di sofferenze fisiche e morali (nel qual caso è configurabile l’ipotesi delittuosa dell’art. 572 c.p.), ovvero si concreti nella inosservanza cosciente e volontaria dell’obbligo, nascente dal matrimonio, di assistenza morale ed affettiva verso l’altro coniuge (nel qual caso si versa nell’ipotesi dell’art. 570 comma 1 c.p.) ovvero, infine, abbia carattere meramente estemporaneo ed occasionale, nel senso che sia solo l’espressione reattiva di uno stato di tensione, che comunque può sempre verificarsi nella vita di coppia (nel qual caso si dovrà eventualmente fare richiamo a figure criminose estranee ai delitti contro la famiglia e rientranti tra quelli contro la persona)". Notifiche via Pec, l’errore di persone non obbliga l’avvocato a intervenire di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2017 Corte di cassazione, sentenza 10 luglio 2017, n. 33304. È nulla la notifica via Pec al difensore del decreto di citazione in giudizio, se negli allegati si fa riferimento a soggetti diversi che non hanno niente a che vedere con l’imputato assistito dal professionista. Né sul legale incombe l’onere di attivarsi per ottenere dagli uffici un’informazione corretta. Lo ha stabilito la Cassazione nella sentenza n. 33304, accogliendo il ricorso di un ultrà condannato dalla Corte di appello di Genova a quasi 5mila euro di ammenda per aver "indebitamente" superato la separazione fra due settori degli spalti di uno stadio durante una partita. L’imputato ha lamentato l’omessa notifica del decreto di fissazione dell’udienza: il suo legale aveva ricevuto per posta elettronica due comunicazioni (come difensore e come domiciliatario) "concernenti la convocazione per la data in cui si è poi effettivamente celebrato il processo di appello" riguardanti però "tutt’altro giudizio a carico di altro individuo". Per cui alla fine il giudizio si era svolto in assenza dell’imputato e con l’assistenza di un difensore di ufficio. La Cassazione ha verificato la "correttezza" di quanto affermato dal ricorrente. Poi ha affermato che sebbene la giurisprudenza dominante "vieti l’utilizzo della posta elettronica per le notificazioni laddove queste siano effettuate direttamente alla persona fisica dell’imputato" (non dunque quelle eseguite "mediante consegna al difensore del medesimo"), tuttavia nel caso in esame la "materialità dell’atto" portato a conoscenza dell’imputato, attraverso il difensore, "ha avuto un contenuto del tutto estraneo alle parti in giudizio, tale da non consentire loro di apprendere affatto le informazioni cui la notificazione era preordinata". Né, prosegue la Cassazione, può ritenersi che la notificazione di un atto, "dall’ambiguo contenuto", seppure di "certa provenienza" e "natura giudiziaria", possa innescare in capo al ricevente "un onere di informazione in ordine al suo corretto contenuto". Un tale onere, prosegue la decisione, sarebbe pretendibile solo se l’atto contenesse tutti gli "elementi essenziali". Ma non lo è un atto di citazione "erroneo" nella "indicazione della sentenza impugnata, del reato contestato, del locus o del tempus commissi delicti" o quando contenga "la citazione in giudizio di soggetti del tutto diversi dall’effettivo imputato". Per cui notifica nulla, giudizio "viziato in radice e sentenza annullata con restituzione degli atti al giudice d’appello che dovrà rinnovare la citazione. Pena per il reato continuato stabilita nell’incidente di esecuzione Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2017 Reato continuato - Principio di correlazione tra accusa e sentenza - Sanzione in concreto applicabile - Aumento della pena prevista per la violazione più grave - Principio di legalità. Non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza la decisione di condanna che riconosce la sussistenza della continuazione tra più condotte e non un unico fatto di reato, anche qualora nel capo di imputazione non vi sia il riferimento espresso all’articolo 81 c.p., essendo rilevante solo la completa descrizione del fatto e non anche l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate. Peraltro, una volta riconosciuta la continuazione tra i reati, le sanzioni previste per le violazioni minori non esplicano alcun effetto, dovendosi solo procedere all’aumento della pena prevista per la violazione più grave, essendo la nuova entità disancorata dalle rispettive specifiche sanzioni edittali. Come ha rilevato anche la Corte costituzionale, infatti, costituisce pena legale non solo quella stabilita dalle singole fattispecie incriminatrici ma anche quella risultante dalle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio quali sono appunto le norme riguardanti il reato continuato. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 26 maggio 2017 n. 26450. Esecuzione - Giudice dell’esecuzione - Concorso formale e reato continuato - Continuazione riconosciuta in fase esecutiva tra fatti oggetto di distinte condanna - Sospensione condizionale della pena concessa per uno solo di essi - Estensione a quella complessivamente determinata - Condizioni. In tema di applicazione nella fase esecutiva della disciplina del reato continuato, una volta ritenuta, da parte del giudice dell’esecuzione, l’unicità del disegno criminoso tra due fatti oggetto di due diverse sentenze e applicata agli stessi la disciplina del reato continuato, la sospensione condizionale della pena già disposta per uno dei due fatti non è automaticamente revocata, essendo compito del giudice valutare se il beneficio già concesso possa estendersi alla pena complessivamente determinata ovvero se esso debba essere revocato perché venuti meno i presupposti di legge. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 28 febbraio 2017 n. 9756. Stupefacenti - In genere - Corte costituzionale, sent. n. 32 del 2014 - Reviviscenza dell’originario trattamento sanzionatorio - Droghe cosiddette "leggere" - Regime sanzionatorio di maggior favore per il reo - Configurabilità - Pena inflitta a titolo di continuazione - Pronuncia di incostituzionalità - Incidenza - Annullamento con rinvio limitatamente alla determinazione dell’aumento di pena - Necessità. Per essere considerata "legale", la pena per il reato continuato, deve rispettare un duplice limite: uno interno (il multiplo della pena-base, che costituisce il confine dell’aumento da apportare), l’altro esterno (in quanto la pena non può, ai sensi dell’articolo 81 cod. pen., comma 3 essere superiore a quella "che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti", vale a dire al cumulo materiale). • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 28 maggio 2015 n. 22471. Stupefacenti - In genere - Corte cost., sent. n. 32 del 2014 - Reviviscenza dell’originario trattamento sanzionatorio - Droghe cosiddette "leggere" - Regime sanzionatorio di maggior favore per il reo - Configurabilità - Pena inflitta a titolo di continuazione - Pronuncia di incostituzionalità - Incidenza - Annullamento con rinvio limitatamente alla determinazione dell’aumento di pena - Necessità. Nel reato continuato l’individuazione della violazione più grave, ai fini del computo della pena, deve essere effettuata con riguardo alla valutazione compiuta in astratto dal legislatore, sulla pena in concreto da infliggere per tale illecito, deve essere, poi, applicato l’aumento di pena per la continuazione (da contenersi nel limite massimo del triplo della pena-base). I reati meno gravi perdono la loro autonomia sanzionatoria, in quanto il relativo trattamento sanzionatorio "confluisce" nella pena unica irrogata per tutti i reati concorrenti. Da qui il più ampio concetto di pena legale (non solo quella stabilita dalle singole fattispecie incriminatrici, ma anche quella risultante dalle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio, quali sono, appunto, tra le altre, quelle concernenti il reato continuato). Ed è, in ultima analisi, tale procedura di omologazione sanzionatoria ciò che consente che il cumulo giuridico possa avvenire tra pene diverse sia nel genere (detentive o pecuniarie) che nella specie (reclusione o arresto ovvero multa o ammenda). Corte cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 maggio 2015 n. 22471. Pena - Accessoria - Condanna per reato continuato - Pena principale quale riferimento per l’irrogazione della pena accessoria - Individuazione - Riferimento alla pena complessiva - Esclusione - Riferimento alla pena base - Necessità. In caso di condanna per reato continuato, la pena principale alla quale si deve fare riferimento per stabilire la durata della conseguente pena accessoria è quella inflitta per la violazione più grave, come determinata per effetto del giudizio di bilanciamento tra le circostanze attenuanti e aggravanti, e non già quella complessivamente individuata tenendo conto dell’aumento per la continuazione. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 11 novembre 2015 n. 45190. Toscana: quando la regione divenne il "carcere d’Italia" di Franca Selvatici La Repubblica, 11 luglio 2017 "Arrivarono alla spicciolata, pochi per volta; e nessuno se ne accorse". Lo scrive Enzo Ciconte nella sua ricerca del 2009 sulla "Criminalità organizzata in Toscana". I primi deboli campanelli di allarme cominciarono a squillare negli anni Settanta. Nel novembre 1972 Lelio Lagorio, presidente della Regione Toscana, scrive al ministro dell’interno Mariano Rumor e gli esprime preoccupazione per il preannunciato invio in soggiorno obbligato all’Isola del Giglio di Giuseppe Cucinella, uno dei luogotenenti di Salvatore Giuliano, già condannato a tre ergastoli e 161 anni di reclusione. I soggiornanti obbligati, in verità, arrivavano in Toscana da anni: 228 dal 1961 al 1972. Fra di loro Filippo e Vincenzo Rimi nell’isola di Capraia e Saverio Mammoliti a Rosignano Marittimo. La Toscana è stata la terza regione italiana per numero di soggiornanti obbligati dalla Sicilia e dalla Calabria. Nel 1986 fu inviato a Cinigiano Ignazio Salvo. E dagli Anni Ottanta sono stati spediti in Toscana anche decine di camorristi. "È stata la legge peggiore che si potesse fare", spiegò agli studenti di Lucca nel 1996 Antonino Caponnetto, riferendosi al soggiorno obbligato. Da alcuni anni quella pessima legge era stata abrogata ma l’infezione si era già diffusa. Anche perché il contagio era avvenuto non solo per quella via. Già all’inizio degli Anni Ottanta la Toscana "era il carcere d’Italia". Un quinto dei detenuti italiani erano reclusi nei 16 istituti toscani che dal 1987 al ‘92 ospitarono 1.147 detenuti per delitti di criminalità organizzata. Molti di loro furono seguiti dalle famiglie e dopo la scarcerazione restarono in Toscana, trovando terreno fertile sia per le attività illegali, in particolare i traffici di droga, sia per investimenti in agricoltura, nella edilizia, nel commercio e nel turismo. I segnali del contagio erano già abbastanza chiari nei primi Anni Ottanta. Il 16 ottobre 1981 a Gambassi, nella tenuta I Casciani, un gruppo di fuoco uccise due ex soggiornanti obbligati, Giuseppe Milazzo e Salvatore Mancino. Milazzo era stato mandato nel ‘69 in Toscana da Alcamo. Commerciava in vini ma secondo le accuse controllava con il figlio Vincenzo, rimasto in Sicilia, la raffineria di Alcamo che produceva eroina per Cosa Nostra, così fondamentale per l’economia mafiosa che il 25 gennaio 1983 costerà la vita al pm di Trapani Giangiacomo Ciaccio Montalto e il 2 aprile 1985 a Barbara Asta e ai suoi gemellini Giuseppe e Salvatore fatti a pezzi in un attentato destinato al pm Carlo Palermo. Il 21 gennaio 1983, grazie a una segnalazione giunta dagli Stati Uniti, la polizia sequestrò 81 chili di eroina (una quantità enorme per l’epoca) in un piccolo calzaturificio a Sant’Angelo a Lecore, a pochi chilometri da Firenze. L’analisi dell’agenda del titolare, Gaetano Giuffrida, portò gli inquirenti a un potente boss palermitano, Masino Spadaro, re del quartiere palermitano della Kalsa, che fu arrestato nel giugno successivo. La scoperta che in Toscana agivano uomini al servizio di pericolosi capimafia fece una certa impressione. Passò invece quasi sotto silenzio l’arrivo in provincia di Siena del costruttore palermitano Vincenzo Piazza. Fra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta Piazza acquistò la sterminata e magnifica tenuta agricola di Suvignano, 713 ettari, a Monteroni d’Arbia. Nel 1983 Giovanni Falcone, che lo riteneva in rapporti con la mafia, gliela sequestrò, ma Piazza riuscì a tornarne in possesso. A Monteroni d’Arbia c’è chi lo ricorda come un distinto gentiluomo di campagna. Nel 1994 fu arrestato proprio a Suvignano per associazione mafiosa e la tenuta gli fu sequestrata insieme con il suo sterminato patrimonio immobiliare, valutato 2000 miliardi di lire. Per l’accusa, Piazza investiva per conto di Riina e Provenzano. Sardegna: la morte di Doddore e la realtà delle carceri di Giampaolo Cassitta La Nuova Sardegna, 11 luglio 2017 Grande è il disordine sotto il cielo ma la situazione, a dispetto di quello che pensava il rivoluzionario cinese Mao Tse Tung, non è proprio eccellente. La morte dolorosissima di Doddore Meloni non è da attribuire al carcere e tantomeno alla sua fede indipendentista. Meloni era stato condannato per ragioni fiscali: la sua pena, frutto di un cumulo giuridico, era di cinque anni per il reato di bancarotta per distrazione e quella condanna era definitiva. Le porte del carcere erano diventate obbligatorie in quanto superavano di un anno la possibilità di ottenere dei benefici. Non intendo entrare nel merito della condanna e dell’innocenza sempre dichiarata da Meloni. La sentenza era passata in giudicato e a quel punto andava "onorata". Doddore Meloni sotto questo profilo è stato uomo d’onore e aveva deciso di consegnarsi spontaneamente in carcere e lo ha fatto dichiarando, da subito, di voler intraprendere lo sciopero della fame che ha attuato sino alla sua morte avvenuta in ospedale, a Cagliari. Questi sono i fatti. Intorno alla morte di Doddore Meloni c’è stata una vera e propria rincorsa ad accusare o assolvere chi di questa vicenda si è occupato. C’è stato anche chi, attraverso un appello al Presidente della Repubblica, ha chiesto gli arresti domiciliari e negarli, nel caso di Doddore significava "negare nei fatti la possibilità di cure adeguate, per un caso che non presenta elementi di pericolosità sociale, rischi di fuga né di reiterazione del reato". È evidente che l’Onorevole è incorso in un errore in quanto gli arresti domiciliari non possono essere concessi a detenuti con la pena passata in giudicato, ma non è solo questo il punto. C’è stato anche chi ha accusato lo Stato di avere infierito e perseguitato Meloni a causa delle sue idee. Non entro nel merito della questione, mi limito ad osservare che i reati per i quali Meloni è stato condannato non c’entrano nulla con le idee, rispettabilissime, che egli manifestava. Lo sciopero della fame è uno strumento che molte persone utilizzano per evidenziare alcune problematiche e per chiedere di illuminare zone d’ombra che nessuno vuole vedere. Marco Pannella è stato un grande condottiero e utilizzatore dello sciopero della fame. In carcere questa forma di protesta pacifica e rispettabilissima è catalogata come "evento critico". Tutti i giorni, in tutti i penitenziari italiani ci sono detenuti in sciopero della fame per motivi molto nobili: non riescono a parlare con il giudice, non vedono i propri familiari, chiedono da mesi dei permessi, altri intraprendono la strada dello sciopero perché ritengono di essere ingiustamente condannati. È l’evento critico più utilizzato in Italia. Molti di loro lo sospendono perché riescono a parlare con qualcuno, altri perché, comunque, ottengono il risultato di essere stati rassicurati su quello che chiedevano. Gli operatori, da sempre, si prodigano nel voler mediare tra lo scioperante e le altre persone coinvolte. Il processo di mediazione necessita che il detenuto sia disposto ad ascoltare e comprendere alcuni passaggi giuridici e amministrativi. Sicuramente a Doddore Meloni, come a tutti i detenuti, è stato chiesto di desistere, è stato proposto un programma che prevedeva, per esempio, la possibilità di ottenere dopo il primo anno di detenzione, l’affidamento in prova al servizio sociale o la detenzione domiciliare. Gli strumenti giuridici ci sono tutti ma Doddore ha preferito non utilizzarli. Era un suo diritto non farlo. Il dovere dello Stato era salvaguardare la sua salute. Nel carcere di Cagliari Uta esiste un reparto simile ad un ospedale e ci lavorano professionisti validi e attenti. Medici, infermieri che quotidianamente affrontano tantissime emergenze. Meloni è rimasto nel reparto ospedaliero del carcere sino a quando il responsabile non ha deciso che, per accertamenti, era necessario un ricovero esterno. Addolora moltissimo la morte di un uomo che ha deciso coscientemente di continuare sino alle estreme conseguenze. Addolora, comunque, non comprendere alcuni passaggi e gli sforzi che moltissimi uomini, nel silenzio delle mura penitenziarie, fanno per garantire la salute e la dignità a tutti i detenuti, Meloni compreso. Lazio: Coni e Regione, porte aperte allo sport nelle carceri altolazionotizie.it, 11 luglio 2017 Una iniziativa di sport sociale che, grazie anche al protocollo d’intesa firmato con la Regione Lazio, quest’anno potrà ampliarsi agli istituti di pena di Rieti, Cassino, Viterbo, Latina e alla stessa sezione femminile di Rebibbia, dove sono previsti e in alcuni casi già partiti, percorsi sportivi come quello messo in campo a Rebibbia. Finale di stagione nella sezione penale di Rebibbia per il progetto "Lo sport entra nelle carceri", coordinato dal Coni Lazio e condiviso dalla Regione, attraverso l’assessorato allo sport e alle politiche sociali. Oggi a partire dalle ore 9, si svolgerà la festa a consuntivo delle discipline attivate nei mesi scorsi in collaborazione con le federazioni calcio, tennis, pallavolo e le attività libere di bocce e tennistavolo. Nell’occasione verrà anche donato alla sezione ricreativa del carcere un biliardino da parte della Ficb (Federazione Calciobalilla). E mentre sul campo di calcio dell’istituto di pena capitolino una rappresentativa mista di attori e giocatori del campionato dilettanti romano, capitanata dal comico Antonio Giuliani e formata, tra gli altri, da Carmine Faraco e Antonio Cesaretti, sfiderà la squadra di "casa" coordinata dal tecnico federale Giulia Lisi, sul "centrale" di tennis poco distante Flavio Cipolla metterà alla prova le capacità dei tennisti allenati nei mesi scorsi dal maestro Andrea Pelliccioni. Una collaborazione di lunga data quella tra il Comitato Lazio del Coni e l’Amministrazione penitenziaria di Rebibbia, che nel 2013 con lo slogan "sport diritto di tutti" ospitò la prima Giornata Nazionale dello Sport all’interno di un carcere. Una iniziativa di sport sociale che, grazie anche al protocollo d’intesa firmato con la Regione Lazio, quest’anno potrà ampliarsi agli istituti di pena di Rieti, Cassino, Viterbo, Latina e alla stessa sezione femminile di Rebibbia, dove sono previsti e in alcuni casi già partiti, percorsi sportivi come quello messo in campo a Rebibbia. Lecce: da detenuti a contadini nella serra della speranza di Angela Natale Quotidiano di Puglia, 11 luglio 2017 Agricoltori dietro le sbarre: il progetto di Impresa Intramuraria. Una serra di pomodori nel deserto della vita carceraria. Si può fare. Francesco, architetto, 15 anni tra le sbarre, fine pena mai, all’inizio era scettico, titubante, persino infastidito dall’idea di riconvertirsi in agricoltore. La terra arida, dura come la pietra, incolta, zeppa di sterpaglia. E attorno i bracci della casa circondariale: paesaggio stereotipato vinto dal grigio, dentro, come fuori. Ma la natura è la metafora della vita che rinasce, stagione dopo stagione; e i colori - ai quali prima non si faceva caso - puntellano desideri repressi e alimentano la speranza. "Processo catartico", lo definisce Francesco. Più che aiutare a ricostruire se stessi, aiuta a vedere ciò che da uomo libero ti sfuggiva: l’azzurro del cielo, il soffiare del vento, la terra che profuma, se ci porti la vita. Loro, Maria Antonietta e Luigi Zecca lo hanno fatto, sfidando burocrazia, tecnicismi, riluttanze varie. A cominciare dalle perplessità dei detenuti, anche di coloro i quali alla fine, proprio come Francesco, diranno sì. Lo faranno in 15. Tutti di alta sicurezza. E non se ne pentiranno. È dicembre 2015 quando l’attività di formazione in aula prende il via. E con essa la realizzazione delle serre che vengono montate in un perimetro di mille metri quadri. A settembre 2016 i primi frutti, le prime emozioni, i primi entusiastici commenti: "È un’attività che dimostra cosa si può ottenere imparando un mestiere, perché la terra i frutti te li fa vedere e, se sono buoni, nessuno può dire il contrario, indipendentemente da chi li coltiva, un libero cittadino o meno". Duemiladuecento piantine di pomodori piantate, a un anno di distanza la direttrice del carcere di Lecce, Rita Russo, conferma la bontà dell’operazione e rilancia il progetto mentre attraversa i filari carichi di melanzane, peperoni e zucchine che nel giro di un anno sono andati ad arricchire l’iniziale produzione di ortaggi. La raccolta annua legata all’oro rosso di Puglia è stimata in circa 50 quintali suddivisi tra pomodoro per insalata, salsa e ciliegino. Non ce n’è uno solo ammaccato, macchiato, appassito. È la vittoria dell’imprenditrice Maria Antonietta Zecca (da un trentennio impegnata nello sviluppo di imprese sociali e marketing) che ha trasformato l’idea delle serre in carcere in progetto finanziabile; e della cooperativa San Rocco di Leverano che, col supporto prezioso dell’agrotecnico Luigi Zecca, ha trasformato il progetto in realtà. L’idea di estendere all’esterno la vendita dei prodotti in eccesso rispetto al fabbisogno del carcere, al momento resta un sogno. Parte della merce viene utilizzata nelle cucine del penitenziario, altra viene venduta - a prezzi di gran lunga inferiore a quelli di mercato - al personale e, all’occorrenza, ai detenuti. Prodotti a km zero, in tutto e per tutto. Il progetto in questo modo si auto-sostiene, mentre parte del ricavato viene reinvestito nelle tante attività di carattere sociale, umanitario e riabilitativo che l’istituto Borgo San Nicola sforna a getto continuo grazie alla lungimiranza della sua direttrice. Finanziato attraverso le somme destinata dal ministero a "Impresa intramuraria" accantonate presso la cosiddetta Cassa ammende, a fine agosto l’esperienza conclude il suo primo ciclo. L’obiettivo è quello di farne una vera e propria azienda agricola in grado nel tempo di camminare da sola, nel frattempo l’area agricola dovrebbe essere data in comodato d’uso gratuito tramite una cooperativa. Insomma, non finisce qui. Anzi. Lo scetticismo iniziale di questi "coltivatori d’eccezione", come li ha definiti la direttrice del carcere, si è trasformato presto in sfida personale tanto che si vorrebbero impiantare nuove serre e allargare il campo d’azione a nuovi prodotti, dando così la possibilità di offrire ad altri detenuti spazi di libertà e un lavoro (il guadagno è un terzo della paga sindacale di un lavoratore agricolo) da cui ripartire scrollandosi di dosso le etichette. Qui di etichetta ce n’è una sola ed è quella apposta sulle buste preconfezionate delle singola merci in vendita: "Pomodori da insalata prodotti in serra. Casa circondariale di Borgo San Nicola". Lecco: Garante dei detenuti, proroga per le candidature leccoonline.com, 11 luglio 2017 Il Comune di Lecco ha prorogato la data di presentazione delle candidature per l’incarico di Garante dei detenuti al 26 luglio 2017 alle ore 15.30. Gli interessati a svolgere il ruolo di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale possono presentare la propria candidatura entro tale data all’Ufficio Protocollo del Comune di Lecco, durante gli orari di apertura, mediante l’allegato modello corredato da dettagliato curriculum vitae (clicca qui). Con deliberazione n. 5 del 27 gennaio 2014 il Consiglio Comunale di Lecco ha istituito la figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, approvandone il relativo regolamento (aggiornato con deliberazione n. 41 del 25 luglio 2016). L’incarico attribuito dal Sindaco il 26 maggio 2014 per il primo triennio è in scadenza. L’incarico di Garante è incompatibile con l’esercizio di funzioni pubbliche nei settori della giustizia e della pubblica sicurezza nonché della professione forense. È esclusa la nomina nei confronti del coniuge, di ascendenti, discendenti, parenti e affini fino al terzo grado di amministratori comunali e del personale che opera nella Casa Circondariale. Il Garante dura in carica tre anni; lo svolgimento delle funzioni attribuite è a titolo onorifico e non è prevista alcuna indennità salvo un rimborso spese documentate. Nelle more della proroga temporanea dell’attuale incarico fino a nuova nomina, tutti gli interessati a svolgere il ruolo di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale possono presentare la propria candidatura al Comune di Lecco entro le ore 15.30 di mercoledì 26 luglio 2017. Napoli: studenti universitari con i detenuti per progetti di reinserimento ildenaro.it, 11 luglio 2017 Tre progetti di sostegno e reinserimento con i detenuti delle carceri napoletane, per dimostrare che si può coniugare mondo accademico e sociale. È questa l’idea alla base di "Società pericolosa", il movimento universitario che sta portando avanti dei programmi in collaborazione con gli istituti di pena di Poggioreale e Secondigliano a Napoli. "È la nostra risposta a un mondo di poca coesione sociale, forte spinta al successo individuale e di una umanità che tende a schiacciare il prossimo", spiega Marco De Martino, docente di criminologia all’Università Federico II di Napoli, animatore dell’iniziativa. "Il progetto è partito cinque anni fa - spiega De Martino - con una collaborazione con l’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa: l’idea di di base è di far fare all’università qualcosa di utile anche fuori dalle aula". E così è nato un gruppo di studenti e ricercatori, ma anche di giovani professionisti appena usciti formati dall’ateneo, che si è ampliato fino a portare allo sviluppo di tre progetti diversi. Il primo riguarda Napoli, dove "Società pericolosa" ha in programma di trasformare i detenuti in accompagnatori turistici: l’idea è alla fase iniziale, quella della selezione, insieme ai direttori delle carceri di Poggioreale e Secondigliano, dei detenuti adatti a volgere il compito. "Il detenuto - spiega De Martino - farà un breve periodo di formazione e poi sarà autorizzato a uscire per accompagnare i turisti in giro nel ventre di Napoli. Non sarà una guida turistica ma un accompagnatore, che potrà far scoprire luoghi della città meno noti, facendoli vivere al turista dal di dentro a aiutandoli anche con treni, trasporti pubblici, ristoranti". Il progetto è sviluppato in collaborazione con la Borsa Mediterranea del Turismo che si tiene ogni anno a Napoli e che ha contatti con una fitta rete di tour operator internazionali. È già partito, invece, il progetto che De Martino definisce di "rimozione degli ostacoli", per i detenuti. Un gruppo di lavoro di studenti di Scienze Politiche, o di laureati che già lavorano nel campo dell’assistenza sociale, si mette a disposizione dei detenuti che devono ottenere documenti, accedere a pratiche burocratiche, compiere adempimenti per la pensione. "L’idea - dice il docente - è che vedendo lo stato come meno estraneo e passando dalla pena come sofferenza alla pena come diritto, è più facile la via della risocializzazione". De Martino ha poi organizzato un gruppo di lavoro di studenti che parteciperanno sul campo a delle difese di soggetti segnalati dalle istituzioni: "I ragazzi faranno parte di collegi difensivi, lavoreranno sugli atti, terranno colloqui in carcere con detenuti. Un lavoro impegnativo che li aiuterà nella loro carriera, perché a vent’anni difendere un ergastolano è un’esperienza molto importante" conclude De Martino. Porto Azzurro (Li): un carcere che cresce nella realizzazione del "sogno" costituzionale di Nunzio Marotti* elbareport.it, 11 luglio 2017 L’inaugurazione del panificio e dell’area verde nella Casa di reclusione "P. De Santis" di Porto Azzurro è stata l’occasione per riportare l’attenzione sulle finalità del carcere. I numerosi presenti, espressione del mondo economico e istituzionale elbano nonché i diversi operatori che gravitano attorno al "pianeta carcere", hanno potuto ascoltare parole "costituzionalmente corrette" e vedere come sia possibile intraprendere e consolidare percorsi virtuosi. Il direttore del penitenziario, Francesco D’Anselmo, e il commissario di polizia, Giuliana Perrini, hanno presentato la realtà locale. Ed è stato il sottosegretario alla giustizia, Cosimo Maria Ferri, a offrire motivi di ampia e approfondita riflessione. Lo ha fatto all’insegna del ringraziamento a ognuno dei soggetti presenti, un riconoscimento all’impegno quotidiano e alle potenzialità. Ferri ha ricordato la funzione della pena: rieducare per il reinserimento. Questo è il motivo per cui esiste il sistema penitenziario. Una finalità che vede coniugare con sapienza l’aspetto educativo con il fattore sicurezza, elemento delicato che è affidato alla intelligenza, alla competenza e all’umanità degli agenti di polizia. E, in questa funzione, al carcere di Porto Azzurro deve essere riconosciuta una crescita significativa registratasi negli ultimi due anni. "A dimostrazione - ha sottolineato il sottosegretario Ferri - che gli uomini possono fare la differenza e rimettere in moto meccanismi che, talvolta e per svariati motivi, si inceppano". Da garante dei diritti dei detenuti, presente in questa veste da poco meno di due anni, sottoscrivo le parole del sottosegretario, affermando che sono tanti i segnali positivi di quello che ho definito "un nuovo e positivo dinamismo" che ha preso il via in particolare - due anni fa - con l’incarico di direttore assegnato a Francesco D’Anselmo. Certamente esistono diverse criticità: alcune dovute a fattori interni altre a situazioni di carattere nazionale e regionale. Fa ben sperare, però, seppure fra difficoltà, la mentalità di programmazione che si sta affermando, una politica della gradualità che dà frutti. Giustamente è stato segnalato il tema del lavoro dei detenuti. Passare da 30 a 84 persone in regime di art. 21 (ammissione al lavoro esterno), a cui si aggiungono una cinquantina nei lavori interni, su un totale di circa 260 reclusi, rappresenta un elemento che incoraggia a proseguire nell’impegno. Il miglioramento della vivibilità interna, con le varie attività scolastiche-culturali-sportive e la dotazione di spazi (come l’area verde esterna, destinata ai colloqui con i familiari, dotata di attrezzature confortevoli e ludiche per sottrarre i bambini ad impatti ambientali sfavorevoli), sono la dimostrazione che si può procedere in modo virtuoso. L’attenzione del territorio, la cosiddetta partecipazione della comunità esterna alle attività trattamentali, rappresenta un fattore decisivo di sviluppo. La rete di rapporti, a cui il direttore D’Anselmo si dedica, sicuramente darà ulteriori risultati, soprattutto in ambito lavorativo e in quello culturale. Sì, perché quella culturale è la sfida maggiore. Nei confronti del carcere (o è meglio dire: nei confronti del condannato che sconta la sua pena) esistono tante posizioni, frutto quasi sempre di ragionamenti diversamente motivati. Esiste un baluardo, una linea di confine invalicabile, a Costituzione vigente, che è l’art. 27 della Carta: trattamento umano e rieducazione per il reinserimento sociale. Su questo lavoro culturale tutti devono sentirsi impegnati, ma in modo particolare la scuola, gli opinionisti ("intellettuali") e i giornalisti. E circa la scuola, posso affermare per esperienza diretta che la visione del carcere e del detenuto si modifica nel momento in cui, dalla classificazione (etichettatura), si passa all’incontro, ai volti che comunicano, all’ascolto reciproco. Concludo questo intervento con due speranze, che diventano invito a coloro che hanno il potere di assumere decisioni. Prima speranza. Per rilanciare in modo ottimale la Casa di reclusione elbana è necessario non perdere di vista la sua identità, la sua storia di penitenziario con pene medio-lunghe. Purtroppo, e non solo nella fase di sovraffollamento, sono stati trasferiti a Porto Azzurro condannati a pene brevi o con breve residuo di pena da scontare oppure con problematiche psicologiche e psichiatriche che hanno necessità di strutture specifiche. Spesso si rincorre l’emergenza, a scapito della progettazione. Spero che in questo si possa registrare una inversione di tendenza. A vantaggio dei detenuti e degli operatori. La seconda speranza attiene al lavoro del Governo che, entro settembre, dovrà presentare i decreti delegati sul sistema penitenziario. I decreti dovranno attenersi ai criteri della legge delega. Questi criteri, come è normale, possono essere concretizzati in modi diversi. La speranza è che tecnici e governanti lavorino mantenendosi in ascolto di quanto emerso dal "certosino" lavoro dei diciotto tavoli nazionali (gli Stati generali) dedicati ai diversi ambiti e aspetti del sistema carcerario. *Garante diritti dei detenuti di Porto Azzurro Bolzano: protesta dei detenuti per il caro-spesa. La Uil-Pa: "non ci sono stati disordini" di Sarah Franzosini salto.bz, 11 luglio 2017 Piatti di metallo contro le sbarre per protestare contro i prezzi troppo alti del mini-market nel carcere di Bolzano. Le guardie: "Detenuti incitati da fuori". È cosa nota che nella casa circondariale di Bolzano le condizioni dei detenuti (e del ridotto personale di guardia) siano da tempo insostenibili. L’ultima protesta, in ordine di tempo, è quella andata in scena durante lo scorso weekend, quando alcuni detenuti hanno tentato di richiamare l’attenzione, battendo sulle sbarre delle celle con piatti e strumenti di metallo in modo da farsi sentire anche all’esterno, sui prezzi proibitivi del piccolo market all’interno del carcere. Un malcontento sostenuto anche da alcuni manifestanti di Bolzano Antifascista che su Facebook hanno pubblicato un video che testimonia un momento della protesta. Una "lotta che condividiamo e che non possiamo lasciare relegata e isolata da quattro mura, cosa che sicuramente si augurano i secondini che lavorano lì. La solidarietà è un’arma: impugniamola per abbattere i muri che ci separano", scrivono i manifestanti. Il sindacalista della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Franco Fato minimizza: "È tutto sotto controllo, ieri sera la situazione si è calmata, non ci sono comunque stati particolari disordini, anche se per sicurezza abbiamo chiamato rinforzi. Anche l’anno scorso, nello stesso periodo, ci sono state alcune rimostranze, è una scusa come un’altra per protestare. Allora come oggi alcuni manifestanti si sono radunati sotto il muro di cinta per incitare i detenuti". Per quel che riguarda i costi dei prodotti nel mini market Fato aggiunge: "Cerchiamo di venire incontro ai detenuti il più possibile, ma c’è una Commissione che ogni 6 mesi vigila sui prezzi e il risultato è che siamo nella media rispetto al costo della vita di una città cara quale è Bolzano". Qualcosa, nel frattempo, si muove, restituendo a quanto pare fiducia al personale di guardia della prigione bolzanina: "È arrivato un nuovo comandante da Siena che auspichiamo rimanga in pianta stabile, perché è una persona molto preparata e molto umana, e di una figura così all’interno del carcere c’è estremamente bisogno", così il sindacalista. Vibo Valentia: detenuto in sciopero della fame da 35 giorni, l’appello del padre ilvibonese.it, 11 luglio 2017 Un giovane detenuto protesta per denunciare le "condizioni disumane" vissute nell’istituto di pena vibonese. A dargli voce il genitore pronto a portare il caso in Procura: "Ha perso più di 20 chili, temo per la sua vita". Si trova da ormai 35 giorni in sciopero della fame e in cella d’isolamento nel carcere di Vibo Valentia. Si tratta di un giovane detenuto italiano trasferito da qualche tempo nell’istituto di pena vibonese. Lo stesso ha intrapreso questa estrema forma di protesta per denunciare i disagi e le vessazioni cui sarebbe sottoposto ormai da qualche tempo, come riferisce il padre del ragazzo, O. G., angosciato per le condizioni del figlio cui, a suo dire, non sarebbero garantiti neppure i minimi standard di salute. Una situazione che il genitore appare determinato a denunciare alla Procura della Repubblica di Vibo Valentia, dopo averne prospettato la gravità al personale penitenziario anche nel corso della sua ultima visita in carcere. Qui, durante il colloquio con il figlio, ha avuto modo di verificare in prima persona il suo stato psico-fisico. Lo stesso giovane è infatti apparso fortemente denutrito agli occhi del genitore. "Era un ragazzone di 1 metro e 90 per 120 chili di peso - ha riferito, ne ha già persi più di 20. E se fino a una settimana fa ha accettato di prendere degli integratori e fare delle flebo, ora rifiuta ogni tipo di alimento e di cura, tanto è determinato a portare la sua protesta fino alle estreme conseguenze". Il giovane deve scontare ancora circa un anno di pena per una condanna cumulativa a 10 anni. Un periodo di detenzione che lo ha visto "ospite" di vari istituti carcerari, fino ad arrivare, da circa sei mesi, nella casa circondariale di Vibo Valentia dove la condanna, afferma il padre, si è fatta per lui insopportabile. "Qui sta vivendo il periodo più difficile di sempre - spiega - e ciò che mi ha raccontato della sua vita in questo carcere mi ha fatto rabbrividire: qualcosa di veramente disumano". Ora il detenuto chiede di essere trasferito in un altro carcere e, assicura ancora suo padre, "caparbio e ostinato com’è, non interromperà la protesta finché non avrà risposte. Sono molto preoccupato e anche gli assistenti sociali con i quali ho parlato hanno definito il caso di mio figlio un "fatto senza precedenti". Trentacinque giorni senza mangiare non sono uno scherzo per nessuno. Spero che l’amministrazione penitenziaria prenda coscienza della gravità della situazione e intervenga prima che sia troppo tardi". Questo l’appello di un padre disperato che si è rivolto alla nostra redazione nel tentativo di fare breccia nel muro di silenzio che spesso avvolge le carceri italiane. Un’invocazione accorata che, certamente, è l’auspicio, non resterà inascoltata ma che al tempo stesso deve anche far riflettere sulla funzione del sistema carcerario. Un sistema che, come raccontano le cronache e come spesso anche noi abbiamo documentato, sembra aver smarrito la sua funzione riabilitativa. Milano: Cooperativa sociale Bee4, che da 13 anni dà ai detenuti una seconda opportunità di Valentina Burlando lavocemetropolitana.it, 11 luglio 2017 Un chilometro di corridoio su cui spicca la riproduzione della struggente "Guernica" di Picasso, ma niente sbarre né cancelli. Si presenta così l’ingresso del carcere milanese di Bollate, dove inizia la storia di Pino Cantatore e della cooperativa sociale Bee4, che dal 2013 dà ai detenuti una seconda opportunità. "Tutto comincia nel 1993 a San Vittore con una condanna in via definitiva alla pena dell’ergastolo. Durante la carcerazione ho ripreso gli studi informatici" e "attraverso i libri e il lavoro ho ricomposto il puzzle della mia vita", racconta Cantatore. Gli anni passano, la pena viene ridotta a 30 anni e nel 2012 arriva la semi-libertà. Nel 2013, grazie a quelle congiunzioni astrali che la vita a volte ti offre, nasce Bee4 cooperativa sociale onlus. Il nome ne racchiude già lo scopo: aiutare i più deboli a ricostruirsi. Niente assistenzialismo, ma reinserimento sociale attraverso l’educazione al lavoro: "Più difficile mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’educazione" scriveva l’illuminista Cesare Beccaria. Bee4 sceglie Bollate, perché nel cittadino San Vittore "mancava stabilità per l’elevato turn over dei detenuti". Al principio tutto è partito con un laboratorio adibito a controllo qualità, nella sezione femminile: "Avevamo tre dipendenti, oggi solo per questa attività sono in venti, tra interno e esterno del carcere". Del resto, l’"area industriale" di Bollate è un luogo di lavoro a tutti gli effetti. Sembrerebbe un’utopia, invece è il modello di business che Bee4 propone alle imprese, che raramente conoscono l’opportunità di investire nel carcere. "Quando un’azienda decide di aprire un’attività in carcere diffondiamo una sorta di bando con l’indicazione delle caratteristiche richieste. Quindici giorni dopo con la lista dei "candidati" iniziamo la selezione. Presentiamo al committente una rosa di possibili nuovi assunti e, se approvata, si avvia la formazione. Contrattualmente i detenuti vengono trattati come dipendenti di un’azienda esterna. Ci rifacciamo al contratto nazionale delle cooperative sociali: 13 mensilità, ferie, permessi, contributi e uno stipendio mensile variabile dai 1.000 ai 1.400 euro, a seconda che si lavori nel week-end", spiega Cantatore. Lo stipendio ha un valore altissimo per il detenuto, che può mantenersi e, in caso, aiutare la famiglia. "Ci occupiamo anche delle procedure burocratiche per l’utilizzo degli spazi, il cui costo di allestimento viene solitamente suddiviso con il committente", racconta il fondatore della onlus, sottolineando l’importanza del percorso attraverso cui riprendono forma concetti come "regole" e "responsabilizzazione": "Arrivano ragazzi che non hanno mai lavorato, e in maniera provocatoria dico loro di applicare sul lavoro la medesima serietà che mettevano in una rapina". Bee4 gestisce due call center, un laboratorio per la riparazione delle macchine da caffè ed uno per il controllo qualità, per un totale di 91 dipendenti: "Abbiamo anche un capannone a Cologno Monzese per seguire le persone nel post-pena: quattro ex detenuti lavorano ancora con noi, per me è un’enorme soddisfazione". A Bollate, dove sembra che l’umanità resti fuori, si coltivano invece germogli di una cultura nuova, dove i detenuti si trasformano da costo in risorsa. Roma: oggi si inaugura la "Casa di Leda" per le mamme detenute e i loro bambini di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 luglio 2017 Oggi, alle 16, il ministro della Giustizia Andrea Orlando interverrà insieme alla sindaca di Roma Virginia Raggi alla inaugurazione della Casa di Leda, la casa famiglia protetta per genitori provenienti dalla detenzione con figli minori, realizzata anche grazie al finanziamento di 150 mila euro da parte della fondazione Poste Insieme Onlus. L’edificio, che si trova nel quartiere romano dell’Eur, in via Algeria 11, era stato confiscato alla mafia ed è composto da otto stanze con un giardino intorno dove i bambini potranno scorrazzare insieme alle mamme, colpevoli di reati di non particolare gravità. In pratica, i bambini ristretti con le loro mamme a Rebibbia potranno finalmente liberarsi delle sbarre. Hanno da zero a tre anni, e sono finora costretti a vivere in un ambiente poco edificante per la formazione della loro personalità. Quella di portare i figli in carcere è una possibilità prevista dalla legge 354 del 1975, per le madri di bambini da 0 a tre anni. Il senso è quello di evitare il distacco o, per lo meno, di ritardarlo. C’è anche la detenzione domiciliare come alternativa, ma non sempre il magistrato la concede. Uno dei motivi principali è la residenza inesistente oppure inadatta, e colpisce soprattutto le detenute straniere e rom. Proprio per ovviare a questo problema esiste una legge che contempla anche la realizzazione delle case famiglia protette. Esistono gli istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) attualmente sono a Torino ‘ Lorusso e Cutugno’, Milano ‘ San Vittorè, Venezia ‘ Giudecca, Cagliari e recentemente a Laura, provincia di Avellino-, ma si trattano pur sempre di luoghi ristretti che fanno capo all’amministrazione penitenziaria. Per questo la via da privilegiare rimane la casa famiglia protetta che rimane una valida alternativa all’ingiusta detenzione dei bambini. Ad oggi c’è n’è solamente una, ed è proprio quella che sarà inaugurata oggi a Roma. Fermo (Ap): "L’Altra chiave news" alla guida dei giornali delle carceri delle Marche di Raffaele Vitali laprovinciadifermo.com, 11 luglio 2017 Il Sindaco Paolo Calcinaro: "L’errore ci sta, ma mantenere il dialogo per chi è in attesa della sua seconda possibilità è importante. È un modo per non restare in carcere dentro una volta usciti". "Abbiamo una storia importante da raccontarvi". Angelica Malvatani è la direttrice dell’Altra chiave news. Cinque anni di vita per il progetto che ha sfornato il nono numero. "Non un risultato scontato. E questo numero è speciale perché realizzato con gli studenti della città, all’interno di un percorso di legalità". Il prefetto Mara Di Lullo promuove l’iniziativa: "È di alto valore etico, sia per coloro che stanno dentro, sia per chi sta fuori. Per chi è in carcere e deve scontare una pena, non è scontato che si possa realizzare un dialogo con gli studenti. L’errore ci sta, ma mantenere il dialogo per chi è in attesa della sua seconda possibilità è importante. È un modo per non restare in carcere dentro una volta usciti". L’obiettivo era proprio quello di far superare, almeno ai giovani, i pregiudizi verso i carcerati. Paolo Calcinaro, sindaco e avvocato, è stato uno dei protagonisti dell’attività redazionale (nella foto riceve dalla direttrice un orologio realizzato dai detenuti): "Sono entrato per una intervista e sono diventato parte di un dialogo, di un confronto. Prima di questo giornale il carcere per me era un luogo di lavoro, come avvocato". Per fare uscire un giornale servono risorse. E su questo punto Calcinaro sottolinea il ruolo dei sindaci dell’Ambito XIX che hanno creduto nel 2015 nel progetto del giornale in carcere. "Questo ha permesso di attendere le risorse della regione, quest’anno stanziate". L’impegno non si è fermato lì. Perché il sindaco ha puntato anche sull’inserimento dei carcerati nei lavori socialmente utili: "E oggi sono un riferimento per i residenti. Parliamo di forme di prossimità che riducono il gap e facilitano, come diceva il Prefetto, la seconda possibilità". Se in carcere entra la Malvatani, ma anche un fotografo o degli studenti, il merito va a Eleonora Consoli, la direttrice: "Il carcere di Fermo bistrattato, piccolo e fastidioso, con questo giornale si è mostrato in qualcosa di diverso, facendo capire quello che si fa, nonostante i tanti problemi. Ci siamo riusciti, grazie a un team di lavoro". Un ruolo chiave l’hanno svolto le scuole e la stessa Fermo: "C’era un humus favorevole in questa città. Dal cappellano agli assistenti, dal prefetto agli alunni degli istituti" aggiunge la direttrice. "No è un bel posto il carcere, perché in primis ti toglie la libertà. Questo spiego sempre ai ragazzi. E quando ci siamo seduti con il tavolo della Legalità per pianificare il nuovo numero siamo partiti proprio dalla libertà" precisa la Malvatani. E i ragazzi l’hanno rappresentata in modi diversi la libertà: chi con un disegno, chi con una parola, chi con una foto. "Mi ha stupito la forza di volontà dei detenuti nel portare avanti i progetti ho capito che i miei problemi sono gli ultimi dei loro". Nicola Arbusti racconta come tutto è partito, con un avviso in cui si cercavano dieci detenuti che volessero impegnarsi in questo progetto: "Oggi son qui due dei detenuti che hanno permesso a L’Altra chiave di partire. E poterli vedere oggi fuori da quel carcere è motivo di orgoglio". Non è stato facile economicamente, un numero lo ha stampato gratuitamente Fioroni, altre volte è servito l’aiuto di tanti imprenditori, di persone sensibili, come la consigliera Marzia Malaigia che ha donato un computer alla redazione. Cinque anni di rivista, vent’anni di carcere che è stato riaperto grazie al lavoro che seppe fare da onorevole Cesetti che riuscì a far riaprire il carcere: "Senza quella scelta lungimirante non saremmo qui". Due colonne sono Francesco e Bruno: "Per me è l’ultimo giorno in permesso. MI ha conquistato questo progetto, fin dal primo giorno ho cercato di dare il mio contributo come grafico" racconta Francesco. "Per me il periodo dentro il carcere dentro la redazione è stato importante. In alcuni numeri ho scritto anche una volta tornato libero. La mia ripartenza è iniziata scrivendo su quelle pagine" aggiunge Bruno. E in chiusura la buona notizia: "Il merito non è mio, ma dell’assessore Cesetti. Da oggi Fermo è capofila di tutti i giornali del carcere delle Marche. Finalmente esce la voce dal carcere e arriva in città. Chi è dentro perde la famiglia, non vede più i figli e oggi trova un mezzo di comunicazione". Beati gli ultimi che saranno i primi: "Siamo nati dopo, ma grazie a un progetto dell’Ambito guideremo l’ulteriore sviluppo". Chiusura per l’avvocato Nobili, Garante per i diritti dei detenuti, ma anche dell’infanzia e l’adolescenza: "Un progetto importante per chi è dentro, ma anche per chi si relazione con il mondo carcerario. Questo progetto unisce passione e capacità. Ogni volta che mi siedo al tavolo nazionale sono quello che è in grado di portare segnalazioni positive. In questi momenti ricordo che l’articolo 27 parla di pena non solo come condanna, ma come risocializzazione, come periodo per far uscire un detenuto come persona migliore. In Italia questo non avviene, abbiamo una recidiva molto alta, ma progetti come L’Altra chiave news aiuta a migliorare le persone, facendole davvero rimettere in discussione. Se siamo qui però- conclude il Garante - è grazie ad Angelica Malvatani". Che è riuscita a rendere un giornale di detenuti un luogo di informazione reale. "Per far diventare il carcere un luogo di rieducazione, il carcere deve dialogare con il mondo esterno. Senza questa interazione è impensabile ragionare sulla possibilità di riaccogliere chi esce da quelle alte mura. Il giornale diretto dalla Malvatani fa questo, accrescendo la cultura alla legalità di chi è dentro e di, come in questo numero che ha convolto gli alunni, fuori il carcere" conclude l’assessore regionale Fabrizio Cesetti. Salerno: sei detenuti di Alta sicurezza conseguono il diploma di maturità La Repubblica, 11 luglio 2017 Fuorni, a Salerno, gli attestati a sei detenuti che hanno conseguito il diploma di istruzione secondaria di II grado per l’indirizzo enogastronomico - articolazione "Servizio di sala e vendita". Si tratta di un traguardo importante perché è la prima volta, da quando è stata istituita la sezione carceraria dell’Istituto Professionale di Stato "Roberto Virtuoso" di Salerno, che sei detenuti riescono a conseguire il diploma. "È la prima volta che a Salerno in una casa circondariale si riesce a portare sei detenuti sino al diploma di maturità - ha detto il direttore del carcere di Salerno, Stefano Martone - per noi è un vanto perché ci abbiamo creduto nello stesso modo in cui ci hanno creduto con impegno e dedizione i neo-diplomati". Soddisfazione è stata espressa anche dal dirigente scolastico dell’istituto "Virtuoso", Gianfranco Casaburi. "È un risultato straordinario - ha detto - sei detenuti che hanno passato con noi cinque anni in cui si sono riavvicinati alle regole, alla logica dell’impegno e anche all’emozione di ottenere un riconoscimento". I sei neo diplomati sono detenuti d’alta sicurezza. Si tratta di cinque campani ed un calabrese. Tutti hanno conseguito il diploma con voti medio-alti, a dimostrazione dell’impegno profuso nei cinque anni trascorsi tra i banchi ed il laboratorio. "Quando sono entrato in carcere, non pensavo mai - ha detto uno dei neo-diplomati - di poter conseguire un diploma. È stata una grande esperienza e non nascondo l’emozione" Reggio Emilia: corsi professionali per i detenuti, attestati di frequenza a 48 corsisti sassuolo2000.it, 11 luglio 2017 A conclusione dei corsi di formazione 2016-2017, propedeutici all’inserimento nel lavoro, rivolti a persone detenute, promossi nella Casa circondariale di Reggio Emilia dall’associazione di volontariato Senza Confini con la collaborazione del Comune, il vicesindaco di Reggio Emilia Matteo Sassi ha consegnato gli attestati di frequenza a coloro che hanno partecipato ai corsi. Sono stati 48 i detenuti che hanno terminato con successo i corsi attivati da ottobre a giugno scorsi e che hanno riguardato materie quali informatica, impianti elettrici, restauro mobili, disegno meccanico, serigrafia e decoro tessuti. "Ringrazio l’associazione Senza Confini, l’Amministrazione e la Polizia penitenziaria, le operatrici del Comune per avere reso possibile l’organizzazione di questa attività. Un riconoscimento importante va ai detenuti che hanno partecipato ai corsi, la maggior parte di loro ha concluso i percorsi formativi con impegno e costanza. Anche grazie ad esperienze come questa è possibile concretizzare la finalità rieducativa della pena prevista dalla nostra Carta costituzionale: quanto più la pena ha una funzione rieducativa e di reinserimento sociale, tanto più si sarà in grado di garantire la sicurezza delle nostre società". Da vent’anni l’associazione Senza Confini è impegnata a promuovere corsi propedeutici al lavoro per i detenuti. L’Amministrazione comunale, in accordo con la direzione della Casa circondariale-Casa di reclusione di Reggio Emilia, nell’ambito delle azioni volte al miglioramento delle condizioni di vita in carcere, sostiene l’attività dell’associazione stessa, ritenendo fondamentale per i partecipanti sia l’acquisizione di competenze specifiche spendibili nel mercato del lavoro, sia la possibilità di relazioni personali positive con i volontari che gestiscono i diversi corsi. San Cataldo (Cl): corso di meditazione rivolto ai detenuti e al personale del carcere di Francesco Bevilacqua italiachecambia.org, 11 luglio 2017 Alleviare il disagio e migliorare il benessere psicologico dei membri della comunità del carcere. Questo l’obiettivo del corso di meditazione per detenuti e guardie carcerarie proposto dall’Agente del Cambiamento Marcello Bellomo. La sperimentazione parte oggi in Sicilia. Un corso di meditazione rivolto ai detenuti e al personale del carcere al fine di migliorare il benessere psicologico di chi vive una condizione stressante che, come spesso è accaduto, conduce ad atti di violenza e al suicidio. È questa la proposta di Marcello Bellomo, Agente del Cambiamento e guardia carceraria presso la Casa di Reclusione di San Cataldo provincia di Caltanissetta. Cosa ti ha spinto a proporre questa iniziativa? La volontà di attivare circoli virtuosi, avendo trovato terreno fertile. Puoi descrivere i benefici che trarranno coloro che parteciperanno? Se lo vorranno, riusciranno ad acquisire strumenti per essere consapevoli che tutto parte da noi, nessuno escluso. Quali sono le condizioni psico-fisiche dei membri della comunità del carcere, ovvero i detenuti e le guardie carcerarie? Non si può generalizzare, ogni caso è a sé, ma la privazione della libertà (per i detenuti o utenti), lo scollamento dalla vita quotidiana, la vita di routine intramuraria segna parecchio, in modo particolare chi è innocente. I più deboli spesso mettono in atto atti di autolesionismo, fino ad arrivare in casi estremi al suicidio. Per le "guardie" (poliziotti penitenziari) vivere questa quotidianità particolare - i turni di servizio prolungati alle 8 ore e più, la mancanza cronica di personale, il pendolarismo che tiene lontani dalle famiglie, il frequente disinteresse da parte della politica - fa sì che si accumuli stress negativo con una casistica elevata di suicidi tra i più deboli. Da parte della Direzione com’è stata accolta la tua proposta? Il Direttore, il Comandante ed anche il responsabile degli educatori sono molto attivi in tal senso. Dopo aver in passato proposto varie attività (che per il momento non abbiamo potuto attivare per mancanza di fondi), qualche settimana fa mi hanno chiesto cosa potevamo proporre agli utenti per il periodo estivo. Da qui è nata l’idea del corso che tutti hanno accettato positivamente, e mi sono attivato subito. Pensi che ci siano i presupposti affinché questa esperienza si possa replicare anche in altre strutture italiane? Sì, in effetti so di altri casi isolati del genere, ma sempre lasciati alla buona volontà dei singoli. Servirebbe invece una regia centrale da parte dell’Amministrazione Penitenziaria o seguire l’esempio dell’India che, legiferando in materia, ha inserito la meditazione come strumento di recupero rivolto ai detenuti. Anche per chi lavora negli istituti penitenziari dovrebbero essere previsti centri di ascolto e la possibilità di partecipare a corsi di meditazione. Quando dovrebbe partire il progetto? Che strutture e chi coinvolgerà? Il progetto parte oggi 11 luglio, inizialmente per due mesi, ma con l’intenzione di farlo continuare qualora susciti interesse da parte degli utenti. La struttura che ospita il corso è la Casa di Reclusione di San Cataldo provincia di Caltanissetta, diretta dalla Dottoressa Francesca Fioria, Comandata dal Commissario Alessio Cannatella. I corsi sono coordinati dall’educatore Sig. Michele Lapis. Il corso è tenuto da Rosolino Di Martino (Saro) presente nel libro di Daniel Tarozzi "Io faccio cosi", coadiuvato dai coniugi Giuseppina Lo Monaco (Pina) e da Carlo Paternò, e dai dieci utenti che parteciperanno. Aversa (Ce): "Toghe e Note 2017"; avvocati, magistrati e detenuti insieme per la Caritas di Livia Fattore pupia.tv, 11 luglio 2017 Il momento più toccante quando tutti insieme, reclusi del carcere di Santa Maria Capua Vetere, avvocati e magistrati, hanno intonato "Imagine" di John Lennon. Grande successo per la seconda edizione di "Toghe e Note" presso il tribunale di Napoli Nord. Manifestazione di beneficenza a favore della Caritas aversana, che ha visto esibirsi sul palco non solo avvocati e magistrati, come nella prima edizione, ma anche commercialisti e, soprattutto, dieci reclusi sammaritani. Detenuti protagonisti anche con la vendita di decine e decine di presepi da loro realizzati con il ricavato dato in beneficenza. Gli operatori del diritto hanno dato vita a esibizioni canore, di poesie e di varietà di buon livello. In chiusura è stata chiamata sul palco la signora Lucia Petrella, vedova del sindaco Guseppe Sagliocco, alla quale Tommaso Castiello, quale componente del direttivo della Camera Civile, ha consegnato una targa alla memoria per l’impegno profuso nel rendere possibile l’insediamento del tribunale di Napoli Nord. Oltre settecento gli intervenuti che hanno apprezzato anche il buffet di prodotti tipici aversani offerto da due imprenditori del settore. Particolarmente significativa è stata la presenza del presidente della corte appello, di componenti del Consiglio superiore della magistratura, quale Ardituro, di molti responsabili delle forze dell’ordine provinciali e di tante autorità, che si sono complimentati significativamente per l’iniziativa. Tra i non addetti ai lavori, simpatica esibizione del cavaliere Antonio Aprile che ha recitato sue poesie nonché di un effervescente magistrato di Cassazione, Lorenzo Delli Priscoli che, accompagnato dalla band Amici per caso, ha eseguito pezzi da lui composti. L’evento si è potuto realizzare, oltre all’impegno profuso in prima persona dal presidente della camera civile di Aversa l’avvocato Carlo Maria Palmiero, grazie alla disponibilità preziosa di Maria Elena Fabi e di Pino Guerrera, che hanno presentato magistralmente la serata, talvolta accompagnati dall’avvocato Fabrizio Perla che è stato il direttore artistico e curatore dei testi, grazie all’impegno di Massimiliano Santoli che si è occupato della organizzazione della regia, di Maurizio Di Donato che si è occupato dell’animazione musicale nonché, grazie alla generosa disponibilità della Aec audio di Alfonso Parente che ha svolto l’attività di service condividendo gli scopi benefici della serata. Roma: "Che ne resta di noi?", gli attori-detenuti di Bollate al Teatro Argentina romatoday.it, 11 luglio 2017 Mercoledì 12 luglio (ore 21), nell’ambito della vetrina sulla coreografia contemporanea, "Il Teatro che danza", il palcoscenico del Teatro Argentina accoglie "Che ne resta di noi?", una partitura fisica che non segue un filo narrativo, ma procede per associazioni poetico-musicali maturate durante un processo di improvvisazioni del gruppo di lavoro di alcuni attori-detenuti del carcere di Milano-Bollate, coordinati dalla regia di Michelina Capato Sartore, in collaborazione con Renato Gabrielli, la coreografa Claudia Casolaro e l’allenatrice del "senso teatrale" Matilde Facheris. Sei figure umane in continuo, inquieto movimento su una scalinata che si protende verso l’alto ma che non porta ad alcun cielo, immerse in una totale assenza di parole. Questi elementi danno vita ad un lavoro registico, drammaturgico e coreografico che nasce a partire da un profondo interrogativo che sembra aleggiare sulla scena, tra gli attori e il pubblico: che ne resta dei sei personaggi, una volta sottratti la fame di sesso e potere, la solitudine che si riflette nella ripetizione ossessiva dei gesti e l’attaccamento disperato ad abitudini e oggetti? Che ne resta degli spettatori che li osservano muoversi, nel momento in cui si dissolve la presunzione di sentirsi diversi da loro, forse migliori? Che ne resta di noi? cerca risposte attraverso i corpi e i loro frenetici movimenti, seguendo una drammaturgia che si affida ad associazioni poetico/musicali senza un vero e proprio percorso narrativo. Una performance che grida senza parole con la potenza dei gesti e degli interrogativi. Il carcere di Milano-Bollate è considerato un "modello" non soltanto in Italia ma a livello europeo. Al suo interno operano diverse Cooperative, tra cui E.S.T.I.A., con lo scopo di avviare chi ha scontato la pena al lavoro appreso e intrapreso durante la detenzione: un percorso di inserimento in settori inerenti attività quali tipografia, falegnameria, computer e video, panetteria e pasticceria, sartoria, floricultura, e ancora tecnico teatrale e corsi per attori. Infatti, attività cardine della Cooperativa E.S.T.I.A. è il teatro, che vanta numerose produzioni e laboratori ormai consolidati. Alla base del lavoro teatrale risiede un processo educativo non formale, parte fondante e integrante del percorso di reinserimento sociale delle persone: le statistiche registrano che la recidiva è più bassa (il 6%) fra chi ha seguito i corsi teatrali. Migranti. Ius soli, il governo fa slittare ancora l’approvazione di Carlo Lania Il Manifesto, 11 luglio 2017 Cittadinanza. Il consiglio dei ministri non autorizza la fiducia e sposta il testo in coda ad altri provvedimenti. La legge rischia di essere archiviata. Sepolto sotto una valanga di provvedimenti in modo da farlo slittare. Se va bene, entro luglio l’aula del Senato potrà al massimo avviare la discussione generale sullo ius soli, rinviando poi un eventuale voto sul provvedimento a settembre quando il parlamento riaprirà dopo la pausa estiva. Se va bene, perché l’alternativa è che la legge, attesa da venti anni da almeno 800 mila ragazzi figli di immigrati che vivono nel nostro paese, rischi ancora una volta di finire nel dimenticatoio. Per le divisioni all’interno della maggioranza, con Alternativa popolare di Angelino Alfano sempre più decisa a fermarla, ma anche per l’indecisione del Pd, impaurito dai sondaggi e dalle conseguenze che il via libera al provvedimento potrebbe avere sull’elettorato. E questo anche se Matteo Renzi continua a ripetere, come ha fatto anche ieri presentando il suo libro, di voler vedere la legge tagliare il traguardo al più preso. Anche se non c’erano stati annunci ufficiali, dal consiglio dei ministri di ieri sarebbe dovuta arrivare l’autorizzazione a porre la fiducia sulla riforma della cittadinanza, dando così seguito a tante dichiarazioni di principio sulla volontà di approvare la legge. Ufficialmente invece, l’argomento non sarebbe stato affrontato dal governo che ha comunque autorizzato la fiducia su tre decreti all’esame del parlamento: Mezzogiorno, Banche venete (attualmente alla Camera ma atteso al Senato nei prossimi giorni) e vaccini, che quindi avranno la precedenza. A questi si aggiungono due progetti di legge, uno dei quali sullo spettacolo e, per finire, il ddl che autorizza il comune di Sappada a distaccarsi dalla regione Veneto per entrare a far parte del Friuli Venezia Giulia. Tutto in discussione a Palazzo Madama e da discutere e approvare prima della riforma della cittadinanza. Con un calendario così, le possibilità di arrivare entro la fine del mese al voto sullo ius soli sono praticamente nulle. Il timore di molti, compresi alcuni parlamentari dem, è che a settembre, quando mancheranno ormai meno di sei mesi alle elezioni, difficilmente si tornerà a parlare di un tema così spinoso. Che le cose potessero finire in questo modo era nell’aria. Anche se il diritto a diventare cittadini italiani di migliaia di ragazzi nati nel nostro Paese o che ne frequentano le scuole non c’entra niente con l’emergenza dovuta ai numerosi sbarchi di migranti, quest’ultima ha finito inevitabilmente col condizionare il dibattito. Dopo Silvio Berlusconi, per il quale il provvedimento rappresenterebbe un fattore di attrazione per i migranti, ieri è stato il ministro della Affari regionali Enrico Costa a chiedere alla maggioranza un ripensamento: "Sarebbe miope - ha detto in un’intervista al Messaggero - non osservare che il tema dei dello ius soli nell’immaginario collettivo si interseca a quello dell’emergenza migranti, a torto o a ragione". La riforma resta così sospesa nell’aria. Già era stata fatta slittare in occasione del referendum costituzionale del 4 dicembre, perdendo così mesi preziosi. Nel frattempo l’aggravarsi della crisi dei migranti ha condizionato le scelte del governo e, come dimostrano le ultime uscite di Renzi, anche del Pd. Come se non bastasse, poi, le mancate risposte da parte dell’Unione europea alle continue richieste di collaborazione di Roma rendono il tutto più difficile per il governo, non potendo vantare come risultato conseguito neanche il coinvolgimento degli altri paesi europei. Ieri Renzi ha continuato a difendere il provvedimento, che in passato ha più volte definito una norma di civiltà. "Io sono per lo ius soli. Il Pd è per lo ius soli, e lo confermiamo con forza a maggior ragione con quello che dico sui migranti", ha spiegato al programma radiofonico Zapping riferendosi alla sua richiesta di porre un tetto al numero dei migranti in arrivo in Italia. Sì alla legge anche dal ministro dell’Agricoltura e vicesegretario del Pd Maurizio Martina, per il quale la riforma va approvata "se necessario anche con la fiducia". Peccato, però, che al momento di fiducia se ne veda poca. Migranti. Frontex: "Triton è una missione dell’Italia, non tocca a noi cambiare regole" di Marco Bresolin La Stampa, 11 luglio 2017 La portavoce di Frontex: "Coinvolgere gli altri Stati? Complicato". Ma Roma chiede di usare i porti stranieri. Oggi summit a Varsavia. "Il piano operativo di Triton dice che l’Italia è il Paese ospitante della missione. Se qualche altro Stato volesse aggiungersi, da un punto di vista teorico la possibilità ci sarebbe. Ma mi pare uno scenario molto complicato, anche perché le attività sono tutte guidate dalla Guardia Costiera Italiana". Dal quartier generale di Frontex, la portavoce dell’agenzia Ue Ewa Moncure ripete concetti che da quelle parti sembrano scontati. "Tutte le attività di Triton - spiega - sono coordinate dalla Guardia Costiera, che decide come distribuire le imbarcazioni. Su tutte le navi e su tutti gli elicotteri che partecipano all’operazione, poi, sono sempre presenti ufficiali italiani. Triton non funziona in modo autonomo, ma è come se operasse per conto dei confini italiani". Oggi però il governo si presenterà alla riunione di Varsavia con i rappresentanti degli altri Paesi portando una richiesta chiara: "Bisogna regionalizzare l’attività di Triton". Regionalizzare vuol dire una cosa ben precisa: consentire alle navi che operano nell’ambito di Triton di attraccare anche in altri porti europei dopo i salvataggi in mare. Soluzione che non sembra trovare sostegno tra gli altri Paesi Ue, in primis Spagna e Francia. E la mossa del governo raccoglie anche le critiche di Antonio Tajani, presidente dell’Europarlamento: "C’è un trattato sottoscritto e il ministero pensa si debba cambiare. Noi prima facciamo gli errori e poi cerchiamo sempre di chiedere di cambiare le cose". "Triton è una delle tante operazioni di Frontex - prosegue Moncure, non è l’unica. E funziona esattamente come le altre che abbiamo in Spagna (Hera, Indalo e Minerva, ndr) o in Grecia (Poseidon, ndr). Ogni operazione ha un Paese che la ospita, nel caso di Triton è l’Italia. Che quindi si fa carico degli sbarchi. Non c’è niente di speciale in questo: è stato deciso così nel momento in cui è stata avviata", nel 2014. È tutto scritto nero su bianco, nell’Allegato numero 3 del piano operativo di Triton: "Le unità partecipanti (alla missione, ndr) sono autorizzate dall’Italia a sbarcare nel proprio territorio tutte le persone intercettate e arrestate nelle sue acque territoriali, nonché nell’intera area operativa oltre le sue acque territoriali". Nel capoverso successivo viene specificato che le persone salvate devono essere "portate in un posto sicuro in Italia" e che "nessuna delle persone salvate (…), anche fuori dall’area operativa, può essere fatta sbarcare sul territorio di un Paese Terzo". Le righe successive chiariscono meglio una questione che spesso viene messa in discussione, vale a dire il ruolo di Malta: "In caso di un salvataggio nelle acque territoriali e zone contigue di Malta, o per assicurare la salvaguardia delle vite di persone in difficoltà, è possibile sbarcare a Malta". È possibile, dunque. Non obbligatorio. Secondo il piano di Triton, voluto dall’Italia, gli sbarchi "possono" anche avvenire a Malta. Ma come eccezione e solo in determinati casi particolari, non come regola. L’Italia però vuole rimettere in discussione tutto. E chiede quindi di "regionalizzare" gli sbarchi negli altri porti mediterranei dell’Ue. "Non spetta a noi decidere su questo - continua la portavoce di Frontex, ma serve una discussione tra gli Stati che partecipano a Triton. Vediamo cosa uscirà dalla riunione". Turchia. Restano in carcere il presidente e la direttrice di Amnesty International Vita, 11 luglio 2017 Mentre il presidente di Amnesty International Turchia, Taner Kiliç, è detenuto da oltre un mese, anche la direttrice dell’organizzazione nel Paese, Idil Eser è stata arrestata, la scorsa settimana. Dopo Taner Kiliç, il presidente di Amnesty International Turchia, è stata arrestata anche Idil Eser, direttrice dell’organizzazione nel Paese. Eser è stata arrestata il 5 luglio insieme ad altri sette difensori dei diritti umani e due formatori nel corso di un seminario sulla sicurezza digitale e la gestione delle informazioni che si stava svolgendo a Büyükada, un’isola al largo di Istanbul. "Siamo profondamente preoccupati e indignati per la notizia che alcuni tra i più importanti difensori dei diritti umani della Turchia, tra cui la direttrice di Amnesty International, siano stati arrestati senza alcun motivo", ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International. "Il fatto che lei e gli altri partecipanti a un normale corso di formazione siano detenuti senza contatti col mondo esterno è un grottesco abuso di potere che mette in luce la difficile situazione cui va incontro chi si occupa di diritti umani in Turchia. Idil Eser e le persone arrestate insieme a lei devono essere rilasciate immediatamente e senza condizioni", ha aggiunto Shetty. Due formatori di nazionalità tedesca e svedese sono stati a loro volta arrestati insieme al proprietario dell’albergo in cui si svolgeva il corso di formazione. L’arresto della direttrice di Amnesty, arriva quasi un mese dopo quella di Taner Kiliç, presidente di Amnesty International Turchia, arrestato la mattina del 6 giugno, insieme ad altri 22 avvocati, nella città di Smirne. Proprio in questi giorni, in Turchia, si trova Rex Tillerson segretario di stato Usa, a cui la vicedirettrice di Amnesty International per l’Europa e l’Asia centrale, Gauri van Gulik ha chiesto un sostegno per la liberazione di Taner Kiliç e Idil Eser. "Con entrambi presidente e direttrice di Amnesty International Turchia dietro le sbarre, sollecitiamo Rex Tillerson a cogliere l’occasione dei suoi incontri faccia a faccia per chiedere alle autorità turche di liberare immediatamente e senza condizioni loro e gli altri attivisti per i diritti umani coinvolti in questa cinica retata". Ha dichiarato van Gulik. "Il Dipartimento di stato Usa ha già descritto l’arresto di Taner Kiliç, presidente di Amnesty International Turchia, come parte di una tendenza allarmante. Ora, con l’arresto di Idil Eser, direttrice del nostro ufficio in Turchia, e di altre nove persone detenute con lei, la situazione si è deteriorata ulteriormente. È il momento di agire e di utilizzare ogni opportunità possibile per esigere che Idil, Taner e tutti i difensori dei diritti umani siano liberati immediatamente e senza condizioni". Iran. Human Rights: "239 esecuzioni nei primi sei mesi dell’anno" di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 luglio 2017 Secondo l’organizzazione Iran Human Rights, la cui sede centrale è a Oslo ma che è presente anche in Italia, nei primi sei mesi dell’anno in Iran sono state eseguite 239 condanne a morte: 45 sono state rese note da fonti ufficiali, le altre 194 sono venute alla luce grazie alle ricerche degli attivisti e delle attiviste locali per i diritti umani; 12 sono avvenute in pubblico. La metà dei prigionieri messi a morte, 129, era stata giudicata colpevole di reati di droga. All’interno del paese sono in aumento le voci, compresa quella del parlamento, che chiedono di ripensare complessivamente la strategia di contrasto al consumo e allo spaccio di droga, che si basa quasi esclusivamente sul massiccio ricorso alla pena capitale. Purtroppo, anche nel 2017 l’Iran si conferma uno dei pochissimi paesi al mondo che continua a mettere a morte minorenni al momento del reato: tre nella prima metà dell’anno. Nel 2016, sempre secondo Iran Human Rights, le esecuzioni erano state 530 con una netta diminuzione rispetto alle quasi 1000 del 2015. Se nella seconda metà del 2017 si confermerà l’andamento del primo semestre, alla fine dell’anno potrebbe registrarsi un’altra diminuzione. Ma saremo sempre ai livelli di oltre un’esecuzione al giorno. Tunisia. Ministro Giustizia: le condizioni delle carceri sono insoddisfacenti Nova, 11 luglio 2017 Le condizioni delle carceri e dei detenuti in Tunisia sono insoddisfacenti e il ministero della Giustizia sta studiando un pacchetto di riforme per porre rimedio a questa situazione. Lo ha detto oggi a Djerba, isola situata circa 320 chilometri a sud di Tunisi, il titolare del dicastero Ghazi Jeribi durante un workshop sulle istituzioni giudiziarie e penali nel paese rivierasco. Il ministro ha sottolineato l’importanza di ripristinare la fiducia dei cittadini nella magistratura. A tal riguardo, Jeribi ha spiegato che è indispensabile accelerare l’emissione delle sentenze entro i tempi previsti dalla legge. "Dobbiamo prima di tutto migliorare l’infrastruttura carceraria, ma anche rivedere le leggi ed accelerare le sentenze", ha spiegato il ministro. "Non siamo soddisfatti delle condizioni delle carceri e dei detenuti in Tunisia", ha aggiunto Jeribi, annunciando che l’uso del braccialetto elettronico è in vigore per ridurre il sovraffollamento nelle carceri. Il segretario generale del sindacato delle carceri e del recupero dei detenuti in Tunisia, Badreddine Rajhi, ha detto di recente che attualmente i detenuti hanno a disposizione circa 1,6 metri quadrati di spazio ciascuno. Inoltre, il sindacalista ha detto che il capo dello Stato, Beji Caid Essebsi, concederà l’amnistia ad alcuni detenuti e sconti di pena per altri. Da parte sua, Ben Hsan ha "giustificato" le cattive condizioni in cui vivono i detenuti dipende da alcuni fattori, come per esempio la mancanza di un’infrastruttura adeguata. Il funzionario ha ricordato anche gli episodi di vandalismo avvenuti durante la rivoluzione dei gelsomini e l’indifferenza dei governi precedenti tra le cause delle condizioni attuali delle carceri tunisine.