Ricorsi, strettoia in Cassazione. Per effetto dei nuovi limiti, 11 mila richieste in meno di Claudia Morelli Italia Oggi, 10 luglio 2017 Dal 3 agosto in vigore la legge n. 103/17 che modifica anche il codice di procedura penale. La legge salvi la Cassazione. Parafrasando l’augurante motto british a tutela della regina d’Inghilterra, è così che potremmo individuare l’obiettivo principale che la riforma penale si pone con riguardo al giudice di legittimità almeno nell’ambito della materia penale. Fare in modo insomma che arrivino sempre meno ricorsi alla Suprema corte, non solo dalle parti ma anche dai pm. A questo obiettivo sono ispirate numerose norme introdotte con la legge 103 del 2017 recante Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario, che è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 154 del 4 luglio scorso e che entrerà in vigore il 3 agosto prossimo. Al riguardo una avvertenza è d’obbligo: direttamente proporzionale alla complessità del testo, che spazia da norme di carattere sostanziale, processuali e ordinamentali, è la tempistica di operatività delle singole disposizioni che richiederà particolare attenzione per verificare il tempo di entrata in vigore di ogni singola prescrizione. Per dire: la condotta riparatoria potrà estinguere il reato anche nei procedimenti pendenti all’entrata in vigore della legge; mentre la nuova prescrizione "lunga" riguarderà solo i fatti commessi dopo l’entrata in vigore della legge; i dibattimenti a distanza saranno operativi dopo un anno dall’entrata in vigore ecc. Questo al netto delle deleghe: quella sulla disciplina delle intercettazioni dovrà essere esercitata entro il 3 novembre; le altre entro agosto 2018. Per l’indicazione dettagliata delle principali novità rimandiamo alla tabella pubblicata su Italia Oggi Sette del 19 giugno scorso. In questa occasione ci soffermiamo sulle norme che cercano di porre un argine ai ricorsi "in entrata" in Corte di cassazione, per aggredire alla fonte quella mole di oltre 30 mila ricorsi che più o meno annualmente rimangono pendenti davanti alle sezioni penali; e stabilizzare o promuovere ulteriormente il "trend" decrescente delle sopravvenienze registrato negli ultimi due anni per effetto delle riforme già in vigore. I nuovi ambiti di intervento erano stati in buona parte segnalati dalla stessa Cassazione in occasione della relazione inaugurale dell’anno giudiziario, nella relazione del presidente Giovanni Canzio. Qualche dato per inquadrare la situazione. Secondo l’ultima relazione annuale sull’amministrazione della giustizia, dopo il massimo livello storico registrato nel 2014 con 55.800 procedimenti penali sopravvenuti, anche nel 2016 si è confermata la tendenza alla lieve diminuzione delle sopravvenienze (-6,2%) "verosimilmente per effetto dell’applicazione dell’istituto della messa alla prova e degli interventi legislativi di depenalizzazione dei decreti legislativi n. 7 e 8 del febbraio 2016". Una tendenza che la riforma mira dunque a capitalizzare ulteriormente. I ricorsi personali dell’imputato. Non saranno più ammessi. D’altra parte il presidente Canzio lo aveva scritto della sua relazione. "Permane alto il numero dei ricorsi personali dell’imputato, superiore al 21%". In numeri assoluti si tratta di 11 mila ricorsi su un totale di 52.384 presentati nel 2016. I ricorsi personali sono quelli che è possibile fare direttamente, senza l’assistenza, formale, di un avvocato cassazionista. Limiti ai ricorsi contro sentenze di proscioglimento di non luogo a procedere. Potranno presentarli l’imputato o il procuratore generale per i soli motivi attinenti all’esercizio abusivo di potere da parte del giudice; inosservanza o erronea applicazione di legge penale o altra normativa che abbia riflessi diretti sull’applicazione della legge penale; inosservanza delle norme processuali a presidio di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità, o decadenza. Nei casi ammessi, la cassazione decide in camera di consiglio. Limiti ai ricorsi contro la sentenze di patteggiamento. "Ancora elevato è il numero di ricorsi contro sentenze di patteggiamento, 6.597, pari all’11,4%", scriveva Canzio. La legge così prevede che il ricorso da parte del pm o dell’imputato, per effetto della nuova legge, sarà possibile solo per motivi attinenti all’espressione di volontà dell’imputato; difetto di correlazione tra richiesta e sentenza; erronea qualificazione del fatto; illegalità della pena o della misura di sicurezza. Questa norma però non si applica ai patteggiamenti richiesti prima dell’entrata in vigore della legge. Inammissibilità della richiesta di remissione. Costerà cara: in caso di rigetto o inammissibilità le parti private che l’hanno richiesta potranno essere condannate, con la stessa ordinanza che ne dichiara la inammissibilità, al pagamento di una sanzione contenuta tra 1.000 e 5 mila euro; somma peraltro che può essere integrata fino al doppio. Un decreto del ministero della giustizia provvedere inoltre ad adeguare l’entità delle cifre all’indice Istat con cadenza biennale. Inammissibilità dei ricorsi per Cassazione. Verrà dichiarata dalla Corte "senza alcuna formalità" in numerose ipotesi (per esempio per impugnazione presentata da soggetto non legittimato o contro provvedimento non impugnabile). Si inaspriscono inoltre le sanzioni in caso di dichiarazione di inammissibilità, che potranno essere aumentate fino al triplo (oltre 6 mila euro nel massimo). Previsto anche in questo caso l’adeguamento Istat. La relazione 2016 riflette sulla circostanza che la percentuale di inammissibilità è pari al 66% dei procedimenti definitivi (pari a 36 mila 639) se ricorrente è la parte privata, e del 21,2% se a ricorrere è il pm. Si contano più declaratorie di inammissibilità rispetto alla media nei procedimenti riguardanti delitti contro il patrimonio, delitti in materia di stupefacenti, furto, delitti contro la pubblica amministrazione, contro l’amministrazione della giustizia. Annullamento senza rinvio. La legge chiarisce che la Cassazione può annullare senza rinvio al giudice di merito se non sono necessari altri accertamenti sul fatto e/o la rideterminazione della pena può essere fatta sulla base della statuizioni del giudice di merito. Limiti ai ricorsi da parte del pm. In caso di sentenza di appello che conferma i proscioglimento già dichiarato in I grado. Decisioni delle Sezioni unite. Nella direzione di rafforzare la funzione no-mofilattica della Corte va la norma che aumenta le ipotesi nelle quali le sezioni semplice possano richiedere un intervento delle sezioni unite in caso di contrasto giurisprudenziale, ricomprendendo quella nella quale i giudici del collegio non condividano un principio di diritto già enunciato a sezioni unite; le stesse poi potranno pronunciarlo d’ufficio se il ricorso sia dichiarato inammissibile per causa sopravvenuta. Il reato di stalking e la condotta riparativa. Vale la pena in questa sede anche aggiornare su una polemica che ha visto coinvolta la maggioranza Pd sull’effetto "perverso" prodotto sul reato di stalking della norma (articolo 162-ter) che permette di estinguere il reato procedibile a querela soggetta a rimessione tramite una condotta riparatoria, che può consistere anche nel pagamento di una somma a titolo risarcitorio. Molti osservatori hanno giudicato come la previsione comprometta le tutele previste dal decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, che ha introdotto in Italia il reato di stalking, laddove permette l’estinzione del medesimo reato mediante il semplice pagamento di una somma di denaro. Sul punto il ministro guardasigilli Andrea Orlando, rispondendo a diverse interrogazioni parlamentari in aula alla Camera mercoledì 5 luglio scorso, ha specificato che, al netto della chiara e comprovata volontà del Governo di perseguire ogni atto persecutorio, l’istituto della riparazione "ha un’incidenza applicativa tale da non pregiudicare le esigenze di tutela delle vittime dello stalking. La previsione nel corpo dello stesso articolo 612-bis di specifiche ipotesi di procedibilità d’ufficio e di casi di irrevocabilità della querela già riducono ai soli casi di minore gravità la possibilità di applicare in astratto la causa estintiva del reato di stalking. Il controllo giudiziale su congruità della condotta riparatoria e la necessaria audizione della persona offesa rappresentano, inoltre, ulteriori baluardi contro l’applicazione incongrua dell’istituto". Tuttavia si è dichiarato disponibile, anche al fine di evitare il potenziale consolidarsi di prassi applicative che conducono ad una mimetizzazione del reato, a introdurre modifiche normative inserite in uno dei provvedimenti attualmente in corso di esame orientate alla previsione di un ampliamento dei casi di procedibilità d’ufficio per il reato di atti persecutori o a definire chiaramente le ipotesi di minore gravità. Stretta sui fascisti della rete. La propaganda sarà reato di Federico Caputo La Stampa, 10 luglio 2017 Oggi alla Camera la proposta di legge Pd: giro di vite anche sui gadget. C’è il caffè macinato nerissimo "Credere" (gusto bar), "Obbedire" (gusto delicato) o "Combattere" (gusto forte). Un body per bimbo, per festeggiare il nascituro con lo slogan "Boia chi molla". Solo per luglio, poi, alcuni negozietti di Predappio, paese natale di Mussolini, propongono targhe in latta con il consiglio in cubitali caratteri romani di "rispettare il pane". Prodotti, questi, che potrebbero costare dai sei mesi ai due anni di carcere se la proposta di legge a prima firma del deputato Pd Emanuele Fiano, che oggi approda in aula alla Camera, dovesse passare all’esame del Parlamento. Nel mirino della legge anti-nostalgici finisce infatti chi "propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco". È sufficiente, recita il testo della proposta Dem, una connessione con le ideologie fasciste e naziste "anche solo attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli", o che "ne richiama pubblicamente la simbologia o la gestualità". Con la pena che può aumentare di un terzo se il desiderio di rivivere il Ventennio dovesse passare dal web dove, ad oggi, le pagine dedicate alla rievocazione di Mussolini sono già decine di migliaia. Il reato di apologia del fascismo era stato introdotto dalla legge Scelba del 1952, e poi rivisto dalla legge Mancino del 1993, "ma è evidente che queste leggi non funzionassero", commenta la deputata Pd Alessia Rotta, tra i firmatari della legge. "Il caso della spiaggia di Chioggia, dove il proprietario di uno stabilimento si può permettere di esporre cartelli inneggianti a Mussolini o alle camere a gas ne è un esempio". Per questo, le tipologie di condotte riconducibili alla propaganda fascista e nazista sono state definite e ampliate nel numero. Con il saluto romano, ad esempio, era previsto che fossero almeno cinque le persone ad esibirsi contemporaneamente nel gesto perché ci fosse il rischio di finire nei guai. Non solo. Secondo la lettura data in passato dai magistrati, sarebbe stata necessaria, oltre ai cinque con il braccio teso, la manifesta volontà di diffondere l’ideologia fascista. In questa direzione, ad esempio, è andata l’ultima sentenza della Corte d’appello di Milano che nel 2016 ha assolto dei militanti di Casa Pound sorpresi a fare il saluto romano nel corso di una manifestazione. Secondo i giudici di Milano, il corteo era solo commemorativo, tanto che i partecipanti avevano sfilato "in assoluto silenzio, con un atteggiamento di rispetto nella memoria delle vittime di violenza", senza "innalzare cori inneggianti" o esprimere "propaganda e volontà di diffusione di un’ideologia", pur richiamando alcuni simboli del fascismo. Ma il pericolo vero, sottolinea Fiano, "non è certo che si ricostituisca il partito Fascista. Piuttosto, che tornino certe idee come quella della purezza della razza, o delle responsabilità degli ebrei nella crisi economica mondiale. Idee che, e qui sta il rischio, attecchiscano al di fuori dai partiti puramente fascisti". La proposta di legge del Pd ha però sollevato i primi malumori già nel corso dell’esame preliminare in commissione Giustizia alla Camera, dove i deputati del Movimento 5 stelle l’hanno bollata come "liberticida", votando contro. E anche nel centrodestra sorgono perplessità, "perché credo che in questo momento ci siano ben altre emergenze in Italia", dice il senatore di Fi Maurizio Gasparri. "Mi sembra, piuttosto, una proposta di legge pensata per far nascere facili polemiche". Fiano ribatte pubblicando su Facebook la foto del verbale con il voto contrario del M5S in commissione e attacca: "I colleghi Cinque stelle dovrebbero sapere che non tutte le idee sono legittime". "Negli ultimi venticinque anni si è diffuso un certo lassismo su questo tema", dice Fiano rispondendo poi ai dubbi del centrodestra. "Rispetto alle crisi e alle emergenze che hanno colpito il nostro Paese si è pensato che questa fosse una questione di nicchia. E invece c’è terreno fertile per una nuova crescita di questi movimenti e di queste idee, soprattutto attraverso il web". La riscoperta dei briganti, primi ribelli contro le caste di Gigi Di Fiore Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2017 Per anni si è cercato di rimuovere il ricordo delle loro lotte post-unitarie, oggi quel marchio d’infamia si è trasformato in motivo d’orgoglio e identità meridionale, celebrato nelle canzoni e nelle feste locali. Più di 3 milioni di link cliccando su Google "briganti" dimostrano l’attualità di una parola, che sembrava retaggio del passato chiusa nei libri di storia. E invece il termine brigante ha perso il suo significato negativo, per trasformarsi in sintesi positiva di ribellione e protesta contro tutte le ingiustizie. E, se il brigante post-unitario del Mezzogiorno fino a qualche tempo fa era imprigionato nell’etichetta della reazione e del revanchismo di destra, oggi questa figura viene sdoganata dalla sinistra che se ne è appropriata. Centri sociali, gruppi musicali, associazioni di protesta si richiamano alle figure dei briganti. Del resto, fu Antonio Gramsci a evidenziare il carattere elitario della rivoluzione risorgimentale bollandola come operazione di pochi, espressione della classe borghese che lasciò fuori, nel Mezzogiorno, le masse contadine. Quando presero le armi, contadini, pastori ed ex soldati dello Stato delle Due Sicilie lo fecero contro un’unità nata male, calata dall’alto, che aveva promesso miglioramenti e terre che non erano arrivati. Fu rivolta sociale e scontro tra culture: quella contadina dei racconti dinanzi ai camini, dei silenzi, della diffidenza, della fatica e del sacrificio contro la nascente civiltà industriale del progresso spietato, del cinismo politico, dei sotterfugi, della spregiudicatezza. Se il brigante è diventato simbolo positivo, lo si deve alle tante riletture storiche che hanno ridisegnato in maniera più ampia gli anni della "guerra contadina", come la definì Carlo Levi. "I briganti difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati", scrisse sempre Levi. Lo Stato sceso nel Mezzogiorno era violento, parlava una lingua sconosciuta, fucilava senza processi, difendeva solo le ragioni dei "galantuomini", i proprietari terrieri e i notabili pronti a riciclarsi. Uno Stato che si imponeva con la forza senza consenso. In quegli anni va ricercata l’origine del senso di estraneità che in molte zone del Sud si prova nei confronti dello Stato, visto come entità lontana. Lo Stato, in quel 1861, era un corpo con testa lontana nella capitale Torino, parlava in francese come gli ufficiali spediti a guidare la repressione calpestando lo Statuto albertino e utilizzando i tribunali militari che fucilavano senza tanti complimenti. Quella rivolta è fatta di tante storie e tanti protagonisti (che racconto in "Briganti - Controstoria della guerra contadina nel Sud dei Gattopardi", pubblicato da Utet). Lo studioso Aldo De Jaco sosteneva che per comprendere il brigantaggio bisogna conoscere soprattutto tre vicende: la grande marcia di Carmine Crocco in Basilicata, l’eccidio di Pontelandolfo nel Sannio, la rivolta di Gioia del Colle in Puglia. Sono le tre sezioni del libro, con protagonisti tre capi-brigante: Carmine Crocco, Cosimo Giordano e Pasquale Romano. Le loro storie si intrecciano con quelle di decine e decine di Gattopardi del Sud, quella classe dirigente meridionale immobile che fece il doppio gioco, per poi diventare il potere della "nuova Italia". Nel Sud, la rilettura di un’altra storia dell’unificazione ha portato alla riscoperta dei briganti, che lo Stato di allora bollò come criminali. Senza conoscere il brigantaggio, quel Sud che fu il Far West italiano in una guerra civile da migliaia di morti cancellati dalla storia nazionale, non si riuscirà a comprendere cosa sia il Mezzogiorno. Fu una rivolta sociale, pilotata dai Comitati borbonici che diedero anche connotazione politica, soprattutto nei primi anni, alla ribellione contro lo Stato italiano in fasce. I briganti "per loro sventura si trovarono a essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro, contro di loro" dice ancora Levi. Erano i "cattivi " e furono sterminati. Ma per anni su di loro si tentò la rimozione di ogni memoria come si addice ai criminali. Eppure, chissà perché, due fenomeni violenti come il brigantaggio e il terrorismo sono stati sconfitti dallo Stato e non è avvenuto così con le mafie. Qualcosa significa. Le ribellioni contro uno Stato vengono annientate dallo Stato. Le mafie resistono, perché non sono ribellioni allo Stato. Crocco definì i mafiosi "sporcaccioni" e la mafia "spurgo del suo naso". In Puglia, in Basilicata, in Campania, in Calabria i riferimenti ai briganti si moltiplicano: comitati di protesta, associazioni, organizzazioni culturali si rifanno a Crocco, a Giordano, a Romano. Strade intitolate ai capi-brigante, musei, percorsi turistici raccontano quella guerra che non fu ufficialmente considerata guerra, anche se i militari impegnati vennero decorati con migliaia di medaglie. Una guerra sporca, con rapporti ufficiali deformati, foto fasulle a nascondere la verità, come per l’uccisione a tradimento del capobrigante Ninco Nanco. C’è tanta Italia di oggi in quella guerra di 156 anni fa. I "briganti" ribelli alle storture. Ieri come oggi. Un marchio d’infamia è alibi di comodo per aggirare problemi, squilibri sociali e ingiustizie politiche. Quel marchio d’infamia è stato impresso sui briganti del Sud per decenni. Oggi, "Brigante se more" di Eugenio Bennato è diventato un pezzo cult suonato nei centri sociali, nelle notti della taranta o delle tammorre, nei concerti del nu folk elettronico. Quel marchio d’infamia si è trasformato in motivo d’orgoglio e identità meridionale. Oristano: indipendentista sardo morto in cella, Amnesty chiede che l’inchiesta dia risposte di Nicola Pinna La Stampa, 10 luglio 2017 Funerale con polemiche per Doddore Meloni, da mesi era in sciopero della fame. Lo sguardo fiero dell’irriducibile combattente in molti lo portano sul petto: stampato sulle magliette che hanno colorato di bianco il lungo corteo funebre. Poi ci sono le bandiere: quelle dei quattro mori, ovviamente, ma anche quelle dello stato sardo indipendente che Doddore Meloni aveva sognato e provato a realizzare. E poi, a sorpresa, ci sono persino quelle della repubblica di San Marco. Per l’ultimo saluto al più agguerrito indipendentista sardo, morto dopo un rigido sciopero della fame dietro le sbarre, sono arrivati persino dal Veneto. Per la Lega Nord c’è Mario Borghezio, che da sempre aveva sostenuto le battaglie del piccolo partito fondato da Doddore Meloni. Il suo funerale diventa una specie di festa triste dell’orgoglio sardo. La rabbia che qualcuno vorrebbe gridare è soffocata dalle lacrime. Almeno per oggi. Perché la battaglia legale per far chiarezza sul decesso di Meloni va avanti con molta determinazione. Il legale che aveva chiesto la scarcerazione e i domiciliari, dopo 50 giorni di sciopero della fame, ora pretende di accertare se sia stato violato qualcuno dei diritti dei detenuti, e chi sia eventualmente il responsabile. Doddore Meloni, fondatore della libera repubblica di Malu Entu, era finito in cella ad aprile per scontare due condanne per reati fiscali. Dal primo giorno aveva deciso di rifiutare il cibo e non ha mai cambiato idea. Dopo due mesi, le sue condizioni si sono aggravate ma il medico del carcere le ha sempre considerate compatibili con la detenzione e il magistrato di sorveglianza ha respinto la richiesta di domiciliari. Le denunce e le proteste di piazza non sono servite. E mercoledì scorso la situazione è precipitata. Il leader del movimento indipendentista è stato accompagnato d’urgenza in ospedale ma è stato stroncato da un arresto cardiaco. Il sospetto che la morte si potesse evitare ce l’ha anche la procura di Cagliari, che infatti ha aperto subito un’inchiesta. Il caso è già sul tavolo del ministro della Giustizia e alle tanti voci che chiedono "verità e giustizia" ora si aggiunge anche quella di Amnesty International: "Si chiariscano i punti interrogativi su questa dolorosa vicenda, in particolare la questione della compatibilità della detenzione di Meloni con l’età e con le condizioni di salute a seguito di un prolungato sciopero della fame". Nel suo paese, comunque, oggi è il giorno del dolore. E per rendere onore alle tante battaglie di Doddore Meloni anche il prete ha celebrato in sardo una parte della messa: "Oggi salutiamo un martire dell’indipendentismo". Firenze: Sollicciano, appello per i ventilatori dal Cappellano del carcere di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 10 luglio 2017 Temperature soffocanti nel carcere. Il cappellano: basta qualche apparecchio, lo chiedo al ministro. Caldo torrido a Sollicciano. Trentacinque gradi nelle celle. Non ci sono ventilatori, tanto meno l’aria condizionata. Nessuna areazione. Per alleggerire la situazione, la direzione del carcere ha predisposto l’apertura delle celle fino alle 18,30. Ma anche i passeggi, dove i reclusi passano il tempo, sono esposti al calore. Una media di trenta gradi. Le condizioni migliorano durante la notte, quando le temperature scendono. Ma il problema è l’architettura del carcere, fatta di cemento armato, che trattiene e amplifica il calore. Un problema antico, che si ripete come un’emergenza anno dopo anno, ogni volta che arriva l’estate. Un vero incubo, per le centinaia di detenuti di Sollicciano. Eppure, dicono le associazioni che vivono il carcere, basterebbe poco per alleviare il caldo insopportabile. La proposta arriva dal cappellano del carcere, don Vincenzo Russo, che si appella alle istituzioni locali e all’amministrazione penitenziaria per l’acquisto dei ventilatori. "Vivere a Sollicciano a 35 gradi è una tortura. Faccio appello alle istituzioni affinché, dalle loro fresche stanze, possano immedesimarsi in chi vive queste condizioni. Chiediamo un impegno concreto per comprare qualche ventilatore, almeno quello. Facciamo appello direttamente al ministro della giustizia Orlando". Parole condivise anche da Eleuterio Grieco, coordinatore provinciale per la Uil degli agenti penitenziari. "I ventilatori costano poco. Non potranno essere messi all’interno delle celle visto che c’è un voltaggio più basso, ma potranno essere sistemati nei passeggi, dove i reclusi passano parte della giornata. Sarebbe un piccolo sforzo economico per allietare temperature che toccano i 40 gradi". Il problema del caldo a Sollicciano è riconosciuto anche dal provveditore dell’amministrazione penitenziaria regionale Giuseppe Martone: "È vero, a Sollicciano fa caldo, complice l’architettura assurda con cui è stato progettato il carcere. Ma i ventilatori non sono la soluzione giusta. Anzitutto perché rischierebbero di mandare in tilt il sistema elettrico e poi perché la superficie dei passeggi è troppo grande". E così il caldo resta. Con buona pace dei detenuti. Difficile persino dormire. "Tanti reclusi raccontano di svegliarsi in un bagno di sudore" dice Don Russo, che aggiunge: "Va bene che hanno sbagliato, ma così la rieducazione è impossibile". Sarebbe un piccolo sforzo economico, ma molto importante per migliorare le condizioni dei detenuti Napoli: la sfida dei detenuti in affido "apriamo un bed and breakfast" Giuliana CoveIla Il Mattino, 10 luglio 2017 Lavorano nel Centro diocesano a pochi passi da Donnaregina: è li che sorgerà il piccolo hotel. "Volete un a tazzina di caffè? A Napoli il caffè non si rifiuta mai". Francesco accoglie col sorriso chiunque arrivi da fuori su una delle terrazze del Centro diocesano di Pastorale carceraria in via Pietro Trincherà 7. Un antico palazzo nel cuore del centro storico, a pochi passi da largo Donnaregina. Nessuno immaginerebbe mai che dietro quel sorriso Francesco nasconde una storia dalla quale sta provando a riscattarsi. Come? Costruendo un B&B che lui e i suoi compagni apriranno e gestiranno tra pochi giorni proprio nella sede che li ospita, accanto al Duomo. Si, perché insieme ad altri 32 Francesco è uno dei detenuti in affido che la struttura diretta da don Franco Esposito ha accolto per consentire loro una misura alternativa al carcere. Un mondo a sé, quello che pulsa e si riscatta ogni giorno nell’antico edificio di via Trinchera. Dove insieme ai 33 carcerati passano le loro giornate altre 10 persone sottoposte agli arresti domiciliari. "Sono quelli che non hanno né famiglia né casa" spiega Valentina, psicologa dell’associazione "Liberi di volare Onlus" che, con i suoi 60 volontari, cerca di donare un futuro migliore a chi ha commesso reati. Uno dei primi a raccontare la propria storia è Marco Migliaccio, 34 armi, di Mugliano. Prima di andare al lavoro nella pizzeria "Dal Presidente" ai Tribunali, Marco ripercorre la sua triste vicenda: "Ho vissuto a Qualiano, dove ero legato al clan De Rosa, per conto del quale facevo l’estorsore. Poi mi trasferii nelle Marche, dove lavoravo come impermeabilizzatore di tetti. Fino a quando non sono stato arrestato e in prigione sono caduto in depressione. Uscito dal carcere, a Bellizzi Irpino, dove ho studiato da geometra, mi sono dato da fare per trovare un’occupazione. Cosi sul webho trovato questo posto e ho incontrato don Franco che, dandomi un’opportunità, mi ha salvato la vita". Da due mesi Marco lavora come cameriere e coltiva un sogno: "Amo cantare e un giorno spero di poter intraprendere questa professione. Per cambiare - chiarisce - devi toccare il fondo". Sono tanti gli ospiti del Centro che quotidianamente lavorano nei laboratori di cuoio, falegnameria e bijouteria, dove i detenuti infilano perline ad una ad una fino a formare dei bellissimi rosari da rivendere fuori e dentro le chiese. Tra di loro c’è anche chi si è macchiato del reato di pedofilia e tende a nascondersi. "Ma - avverte don Franco - attenzione. Bisogna imparare a non giudicare e a lasciar fare alla giustizia il proprio corso". Un riscatto a tutti gli effetti, dunque, dove chi ha commesso un reato, che sta scontando dai 3 ai 5 anni, vive a stretto contatto conia realtà esterna. "Vengono qui alle 9 e vanno via alle 13, tranne quelli che sono ai domiciliari ovviamente - spiega Valentina. Imparano un mestiere, A stare insieme agli altri, perché la condivisione e il confronto sono fondamentali. E soprattutto imparano ad usufruire dei loro diritti. Molti, ad esempio, non sanno nemmeno di avere diritto all’esenzione per medicinali e visite mediche". Creativi e pieni di speranza, i carcerati ora si preparano a una nuova sfida: l’inaugurazione del B&B realizzato da loro, che tra pochi giorni inizierà ad ospitare turisti da tutto il mondo. "Non sappiamo ancora come chiamarlo - dicono - forse come la Onlus che ci ha accolto "Liberi di volare". Come Andreas, 48 anni, di Budapest, che è qui da 5 anni per spaccio di droga: "Sono l’unico ad avere il braccialetto elettronico, ma presto tornerò libero". Viterbo: a scuola di cucina, una chance di rinascita per i ragazzi a rischio Redattore Sociale, 10 luglio 2017 Campus Etoile Academy mette a disposizione, in collaborazione con il progetto "Alveare per il sociale", borse di studio per ragazzi sottoposti alla misura della messa alla prova. Ieri la consegna dell’attestato a Davide che, dopo un passato difficile, ora ha un lavoro nella ristorazione. "Gli obiettivi di oggi sono molto diversi da quelli che avevo ieri. Oggi voglio continuare a impegnarmi in cucina, che è la cosa che mi piace di più, mettere su famiglia e cambiare tutto quello che è stato il mio passato". A parlare è Davide, 18 anni. Fino a qualche tempo fa ospite della Comunità pubblica per minori di Lecce (chiusa recentemente). Arrestato per spaccio di droga nel 2015. Un futuro che molto probabilmente l’avrebbe portato di nuovo per strada, come pedina dei boss locali. La sua storia, però, è andata diversamente e ieri l’ha raccontata a Tuscania, a pochi chilometri da Viterbo, nel Campus Etoile Academy, la scuola di cucina e pasticceria diretta da Rossano Boscolo. Grazie ad una borsa di studio, Davide ha potuto allontanarsi da casa, dove ha rischiato anche di venire ucciso, e fare un percorso di studio nell’accademia. Nel campus, ieri ha ricevuto l’attestato della scuola e da pochi giorni ha anche un posto di lavoro in una società di catering, grazie allo stage. A cambiare il corso della storia di Davide è stato l’incontro con il regista Paolo Bianchini, fondatore insieme a Paola Rota di Alveare Cinema e attuale direttore artistico, che nella comunità ministeriale di Lecce ha girato la serie web "Angelo, una storia vera" (oggi su Raiplay). Una coproduzione Alveare Cinema e Rai, per raccontare la storia vera di un ragazzo sottoposto alla misura della messa alla prova. Da quell’esperienza è nata Alveare per il sociale che ieri ha rilanciato il proprio impegno con la presentazione di una nuova borsa di studio sempre presso l’accademia. "Il progetto nasce dalla storia vera di Angelo, un ragazzo conosciuto e raccontato nella comunità minorile di Lecce, oggi chiusa per ragioni economiche - racconta Bianchini -. Circa un anno e mezzo fa, in quella comunità, abbiamo girato una serie web. Tre mesi di vita all’interno della comunità ci hanno portato a conoscere uno per uno questi ragazzi e l’incontro è stato indelebile. Nascono in un tessuto sociale inesistente, se non rappresentato soltanto dall’illegalità. Ragazzini presi come manovalanza dalla Sacra corona unita e immediatamente inseriti nel traffico della droga. A 13 anni girano armati. Hanno già il "ferro", la pistola". Ed è così che nasce l’idea di avviare percorsi di inserimento lavorativo. "Non li abbiamo più lasciati, abbiamo continuato a seguire i ragazzi e siamo diventati il loro punto di riferimento. Per Angelo e oggi per Davide. Boscolo ha offerto quindi due borse di studio, una per Davide e l’altra per un altro giovane che a settembre comincerà l’altro corso. Viene da Casal del marmo. Un ragazzo che ha appena compiuto 18 anni, come Davide". Il percorso formativo di Davide è durato un mese, mentre il prossimo, spiegano gli organizzatori, durerà tre mesi. Per Davide, però, è stata una svolta. "Sono arrivato che sapevo poco o nulla di cucina. Ho lavorato in un ristorante, ma non a questi livelli - racconta Davide. Ho fatto un bel percorso. Mi hanno dato una grossa mano e mi hanno fatto capire il valore della libertà e della vita. Paolo Bianchini, poi, non mi ha lasciato mai solo. Dopo un anno e mezzo ha capito che a me piaceva tantissimo la cucina e mi ha proposto di venire qui". A stage finito, Davide non tornerà a casa, ma continuerà a lavorare a Tuscania. "Ho ricevuto una proposta di lavoro qui - spiega -, in una agenzia di catering per matrimoni". Per Rossano Boscolo, è una scommessa vinta. "Noi siamo una scuola, formiamo giovani. È la nostra missione - racconta -. Qui arrivano ragazzi che hanno possibilità economiche ma che hanno altri tipi di difficoltà. Ma è la passione che hanno quello che ci interessa. Con la passione vediamo che si fanno dei miracoli. Quando c’è la passione non credo che il passato sia importante. È importante quello che vuoi fare, quello che sogni". Per Boscolo, però, servono più occasioni come queste. "Quello che servirebbe - spiega il rettore del campus - è che fondazioni e associazioni si facciano carico di borse di studio. Noi siamo una scuola privata. Viene finanziata dalle famiglie, dalle persone stesse che vogliono partecipare ad un corso. Se un ragazzo ha un problema di carattere sociale e ha la possibilità di integrarsi in una scuola come la nostra penso sia il massimo. Anche perché i nostri ragazzi lavorano tutti. Non ho ragazzi a casa. Il giorno dopo che hanno finito vanno a lavorare. Ho più richieste di lavoro che persone disponibili. La possibilità di essere integrati nel mondo del lavoro c’è, ma è chiaro che bisogna essere formati. La formazione è importante". Grazie al progetto di Alveare per il Sociale, ora la scuola di cucina avrà una borsa di studio per ragazzi come Davide. "Oltre alla nostra borsa di studio per motivi economici - ha spiegato Boscolo - da quest’anno metteremo a disposizione questa borsa sociale di questo tipo". L’obiettivo, spiegano i responsabili del progetto Alveare per il Sociale, è "evitare che i minori, al di fuori di percorsi collettivi di "presa in cura", tornino a delinquere. Per far questo stiamo creando una rete di partnership che, superando i limiti dell’intervento istituzionale e della carenza di risorse pubbliche destinate al reinserimento sociale e al recupero dei giovani detenuti, con azioni rivolte alla persona, flessibili ed economicamente sostenibili, possano essere di stimolo alla configurazione di politiche più generali di recupero". Cagliari: a Is Arenas un progetto di reinserimento lavorativo dei detenuti di Gianni Vacca sardegnanews.info, 10 luglio 2017 Il progetto Asi-Attività Equestri rappresenta senza ombra di dubbio un ulteriore salto di qualità per la Casa di Reclusione de Is Arenas carcere modello tra i più moderni e "umani" presenti in Italia. A fianco delle attività agricole, quelle di laboratorio e di officina, di indirizzo zootecnico e foraggiero frutticolo e orticolo da sempre utilizzate quale percorso riabilitativo finalizzate a facilitare al detenuto un più facile inserimento sociale al termine della pena, venerdì 16 giugno si è aggiunto per la casa penale di lavoro all’aperto un nuovo interessante progetto denominato "Is Arenas attività equestri Asi". Il progetto finalizzato al reinserimento lavorativo dei detenuti prende vita da un protocollo d’intesa tra casa di reclusione Is Arenas, l’Hotel Le Dune e l’Asi, Associazioni sportive e sociali italiane. Da qui la costruzione di un percorso formativo ad hoc per 12 detenuti che si sono laureati tra gli applausi del pubblico e alla presenza di numerose autorità civili e militari e del personale carcerario in Guide Equestri Asi. "Un’ulteriore opportunità di riscatto e di lavoro - spiegano gli organizzatori del progetto - per chi sta pagando nei confronti della comunità il prezzo per i propri errori. Un messaggio di come nella legalità, seppur tra mille difficoltà, ci possa sempre essere una possibilità di riscatto e di vita vera". Un concetto emerso sia nell’intervento di Claudio Barbaro, responsabile nazionale Asi, sia naturalmente in quello di Luisa Pesante, direttrice della casa di reclusione, che con grande entusiasmo ha accolto questa nuova grande opportunità. A rappresentare la parte politica i senatori Emilio Floris, i deputati Siro Marrocu e Bruno Murgia, diversi consiglieri regionali e sindaci della zona. Nei prossimi mesi i detenuti che hanno completato l’iter formativo avranno il compito di guidare attraverso i 2700 ettari della casa di reclusione, vero angolo di paradiso tutto ancora da scoprire e valorizzare, gli ospiti delle strutture turistiche circostanti. Tre le ippovie studiate e già rese operative dall’Asi attraverso le quali conoscere uno degli angoli più selvaggi e ancora intatti della Sardegna. Un mini safari dove è possibile vivere un’esperienza indimenticabile con esclusive escursioni equestri (anche per bambini con i pony) all’insegna della millenaria complicità tra uomo e cavallo all’interno del piccolo deserto, il sistema dunale più esteso d’Europa, ulteriormente arricchito da tracce indelebili di archeologia mineraria e dalle immense e indimenticabili spiagge ancora meta per la deposizione delle uova delle tartarughe marine "caretta-caretta". "La decisione di aprire le "sbarre" ad attività lavorative di impronta turistica - afferma la consigliera comunale Annita Tatti laurea specifica in Scienze Psicologiche applicate al turismo - rappresentano in questo senso una grande opportunità di riscatto e di redenzione. Il turismo è difatti la più grande esperienza e attività, oltre che ludica, culturale e sociale che abbiamo a disposizione. Sono sempre più numerosi infatti i turisti che scelgono volutamente di abbracciare l’esperienza turistica con quella sociale e questa nuova attività che la colonia penale ha individuato per il nostro territorio lo è in tutti i sensi. Diamo merito, dunque, a questa iniziativa - conclude la consigliera Tatti - che ci dimostra e ci insegna le mille sfaccettature che il turismo, oltre a quello balneare e di massa, può avere nel nostro territorio". Ragusa: lavorare all’interno del carcere, un progetto per valorizzare il tempo dei detenuti ragusah24.it, 10 luglio 2017 Nasce a Ragusa un nuovo progetto presso la casa circondariale grazie alla sinergia tra l’impresa Intrachimica e la direzione del carcere ragusano. Il progetto prevede che la casa circondariale di Ragusa metta a disposizione dell’impresa Intrachimica un locale dove, con l’ausilio di un macchinario erogatore del prodotto chimico, fornito dall’impresa, i detenuti, appositamente selezionati, provvederanno al confezionamento di prodotti per la pulizia professionale di ambienti privati e pubblici. I detenuti individuati, tra quelli inseriti nella graduatoria lavoro dell’ istituto, ed aventi i requisiti previsti dalle disposizioni regionali per l’inserimento lavorativo, saranno avviati, a cura del centro per l’impiego di Ragusa, al tirocinio formativo e di orientamento, a conclusione del quale, l’impresa si impegna all’assunzione. I prodotti realizzati dai detenuti, in quanto aventi il valore aggiunto dell’opportunità del cambiamento data a soggetti svantaggiati saranno destinati al commercio solidale ed etico. Al fine di promuovere una maggiore commercializzazione dei prodotti, e, dunque, incrementare i posti di lavoro per i detenuti, che nella fase iniziale saranno 2 posti, i prodotti verranno immessi nel mercato a prezzi più competitivi, auspicando che Enti pubblici e privati, invogliati dal risparmio economico e del valore etico del prodotto decidano di approvvigionarsi delle linee di prodotti confezionati nel carcere di Ragusa. Il progetto sarà realizzato a decorrere dal mese di settembre, si pone in linea con le finalità ed obiettivi dell’amministrazione penitenziaria di valorizzare forme e modelli di integrazione con le risorse del territorio e del privato sociale che produce maggiori opportunità di lavoro. Ciò perché per i detenuti un impegno stabile e quotidiano è fondamentale per valorizzarne le competenze e le energie in vista del successivo reinserimento nel tessuto sociale, oltre che per diminuire l’ impatto sociale ed emotivo della restrizione della libertà. Il lavoro dà un senso al tempo speso in prigione. Un detenuto che ozia non serve a nessuno, né a se stesso né alla società. Un detenuto che lavora sperimenta relazioni sane, impara, ricostruisce un ponte con il mondo e il suo futuro. Il progetto è reso possibile dall’azienda Intrachimica, e soprattutto dal suo rappresentante legale Giovanni Virdone, che ha investito in risorse per dare un’opportunità di lavoro a soggetti svantaggiati. A dare un contributo è stato anche il direttore del centro per l’impiego di Ragusa, Giovanni Vindigni che nell’ambito delle iniziative, previste da direttive assessoriali regionali, di politiche attive del lavoro, ha consentito l’attivazione di tirocini di inserimento lavorativo di detenuti per questo progetto sociale. Varese: detenuti e studenti gomito a gomito, "percorsi a confronto" per educare alla legalità di Giuseppe Del Signore ancoraonline.it, 10 luglio 2017 "Incontro persone diverse, respiro un po’ di normalità, posso spiegare ai ragazzi l’importanza di non sbagliare, perché qui ci finisci per delle cavolate". Davide P., 24 anni, è seduto su uno sgabello, ha preso una piccola pausa dai fornelli per parlare, ma non è alla cucina che si riferisce, bensì alla casa circondariale di Varese, dove sta scontando una condanna per spaccio. Ha deciso di partecipare al progetto "Percorsi a confronto" organizzato a partire dalle linee guida del Provveditorato regionale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia. L’iniziativa, proposta dal 2014, è stata premiata dalla Regione Lombardia tra i migliori progetti sulla legalità e porta gli studenti delle scuole superiori dietro le sbarre, a lavorare e a trascorrere il tempo a stretto contatto con altri giovani, che quella soglia l’hanno passata per scontare una pena. Cineforum, laboratorio di cucina, scrittura creativa, queste alcune delle attività che carcerati e ragazzi svolgono insieme, guidati da Maria Mongiello, responsabile Area trattamentale, Sergio Preite, educatore professionale e formatore di Enaip, e dai docenti delle scuole della provincia di Varese aderenti. Un’occasione di condivisione. Mentre si concentrano sui fornelli, tutti sembrano dimenticare dove sono. Gomito a gomito, ristretti e studenti impastano la pizza, preparano mandorle caramellate, intagliano la frutta. La testa di un cigno che una ragazza ha ricavato da una mela si spezza, uno dei detenuti prende uno stuzzicadenti e la riattacca al resto del corpo, poco più in là due giovani apparecchiano la tavola; che uno dei due sia stato condannato per un reato al momento pare un dettaglio. Si parla del più e del meno; certo c’è l’imbarazzo di non conoscersi, ma dietro la timidezza ci sono la voglia di raccontare e la curiosità di ascoltare. "Sono qui da sei mesi - prosegue Davide - quando i carabinieri sono venuti a prendermi è crollato il mondo, non me l’aspettavo proprio perché pensavo di aver chiuso. Ho perso il lavoro, la ragazza, la mia famiglia soffre, gli amici sono lontani". Non si aspettava di finire in prigione per la terza volta, la prima per qualche giorno e la seconda per un mese prima di essere assegnato ai domiciliari. "Dal 2015 avevo messo la testa a posto, mi trovo qui per il primo reato che ho commesso, ero ancora minorenne e pensavo che sarebbe andato tutto in prescrizione diventando maggiorenne, invece non è così. Avrei voluto pagare subito il mio errore, non ora che avevo iniziato a costruire una vita". Anche Aldousz, 28enne albanese condannato per furto, sperava di cavarsela. "Ho iniziato a rubare perché pensavo che così avrei potuto vivere meglio. Lavoravo, però i soldi non bastavano per vivere, ho conosciuto degli amici che rubavano e ho visto che stavano bene, così ho iniziato anche io. Ogni colpo avevo paura, capivo che era una cosa sbagliata, quando mi hanno arrestato ero terrorizzato, sono stato portato a San Vittore, ma non sapevo neppure dove fosse". E ancora: "I primi mesi, quando ero solo, avevo mille pensieri, sentivo il vuoto, ora c’è soprattutto il senso di colpa. Questo è tempo perso della mia vita, che mi terrà indietro quando sarò fuori". Dare senso al tempo. Davide, Aldousz e gli altri hanno aderito a "Percorsi a confronto" e ai corsi organizzati nella casa circondariale per passare il tempo, ma anche per trasmettere la loro esperienza agli studenti. "Mi sono iscritto subito a tutti i progetti - spiega il primo - perché altrimenti vai fuori di testa; hai tanti pensieri, mia mamma che sto facendo soffrire e ho paura stia male per colpa mia, la ragazza che non ho più, il mio cane Leo che vorrei vedere perché è il mio migliore amico, ma che è anziano e non so se sarà ancora vivo quando uscirò". "Sono stati gli educatori - fa eco il secondo - a propormi di partecipare, mi sono fidato, so che cercano di aiutarci, così non facciamo di nuovo i deficienti. Mi sta facendo bene, anche perché un giorno con un progetto passa più in fretta e dimentichi dove sei". Un’alternativa a giornate sempre uguali: "Ti svegli tra le 8 e le 9 - racconta Davide - e se non hai corsi stai appoggiato al ballatoio a parlare, ma alla fine fai sempre gli stessi discorsi. ‘A te quanto manca?’ ‘Ah poco, sto aspettando il pullman’. Giochi a carte, guardi la tv, fumi, stringi qualche amicizia, ma sono ‘amicizie in galerà, è difficile che sopravvivano". Perché il carcere è una dimensione parallela e i ragazzi delle scuole lo capiscono poco per volta. "Mi sono iscritto per saltare ore di scuola - dichiara Federico Beri, uno di loro - ma mi sono ricreduto: il progetto è stato molto interessante, conoscevo già diverse cose che ci hanno detto, ma è una bella occasione per chi non le sa e per i detenuti, che possono vivere un po’ il mondo esterno e respirare normalità". Dopo il laboratorio i ristretti tornano in cella, i ragazzi recuperano gli smartphone, li accendono, varcano la soglia, rientrano nel mondo. "Spero di tornare dove lavoravo prima - confida Davide - magari di guadagnare quanto serve per lasciare l’Italia. Vorrei tornare a fare una vita normale". Napoli: nasce il primo sportello per persone gay e trans in un carcere italiano La Repubblica, 10 luglio 2017 Firmato il protocollo tra Arcigay Napoli e il carcere di Poggioreale. Il protocollo si chiama "Al di là del muro". E muri da oltrepassare ce ne sono tanti in questo caso. Arcigay Napoli aderisce al protocollo "Al di là del muro", già stipulato tra la Casa Circondariale di Poggioreale e il Centro Sinapsi dell’Università Federico II di Napoli e a seguito del progetto "IRIDE", aprendo un’importante collaborazione tra il carcere di Poggioreale (quello con più detenuti in Italia e in Europa) e la nostra associazione. L’accordo prevede la possibilità di istituire presso il carcere il primo sportello stabile per persole gay, bisex e trans in Italia, al fine di offrire consulenza e ascolto ai detenuti (sia quelli che si ritrovano nei padiglioni riservati alle persone gay e trans, che eventualmente a tutti gli altri) e al personale, per diffondere una cultura del rispetto delle differenze, per contrastare la diffusione delle malattie a trasmissione sessuale, per costruire percorsi di formazione rivolti al personale su questioni legate al genere a all’orientamento sessuale, ma soprattutto per poter seguire le persone Gbt sia durante il periodo di detenzione, ma anche nella fase successiva di reinserimento attraverso la rete territoriale costruita dal nostro Comitato Arcigay. "Un accordo importantissimo - dichiarano Antonello Sannino e Daniela Falanga, presidente e responsabile per di diritti delle persone Trans di Arcigay Napoli - ottenuto grazie alla fitta rete di collaborazioni territoriali, unita alla lungimiranza e alla tenacia dell’attuale direttore, il dottor Antonio Fullone, e dei suoi più stretti collaboratori. Una società più equa e più giusta parte proprio dai quei luoghi, come il carcere, dove troppo spesso si assiste a una sospensione dei diritti inviolabili dell’individuo e dove, purtroppo, si vive in condizioni di estrema sofferenza umana e sociale". Nei prossimi giorni partiranno le prime visite nel carcere da parte dei nostri operatori e delle nostre operatrici e in autunno vi sarà un momento pubblico di discussione con la direzione del carcere di Poggioreale Airola (Bn): carcere minorile e droga, il direttore "i controlli sono minuziosi" di Enzo Napolitano Il Mattino, 10 luglio 2017 Il responsabile dell’istituto: "Il fenomeno è circoscritto a soli casi di cannabinoidi". Dopo l’episodio di ieri in cui, alla fine del colloquio con i familiari, un detenuto è stato sorpreso con della droga sotto la maglietta e la pesante denuncia a riguardo del segretario generale del Sappe, Donato Capece, il direttore dell’Istituto penale minorile di Airola, Antonio Di Lauro, interviene per chiarire la portata dei fatti. "Il problema dei controlli dalle sostanze stupefacenti - spiega Di Lauro - interessa tutti gli istituti d’Italia, per minori e per adulti. I metodi di occultamento sono tanti e vari: quando si riesce a trovare qualcosa, ciò avviene grazie alla solerzia e al buon lavoro di alcuni dei nostri poliziotti. Per quanto riguarda la struttura di Airola, il fenomeno è circoscritto a soli casi di cannabinoidi. Lo confermano le sostanze rinvenute finora e sottoposte ad analisi tossicologiche. Va precisato pertanto, rispetto a quanto è stato detto, che gli stessi detenuti non sono mai stati trovati in possesso di altre sostanze stupefacenti come cocaina, eroina o altro. Come accertato anche dalla Asl di Montesarchio, soltanto un ragazzo, all’ingresso nell’istituto, negli ultimi dieci anni si è dichiarato tossicodipendente. Per tutti gli altri possiamo parlare unicamente di consumatori cannabinoidi. Quella che è stata rinvenuta sabato è stata una piccola quantità, pochi grammi". Resta il fatto che il consumo di tutte le droghe, sia quelle cosiddette "leggere" che quelle pesanti, è vietato, fuori ed ancor più all’interno di un istituto di pena, per cui il fenomeno evidenziato con forza dal Sappe va combattuto quotidianamente. "In verità l’introduzione e l’uso di sostanze stupefacenti - aggiunge il direttore dell’Ipm di Airola - noi la contrastiamo non solo con i controlli, ma anche con la prevenzione, attraverso programmi rieducativi finalizzati ad aiutare i ragazzi a comprendere i fattori negativi sanitari e sociali, legati alle droghe. Spesso poi diventa difficile trovare questi involucri, perché ai colloqui li ingeriscono oppure li occultano in altre parti del corpo e c’è bisogno dell’autorizzazione del magistrato ed andare in ospedale per fare gli accertamenti. Ma si tratta di accertamenti invasivi che vanno compiuti solo in caso di gravi indizi. Ad Airola però, questa precisazione è importante: il problema è circoscritto ai soli cannabinoidi". Non la pensa così il Sappe, il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, il primo e più rappresentativo della categoria. "Airola ‘ spiega il suo segretario generale, Donato Capece - è sempre al centro di violenze ed eventi critici, ma l’Amministrazione della Giustizia Minorile nazionale e regionale continua a non fare nulla per sanare e porre rimedio a queste gravi criticità, se non cercare di sminuire goffamente la gravità di questi episodi": il riferimento del sindacato è alla rivolta scatenata da alcuni detenuti maggiorenni a settembre scorso o al più recente tentativo di qualche ristretto di dare fuoco alle lenzuola della sua cella. Una precisazione-rettifica riguardo all’articolo apparso ieri: nell’occhiello della titolazione si attribuiva erroneamente al comandante di Polizia penitenziaria, Pasquale Spampanato, l’appartenenza al Sappe. La dichiarazione va invece attribuita al segretario generale del Sappe, Donato Capece. Rimini: "Non me la racconti giusta", l’arte invade il carcere exibart.com, 10 luglio 2017 Ne parliamo con Maria Caro, ideatrice del progetto. È un argomento trasversale, riguarda tanto la politica e il diritto quanto la sensibilità e la cultura. Sul sistema carcerario e repressivo è stato scritto molto, almeno dall’Illuminismo in poi. In Italia, il dibattito si accende periodicamente, diffondendosi dal parlamento ai mass media, fino ai social network ma il discorso rimane ambiguo, difficile affrontare senza cadere nel pregiudizio o, all’opposto, nel pietismo. "Non me la racconti giusta" è il progetto di arte urbana, a cura di Ziguline, magazine di arte e cultura contemporanea, in collaborazione con gli street artist Collettivo Fx, e Nemo’s e il fotografo Antonio Sena, che riconosce, in questi spazi, una peculiare possibilità di espressione. Negli anni scorsi, il progetto ha interessato la Casa Circondariale di Ariano Irpino e la Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino, mentre la terza edizione, conclusasi pochi giorni fa, ha coinvolto la Casa Circondariale di Rimini. L’idea è attivare momenti di scambio con i detenuti, un laboratorio nel quale l’intero processo creativo è generato dalla condivisione, dall’ideazione del soggetto fino alla realizzazione materiale dell’opera. Ne abbiamo parlato con Maria Caro, direttrice di Ziguline. "Non me la racconti giusta" segue un approccio laboratoriale, scandito da tappe graduali, dall’elaborazione dell’idea alla messa in pratica. Puoi spiegarci i vari passaggi? "Siamo noi a invadere la "casa" di queste persone quindi, nonostante un atteggiamento molto propositivo, cerchiamo di lasciare spazio e tempo a ognuno di loro. Uno dei vari obiettivi che perseguiamo, infatti, è quello di responsabilizzare i detenuti durante l’arco di tutto il progetto. Collettivo Fx e Nemo’s mettono sul tavolo di discussione degli argomenti e si cerca, insieme, di tirare fuori concetti, simboli e temi interessanti da rappresentare sulla parete. Il risultato è un brainstorming collettivo in cui sono i detenuti a decidere cosa disegnare sul muro e il perché. La guida degli artisti serve a superare l’imbarazzo iniziale ma, soprattutto, la pigrizia mentale. Se nella prima fase, vengono fuori storie e sfumature delle varie personalità, è la seconda fase quella più interessante. Persone di età e origini variegate si trovano di fronte a un muro convinti di non essere capaci di disegnare ma la responsabilità, gli stimoli provenienti da noi e l’obiettivo comune di portare a termine un lavoro che resterà impresso sul muro, rende tutti molto determinati. La terza fase, invece, prevede una chiacchierata che ci permette di raccogliere riflessioni e opinioni sul lavoro svolto e su come progetti di questo tipo possano essere o meno utili nel contesto detentivo." Il progetto è arrivato alla terza tappa, è cambiato qualcosa dall’inizio a ora? "Ogni volta che entriamo in un carcere viviamo esperienze completamente diverse. Non nego che sono tanti i tratti comuni tra molti dei detenuti e del personale ma l’approccio e il risultato finale mi stupiscono ogni volta. Quello che è cambiato in noi è la familiarità con cui ci muoviamo in un ambiente così particolare, è cresciuta anche la consapevolezza di alcune inevitabili dinamiche e della complessità della dimensione carceraria, in cui tutti i problemi sono amplificati. Le tre esperienze - Ariano Irpino, Sant’Angelo dei Lombardi e Rimini - sono state tutte differenti. Il confronto tra le prime due è facile, nella prima si svolgono poche attività, mentre nella seconda sono tante le alternative alla cella che vengono offerte ai detenuti. A Sant’Angelo c’era molto entusiasmo e il gruppo di Ariano Irpino ha manifestato attaccamento anche maggiore per questa opportunità. Rimini è un discorso a parte, in quanto abbiamo lavorato con la sezione Vega, che attualmente ospita due transessuali, e con la sezione Andromeda, una sezione speciale che offre un programma riabilitativo speciale ai detenuti con pregressi problemi di tossicodipendenza. Sono venute fuori nuove problematiche, nuove idee e nuovi messaggi da inviare." Quanto può essere significativo, per l’arte contemporanea, il confronto con il non-luogo di una casa circondariale? "Direi che il carcere è sicuramente una buona fonte di ispirazione, comunque, nel nostro caso, l’arte è un mezzo molto valido ma solo un mezzo. La forza del progetto sta nel riuscire a coinvolgere, affascinare e lasciare un segno, si spera, in tutte le persone coinvolte. Sicuramente questo confronto può aprire a diversi scenari. Il carcere è un non-luogo diverso da molti altri. Non si accede per volontà, i detenuti vivono in una sorta di nuovo mondo in cui si stabiliscono legami e interazioni che sono limitate nel tempo e nello spazio. La maggior parte dei detenuti quando interagisce con un interlocutore mente, anche involontariamente. Una volta dentro indossano una maschera, una corazza che permette loro di sopravvivere, adattandosi questo nuovo scenario. Indagare questo aspetto è sicuramente molto stimolante e il lavoro che si svolge durante Non me la racconti giusta spesso dà la possibilità di permeare questa corazza. Lavorando cinque giorni consecutivi e per molte ore, il loro livello di guardia si affievolisce e, almeno a sprazzi, si intravedono le loro anime. Il carcere è un "non-luogo" ma anche un "nuovo luogo" che plasma la persona." Quali esperienze hanno potuto maturare gli artisti e gli operatori in questo dialogo? Che tipo di partecipazione hai notato nei detenuti? "L’esperienza ha arricchiti molto, sembrerà banale ma confrontarsi con il carcere ci permette di osservare, attraverso un filtro concreto, molte problematiche che riguardano tutti e in un determinato momento del loro sviluppo. Il carcere accumula problemi, quelli che il detenuto aveva prima di entrarci, quelli legati al carcere stesso, come cassa di risonanza dell’amministrazione pubblica, e quelli che vivrà una volta fuori. La sfida è interessante, guidare persone anche molto mature, invogliarle a esprimersi attraverso un mezzo artistico e a portare avanti un proprio progetto, non calato dall’alto, responsabilizzarli sulla buona riuscita del lavoro. I più giovani sono i più entusiasti, si lasciano affascinare dall’arte urbana, dalla guida dei due artisti che, in questo, sono davvero bravissimi. I più adulti hanno più remore ma finiscono per dare comunque il proprio apporto. Ci è capitato di lavorare anche con detenuti che sapevano disegnare o dipingere e ovviamente sono stati contentissimi di partecipare. Altri hanno scoperto di saper disegnare e se all’inizio ricopiavano dai nostri schizzi o da esempi, gli ultimi giorni sceglievano i soggetti ed esprimevano idee". Palermo: detenuti mettono in scena i classici. "L’esperienza più bella vissuta in carcere" Redattore Sociale, 10 luglio 2017 Bilancio positivo per il progetto "Classici in strada": il laboratorio ha coinvolto anche 50 reclusi dell’Ucciardone di Palermo, che hanno lavorato su testi dell’Iliade, dell’Odissea, sulle favole di Esopo e sul don Chisciotte. La regista Salatino: "Il teatro conferma la sua alta valenza sociale e orizzontale che fa bene a tutti". Il teatro come crescita personale grazie alla sua valenza educativa. Con questo fine si è svolto "Classici in strada", un laboratorio teatrale di tre anni realizzato anche con 50 detenuti della casa di reclusione Ucciardone di Palermo. Nel complesso monumentale di Santa Maria dello Spasimo, nell’ambito del Sole Luna Doc Film Festival, per la sezione #crearelegami, è stato presentato il bilancio del progetto realizzato dall’associazione Teatro Atlante, con l’Ufficio Scolastico Regionale, il comune di Palermo, l’università e dodici scuole cittadine di diverso ordine e grado. In particolare, nel 2015 il progetto ha coinvolto anche i detenuti della casa di reclusione Ucciardone, grazie alla collaborazione con l’Asvope Palermo (associazione di volontariato penitenziario). I primi due anni sono stati dedicati a due grandi classici della letteratura greca, l’Iliade e l’Odissea di Omero e le favole di Esopo, adesso raccontati in un libro che uscirà a breve. Nei tre anni hanno partecipato circa 50 detenuti tra i 20 e i 60 anni di cui alcuni stranieri. I lavori sono stati coordinati dalla regista Preziosa Salatino e da Isabella Tondo docente del liceo scientifico Benedetto Croce. Per l’edizione di quest’anno dei "Classici in strada" all’Ucciardone è stato scelto, invece il Don Chisciotte, capolavoro di Cervantes, un autore che nella vita sperimentò anche la condizione di detenuto. "Ci si è interrogati sul tema della follia, dell’utopia - spiega la regista Preziosa Salatino -, sull’importanza del sogno e degli ideali di giustizia. Lo spettacolo ha visto rappresentati alcuni fra gli episodi più noti del romanzo: la lotta con i mulini a vento, l’osteria, il teatrino di mastro Pedro, l’amore per un’improbabile Dulcinea, ma ci si è presi la libertà di modificarli, riscriverli, di stravolgerne l’ordine e le proporzioni, in collaborazione con gli ‘attori’ dello spettacolo, mettendo in risalto, ad esempio, l’episodio della liberazione dei galeotti in cui la voce di Cervantes si mescola a quella di chi sperimenta sulla propria pelle la condizione di oppresso che auspica, anche inconsapevolmente, la possibilità di espiare la pena secondo i principi della giustizia riparativa". "Quella con i detenuti è stata l’esperienza più bella e più difficile della mia vita - sottolinea la vice presidente dell’associazione Teatro Atlante e regista del progetto Preziosa Salatino -. Il teatro conferma la sua alta valenza sociale, educativa e terapeutica davvero orizzontale e trasversale che fa bene a tutti, in tutti i contesti e a tutte le età. La partecipazione dei detenuti è avvenuta perché all’interno del carcere c’è una sezione del liceo scientifico Benedetto Croce. Ogni anno abbiamo coinvolto circa 15 detenuti" - "I laboratori di 50 ore ciascuno sono stati realizzati il primo anno dentro il teatro del carcere e gli altri due anni all’interno di un cortile esterno della casa di reclusione dove la performance è stata seguita anche dai familiari". "Per i detenuti la cosa importantissima è stata quella di essersi potuti avvicinare a testi classici che nessuno di loro conosceva - continua Preziosa Salatino. Considerato che alcuni di loro avevano un livello di scolarizzazione basso, in alcuni casi il copione lo abbiamo tradotto in dialetto con alcuni lavori di improvvisazione che sono andati benissimo. Hanno imparato ad usare la parola, il corpo valorizzando anche la relazione tra loro. In molti di loro il primo approccio e la conoscenza del teatro è avvenuto proprio con questa esperienza. Hanno fatto sicuramente un lavoro significativo che ha dato loro maggiore fiducia e autostima". "Le soddisfazioni raccolte sono state tante - conclude infine Preziosa Salatino -. Tra le considerazioni molto forti dei detenuti ricordo che c’è stato chi ha riconosciuto che se non fosse entrato in carcere non avrebbe mai conosciuto il teatro oppure chi si propone di raccontare questi classici ai figli. Sicuramente alcuni sottolineano come questa esperienza sia stata la più bella che abbiano potuto vivere in un carcere. Il progetto per il momento si conclude ma si stanno studiando le strade per poterlo in futuro continuare. Con l’Asvope pensiamo per esempio di creare dei progetti che iniziati in carcere possano proseguire fuori sempre a favore di chi, una volta scontata la pena, vuole proseguire il percorso". "Classici in strada" è nato nel 2013 con una rete di scuole, che, insieme all’università e associazioni palermitane si sono impegnate nel promuovere la conoscenza dei testi classici attraverso lo strumento del teatro, realizzando eventi in strade e piazze di quartieri storici come Ballarò o Borgo Vecchio, realtà ad alto tasso di immigrazione, di disagio sociale e di dispersione scolastica. "Questo progetto, giunto alla quarta edizione, prevede che la letteratura si studi in palestra - afferma Preziosa Salatino, cucendo vestiti, montando luci e impianti, dipingendo pannelli, riscrivendo i testi, rappresentandoli in scena. Non si tratta soltanto di far conoscere in modo diretto le opere dell’antichità, ma, soprattutto, di innescare o far crescere, attraverso la forza eversiva e di denuncia di un testo classico o la sua realizzazione teatrale, la riflessione sui grandi temi della violenza, dell’esclusione e del conflitto". I passi necessari da compiere per governare le migrazioni di Franco Venturini Corriere della Sera, 10 luglio 2017 L’Europa a "velocità diverse" perderà credibilità se nulla sarà concordato, almeno tra i Paesi del primo gruppo, per regolare l’emergenza dei flussi. Siamo arrabbiati con la Francia e la Spagna che rifiutano di darci una mano aprendo i loro porti ai migranti, siamo arrabbiati con l’Austria che per un pomeriggio adotta un linguaggio inutilmente bellicoso, il premier Gentiloni non nasconde la sua delusione al termine del G20 di Amburgo, ma proprio ora che siamo pienamente consapevoli delle nostre ragioni, proprio ora che constatiamo di portare quasi da soli il pesante fardello delle migrazioni mediterranee, diventa opportuna una valutazione pragmatica della partita epocale che ci coinvolge. Non è certo un mistero che nelle nostre vulnerabili democrazie le immigrazioni incontrollate producano, per via elettorale o pre-elettorale, un effetto destabilizzante per nulla estraneo al malessere chiamato populismo. Ebbene, siamo sicuri che Macron avrebbe dovuto aprire Marsiglia anche a rischio di resuscitare politicamente quella Le Pen che è stata duramente sconfitta nelle urne francesi? Abbiamo pensato a cosa accadrebbe dalle parti di Ventimiglia se la Le Pen avesse vinto? E quanto al Brennero, come non vedere che l’evocazione elettoralistica dei blindati vuole (maldestramente) contribuire ad evitare che in ottobre i post-nazisti vincano le elezioni? S’intende che l’Italia ha fatto bene a insistere, a protestare, a chiarire. Non è questo il tempo delle rinunce, o dei silenzi. Ma contemporaneamente dobbiamo ricordare, magari sottovoce, che l’Unione europea non è una federazione bensì una unione di Stati nazionali. Che la difesa degli interessi nazionali resta lecita, in particolare nei settori, come quello migratorio, dove non esiste una politica comune e si procede a colpi di proposte della Commissione o di decisioni dei singoli governi. Dobbiamo davvero stupirci, stando così le cose, delle risposte di Parigi, di Madrid, e poi anche di Berlino e di Bruxelles? La verità è piuttosto che siamo al cospetto di una rivendicazione "sovranista" che ha impedito sin qui la nascita di una politica migratoria comune, e che nel vuoto collettivo ad aggravare l’omissione hanno provveduto quegli accordi di Dublino che non sono più in grado, ammesso che lo siano mai stati, di affrontare la realtà geopolitica e demografica nella quale siamo immersi. Oggi il più miope dei ritardi prende l’Europa per la gola, e la costringe a risolvere una scomoda equazione: cosa deve prevalere nella Ue, il valore fondante di una solidarietà non soltanto parolaia, oppure il diritto, anch’esso di fatto riconosciuto, alla tutela dei propri interessi nazionali? Nel breve, la risposta la conosciamo già. Le elezioni democratiche mai troppo lontane (per fortuna) consigliano a chi può di proteggere le sue frontiere. L’Italia non può, perché ha davanti un mare che dopo la chiusura della rotta balcanica è diventato enormemente più trafficato (e più tragicamente assassino) di quello che bagna la Grecia. Ma se gli studi dell’Onu che annunciano il raddoppio della popolazione africana entro il 2050 fanno venire i brividi all’Italia, l’Europa sarebbe miope e suicida a non fremere anch’essa. Non potrà esistere, quel "rilancio europeo" di cui tanto si parla in chiave franco-tedesca, senza l’avvio di una politica europea delle migrazioni che serva tra l’altro a superare Dublino. Perderà credibilità, l’Europa annunciata delle "velocità diverse", se si continuerà meritoriamente a parlare di difesa comune, di sicurezza comune, ma poi nulla sarà concordato, almeno tra i Paesi del primo gruppo, in tema di migrazioni. Non sfuggirà a processi di disgregazione che si pensava di aver superato nelle urne del 2017 una Europa che dovesse rimanere, come è oggi, spezzata in tre dal punto di vista migratorio: il Centro-nord ben protetto dall’interruzione della rotta balcanica e dall’accordo con la Turchia, l’Est arroccato nel suo rifiuto di accettare anche le modeste "quote" che Bruxelles aveva provato a stabilire, il Sud italo-greco, ma soprattutto italiano, aperto dalla geografia ai flussi mediterranei. Non aspettiamoci novità importanti prima delle elezioni tedesche di settembre. Ma subito dopo l’Europa oggi reticente dovrà prendere atto di una emergenza che la riguarda tutta e che minaccia di travolgere le sue fondamenta forse più di quanto avrebbero fatto i temuti populisti. Le ricette miracolose, più che mai in questo caso, non esistono. Ma i passi da compiere non per arrestare i flussi migratori, obbiettivo del tutto irrealistico, bensì per ridurli e governarli, sono ormai sul tavolo. Serve un insieme di regole per le navi delle Ong, che l’Italia ha meritoriamente imposto e sta ora elaborando. Servono aiuti europei, ma anche procedure giudiziarie italiane più veloci, per i rimpatri volontari o coatti dei "migranti economici". Servono molti soldi e molte sanzioni per convincere i Paesi di origine a riaccettarli, ma sarebbe ancor più efficace riuscire a finanziare e a tutelare dal punto di vista umanitario una rete di hotspot in territorio africano. Servono sforzi e investimenti ulteriori nel Sahel (e una presenza militare europea che potrebbe nascere da quella francese già in atto) per sorvegliare e possibilmente chiudere le rotte migratorie che entrano nella Libia da Sud per poi raggiungere la costa mediterranea. E beninteso, serve la volontà politica per buttare Dublino alle ortiche. Giusto è anche sostenere la Guardia costiera libica, vegliando però alle sue mele marce in contatto con le milizie che lucrano sui traffici di essere umani. E altrettanta prudenza andrà esercitata su ogni tipo di investimento non protetto in Libia, almeno fino a quando continuerà una guerra civile strisciante che ha sin qui reso vano ogni tentativo (non sempre ben calibrato) di pacificazione. Una siffatta politica europea non basterebbe, rappresenterebbe soltanto un primo passo tali sono le dimensioni della sfida da raccogliere. Ma abbandonare l’Italia, tra molti solidali sorrisi, sarebbe invece una corsa verso il baratro. Per tutti. Migranti. Mai così tanti in 6 mesi. Renzi: aiuti dall’Ue o niente soldi di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 10 luglio 2017 Cresce la tensione politica sull’accoglienza. Il leader Pd: c’è un abisso tra noi e la Lega Ma Pisapia lo attacca: con lui premier accordi sbagliati. E Di Maio: incontreremo i vertici di Frontex. Più di 14 mila arrivi al mese, è la media record di questo 2017, secondo il Viminale. Un aumento del 10,85 per cento rispetto al 2016: 85.150 migranti sono già sbarcati in Italia dal 2 gennaio al 7 luglio. Nello stesso periodo, un anno fa, erano stati 76.813. Così, Matteo Renzi, il segretario del Pd, tacciato di deriva leghista per quella frase sui migranti ("Abbiamo il dovere morale di aiutarli e di aiutarli davvero a casa loro...") estrapolata dal suo libro Avanti che uscirà mercoledì, ieri è tornato sull’argomento. "C’è un abisso tra noi e la Lega - ha detto al Tg2 -. Noi abbiamo investito nella cooperazione internazionale, mentre la Lega ha portato in Africa solo diamanti (il riferimento è all’affaire Belsito del 2011, ndr). Tuttavia aiutarli a casa loro è un principio sacrosanto. Vuol dire smettere di far venire tutti in Italia, perché non possiamo accoglierli tutti. È un principio di buon senso: né leghista né di sinistra". Dopo il vertice di Tallinn e il G20 di Amburgo, secondo Renzi, occorrerà farsi "sentire ancora con più forza in Europa. Ha ragione Gentiloni. Nei prossimi mesi si decidono i soldi dal 2020 al 2026. Se l’Europa non dà una mano sui migranti, noi smettiamo di dare, a quei Paesi che rifiutano di accoglierli, tutti i quattrini che diamo loro ogni anno. Chiudiamo il rubinetto". Ma il leader di Campo Progressista, Giuliano Pisapia, sottolinea "due errori" commessi dal Renzi premier: "Il primo è il Trattato di Dublino; il secondo è Triton, per cui l’Italia è l’unico porto in cui far approdare le barche dei migranti, un accordo di cui nessuno sapeva...". Non è da meno Renato Brunetta, capogruppo FI alla Camera: "Renzi ha svenduto l’Italia all’Europa e adesso prova a fare la brutta, non credibile copia del leghista di sinistra". E l’ex deputato europeo Fiorello Provera ricorda che "la Lega, attraverso la Cooperazione Padania Mondo fondata con Bossi, ha fatto scuole e ospedali in Africa col motto "aiutiamoli a casa loro" quando Renzi era nei boy scout". Il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, M5S, ribadisce l’attacco al governo già lanciato in un’intervista al Corriere: "Mi sono vergognato di vedere Gentiloni e Minniti andare a dei vertici per chiedere aiuti all’Italia e tornare con i compiti a casa". Di Maio parla di "scena fantozziana" e annuncia che in settimana incontrerà i rappresentanti di Frontex. Poi, conclude, "faremo il punto e chiederemo a Gentiloni di stornare quello che costa l’immigrazione agli italiani dal contributo all’Europa". Infine, un post al vetriolo su Fb di Giorgia Meloni, presidente FdI: "Da giorni leggiamo di Renzi e del Pd che discutono su come e dove aiutare gli immigrati. È chiedere troppo a questa sinistra di dirci piuttosto cosa intende fare per aiutare gli italiani?". Violenza culturale contro gli ebrei di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 10 luglio 2017 Ora è il turno del negazionismo sui Hebron, prima c’era stato quello sul Muro del Pianto e su Gerusalemme. L’antisionismo è solo una scusa. L’opera di sradicamento di una storia e di una cultura è impressionante. Davvero non si capisce la stupidità negazionista, l’accanimento demenziale, l’ostinazione cieca e avvilente con cui l’Unesco, un organismo che in teoria dovrebbe difendere la cultura e l’arte in tutto il pianeta, ma in realtà è diventata il ricettacolo di ogni menzogna e di ogni servilismo verso i despoti del mondo, nel corso degli ultimi anni si è incaponita nelle sue risoluzioni che negano e mortificano la storia degli ebrei. E davvero non si capisce perché mai le democrazie libere e anche l’Italia dovrebbero dare ancora retta a un organismo che nei giorni scorsi a Cracovia, a Cracovia, provocazione nella stupidità, a pochi chilometri da Auschwitz-Birkenau, si è permesso di cancellare con una risoluzione appoggiata dal vasto fronte antisemita la storia intrecciata all’ebraismo di Hebron, luogo dove sorgono le tombe di Abramo e di Sara, di Isacco e di Giacobbe. Ora è il turno del negazionismo sui Hebron, prima c’era stato quello sul Muro del Pianto e la cancellazione addirittura di ogni impronta ebraica su Gerusalemme. L’antisionismo è solo una scusa. L’opera di sradicamento di una storia e di una cultura è impressionante. Dicono: ma quello è un luogo geopoliticamente dei palestinesi. E allora? Adesso, dopo la pulizia etnica bisogna teorizzare la pulizia archeologica, la purezza etno-razziale di un luogo anche nella sua storia, nei suoi monumenti, nella sua dimensione artistica, architettonica, religiosa? È davvero stupefacente che non ci si renda conto della violenza culturale che questa sequenza di vergognose idiozie di cui l’Unesco si sta macchiando sta perpetrando. L’imperativo antisemita per cui gli ebrei non devono esistere, non deve esistere il loro Stato di Israele di arricchisce di un annichilimento retroattivo: gli ebrei non sono mai esistiti, le loro tombe, Gerusalemme, i luoghi dell’identità ebraica devono essere "Judenfrei" persino nella memoria e nella storia. E chi lo dice? Lo dice un pugno di tirannie dove la libertà della ricerca culturale è negata al pari di ogni altra libertà, così diverse dall’unico luogo dove, detto tra parentesi, è garantita la libertà culturale e politica: cioè lo Stato di Israele. Un violenza culturale che noi facciamo finta di dimenticare, altro che "mai più", dando credito e risorse all’Unesco, una delle sigle più screditate del nostro tempo. La Commissione europea renda giustizia ai rom in Italia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 luglio 2017 Catrinel Motoc è una ricercatrice di Amnesty International sull’Europa. Recentemente ha visitato una serie di campi rom in Italia. Questo suo articolo è stato pubblicato originariamente sul portale EUObserver. Per proteggere l’identità, i nomi delle persone citate sono di fantasia. Parla a raffica, è piena d’energia ed è veloce a imparare. Clelia ha tanto in comune con centinaia di migliaia di quindicenni in Italia. C’è solo una differenza, ma è profonda: non va a scuola perché ha il terrore che durante la sua assenza la sua casa venga abbattuta. Clelia vive nell’insediamento rom di Germagnano (nella foto), che fa parte della città metropolitana di Torino. Negli ultimi mesi ha assistito alla demolizione di molte case dei vicini mentre erano via. In un caso, un bambino di nove anni ha rischiato di rimanere sotto le macerie ma per fortuna le urla della madre hanno fermato in tempo la ruspa. La madre di Clelia ha un disturbo del linguaggio e non parla bene l’italiano. In caso di sgombero, non saprebbe difendersi e proteggere la loro abitazione. La discriminazione nei confronti dei rom non è una novità: sono la minoranza più svantaggiata d’Europa. Negli ultimi tre anni la Commissione europea ha avviato procedure d’infrazione contro Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria per la sistematica segregazione e discriminazione dei bambini e delle bambine rom nel sistema scolastico. In Italia i rom subiscono la stessa drammatica segregazione e discriminazione, nel campo del diritto all’alloggio. Ma nonostante le numerose prove fornite da Amnesty International e da altre organizzazioni, la Commissione non ha ancora preso provvedimenti concreti. Le mie ricerche a Milano e a Torino mi hanno portata da un caravan a un container, da un campo segregato a un riparo d’emergenza. Ho incontrato decine di persone e la storia è sempre la stessa: ci si insedia in un posto, investendo tempo e i pochi soldi che si hanno per tirare su un alloggio per poi essere sottoposti a sgombero forzato, che a volte comporta la distruzione dell’alloggio e dei beni personali. Anche per chi si è costruito un’abitazione oltre 15 anni fa, in campi per soli rom allestiti dalle autorità, il pericolo dello sgombero forzato è sempre presente. Gli sgomberi forzati - eseguiti senza adeguata consultazione preventiva, senza preavviso, risarcimento o messa a disposizione di una soluzione abitativa alternativa - sono contrari al diritto internazionale, così come lo sono la segregazione e la discriminazione rispetto alla normativa dell’Unione europea. Ma l’Italia resta impunita, nonostante solo nel 2016 i rom abbiano subito 250 sgomberi forzati. Le autorità continuano ad allestire campi segregati: per loro, è l’unica soluzione abitativa per i rom. Le autorità municipali torinesi hanno dichiarato che vengono demoliti solo gli alloggi abbandonati. Ma le persone che ho incontrato mi hanno raccontato una realtà diversa: un ragazzo di 17 anni è stato bruscamente svegliato e gli è stato ordinato di raccogliere in tutta fretta le sue cose e uscire fuori. La sua casa è stata demolita. Negli ultimi mesi la stessa sorte è capitata ad almeno sette nuclei familiari. In assenza dell’applicazione delle salvaguardie previste dal diritto internazionale, alle persone sgomberate restano poche alternative. O si accalcano nelle strutture di amici e parenti ancora in piedi o si sistemano ancora più precariamente nelle tende o tornano in Romania. Molti dei campi e degli insediamenti in cui vanno a finire i rom sgomberati presentano condizioni del tutto inadeguate: l’acqua, i servizi igienici e l’elettricità scarseggiano o sono del tutto assenti. Quando piove molto, il campo milanese di via Bonfadini rimane completamente isolato e chi vi risiede non può andare a scuola o, se ha bisogno di cure mediche, ci rinuncia. Germagnano, dove vive Clelia, è vicino a una discarica. Ma per chi ci vive, avere una specie di tetto sopra la testa è meglio che essere senza tetto. Carlotta, invece, l’ho incontrata in una struttura d’emergenza di Milano, fatta di una serie di container in ognuno dei quali vivono grosso modo cinque famiglie. I nuclei familiari sono separati da "pareti" che arrivano ad altezza d’uomo. La privacy è minima. Carlotta proviene da una serie di sgomberi forzati e da trasferimenti in campi per soli rom. Da anni, invano, è iscritta alle graduatorie per le case popolari. La Commissione europea ha a disposizione numerose prove sulla discriminazione, la segregazione e gli sgomberi forzati dei rom ma continua a rimanere in silenzio. Nel settembre 2012 aveva aperto un "procedimento pilota" contro l’Italia per violazione della Direttiva anti-discriminazione ma non se n’è fatto nulla. Cinque anni dopo, le prove aumentano ma la procedura d’infrazione non parte. Ad aprile il Financial Times ha rivelato che la Commissione europea aveva ripetutamente bloccato l’azione contro l’Italia per "evitare una dannosa polemica pubblica". Nel frattempo, Clelia ha interrotto la frequenza scolastica e centinaia di bambini e bambine come lei hanno subito sgomberi forzati e si trovano in situazioni ancora più pericolose e insicure. Fino a quando la Commissione europea non affronterà queste violazioni dei diritti umani, queste proseguiranno e la Commissione ne sarà complice. Come una brutta ferita, la discriminazione contro i rom si allarga in tutt’Europa ed è una vergogna che le istituzioni che dovrebbero proteggere i principi di uguaglianza e di pari trattamento stanno a guardare mentre gli Stati membri ne fanno scempio. Egitto, dove si contano cinque Regeni al giorno di Francesca Borri Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2017 Chiunque si oppone ai militari finisce in carcere o sparisce: è noto a tutti. Ogni cosa è sotto controllo, non ci sono regole certe, vince solo la perenne e diffusa paura. Ma è come se fosse normale. Gli ultimi studi dei centri di ricerca internazionali sono vecchi di anni. Non si trova più neppure la Lonely Planet. L’Egitto, in questo momento, non interessa a nessuno. Turisti, analisti, giornalisti: sono andati via tutti. Tornare al Cairo è triste. Nel 2011 i ragazzi di piazza Tahrir erano un esempio per i ventenni di tutto il mondo: persino per gli americani, che per una volta si ispirarono agli arabi, e occuparono Zuccotti Park. Si veniva qui, e ci si ricaricava di energia, creatività. Coraggio. Oggi piazza Tahrir non è più neppure una piazza. Per intralciare le manifestazioni, è stato costruito un po’ di tutto, muretti, pilastri, sfiati d’aria del nuovo parcheggio sotterraneo. Barriere di ogni tipo. Dai blindati, tiratori scelti presidiano le strade di accesso. Mentre un drone sorveglia il resto. Non è rimasto più niente di quei momenti. Gli egiziani ti guardano stanchi. E preoccupati. Giornata nera?, azzardo a un uomo che ha un chiosco di arance. "Vita nera", dice. E questo, nel Cairo di al-Sisi, è il massimo delle conversazioni possibili. Hanno tutti paura. Paura non solo di protestare: paura di parlare. L’omicidio di Giulio Regeni ci ha lasciato allibiti: ma nel 2016, in Egitto sono svaniti nel nulla cinque Regeni al giorno. In Egitto, la ferocia è prassi. Capita, per strada, che la polizia trascini via qualcuno a manganellate. Ma si tira dritto. Si finge di non vedere. "Va tutto bene", mi dice un antiquario della città vecchia. "E come altro potrebbe andare?", dice. "Va tutto bene. Tutto benissimo". Esteriormente, il Cairo è uguale a sempre. Tutti i paesi vicini, in questi anni, sono molto cambiati, il Medio Oriente ha una popolazione giovane e in crescita, è tutto gru e cantieri: torni, ogni volta, ed è tutto così diverso che ti perdi. Qui, invece, è tutto fermo. Tutto immobile. Qui ogni cosa è come era. Centinaia di famiglie abitano ancora nelle tombe del cimitero, mentre poco più su, sulla collina di Mokattam, i cristiani Zabbalin ancora vivono frugando nella spazzatura, tra i selfie di un gruppo di francesi - perché la povertà, qui, è così irrimediabile da essere parte del paesaggio: non è un’emergenza sociale, è un’attrazione turistica. Non c’è traccia di un investimento pubblico. Il Cairo ha 18 milioni di residenti, e ancora non ha una rete di trasporti. Molti ancora non hanno l’acqua corrente. Anche se non è come sembra: il Cairo non è uguale a sempre, per niente. Ora la classe media non esiste più: e su 93 milioni di egiziani, non solo il 27 percento è sotto la soglia di povertà, ma un altro 60 è a rischio povertà. Mentre i ricchi sono sempre di meno, ma sempre più ricchi: il nuovo Mall of Egyptha anche una pista da sci. Perché al-Sisi, in realtà, è lautamente sostenuto dai paesi del Golfo. Da quando è al potere, l’Egitto ha avuto oltre 50 miliardi di dollari. Le sue riserve, intanto, sono diminuite di 31 miliardi, e il suo debito è aumentato di 21 miliardi. 102 miliardi di dollari, in tutto. Dove sono finiti? E neppure la repressione, in realtà, è come ai tempi di Mubarak. Perché con Mubarak le regole, per quanto brutali, erano chiare. Oggi, invece, come Giulio Regeni, si finisce tra faide tra forze di sicurezza rivali. Oggi, in Egitto, la polizia spara per niente. Per 3 dollari e 83 centesimi, come il tassista ucciso nel febbraio del 2016, per un diverbio sul prezzo della corsa. O anche per meno: per 40 centesimi. Per un diverbio sul prezzo di un tè, come l’ambulante ucciso ad aprile del 2016. E il controllo sulla società è totale. Il 29 maggio è stata infine approvata la legge sulle Ong. Ora ogni associazione non solo è tenuta a registrarsi, e sottoporsi alla vigilanza dell’intelligence: ogni attività deve inserirsi nei piani di sviluppo decisi dallo stato. Ogni attività, cioè, deve essere una attività sociale. Non politica. Ed è necessaria un’autorizzazione sia per lavorare sul campo sia per pubblicare rapporti. O forse per pubblicare, in assoluto: è inutile, qui, tentare di leggere un giornale. Al-Jazeera, Huffington Post, Mada Masr, che è la principale testata dell’opposizione: su internet è tutto bloccato. Non compare che uno schermo bianco. Né è semplice chiedere direttamente agli attivisti: sono i soli per cui davvero, qui, non è cambiato niente. Il più noto è Alaa Abd el-Fattah. Ha 36 anni. È stato arrestato prima da Mubarak, poi dall’esercito. Poi dai Morsi. E adesso da al-Sisi. Sono tutti o in carcere o in esilio. Non è rimasta che una città di mendicanti. Uomini e donne per cui ogni spicciolo è fondamentale, ora che l’inflazione è al 30%. Con i paesi del Golfo in crisi, infatti, al-Sisi è stato costretto a chiedere 12 miliardi di dollari al Fondo Monetario, che ha imposto in cambio le sue solite misure di austerità. A novembre, la lira egiziana è stata svalutata: ed è stato drammatico per un paese che dipende dalla importazioni, soprattutto di beni alimentari. Per il 94%, l’Egitto non è che sabbia. E quindi, è vero, la povertà al Cairo è atavica: ma nel Cairo di al-Sisi, a colpirti sono quelle che un tempo invece erano aree borghesi. Zamalek, con il suo verde e le sue ambasciate. Maadi. Heliopolis. L’intera città non è adesso che una colata sterminata di case scalcinate. Rovi di cavi elettrici, intonaci a pezzi, rivoli di acqua reflua. Pavimenti dissestati. Mosche. Mosche ovunque. In una via di Dokki, fermo un signore in giacca e cravatta. Mi indica il luogo che cerco, scambia due chiacchiere, gentile: e alla fine, tende la mano. Come a chiedere una moneta. Con quella sua aria distinta da professore. Scusa, scusa, dice, e si allontana imbarazzato. Dalla soglia del suo negozio, un droghiere mi dice: Abbiamo tutti fame. "Qui ormai persino lo zucchero è un lusso", dice. "Quest’autunno, l’esercito ha confiscato quello della fabbrica della Pepsi. Ma in realtà, aveva appena rilevato la gestione della produzione e della distribuzione dello zucchero. Era tutto nei magazzini", dice. "Creano le crisi per poi dimostrarci di essere quelli capaci di risolverle". Poi mi dice: Sei una giornalista, vero? "Perché scrivete che questa è la stabilità? Perché scrivete che l’alternativa a al-Sisi è il disastro? Il disastro è questo". In effetti, mentre per il mondo il problema, qui, è lo scontro tra laici e islamisti, il problema in Egitto, in realtà, è l’esercito. Che è molto più di un esercito: controlla due terzi dell’economia. Non c’è cambiamento possibile senza il cambiamento dell’esercito: ma sia i laici sia gli islamisti l’hanno capito tardi. La sinistra continua a essere divisa. Continua ad avere attivisti brillanti, molti di più che negli altri paesi della regione, e scrittori, registi, artisti, accademici di livello internazionale: ma ognuno parla e pensa per sé. E i Fratelli Musulmani, che ora sono fuorilegge, non sono meno divisi. Descritti in Occidente come estremisti, sono invece per natura un movimento riformista e gradualista. Ed è stato il loro limite: vinte le elezioni, hanno scelto di fidarsi dell’esercito, hanno scelto il compromesso - è stato Mohamed Morsi a nominare a capo dell’esercito uno sconosciuto maresciallo di nome al-Sisi. La vecchia guardia dei Fratelli Musulmani preferirebbe un accordo persino ora che è in clandestinità, e decimata dalle condanne all’ergastolo. I trentenni invece si stanno riorganizzando, hanno chiesto un congresso generale. Ma appunto: chi non è in carcere o in esilio, è in clandestinità. Non è facile. "E senza una leadership, senza una strategia chiara, qui nessuno si avventurerà mai in una nuova r iv ol uz io ne ", mi dice un ragazzo alla biglietteria delle Piramidi. "La Libia, la Siria sono qui dietro. A ricordarti in ogni momento cosa rischi", dice. "Siamo alla fame, sì. Ma tutto è meglio di Aleppo". Nonostante la censura, sono tutti molto informati, e periodicamente, a ogni nuova manifestazione, sembra tutto stia per ricominciare: ma per ora, gli egiziani tirano a campare. Maledicono il 25 gennaio 2011. In piazza, ti assicurano, io non c’ero. E però, quanto può durare? Niente di tutto questo, comunque, interessa al resto del mondo. Perché al-Sisi non fa nulla per gli egiziani, ma in compenso, fa molto per tutti gli altri. Per il rilancio dell’economia, ha ideato una serie di cosiddetti mega progetti: da Wadania, la nuova capitale da 45 miliardi di dollari, a un ‘agenzia spaziale per trovare imprecisate ricchezze nascoste sotto il deserto. Opere di dubbia utilità, ma sicuro profitto: e le imprese straniere sono in fila. Incluse oltre 130 imprese italiane, guidate dall’Eni, a cui la famiglia Regeni ha chiesto più volte di intervenire: l’Eni è il primo produttore di idrocarburi del paese: ha voce e potere. Ma invece che con i Regeni, l’Eni si è schierata con gli azionisti. L’omicidio, ha dichiarato, non ha complicato le sue attività. Per il bene del suo paese, al-Sisi si è detto pronto a vendere anche se stesso - e gli egiziani l’hanno preso in parola: è finito subito all’asta su e- Bay. Ma in realtà, non è solo questione di affari. Quello che al-Sisi vende davvero è la politica estera. Non a caso, è stato il primo presidente incontrato da Trump. Perché ha garantito il suo sostegno a quelli che ha definito eserciti nazionali: e cioè Assad in Siria, l’Arabia Saudita in Yemen. E persino Israele a Gaza: al-Sisi ha allagato i tunnel di Hamas - da cui transitavano armi, ma anche cibo e medicine. Privo di legittimazione interna, si è costruito una legittimazione internazionale: come paladino della guerra ai jihadisti. Soprattutto in Libia: paese con cui l’Egitto condivide 1.200 chilometri di frontiera. È la sconfinata retrovia del generale Haftar, l’uomo da cui dipende la tenuta del piano di pace dell’Onu - e cioè la tenuta dei migranti chiusi nei centri di detenzione. L’Egitto di al-Sisi è un Egitto allo stremo: è noto a tutti. Ma per noi, al-Sisi è necessario ad arginare il terrorismo. Ed è per questo, ufficialmente, che piazza Tahrir è sorvegliata dai droni. Per questo che le strade del Cairo sono pattugliate da camionette con le mitragliatrici spianate. Lo stato di emergenza, che era durato trent’anni sotto Mubarak, e la cui abolizione era stata la conquista più simbolica della rivoluzione, ora è di nuovo in vigore. Ora, di nuovo, chiunque in Egitto può essere detenuto a tempo indefinito per una qualsiasi ragione. O anche per nessuna ragione. E processato in un tribunale militare, senza prove e senza appello. Ora a ogni ingresso della metropolitana c’è un metal detector per rilevare eventuale esplosivo. Dietro, i poliziotti dormono. La giustizia italiana fa da tutor a quella cinese di Angelo Aquaro Affari & Finanza, 10 luglio 2017 C’è un giudice a Pechino? No, non a Berlino, come nella parabola sul buon giudice di Federico di Prussia: proprio a Pechino. La domanda non è stupidotta come sembra. Xi Jinping gira il mondo e invita a non chiudere alla globalizzazione: giusto. Ma per parlarsi bisogna usare la stessa lingua: o quantomeno provare a capirsi. E l’italiano e il cinese, a parte "Ni Hao" e "Ciao", non è che siano così simili. Ecco perché la spedizione dei magistrati italiani alla corte del Dragone riguarda tutti noi: dagli imprenditori venuti quaggiù a portare il made in Italy fino ai consumatori pronti a divorare il made in China. In fondo le leggi sono una lingua come un’altra: servono a comunicare, sono il codice (appunto!) che regola l’interazione quotidiana. E figuriamoci quanto bisogno abbiamo di un codice per interagire a ottomila chilometri di distanza. I problemi mica mancano. La tutela della proprietà intellettuale. La sicurezza alimentare. Le frodi e le contraffazioni. Italia e Cina per la verità si parlano già da un po’. Presentando quello che lui stesso ha chiamato "il frutto del dialogo", e cioè il memorandum d’intesa firmato qui, il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, ha spiegato che tutto questo è stato possibile anche grazie al lavoro dei ragazzi di Ettore Sequi. Non sono parole di circostanza. Nel giro di un anno il nostro ambasciatore ha portato un presidente della Repubblica e due presidenti del consiglio a scavalcare la Grande Muraglia. E per l’establishment di qui conta, eccome: si chiama diplomazia. Poi succede, infatti, che la Corte Suprema del Popolo inviti Csm e Corte di Cassazione a venire a dare un’occhiata. Giovanni Canzio, il presidente della Corte, non nasconde le differenze: si tratta pur sempre di "sistemi giuridici diversi" - eccome. Insieme a Legnini ricorda però che il memorandum prevede appunto la formazione dei magistrati, la riforma giudiziaria: una grande occasione di dialogo. Cos’hanno apprezzato, per esempio, gli italiani dei cinesi? Soprattutto l’informatizzazione degli atti: e qui sì che abbiamo da imparare. Ma tranquilli: a settembre tocca ai cinesi ricambiare visita e anche per loro, a occhio, ci sarebbe da imparare. Perché sulla giustizia, è vero, noi saremo un po’ lentini: ma c’è un giudice a Pechino? Turchia. Centinaia di migliaia in piazza a Istanbul per la "giustizia" e contro Erdogan La Repubblica, 10 luglio 2017 La manifestazione, la più grande organizzata dall’opposizione dal 2013, conclude la marcia partita da Ankara il 15 giugno. Il leader del Chp: "Questo è il giorno della rinascita. Romperemo i muri della paura". Centinaia di migliaia di persone, un milione secondo gli organizzatori, sono scese in piazza a Istanbul per la manifestazione che conclude la "marcia per la giustizia" partita il 15 giugno da Ankara per iniziativa del Partito repubblicano del popolo (Chp), principale forza di opposizione al presidente Recep Tayyip Erdogan. La "marcia per la giustizia" è stata organizzata per protestare contro la detenzione di un deputato del partito, Enis Berberoglu, condannato a 25 anni di detenzione per aver fornito informazioni riservate al quotidiano d’opposizione Cumhurriet. Alla testa dei dimostranti lungo i 430 chilometri del percorso il leader del Chp, Kemal Kilicdaroglu, che alla manifestazione nel quartiere di Maltepe ha esortato la folla a proseguire nella battaglia: "Che nessuno pensi che questa sarà l’ultima marcia: il 9 luglio segna il giorno della rinascita. Abbiamo marciato per la giustizia, per i diritti degli oppressi, per i deputati e per i giornalisti in carcere, per i professori universitari licenziati, abbiamo marciato per denunciare che il potere giudiziario e sotto il monopolio dell’esecutivo, abbiamo marciato perché ci opponiamo al regime di un solo uomo. Romperemo i muri della paura". Come sua abitudine, il leader del Chp non ha mai nominato Erdogan. Dieci le richieste avanzate al governo di Ankara, a partire dalla fine dello stato d’emergenza, che scade tra dieci giorni e l’esecutivo sembra intenzionato a rinnovare per la quarta volta, continuando la lotta senza quartiere a "Feto", la presunta rete golpista di Fethullah Gulen. L’opposizione chiede anche la tutela della libertà di stampa, l’eguaglianza e la laicità dello Stato. Rivendicazioni che la folla ha accompagnato urlando "Diritti, legalità, giustizia". La più grande manifestazione organizzata dall’opposizione contro il governo di Erdogan dal 2013 a questa parte si è svolta su una grande spianata non lontana dal carcere in cui è detenuto Berberoglu, a conclusione della marcia che ha attraversato la Turchia senza insegne di partito e con "Giustizia" come unica parola d’ordine, richiamando sempre più gente a ogni tappa. Come chiesto da Kilicdaroglu, i dimostranti che hanno gremito la piazza di Maltepe avevano soltanto bandiere turche, ritratti di Ataturk, il padre fondatore della repubblica turca moderna e laica, e cartelli che invocavano "giustizia". Il governo ha cercato di minimizzare la portata della marcia, con il primo ministro Binali Yildirim che venerdì ha detto con disprezzo che cominciava a "diventare seccante". La manifestazione conclusiva è stata ignorata dai mezzi di informazione che sostengono l’esecutivo. Erdogan, da parte sua, ha accusato Kilicdaroglu di schierarsi con i "terroristi" e l’ha avvertito che potrebbe andare incontro a guai giudiziari. Ma le autorità non hanno vietato né la marcia né la grande manifestazione sulla spianata di Maltepe, intorno alla quale sono stati schierati circa 15 mila agenti e mezzi blindati. L’opposizione denuncia da tempo la deriva autoritaria di Erdogan, accentuatasi dopo il fallito golpe di un anno fa e dopo la schiacciante vittoria del presidente nel referendum dello scorso aprile, che ha rafforzato i poteri del capo dello stato. I numeri della repressione di questi 12 mesi sono impressionanti: circa 50 mila le persone arrestate e più di 100 mila licenziate o sospese dal lavoro. L’ultima mossa della polizia che ha fatto notizia in tutto il mondo è di mercoledì scorso, quando sono stati arrestati otto attivisti del movimento per i diritti umani, tra i quali la direttrice di Amnesty International Turchia. E ora l’opposizione ha lanciato la sua sfida al monopolio delle piazze di Erdogan. Tra manifestazioni vietate, stato d’emergenza e allarmi terrorismo, negli ultimi anni i raduni di massa erano stati appannaggio quasi esclusivo del popolo del presidente. Lo scorso luglio, l’unica grande manifestazione recente dell’opposizione, a piazza Taksim, fu quasi una concessione di Erdogan, a patto di consacrarla allo spirito di unità nazionale dopo il colpo di stato. Oggi l’altra Turchia si è ripresa la piazza. Una sfida che Erdogan è pronto a raccogliere, preparando già nei prossimi giorni nuovi bagni di folla per l’anniversario del fallito golpe. Israele. In molte carceri i detenuti sono in condizioni inaccettabili israel-today.ru, 10 luglio 2017 Rapporto sociale della professione forense. Domenica 9 luglio il pubblico ufficio del difensore civico ha pubblicato un rapporto sulle condizioni di detenzione nelle carceri e centri di detenzione in Israele. Secondo le conclusioni del rapporto, in alcune carceri i detenuti sono in estrema difficoltà, avendo spazio a 2-3 metri a persona, e a volte meno. In alcune carceri ha posto difettoso per lungo tempo il sistema di condizionamento dell’aria, così come non validi sanitari e le condizioni igieniche. Nel rapporto si afferma che l’assistenza sanitaria ai detenuti ostacolata, in carcere non di base gli elementi necessari per la vita e senza di estrema necessità praticata associazione prigionieri. In molte carceri non l’attuale sistema di riabilitazione dei detenuti. In particolare manca un numero sufficiente di operatori sociali, in grado di parlare con i detenuti, non conoscono l’ebraico. "Estrema angoscia, mancanza accettabili sanitarie e condizioni igieniche sono osservati e in molti centri di detenzione di Israele", si legge nel rapporto. Il documento inviato al capo della corte Suprema Miryam di Nahor, il ministro della giustizia Shaked, ministro della sicurezza interna delle carceri Ofra Klinger.